FACOLTÀ di ECONOMIA - Sede di Forlì Corso di Laurea
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FACOLTÀ di ECONOMIA - Sede di Forlì Corso di Laurea
Alma Mater Studiorum Università di Bologna FACOLTÀ di ECONOMIA - Sede di Forlì Corso di Laurea Specialistica in Economia e Management delle Imprese Coop. e delle Organizzazioni Non-Profit (Classe 84/S - Scienze Economico-Aziendali) TESI DI LAUREA in Economia Civile VOICE OR VOICELESS GROWTH? Il rapporto tra democrazia e sviluppo CANDIDATO: Sara Rago RELATORE: Prof. Stefano Zamagni N° matricola 0000270721 Anno Accademico 2007/2008 Sessione I Ode alla vita Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi fa della televisione il suo guru. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli si chiede qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità. Pablo Neruda A coloro che, ciascuno in modo diverso, mi hanno permesso di scrivere questo lavoro, di sviluppare le idee che ne stanno alla base e condividono con me degli ideali forti e a volte scomodi per il mondo d’oggi. Grazie, perché senza di Voi non ce l’avrei mai fatta ad arrivare fino a qui e perché so che sarete sempre con me anche in futuro. Sara INDICE INTRODUZIONE……………………………………………………………………...3 CAPITOLO 1 – LE ORIGINI DELLA DEMOCRAZIA E GLI SVILUPPI IN SOCIETÀ INDIVIDUALISTE E COMPETITIVE 1.1 Gli albori della democrazia: quando l’uomo era “al centro”………………….7 1.2 Le rivoluzioni industriali del XVIII e XIX secolo: le basi per la democrazia moderna……………………….………………….……………..10 1.2.1 La prima rivoluzione industriale………………….………………..10 1.2.2 La seconda rivoluzione industriale………………………………....13 1.3 Il paradigma dell’homo oeconomicus: individualismo ed utilitarismo………15 1.3.1 Il mutamento del pensiero economico-filosofico…………………..15 1.3.2 L’utilitarismo e l’homo oeconomicus………………………………17 1.4 Il punto di vista politico: la democrazia elitistico-competitiva………………24 1.4.1 La rappresentanza attraverso le élites politiche…………………….24 1.4.2 La competizione tra partiti………………………………………….27 1.4.3 Critiche al modello elitistico-competitivo………………………….29 CAPITOLO 2 – UNA NUOVA RIVOLUZIONE POLITICO-ECONOMICA: LA GLOBALIZZAZIONE 2.1 La terza rivoluzione industriale: l’era della globalizzazione e delle sue conseguenze……………………………………………………………..32 2.1.1 Le teorie del commercio internazionale……………………………33 2.1.2 La globalizzazione economica: caratteristiche distintive…………..51 2.2 Per una convivenza tra democrazia e globalizzazione………………………59 2.2.1 La conservazione della varietà istituzionale……………………..…59 2.2.2 La società civile come policy-maker……………………………….61 2.2.3 Una politica globale di redistribuzione………………………….….64 CAPITOLO 3 – LA RELAZIONE TRA DEMOCRAZIA E SVILUPPO ECONOMICO 3.1 Crescita, sviluppo e relativi indicatori……………………………………….65 3.1.1 Le principali teorie della crescita…………………………………..65 3.1.2 La crescita economica e il PIL……………………………………..68 3.1.3 Lo sviluppo umano e l’HDI………………………………………..71 3.1.4 Analisi empirica delle componenti dell’HDI………………………74 3.2 Viene prima lo sviluppo economico o la democrazia? ……………………...78 3.3 Comprendere il ruolo delle istituzioni per cogliere la relazione tra democrazia e sviluppo………………………………………………………..81 1 3.3.1 3.3.2 3.3.3 I diversi approcci all’analisi istituzionale-economica……………...81 Interdipendenza tra istituzioni economiche e istituzioni politiche…90 L’incidenza del concetto di “cultura” sul funzionamento ottimale delle istituzioni……………………………………………95 3.3.4 Supremazia della legge, apertura economica, democrazia e crescita di un paese………………………………………………..101 3.4 Democrazia, sviluppo e libertà: i diversi approcci………………………….109 3.4.1 Il libertarismo morale di Nozick………………………………......109 3.4.2 L’egualitarismo liberale di Rawls………………………………....111 3.4.3 Il concetto di libertà di Amartya Sen……………………………...114 3.4.4 Democrazia illiberale e sviluppo sotto dittatura…………………..116 CAPITOLO 4 – L’ALTERNATIVA: UN ALTRO HOMO E UN’ALTRA DEMOCRAZIA 4.1 L’inadeguatezza della dottrina utilitaristica e dell’homo oeconomicus……127 4.2 Il rapporto tra democrazia ed eguaglianza……………………..…………..130 4.3 Le fondamenta per un nuovo modello democratico……………………….132 4.3.1 La democrazia come bene relazionale……………………………132 4.3.2 La rivalsa dell’homo reciprocans e dell’intelligenza “emotiva”....135 4.4 Lo sviluppo futuro della democrazia: verso una democrazia deliberativa...138 4.4.1 La democrazia deliberativa……………………………………….138 4.4.2 Gli effetti economici della democrazia diretta……………………143 4.4.3 La partecipazione diretta nelle realtà globali e locali…………….144 4.4.4 Gli strumenti e i mezzi delle ICT per la diffusione della partecipazione…………………………………………………….156 CAPITOLO 5 – IL NON PROFIT NELLA PROMOZIONE DI DEMOCRAZIA E SVILUPPO 5.1 5.2 Il non profit e la partecipazione alla vita civile…………………………..163 Il non profit e lo sviluppo di una società…………………………………171 5.2.1 Il capitale sociale…………………………………………………171 5.2.2 Modalità di supporto allo sviluppo da parte delle diverse tipologie di organizzazioni della società civile…………………..174 CONCLUSIONI………………………………..…………………………………...179 BIBLIOGRAFIA………………………………..…………………………………..184 SITOGRAFIA………………………………..……………………………………..192 2 INTRODUZIONE “Il presupposto della costituzione democratica è la libertà, tanto che si dice che solo con questa costituzione è possibile godere della libertà, che si afferma essere il fine di ogni democrazia. Una delle caratteristiche della libertà è che le stesse persone in parte siano comandate e in parte comandino. [...] Questi dunque sono i caratteri comuni a tutte le democrazie, e da quella che unanimemente si concorda essere la giustizia secondo i canoni democratici (cioè che tutti abbiano lo stesso secondo il numero) deriva quella che più di ogni altra sembra essere democrazia e governo di popolo. L’uguaglianza consiste nel fatto che non comandino più i poveri dei ricchi, che non siano sovrani i primi soltanto, ma tutti secondo rapporti numerici di uguaglianza. E questo sarebbe l’unico modo per ritenere realizzate l’uguaglianza e la libertà nella costituzione”. (Aristotele, Politica) Come si può riscontrare nella citazione riportata, già Aristotele, nel IV secolo a.C., definiva la libertà come il presupposto necessario affinché si potesse realizzare una forma di governo democratica; libertà che si esplica non attraverso la superiorità e l’imposizione “dell’uno sull’altro”, ma sull’eguaglianza dei cittadini, se non formale (data l’esistenza delle classi sociali) almeno sostanziale (intesa come diritto civile), nel prendere decisioni che riguardano il popolo nella sua interezza. Parte dunque dall’Atene della prima metà del V secolo a.C. il percorso per comprendere il significato del termine democrazia, la sua evoluzione nell’interpretazione e nell’applicazione nei differenti periodi storici che si sono susseguiti, e il suo stretto legame con il concetto di sviluppo economico, anch’esso mutevole e dipendente dalle variabili storiche che ne hanno caratterizzato, di volta in volta, il contenuto. L’impronta storica data al lavoro permette di comprendere gradualmente le dinamiche che hanno portato all’evoluzione parallela dei concetti, i quali sono andati a convergere in un modello politico-economico, 3 a mio parere, limitato e contemporaneamente limitante l’essere umano, espressione solo di alcuni dei lati caratteristici dell’agire della persona. C’è chi sostiene, infatti, che la democrazia raggiunga la sua massima espressione nel momento in cui i cittadini decidono di delegare il potere pubblico ad un nucleo di soggetti, una élite la quale, date le competenze di cui i componenti si fanno depositari, prende decisioni per conto di coloro che li hanno eletti democraticamente (attraverso il sistema della votazione): si tratta del concetto di democrazia elitistico-competitiva, la quale trova nel concetto di homo oeconomicus, impostosi a seguito delle prime due rivoluzioni industriali e dell’affermazione della dottrina economica utilitarista, il suo miglior esponente. Tuttavia, l’evoluzione storica, attraverso un ulteriore mutamento multidimensionale, la globalizzazione, ha messo in evidenza l’inadeguatezza dell’homo oeconomicus nel rispondere alle esigenze che la globalizzazione pone necessariamente in essere. Per questo motivo c’è una corrente di pensiero che sostiene che anche una democrazia improntata su queste basi sia riduttiva nonché estraniante il cittadino dalla vita civile; i soggetti che portano avanti questa idea incoraggiano un tipo di democrazia richiedente la partecipazione del popolo in modo diretto, fino a diventare una democrazia di natura deliberativa. Chi aderisce a questa interpretazione sostiene l’esistenza di un altro homo, il c.d. homo reciprocans: una persona il cui agire è dettato non dalla ricerca del bene totale (cui tende l’homo oeconomicus), bensì del bene comune. Infatti, come sostenne Martin Luther King (1963): “Tutti gli esseri viventi sono interconnessi, siamo tutti coinvolti in un' inestricabile rete di mutualità che ci lega ad un singolo destino. Qualsiasi cosa influenza qualcuno direttamente, influenza anche qualcun altro indirettamente” ed ignorare questa rete di interconnessioni non significa altro se non ignorare la realtà dei fatti. In merito al rapporto tra democrazia e sviluppo economico, le correnti di pensiero vanno in due direzioni opposte: da una parte, quella di chi ritiene che lo sviluppo economico nasca prima della democrazia e che, quindi, sia il presupposto necessario per la sua nascita ed il suo divenire; dall’altra, quella di chi ritiene che l’esistenza della democrazia sia basilare per poter generare lo sviluppo economico di un paese. 4 Anche in relazione a questo tema, l’analisi storica è fondamentale per comprendere la limitatezza del relegare il concetto di sviluppo ad una dimensione puramente economica: così come l’idea di globalizzazione, anche quella di sviluppo può (ma soprattutto dovrebbe) essere analizzata da diversi punti di vista. Basilare è l’esame di quest’ultimo concetto dal punto di vista umano: non si può, infatti, prescindere dal comprendere quali sono le componenti che permettono ad una persona di vivere nelle condizioni migliori la propria vita ed è facilmente comprensibile che, per quanto l’aspetto economico possa essere importante per l’esistenza di una persona, da solo esso non garantisce uno sviluppo duraturo nel tempo della società civile nel suo insieme. In questo lavoro, perciò, gli obiettivi che mi prefisso di perseguire sono quelli di: comprendere e dimostrare quale sia il concetto di democrazia più aderente alle necessità della nostra società, attraverso l’analisi del modo in cui le società del passato hanno riempito di significato questo termine, dato che, come sosteneva Hegel: “Lo Stato è la storia di un popolo”, nonché analizzare le dinamiche storiche e politico-economiche che hanno portato all’affermazione di una particolare dottrina economica (l’utilitarismo), rappresentante della quale si fa uno specifico tipo di individuo: l’homo oeconomicus (capitolo 1); capire gli sviluppi che hanno condotto alla globalizzazione, in particolare dal punto di vista economico, le conseguenze di questo fenomeno interdisciplinare e mondiale nonché le ripercussioni rispetto al concetto di democrazia (capitolo 2); indagare il rapporto tra democrazia e sviluppo economico, alla luce della puntualizzazione della differenza esistente tra i concetti di crescita e sviluppo e dell’elencazione delle componenti fondamentali per concretizzare il concetto di sviluppo umano (capitolo 3); proporre un’alternativa a quanto fino ad ora esposto: sulla base delle indicazioni tratte dall’analisi condotta, si tratta di identificare una proposta alternativa, sia per quel che riguarda la realizzazione di un governo democratico differente (democrazia deliberativa e, più in generale, diretta), sia in merito all’idealtipo di homo auspicabile (homo reciprocans), così come gli strumenti necessari al raggiungimento degli obiettivi democratici del nostro tempo (capitolo 4); osservare il ruolo del non-profit come pluralità di soggetti che possono facilitare la partecipazione diretta dei cittadini e catalizzare lo sviluppo della società civile 5 e comprendere le necessità e le richieste da parte degli attori di questo mondo affinché si possa potenziare la loro attività (capitolo 5). 6 1.1 Capitolo “Le origini della democrazia 1 individualiste e competitive” e gli sviluppi in società Gli albori della democrazia: quando l’uomo era al “centro” La parola democrazia (demokratia) è un termine già di per sé ricco di significato: deriva dall’unione dei termini greci demos, cioè popolo e kratos, ovvero forza, potere, governo, perciò è letteralmente il “governo del popolo”. Ma, mentre il significato di “kratos” è univoco, non si può dire altrettanto di “demos”, il quale può indicare l’insieme di coloro che godono di diritti di cittadinanza oppure solo una parte di cittadini oppure può costituire l’equivalente di “Assemblea” (Greblo, 2000). La democrazia – anche se non ancora chiamata in questi termini, poiché il vocabolo risale alla metà del V secolo a.C. – nacque ad Atene nel 508-507 a.C. con Clistene, che introdusse importanti riforme atte a modificare l’organizzazione politica della cittadinanza, e venne abolita nel 322 a.C. con la conquista macedone della città. Il carattere distintivo della democrazia ateniese risulta essere l’“esclusività”, in quanto essa è considerata più come l’estensione di un privilegio che come la realizzazione effettiva di un diritto universale (Greblo, 2000); infatti, venivano esclusi dai diritti politici le donne, i meteci, gli immigrati, gli schiavi. Non tutti, perciò, potevano intervenire nel prendere decisioni che riguardavano il popolo. Tra la seconda metà del V e l’inizio del IV secolo a.C. , la filosofia incominciò ad occuparsi della democrazia tramite i Sofisti, degli intellettuali (i c.d. “sapienti”) che insegnavano l’arte della “parola” – da loro ritenuta lo strumento tecnico che permette di “pensare” – attraverso un modello di “sapere” per tutti, nessuno escluso. Per i Sofisti era impensabile che potesse esistere qualcuno non facente parte della politica della città, poiché, secondo loro, l’individuo doveva essere posto al centro; i Sofisti, quindi, si fecero promotori dell’Atene democratica e furono testimoni del passaggio da polis monarchica ad oligarchica e, successivamente, democratica, in cui i cittadini più capaci e virtuosi vengono a porsi come modello educativo per tutti gli altri. 7 Interpretazione differente e critica del concetto di democrazia è quella di Platone (428-348 a.C.), secondo cui era “giusta la comunità politica nella quale ciascuno esercita l’attività cui lo destina la propria inclinazione naturale” e in cui il potere politico e la filosofia sono nelle mani delle stesse persone. La comunità elaborata da Platone prendeva il nome di “Repubblica”, si basava sul concetto di giustizia ed era formata da tre classi, cui corrispondevano rispettivamente tre differenti virtù: a. i governanti (detentori di sapienza): sono i filosofi, convinti che la giustizia coincida con il bene e la felicità del popolo, scelgono chi è più adatto, in base alle doti (cioè a quale parte dell’anima è più sviluppata: desiderosa, animosa o razionale) per far parte di ogni classe (pur rimanendo sempre possibile il passaggio da una classe all’altra, qualora si mostrassero sviluppate nuove caratteristiche); b. i guardiani (detentori di coraggio): hanno il compito della difesa – anche morale – della città; queste due prime classi non possiedono “beni privati”, pertanto Platone dà vita ad un “comunismo di beni e di affetti” (comunismo platonico); c. i produttori (detentori di temperanza – capacità di misurare il desiderio): sono gli artigiani e i commercianti, che hanno la possibilità di possedere beni privati e che lavorano. Platone presupponeva, inoltre, una scissione della vita economica da quella politica, ed individuava quattro tipi possibili di Stato degenerato: 1. la timocrazia: il governo del terrore; 2. l’oligarchia: il governo dei ricchi; 3. la democrazia: il governo anarchico; 4. la tirannia: l’ulteriore degenerazione della democrazia, dovuta all’eccessiva libertà. Il concetto di democrazia era, perciò, considerato in maniera assolutamente negativa da Platone, il quale non auspicava all’esistenza di alcuno di questi quattro tipi di Stato, nella convinzione che potessero essere evitati attraverso l’esistenza di un “sistema educativo” (paideia, ovvero, appunto, l’educazione), perseguito dai governanti i quali, da un lato, possiedono le capacità per governare la Repubblica e, dall’altro, sono tenuti a farlo, affinché la società non degeneri. Seppure l’interpretazione del concetto di democrazia di Platone sia discutibile, ciò su cui non si può ribattere è, invece, l’importanza del ruolo ricoperto dalla paideia nella 8 gestione ottimale di uno Stato; anzi, sempre di più nel tempo l’istruzione e l’educazione si sono rivelati elementi fondamentali per lo sviluppo umano ed economico di un paese. L’opinione di Platone venne ripresa da Aristotele (384-322 a.C.), il quale sostenne nella “Politica” che l’uomo è un animale politico e sociale, il quale realizza se stesso all’interno della polis, la comunità della quale fa parte; la politica è l’unione degli esseri umani per “vivere bene” e la polis lo spazio in cui essi sono liberi di incontrarsi e in cui sono caratterizzati da uguaglianza. Proprio per questo motivo, Aristotele condannò Platone sostenendo che la Repubblica sia errata poiché la polis è “unità di molteplicità e non si possono abolire le diversità”. Le forme di governo possibile per Aristotele erano (Greblo, 2000 e Taroni, 2004): a. il regno o monarchia: il governo di “uno solo”; b. l’aristocrazia: il governo di pochi (gli aristòi, in greco i “migliori”); c. la politeia: il governo di molti; per Aristotele risulta essere la migliore forma di governo auspicabile poiché meno soggetta a rivoluzioni. Se mal interpretate, queste possono degenerare in: a. tirannide o dittatura: la situazione politica in cui l’unico soggetto governante non gode del favore dei sudditi, ha usurpato il potere e lo usa a proprio esclusivo vantaggio; b. oligarchia: quando i pochi che detengono il potere non sono i migliori, ma i più ricchi, che perseguono solo i propri interessi; c. democrazia, quando a dominare sono la confusione e la demagogia, che impediscono la realizzazione di un governo razionale. Anche per Aristotele, quindi, così come per Platone, la democrazia non era una forma di governo auspicabile, pur restando “la peggiore delle costituzioni buone e la migliore di quelle cattive” (Greblo, 2000). Del tutto simile alla visione di Aristotele, seppure di gran lunga successiva dal punto di vista temporale, è il pensiero sulla democrazia di Tommaso D’Aquino (1221 o 12251274), sia per la concezione dell’uomo come animale socievole, che per la tripartizione delle forme di governo realizzabili e delle loro degenerazioni (tra cui ritroviamo la democrazia). Tuttavia si può sostenere che, dal momento in cui, nel 322 a.C., si conclude la democrazia ateniese, viene ad estinguersi non solo l’argomento ma anche la parola stessa, con il passaggio al termine repubblica (da res publica, la “cosa di tutti”), con il 9 quale si indica un “sistema politico aperto (potenzialmente) a tutti nell’interesse di tutti” (Greblo, 2000). L’analogia tra repubblica e democrazia si può, comunque, riscontrare nell’idea che l’indole sociale degli uomini comporti la necessità dell’unione degli individui in un’associazione politica in cui i cittadini siano forniti di virtù civica, tale per cui il repubblicanesimo, attraverso la dottrina della rappresentanza, si fa mezzo al servizio della democrazia nel contesto storico-politico del XV-XVI secolo d.C. . 1.2 Le rivoluzioni industriali del XVIII e XIX secolo: le basi della democrazia moderna 1.2.1 La prima rivoluzione industriale All’inizio del XVIII secolo prese il via in Inghilterra quell’insieme di eventi – forse il più importante della nostra epoca – che va sotto il nome di prima rivoluzione industriale: “rivoluzione” in analogia con gli eventi politici e sociali francesi di fine Settecento; “industriale” a causa del verificarsi di una rapida e intensa trasformazione nell'organizzazione tecnico-economica delle lavorazioni di materie prime accompagnato dalla meccanizzazione, imputabile alla coesistenza di situazioni favorevoli: la rivoluzione agraria; l’incremento demografico; la creazione di un vasto mercato nazionale; una nobiltà disponibile all'attività imprenditoriale; una borghesia intraprendente, sufficientemente tutelata dalla legislazione; una mentalità aperta alle novità, plasmata dall'etica protestante del lavoro; i progressi tecnici legati allo sviluppo del pensiero scientifico; lo sviluppo dei trasporti; il territorio favorevole. Secondo la definizione che ne dà Kuznets (1990, p. 89), per sviluppo economico si intende: “l’aumento nel lungo periodo della capacità di fornire beni economici sempre più diversificati alla popolazione. […] Tale crescente capacità si fonda sul progresso tecnologico e sugli aggiustamenti, sia istituzionali che ideologici, che esso rende necessari”. 10 Prima del XVIII secolo già si erano verificati numerosi e interessanti casi di sviluppo economico: tuttavia, essi furono relativamente limitati nel tempo e nello spazio. Ciò che accadde tra il 1750 e il 1780 si distingue da analoghi fenomeni precedenti per il fatto di essere stato irreversibile, almeno nell’esperienza storica di lungo andare, caratterizzato da elevati tassi di crescita della produzione e accompagnato quasi ovunque da radicali mutamenti demografici, strutturali e sociali (AA. VV., 2005). È, perciò, opportuno sostenere che la prima rivoluzione industriale sia stata portatrice di una fase di sviluppo economico fino a quel momento mai conosciuta, in quanto sua caratteristica principale fu il progresso tecnologico e il diffondersi e il trasformarsi dell’economia industriale, in particolare nel settore tessile-metallurgico. Lo sviluppo economico originatosi in Inghilterra può dirsi convergente al concetto di sviluppo capitalistico, definito dalla scuola economica classica, sviluppatasi in Gran Bretagna tra la seconda metà del XVIII e la prima metà del XIX secolo, tra i cui esponenti si possono citare Adam Smith (1723-1790), David Ricardo (1772-1823), Thomas Robert Malthus (1766-1834) e John Stuart Mill (1806-1873) (Boggio, Seravalli, 2003). Secondo questa concezione, per l’attività industriale occorre spendere un capitale in macchine, attrezzature, materie prime (beni capitali) e, allora, ciò poteva essere realizzato solo da alcuni soggetti ben determinati. La società capitalistica era divisa in tre classi fondamentali, le quali percepivano un reddito derivante dall’attività produttiva in forme differenti: lavoratori, i quali ricevevano un salario; proprietari terrieri, i quali ricevevano una rendita; capitalisti, i quali ricevevano un profitto. All’epoca della prima rivoluzione industriale, si può supporre che il salario fosse al livello di sussistenza e, quindi, che venisse interamente consumato dai lavoratori; che anche i proprietari terrieri consumassero per intero le loro rendite; che, invece, i capitalisti reinvestissero per intero o quasi i loro profitti. Tutto ciò permette di comprendere come l’affermazione sempre più netta di una sola classe sociale – quella dei capitalisti – nel sistema economico, a causa del loro possesso della proprietà privata, sia stata cruciale nell’aumentare le diseguaglianze tra la popolazione. Dal XV secolo in poi, in modo dapprima lento poi sempre più rapido, l’agricoltura inglese aveva visto diffondersi il processo c.d. delle recinzioni (enclosures): in buona 11 sostanza, esse consistevano nell’appropriazione da parte di un gruppo ristretto di persone della terra coltivata con il sistema dei campi aperti e della conseguente separazione dei piccoli contadini dai mezzi di produzione. In questo modo vennero a crearsi due importanti precondizioni dello sviluppo industriale: a- la concentrazione del capitale nelle mani di pochi; b- una forza lavoro “libera” e mobile. In “Saggio sul basso prezzo della produzione del grano” (1815), Ricardo analizza quella che era stata fino a quel momento la principale fonte di rendita di un’economia pre-industriale “statica”: l’agricoltura. Egli determina il concetto di rendimenti decrescenti (o “teoria ricardiana della rendita”): il livello di produzione (output) aumenta all’aumentare delle risorse utilizzate (input). Perciò i primi terreni utilizzati saranno i migliori e renderanno maggiormente: a mano a mano la qualità diminuirà, fino ad arrivare ad un punto in cui non ci sarà più incentivo a mettere a coltura la terra, poiché i costi non sarebbero coperti dai prezzi degli input prodotti. Se successive dosi di prodotto vengono ottenute con costo crescente, il prezzo si commisura al costo massimo sopportato, ossia al lavoro speso nelle condizioni più sfavorevoli o meno produttive. Questo primo tipo di interpretazione, che prevede che sia il livello di qualità di input a far crescere più o meno l’economia, ignorando il concetto di progresso tecnologico, ha come conseguenza il disincentivo ad aprire l’economia, derivante dalla perdita di valore dei terreni nel tempo. Nel momento in cui l’economia passa da “statica” a “dinamica”, questo modello di previsione inizia a perdere di significato (Mazzanti, 2006) e incomincia, invece, ad assumerlo la teoria della suddivisione del lavoro, teorizzata da Adam Smith (1776): il suo modello di previsione di crescita della produzione si adatta perfettamente al passaggio da un’economia pre-industriale statica (fondata sull’agricoltura e chiusa) ad un’economia industriale dinamica (fondata sul progresso tecnologico e aperta). Smith (1776, trad. it. 1973, p. 9) vedeva la possibilità di suddivisione del lavoro come il principale incentivo alla crescita di produzione, dovuto all’incremento di capacità e di specializzazione da essa derivanti: “La causa principale del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell’arte, della destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro”. 12 A proposito della suddivisione del lavoro, Marx (1867) individua due forme di divisione: a. la divisione tecnica; b. la divisione sociale. La divisione tecnica si riferisce alla divisione del lavoro attuata all’interno di un’unità produttiva, che si concretizza nella riduzione, a parità di tempo di lavoro, delle mansioni od operazioni svolte da ciascuno; si concretizza nel concetto di “economie di scala” ed è particolarmente evidente quando essa è collegata all’introduzione di nuovi macchinari e impianti. La divisione sociale si riferisce alla divisione del lavoro tra unità produttive diverse, che producono beni tra loro diversi; le conseguenze sono nuove imprese specializzate, esternalizzazione (outsourcing), nascita di imprese intermedie e finali. 1.2.2 La seconda rivoluzione industriale Durante tutto il XIX secolo si affermarono saldamente sia il progresso tecnologico che il capitalismo, dando vita alla seconda rivoluzione industriale, incentrata in particolar modo sui settori dell'elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio. Inoltre, anche i settori dei trasporti e delle comunicazioni ebbero un forte sviluppo ed un ruolo decisivo per il graduale aumento dell'interdipendenza tra i vari stati del pianeta. Dal 1850 in poi, si ebbe in Europa e negli Stati Uniti uno sviluppo tecnologico senza precedenti, che assicurò ai paesi Occidentali la supremazia tecnica in tutto il mondo. La caratteristica che più la differenzia dalla precedente rivoluzione industriale sta nel fatto che le innovazioni tecnologiche non sono frutto di scoperte occasionali ed individuali, bensì di ricerche specializzate in laboratori scientifici e nelle università finanziate dagli imprenditori e dallo Stato per il miglioramento dell'apparato produttivo. Da un punto di vista sociale, con il trascorrere del tempo, le disuguaglianze tra la popolazione si andarono ad inasprire: come spiega Marx, la divisione del lavoro è l’effetto della divisione della società in classi e il capitale si appropria anche della conoscenza e dell’intelligenza operaia, dopo aver espropriato i lavoratori delle condizioni materiali e tecniche del loro lavoro (Marchese, Mancini, Greco, Assini, 1997). La suddivisione del lavoro ha ripercussioni sulla vita civile, in quanto il capitalismo, oltre allo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, produce anche alienazione, ovvero quella condizione in cui le attività umane non hanno il proprio fine in loro stesse o nella 13 possibilità della realizzazione di sé offerta a coloro che le esercitano, ma nella necessità di provvedere a bisogni materiali. Marx riprende e sviluppa la teoria del valore-lavoro dell’economia politica classica (Ricardo e Smith), secondo la quale le merci tendono ad essere scambiate in proporzione al tempo di lavoro socialmente necessario incorporato. Ciò che differenzia Marx dalla scuola classica è la sua attenzione non tanto per i rapporti quantitativi di scambio, bensì per i rapporti sociali sottostanti, celati dai fenomeni di mercato. Le merci sono prodotti del lavoro umano destinati alla vendita piuttosto che all’uso diretto del padrone/non-lavoratore. Attraverso la vendita delle merci il padrone/non-lavoratore acquisisce denaro, con il quale a sua volta acquista altri prodotti per soddisfare i suoi bisogni (rappresentazione attraverso lo schema M-D-M, in cui M sta per merci e D sta per denaro). In una società in cui tutti i prodotti sono merci e vengono scambiati secondo lo schema M-D-M, i produttori lavorano indipendentemente l’uno dall’altro e stabiliscono relazioni solo attraverso il mercato (AA. VV., 2005). Le loro relazioni personali diventano letteralmente reificate, cioè relazioni tra cose. Inoltre, nel capitalismo, la forza lavoro è una merce, acquistata dal padrone/nonlavoratore e venduta all’uomo/lavoratore: egli non produce più per la sua sussistenza e per l’unità produttiva di base (la famiglia), ma per il suo padrone/non-lavoratore, il quale gli paga un salario, che è il “prezzo” a cui egli si offriva sul mercato del lavoro, appropriandosi, però, anche del plus-prodotto realizzato attraverso plus-lavoro, essendo possessore dei mezzi di produzione. Si tratta del concetto di plusvalore derivante dalla distinzione tra lavoro e forza lavoro, che nel capitalismo è comprata e venduta come una qualsiasi altra merce. La classe lavoratrice, dunque, si viene a trovare in una condizione di estraneità e di non partecipazione attiva rispetto tutto ciò che riguarda il proprio lavoro: si genera una stato di impotenza dell’uomo/lavoratore nei confronti di oggetti e rapporti sociali che il suo stesso agire contribuisce a produrre. 14 1.3 Il paradigma dell’homo oeconomicus: individualismo ed utilitarismo 1.3.1 Il mutamento del pensiero economico-filosofico La diffusione e l’affermazione dell’economia e, più in generale, del sistema capitalistico è imputabile, oltre che ad un mutamento della struttura produttiva, anche ad un profondo mutamento del pensiero filosofico di quei tempi. Thomas Hobbes (1588-1679), nella sua opera “Leviatano” (1651), partiva dall’assunto che gli uomini fossero per natura egoisti e possedessero una spiccata razionalità, attraverso cui davano vita al proprio agire. Secondo Hobbes, a causa della scarsa disponibilità dei beni, gli uomini ingaggiano una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes), poiché “homo homini lupus”, cioè l'uomo è un “lupo divoratore” di ogni altro uomo. Per queste motivazioni, gli uomini tendono a stipulare un contratto sociale, cioè si spogliano delle loro libertà per attribuirle allo Stato (o meglio il “Sovrano”), il c.d. Leviatano, il quale assume il compito di regolare gli avvenimenti (Zamagni, 2007a). In questo modo: a. l’autorità del sovrano viene dal basso – attraverso il contratto sociale – poiché i cittadini sono consapevoli che altrimenti farebbero prevalere la loro peculiare “uccidibilità” generalizzata (Bruni, Zamagni, 2004); b. solo il cittadino che ha capacità di contrattare ha libertà di esprimere e realizzare i propri diritti. La natura dell’uomo, pertanto, sembra non essere favorevole all’essere sociale in modo spontaneo, quanto, invece, è predisposta ad essere governata dall’esterno. Fino alla metà del XVIII secolo, le discipline dell’economia e dell’etica facevano parte della stessa dottrina, la filosofia morale, che incorporava l’insieme delle scienze umane e non naturali, le quali invece rientravano nella c.d. filosofia naturale. La separazione tra discorso economico e riflessione morale si fa risalire alla stesura da parte di Bernard de Mandeville (1670-1733) del poema satirico-allegorico dal titolo “Fable of the Bees: private vices, public benefits” (“La favola delle api: vizi privati, benefici pubblici”, 1714): in esso si sostiene che il bene pubblico derivi dai vizi privati (il lusso, la vanità, la superbia e l’invidia) ovvero che l’interesse egoistico degli individui – rappresentati dalle api dell’alveare – possa portare al maggior beneficio pubblico possibile. 15 La favola narra la storia di un alveare di api egoiste che, grazie alla loro avarizia e disonestà, vivevano nell’abbondanza e nel benessere. Nonostante ciò, le api disoneste criticavano pubblicamente la malafede delle concittadine. Tuttavia: …il lusso dava da vivere a un milione di poveri e l’odiosa superbia a un altro milione. Perfino l’invidia e la vanità favorivano l’industria. La loro più cara follia, la volubilità nel vestire, nei cibi e negli arredamenti, questo strano e ridicolo vizio, era ormai proprio la ruota che muoveva il commercio […] In questo modo il vizio alimentava l’ingegno che, col tempo e con l’industria, aveva portato le comodità della vita i suoi veri piaceri, conforti ed agi. Ad un certo punto, Giove, stanco di assistere all’ipocrisia regnante nell’alveare, convertì le api che divennero oneste, altruiste e virtuose: in pochissimo tempo, però, l’alveare precipitò nella miseria: mentre vanità e lusso diminuiscono, anche le vie del mare sono abbandonate. Non vi sono più mercanti, e intere fabbriche vengono chiuse. Tutte le arti e i mestieri sono negletti: l’accontentarsi del proprio stato, rovina l’industria […] La virtù da sola non può far vivere le nazioni nello splendore. La redenzione morale portò ad un crollo dei consumi, originante disoccupazione e miseria, con un unico risultato finale: il collasso economico dell’alveare (Orsini, 2007). 16 In modo più estremo Mandeville arriva a sostenere la necessità del vizio, poiché la ricerca della soddisfazione egoistica del proprio interesse è la condizione prima della prosperità: “Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa”. Coloro che, invece, impostano la loro esistenza secondo il virtuoso principio di accontentarsi della propria condizione conducono la loro vita nella rassegnazione e nella pigrizia danneggiando la produzione industriale, causando, secondo Mandeville, la povertà della nazione ed ostacolando il prodigioso sviluppo che avrebbe successivamente portato alla prima rivoluzione industriale. 1.3.2 L’utilitarismo e l’homo oeconomicus “Viviamo in un mondo di persone ragionevolmente ben informate che agiscono in modo intelligente nel perseguimento del proprio interesse personale” (Stigler, 1981) Si arriva con queste basi a fare in modo che il capitalismo, come fenomeno economico, si possa ripercuotere sulla vita civile degli uomini, riflettendo i propri tratti individualistici nella “teoria della giustizia”1 che va sotto il nome di utilitarismo. L’utilitarismo, i cui principali esponenti sono Bentham (1789), John Stuart Mill (1861) e Henry Sidgwick (1874), prevede un unico criterio per valutare più esattamente possibile le conseguenze delle azioni: il benessere o utilità netta per ciascun membro della collettività considerata, e cioè la capacità di un’azione/oggetto di produrre benefici, vantaggi, piacere, bene, felicità al netto dei costi, svantaggi, pene, mali o infelicità. I tre principi su cui si basa l’utilitarismo sono (Sen, 2000 e Zamagni, 2007a): 1. conseguenzialismo; 2. benesserismo o welfarismo; 1 Per teorie della giustizia si intendono teorie impegnate nella formulazione di principi di giustificazione di istituzioni, pratiche sociali, regole e scelte pubbliche, che derivano dalla necessità di perseguire due criteri: quello di efficienza economica e quello di equità (Orsini, 2007). 17 3. ordinamento per somma (sum ranking). Il conseguenzialismo è la tesi secondo cui tutte le scelte vanno giudicate – da un punto di vista “morale” – in base alle loro conseguenze, cioè ai risultati che generano; nessuna considerazione deve essere riservata alle intenzioni dell’agente ovvero a motivazioni diverse da quelle di benessere. Il benesserismo o welfarismo limita i valori sui giudizi di fatto2 alle utilità materiale in essi presenti – senza un’attenzione diretta a cose come il soddisfacimento o la violazione di diritti e doveri o la presenza o meno di libertà. L’unione del conseguenzialismo e del benesserismo genera la richiesta di giudicare ogni scelta in base all’utilità che produce. L’ordinamento per somma (sum ranking) prescrive di sommare le une alle altre utilità di più persone così da ottenerne il valore aggregato, senza tenere conto della distribuzione del totale tra i diversi individui. Pertanto, gli utilitaristi calcolano la somma dei livelli di benessere e scelgono di conseguenza l’attività che produce il benessere aggregato maggiore – “la massima felicità del maggior numero possibile di persone” – ovvero minimizza la sofferenza socialmente evitabile. Ciò significa che quello che interessa agli utilitaristi è il bene totale calcolato come sommatoria dei livelli di benessere (utilità) dei singoli: n i=1 bi = b1 + b2 +…+ bn e non il bene comune, cui invece una società realmente civile – che pone al centro la persona e non l’individuo3 – dovrebbe tendere: n i=1 bi = b1 x b2 x…x bn I due concetti differiscono per il fatto che nel primo caso, quello preso in considerazione dagli utilitaristi, il bene di qualcuno può essere annullato senza cambiare 2 I giudizi di valore sono valutazioni etiche, religiose o politiche aventi carattere personale ed esprimono, pertanto, posizioni soggettive su “ciò che dovrebbe essere”; al contrario, i giudizi di fatto sono affermazioni – corrette o errate che siano – su “ciò che è” (Acocella, 2006, p. 31). 3 La differenza risiede nel fatto che la persona per essere identificata, a differenza dell’individuo ha bisogno degli altri: esisto “io” perché esiste un “tu” che riconosce la mia persona (Zamagni, 2007a). 18 il risultato finale; viceversa, nel caso del bene comune, essendo esso il risultato di una produttoria, annullando anche uno solo dei livelli di benessere si annulla il risultato finale (Zamagni, 2007a). Le tre componenti dell’utilitarismo, messe insieme, danno la formula utilitaristica classica: “ogni scelta va giudicata in base alla somma complessiva dell’utilità che genera”. Per gli utilitaristi, la funzione di benessere sociale, ovvero quella curva che indica il livello di benessere sociale corrispondente ad un particolare insieme di livelli di utilità raggiunti dalla collettività, dovrebbe essere rappresentata da una curva d’indifferenza sociale – ovvero l’insieme delle combinazioni di utilità degli individui diversi che producono lo stesso livello di benessere per la società – con la seguente forma (Stiglitz, 2003): UTILITÀ di B UTILITÀ di A Questo significa che la collettività dovrebbe attribuire all’utilità di un individuo lo stesso peso dato all’utilità di qualsiasi altro individuo; in questo modo, viene ad esistere un trade-off tra l’utilità degli individui, che permette di giustificare le disuguaglianze di utilità tra individui diversi, di fronte alla parità o all’aumento del bene totale. Inoltre, l’utilitarismo può essere definito come una teoria morale (Orsini, 2007): a. teleologica: definisce innanzitutto il bene (l’utile), da cui ne discende il giusto (è giusto ciò che massimizza il bene, cioè l’utile); b. individualista: il bene sociale si riduce alla somma dei beni individuali; c. aggregativa: si massimizza l’utilità sociale (totale o media), senza riguardo alla distribuzione in sé; d. razionale: è giusto ciò che è efficiente, è ingiusto tutto ciò che comporta uno spreco di felicità pubblica. Il giudizio etico deriva da una “semplice” analisi costi-benefici; e. monistica: vi è un solo criterio di valutazione (l’utilità) in base al quale scegliere se una situazione è preferibile o meno; 19 f. universalistica: tiene conto in eguale misura delle preferenze e delle situazioni di ciascun membro della specie umana, sia delle generazioni presenti, che di quelle future; g. comprensiva: si applica a tutte le azioni o scelte da prendere. Con la dottrina utilitaristica, l’utile e il benessere materiale si elevano a fine autonomo, principale ricerca dell’agire umano individuale e collettivo, invece che ricoprire il ruolo di “mezzi” per la ricerca di qualcos’altro. L’utilitarismo si concretizza in quella che va sotto il nome di scuola neoclassica (o marginalista) e nella relativa economia del benessere, filone della teoria economica che affronta gli aspetti normativi, cioè quella parte di economia morale che cerca di valutare politiche alternative, soppesandone benefici e costi (Stiglitz, 2003). Il criterio per affrontare le alternative è stato introdotto da Vilfredo Pareto (18481923) e si chiama efficienza paretiana: quando non è possibile modificare una data allocazione delle risorse tra gli individui in modo tale da migliorare la situazione di qualcuno senza peggiorare allo stesso tempo quella di qualcun altro, si dice che tale allocazione è efficiente in senso paretiano (o Pareto-efficiente) ovvero costituisce un ottimo paretiano. Si può dimostrare che l’ottimo paretiano in un’economia di produzione e scambio richiede: l’efficiente allocazione nel consumo dei beni, che si realizza quando, per ogni coppia di beni, vi è uguaglianza del saggio marginale di sostituzione (MRS)4 fra i vari consumatori; l’efficiente allocazione degli input produttivi, che richiede l’uguaglianza dei saggi marginali di sostituzione tecnica5 (MRTS) fra gli input; l’efficienza “generale”, che si ottiene quando il saggio marginale di sostituzione fra ogni coppia di beni per tutti i soggetti è uguale al saggio marginale di trasformazione6 (MTS). 4 Il saggio marginale di sostituzione è la quantità di un bene che un individuo è disposto a cedere in cambio di un’unità di un altro bene (Stiglitz, 2003). 5 Il saggio marginale di sostituzione tecnica indica in che modo un fattore produttivo può essere sostituito con un altro, ovvero a quante unità di un fattore produttivo si dovrà rinunciare per ottenere un'unità in più di un altro fattore produttivo, mantenendo costante la quantità di output (Ibidem). 6 Il saggio marginale di trasformazione corrisponde al costo opportunità di un bene rispetto ad un altro bene (Varian, 2002). 20 I teoremi – cioè proposizioni logiche in cui le conclusioni (l’efficienza paretiana dell’economia) derivano dalle ipotesi – dell’economia del benessere sono due: 1. il “primo” sostiene che se un’economia è perfettamente concorrenziale allora è anche Pareto-efficiente; 2. il “secondo” afferma che esistono numerose allocazioni delle risorse che sono Pareto-efficienti. Trasferendo risorse da un individuo ad un altro, miglioriamo la posizione del secondo individuo e peggioriamo quella del primo. Dopo aver ridistribuito in tale modo la ricchezza, se lasciamo funzionare le forze della concorrenza di mercato potremo ottenere una nuova allocazione Paretoefficiente; questo significa che la sola cosa che lo Stato dovrebbe fare è ridistribuire la ricchezza iniziale e lasciare che poi il mercato faccia il resto. In parole povere, nelle condizioni prestabilite dalla “mano invisibile” del mercato – di concorrenza perfetta – si determina il miglior equilibrio possibile: P Domanda Offerta P* Q* Q Come precedentemente definito, si tratta di teoremi, che prevedono la dimostrazione della validità delle ipotesi di partenza. Innanzitutto, quindi, è necessario definire un mercato di concorrenza perfetta, cioè una particolare condizione del mercato in cui domanda e offerta presentano queste caratteristiche (Varian, 2002): elevato numero di soggetti dal lato della domanda; elevato numero di soggetti dal lato dell’offerta; beni omogenei; costi di transazione relativamente contenuti; perfetta informazione; prezzo dato; inesistenza di barriere all’entrata e all’uscita. 21 Lascio ad un successivo capitolo (vedi infra capitolo 4) la critica all’economia del benessere e all’utilitarismo e sottolineo momentaneamente solo una peculiarità del criterio paretiano di efficienza, cioè il fatto che esso sia individualistico, in due sensi: a. considera solo il benessere di ciascun individuo e non il benessere relativo di diversi individui; non considera, cioè, esplicitamente la diseguaglianza tra i soggetti considerati; b. ciò che conta è la percezione che ciascun individuo ha del proprio benessere, coerentemente con il principio generale di sovranità del consumatore, secondo il quale ogni singolo individuo è il miglior giudice dei propri bisogni e necessità, di ciò che è nel suo interesse. Ma quali sono le peculiarità dell’individuo che l’utilitarismo ricerca – e fondamentalmente trova – per dare adito alle sue teorie? Quali caratteristiche possiede il soggetto che vive per massimizzare il benessere, non curandosi delle disuguaglianze che si vengono a creare? Innanzitutto, egli risponde al nome di homo oeconomicus: si tratta, in generale, di un uomo le cui principali caratteristiche sono la razionalità (intesa in un senso precipuo, soprattutto come precisione nel calcolo) e l’interesse esclusivo per la cura dei propri interessi individuali (self-interest). Le caratteristiche principali dell’homo oeconomicus, infatti, sono (Zamagni, 2007a): a. l’essere individualista (concetto di atomismo): egli, quando ragiona, pensa sempre a partire dal proprio “io”, dalla propria funzione di utilità e pertanto il suo obiettivo è la massimizzazione del proprio benessere: questo individuo persegue un certo numero di obiettivi cercando di realizzarli nella maniera più ampia possibile e con i costi minori. In questo obiettivo è mosso da motivazioni intrinseche; b. l’essere strumentalista: guarda solo alle conseguenze ed è mosso da motivazioni estrinseche; c. l’essere non emozionale: non si fa influenzare dalle emozioni nel momento della scelta, si comporta da “freddo calcolatore”. Inoltre l’homo oeconomicus assume un comportamento a-sociale o egoista, inteso come soggetto che rimane indifferente davanti al fatto che gli altri siano felici o meno e per cui le finalità personali dipendono solo dalle proprie preferenze. L’homo oeconomicus è il prodotto della “paura” hobbesiana che vige tra gli uomini di una società e dell’opportunismo benthamiano. 22 Ma attenzione: non si tratta di un uomo “ragionevole”, come istintivamente si tende a pensare, bensì solamente di un uomo “razionale”: un soggetto che usa solo il pensiero “calcolante” e non anche il pensiero “pensante”. In particolare, la razionalità attribuita all’homo oeconomicus consiste nel fatto che egli: ha certe preferenze (ad esempio, “preferisce le mele alle pere”) che è in grado di disporre in sequenza; è capace di massimizzare la sua soddisfazione utilizzando al meglio le sue risorse; è in grado di analizzare e prevedere nel modo migliore la situazione e i fatti del mondo circostante, al fine di operare la scelta più corretta in ordine a detta massimizzazione. Il che è ben diverso dal dire che in questo modello assuma importanza se l’individuo stia cercando di acquistare qualcosa di completamente inutile, purché lo desideri e lo fissi come suo obiettivo. Anche la teoria dei giochi7, in particolare il gioco del prigioniero, permette di dimostrare che l’agire dell’homo oeconomicus è sì razionale, ma non ragionevole. Prendendo in considerazione come esempio la possibilità di “realizzare la raccolta differenziata”, si determinano quattro opzioni con differenti valori: 1. “l’altro sì, io no” valore = 4; 2. “tutti sì, me compreso” 3. “nessuno sì, me compreso” 4. “gli altri no, io sì” valore = 3; valore = 2; valore = 1. Date le strategie possibili coopera (C) o non coopera (NC), la matrice dei pay-off di questo gioco è la seguente: C NC C 3,3 1,4 NC 4,1 2,2 La soluzione adottata dall’homo oeconomicus non è ottimale, bensì sub-ottimale, il che dimostra come egli non assuma un comportamento ragionevole. 7 La teoria dei giochi è quella scienza che studia l’interazione strategica tra gli individui (in economia, “agenti economici”) (Varian, 2002). 23 Quella che viene messa in risalto nell’homo oeconomicus è la c.d. intelligenza cognitiva, cioè quella parte di intelligenza che si basa sulle capacità di analisi e sintesi, sulle abilità logico-matematiche, sulla capacità di definire un metodo razionale (ad oggi misurata attraverso il “quoziente intellettivo” – Q.I.); ma, come dimostrerò successivamente (vedi infra capitolo 4), questo tipo di intelligenza e, di conseguenza, l’homo oeconomicus, non sono sufficienti a spiegare il perché dell’agire dell'uomo, né in campo economico, né in campo sociale, poiché limitati ad un’unica sfera dell’essere umano. 1.4 Il punto di vista politico: la democrazia elitistico-competitiva “Il metodo democratico è quell’accorgimento istituzionale per arrivare a decisione politiche, nel quale alcune persone acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per il voto popolare” (Schumpeter, 1942) 1.4.1 La rappresentanza attraverso le élites politiche I mutamenti socio-economici del XVIII e XIX secolo hanno fatto sì che il concetto di democrazia si sia trasformato con essi. La democrazia moderna, infatti, ritiene che suo soggetto attivo sia il singolo cittadino che gode di diritto di voto e non il popolo nel suo insieme: la volontà popolare non è la volontà del popolo come un tutto, ma la volontà dei singoli cittadini, e la maggioranza non è l’espressione di un soggetto collettivo, ma la somma numerica di tanti soggetti individuali presi uno ad uno (Greblo, 2000). A differenza di Bentham, che riconosce alla democrazia il valore essenzialmente strumentale di mezzo più idoneo alla realizzazione del benessere collettivo, in John Stuart Mill (1861) la democrazia diviene un valore in sé. Secondo Mill, un governo rappresentativo non serve soltanto a garantire il perseguimento dei propri interessi da parte dei cittadini, minimizzando il ruolo dello Stato e delle sue interferenze, ma costituisce anche una necessità per la realizzazione delle libertà individuali e delle potenzialità umane in genere. 24 Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’ingresso delle “masse” nell’area politica diviene un tratto costituzionale permanente della democrazia rappresentativa europea. A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento si ebbe la diffusione del suffragio universale maschile a scrutinio segreto in quasi tutti i paesi europei; ciò permise a milioni di persone di partecipare al processo di formazione e di selezione delle classi dirigenti. Il modello di democrazia affermatosi nei primi anni del XX secolo fu un modello di democrazia rappresentativa che fece emergere nuove élite, cioè “quelle classi politiche che nei diversi paesi trovano nel voto di massa nuove forme di legittimazione” (Greblo, 2000). L’economia di mercato capitalistica, basata sull’utilitarismo, fece emergere e prevalere le forze economiche e le sue conseguenze sulla società diedero vita ad altrettante forze politiche autorizzate dai cittadini a governare sulle scelte pubbliche e che si impongono o soccombono in una logica di competizione politica tra partiti di massa. Rispecchiando l’individualismo dell’uomo, che era stato accentuato sempre di più dai mutamenti socio-economici apportati dalle prime due rivoluzioni industriali, la dottrina dell’utilitarismo generò la conclusione, tratta da Bentham e Mill, che il principio della massima felicità per il maggior numero di persone trovi nella democrazia rappresentativa la sua più adeguata espressione funzionale, in quanto la democrazia diretta metterebbe in evidenza l’incapacità del popolo di assumere autonomamente ruoli operativi di governo. Già Jean Jacques Rousseau (1762), ritenendo l’uomo “buono per natura”, aveva anticipato i tempi sostenendo che la vita associata fosse il prodotto di una spontanea convivenza di sentimenti, bisogni e interessi. La società, però, corrompe questa originaria bontà creando profonde disuguaglianze sociali, attraverso l’insorgere della proprietà privata e della divisione del lavoro, che sono quindi le cause principali dell’egoismo e delle ingiustizie. La proposta risolutrice di Rousseau consiste nel c.d. contratto sociale, con la cui sottoscrizione gli uomini rinuncerebbero spontaneamente alla libertà assoluta per accettare una convivenza che porti vantaggio alla collettività e, di conseguenza, al singolo. 25 Tuttavia, sussistono delle condizioni alle quali il contratto sociale deve essere subordinato per poter esistere: Stato di dimensioni limitate; comunità di uomini virtuosi; sostanziale eguaglianza economica. In questo modo, attraverso il contratto sociale, l’individuo potrebbe delegare l’autorità al corpo unitario, il Legislatore, che coincide con il popolo stesso: secondo Rousseau, si verrebbe a creare una forma democratica di governo, in cui il potere legislativo e quello esecutivo vengono a coincidere in capo al popolo-sovrano, ovvero: la sovranità diretta è esercitata dai cittadini, mentre il rappresentante della nazione deve esprimere la volontà generale dell’intero paese piuttosto che di gruppi particolari di elettori. L’idea di partenza di Rousseau si andò modificando con gli avvenimenti immediatamente successivi ai suoi scritti. Il ruolo della democrazia venne a cambiare totalmente: da “valore”, espressione di un diritto civile che dovrebbe essere posseduto da ogni persona, a “strumento” per la scelta di soggetti in cui riporre la fiducia (e, perché no, anche la speranza) di vedere rappresentati i propri valori. La democrazia elitistico-competitiva, modello attualmente in vigore e creato da Max Weber (1922) e Joseph Schumpeter (1942), presuppone una scissione di ruoli: il popolo è elettore del partito politico che più lo rappresenta a livello di valori; i politici, eletti dal popolo, si assumono l’incarico di prendere delle decisioni politiche che riflettano i valori del partito cui appartengono. Schumpeter ritiene che quest’ultima categoria di soggetti sia legittimata dal popolo e, ancora prima, dal proprio partito, ad essere loro rappresentanti in ragione della loro professionalità, che si esplica nella capacità di gestione efficiente della complessità degli organi amministrativi dello Stato (problema della burocrazia), tesi sostenuta anche da Weber, che riteneva necessaria la presenza di una burocrazia assunta contrattualmente in base a specifiche competenze professionali. Per entrambi gli economisti, se il popolo non decide né governa allora il suo compito si limita a quello di “produrre un governo”, selezionando il personale politico più preparato. Schumpeter reputa, inoltre, il carattere competitivo del sistema democratico come quell’elemento che permette di frenare l’eventuale potere incondizionato esercitato dal “governo di esperti”, evitando un eccessivo potere da parte della leadership politica. 26 Una classificazione molto raffinata della democrazia elitistico-competitiva è quella elaborata da Arend Lijphart, la quale si basa su due criteri (Di Gregorio, 2003): a. la cultura politica di un paese – omogenea o divisa; b. il comportamento delle élites – conflittuale o tendente all’accordo. In tal modo, derivano quattro tipologie di democrazia (Marchese, Mancini, Greco, Assini, 1997): 1. depoliticizzante: cultura omogenea ed élites tendenti all’accordo (esempio degli Stati Uniti d’America); 2. centripete: presuppone un consenso ampio delle classi sociali sulla natura del sistema ed una competizione non dirompente tra i politici (esempio dell’Inghilterra); 3. centrifughe: esistono sul piano politico profonde spaccature nel paese e le élites sono altamente conflittuali (esempio dell’Italia); 4. consociative: si sono sviluppate in paesi con forti divisione interne di tipo: religioso (esempio dell’Olanda); regionale (esempio della Svizzera); linguistico (esempio del Belgio). La conflittualità è stata evitata da élites politiche responsabili e disponibili all’accordo, realizzato mediante ampie maggioranze entro cui gli incarichi sono divisi secondo una rigorosa proporzionalità. Fin qui è stata illustrata la componente “elitistica” del concetto della democrazia moderna; ma l’aspetto “competitivo” in che cosa consiste e da che cosa è garantito? 1.4.2 La competizione tra partiti La competizione politica è garantita dal pluralismo, ovvero, come sostiene Robert Alan Dahl (1986), uno dei massimi teorici della democrazia, l’esistenza di una molteplicità di centri di potere, nessuno dei quali è interamente sovrano, che aiuta a domare il potere, ad assicurare il consenso di tutti e a risolvere pacificamente i conflitti. La classe politica è l’interprete di mutevoli equilibri, controlla che i conflitti non diventino catastrofici e che tutti rispettino le regole. Le decisioni politiche sono l’esito dell’interazione e della competizione di gruppi con interessi sociali diversi, quindi delle combinazioni di una molteplicità di centri di potere. 27 Dahl introdusse il concetto di poliarchia (dal greco poly – “molti” – e arkhe – “potere”) per definire un sistema politico in grado di massimizzare la democrazia; secondo il politologo, la teoria democratica si occupa dei processi che permettono ai cittadini comuni di esercitare forme relativamente elevate di controllo sui propri leader. In una poliarchia, infatti, la cittadinanza è divisa in numerose cerchie di minoranza. In una poliarchia ideale, ogni gruppo è egualmente informato sulle possibili conseguenze di decisioni ed è dotato sia di eguali risorse politiche per condizionare gli esiti, sia di eguali possibilità di partecipare alla discussione politica promuovendo le proprie richieste qualora se ne presenti la necessità. Nelle società reali non tutte queste distribuzioni paritarie sono tuttavia rispettate, poiché le risorse politiche sono di fatto distribuite in modo da permettere ad alcune cerchie sociali di possedere più influenza e maggiori risorse di altre (Greblo, 2000). Ad ogni modo, la diversità di risorse non esclude alcun gruppo sociale dalla possibilità di utilizzare quelle che detiene per influenzare il processo democratico. Anche nella situazione più sfavorita, una minoranza dispone comunque della propria forza elettorale, dato che condizione necessaria della poliarchia è l’accesso non discriminato al diritto di voto. Dahl descrive, quindi, una teoria volta ad illustrare la democrazia come regime caratterizzato dalla competizione elettorale e dalla contrattazione politica pluralistica tra le diverse élites, che rappresenta, a suo parere, un’adeguata analisi esplicativodescrittiva della realtà effettiva della politica democratica. Tuttavia, bisogna evidenziare come lo stesso Dahl abbia rivisto la propria tesi in merito alla democrazia, sottolineando il pericolo limitante che la libertà economica possa costituire per l’eguaglianza: essa è un fattore non costituzionale che può restringere l’eguaglianza politica sancita costituzionalmente. Le conseguenze dell’ordine economico sulla distribuzione di risorse, posizioni strategiche e forza contrattuale, e, quindi, sull’eguaglianza politica, non solo creano diseguaglianze sostanziali in termini di ricchezza e di reddito, ma interferiscono profondamente con la possibilità di eguale accesso dei cittadini alla politica. Vedremo successivamente (vedi infra par. 4.2) quanto sia importante e necessario determinare il concetto di eguaglianza parallelamente allo sviluppo del discorso sulla democrazia. 28 1.4.3 Critiche al modello elitistico-competitivo Se, da un lato, l’individualismo e l’utilitarismo tessono gli elogi della forma rappresentativa della democrazia, dall’altro lato c’è chi invece, come Marx e i socialisti, critica questa forma di democrazia, interpretandola quale sistema di libertà politica che deve consentire al popolo di creare un ordine sociale in grado di cancellare privilegi e distinzioni sociali (Greblo, 2000); Marx e i socialisti ritengono, inoltre, che la democrazia rappresentativa non sia altro che la legittimazione ideologica della diseguaglianza sociale, la forma corrotta dell’ideale della democrazia diretta. La democrazia rappresentativa opera attraverso elezioni legislative, voto libero e segreto e trasparenza dell’operato dell’esecutivo al governo (Goodhart, 2001). Tuttavia, non è un regime politico in cui le persone realmente governano, anche se lo si vuol far passare per tale. Infatti, nemmeno gli abitanti di Atene del V secolo a.C. ritenevano le elezioni una caratteristica democratica, reputandole, piuttosto, un elemento a favore di un governo aristocratico. Marx sostenne che la separazione tra società civile e Stato, nonché la rappresentanza politica separata dalla società civile sia l’equivalente politico del concetto di divisione del lavoro; qualcosa che, quindi, tende ad alienare il cittadino dalla sua responsabilità civica nei confronti degli altri cittadini e ad allontanare il suo interesse dal raggiungimento del bene comune. Personalmente, la mia opinione in merito si avvicina a quanto sostenuto da Marx, proprio perché ritengo che le prime due rivoluzioni industriali abbiano cambiato profondamente il modo di pensare e di vivere dell’uomo, in relazione sia al nucleo elementare di riferimento – la famiglia – sia ai rapporti sociali con gli altri uomini, all’interno del contesto della civitas. Voglio sottolineare come, a suo tempo, il suddetto modello poteva essere valido dato il periodo di transizione dovuto al secondo dopoguerra, caratterizzato da una tendenza verso la crescita economica nonché verso il progresso della società (Zamagni, 2005b). Il problema sorge nel momento in cui, in una situazione storica nonché socioeconomica del tutto differente, come quella in cui ci troviamo al giorno d’oggi, si continua ad applicare ancora il modello di democrazia elitistico-competitiva. La situazione democratica nel mondo, ad oggi, è, infatti, la seguente (dati tratti dal “Rapporto Annuale della Freedom House”, 2007): 29 Anno 1950 1974 1990 1995 2001 2007 Numero di democrazie elitisticocompetitive 22 39 76 117 121 123 Democrazie Numero elitisticodi paesi competitive (%) 154 14,3 142 27,5 165 46,1 192 61,3 192 63,0 193 63,7 Fonte: Freedom House Report, 2007 Anche Norberto Bobbio (1984) ha messo in luce i limiti di validità, applicazione ed efficacia del principio elitistico-competitivo quale regola fondamentale di un sistema politico democratico; egli determina una crisi della democrazia dovuta a: la rivincita degli interessi particolari (non si tratta più di rappresentanza politica, ma molto spesso di rappresentanza degli interessi); il mancato passaggio dalla democrazia politica alla democrazia sociale; la persistenza del potere invisibile e l’assenza di un autentico controllo pubblico del potere; la carenza di un’educazione alla cittadinanza politica. Quella delineata non è altro che la situazione politica in cui ci troviamo tuttora, anche in Italia: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1 – Costituzione della Repubblica italiana) Accade, perciò, che il popolo elegga persone che ritiene avere le competenze adatte per prendere decisioni politiche che lo riguardano più o meno direttamente: ma perché lo fa? Non potrebbe prendere “da solo” o, meglio, far scaturire dal confronto con gli altri cittadini le decisioni che lo toccano in prima persona o che, comunque, riguardano la società in cui vive (e di cui dovrebbe, sempre e comunque, essere interessato)? Il processo storico-economico che ho sopra descritto sembra aver lasciato un segno nella mente delle persone tale per cui esse non sempre ritengono di essere in grado di partecipare alla vita politica e civile, se non attraverso una “semplice” votazione. 30 Ma, da quanto fin qui riportato, non è emerso che la politica nasce perché esistono delle persone, dei cittadini, che hanno dei bisogni, delle necessità, che decidono di soddisfare perseguendo determinati valori? Che cos’è la politica senza le persone? Semplicemente un vocabolo svuotato del suo significato etimologico e più profondo, dato che il termine stesso deriva dalla parola polis: politico è quindi tutto ciò che si riferisce alla città, tutto ciò che è pubblico, che riguarda l’universalità dei cittadini. La politica deve essere al servizio di tutti e contemporaneamente tutti devono essere disposti ed avere la volontà di occuparsi di politica, perché essa nasce dai cittadini e per i cittadini, e non può essere demandata ad un’élite di persone, che il più delle volte fanno di essa solo un lavoro, e della democrazia uno “strumento” invece che un “valore”. Non potendoci, dunque, accontentare di ciò che ci offre il sistema politico elitisticocompetitivo, si vedranno in un successivo capitolo (vedi infra capitolo 4) motivazioni più approfondite – e relativi suggerimenti operativi – per riportare in auge il profondo significato della parola democrazia, alla luce del fenomeno che ha segnato – e tuttora segna – la nostra vita e che tratterò nel seguente capitolo: la terza rivoluzione industriale o, più semplicemente, globalizzazione. 31 “Una nuova rivoluzione Capitolo politico-economica: 2 2.1 la globalizzazione” La terza rivoluzione industriale: l’era della globalizzazione e delle sue conseguenze I motivi per cui il concetto di democrazia elitistico-competitiva non può essere la tipologia di democrazia di cui ci possiamo “accontentare” al giorno d’oggi possono essere intesi solo alla luce della comprensione dei cambiamenti apportati dalla globalizzazione o terza rivoluzione industriale. Dare una definizione unica di ciò che la globalizzazione rappresenta è praticamente impossibile: sono molteplici, infatti, i punti di vista da cui essa può essere analizzata e descritta. Pertanto, proverò ad unire più spiegazioni, per ottenere una definizione più esaustiva possibile. Secondo Passini (2001), la globalizzazione può essere definita come: “il processo in seguito al quale gli Stati nazionali e la loro sovranità vengono condizionati e connessi da attori transnazionali, dal loro potere, dai loro orientamenti, identità e reti, con la conseguenza immediata per il cittadino della perdita dei confini tradizionali”. La globalizzazione tocca, infatti, diversi ambiti della vita dell’uomo – l’economia e il mercato, il mondo del lavoro, l’informazione, l’ecologia e la natura, la cultura e gli stili di vita – cercando di universalizzare e unificare, su scala mondiale, istituzioni, simboli e stili di comportamento, inglobando in se stessa la dimensione locale. Se si può sostenere che il concetto di globalizzazione sia nato prima ancora del termine con il quale viene indicato8 – con lo sviluppo della civiltà umana –, è altrettanto vero che la globalizzazione di oggi si differenzia da quella “originale” perché qualificata 8 Il termine globalizzazione venne coniato da Theodor Levitt nel 1983. Il fenomeno ebbe inizio nel novembre del 1975 con il primo summit del G6, la riunione dei 6 paesi più potenti del globo di allora. 32 principalmente dal suo carattere economico, ovvero dal livello di flussi finanziari e di capitale che costantemente circolano sul c.d. mercato globale. Si può, perciò, definire la globalizzazione anche come “il processo di integrazione crescente delle economie delle diverse aree del mondo, ossia il processo che riduce, ed eventualmente elimina, gli ostacoli che si frappongono alla libera circolazione di beni, servizi, capitali, persone e conoscenze”. Prima di approfondire il ragionamento in merito alla globalizzazione – in particolare quella economica – , vorrei soffermarmi sulle c.d. teorie del commercio internazionale, le quali hanno cercato di spiegare il fenomeno dell’internazionalizzazione delle relazioni economiche, ed elaborare una tassonomia delle suddette teorie, affinché sia di aiuto nella comprensione del fenomeno che andrò successivamente ad illustrare. 2.1.1 Le teorie del commercio internazionale Gli scambi tra nazioni hanno costituito uno dei primi oggetti di studio dell’economia e anche una delle aree in cui, fin da tempi remoti, si è concentrata l’attenzione dei governi. È sufficiente, del resto, ricordare il ruolo attribuito al commercio internazionale in una delle prime dottrine economiche: il mercantilismo (XVII – XVIII sec.), una dottrina economica “nazionalista”, che mirava a promuovere, attraverso l’intervento dello Stato, le industrie e il commercio nazionali, sviluppando in particolar modo le esportazioni di prodotti finiti e limitando le importazioni alle materie prime indispensabili. Il mercantilismo considera il monopolio sul mercato interno e il controllo delle rotte commerciali internazionali come garanzia di profitto individuale e di potere nazionale e li persegue con determinazione, tanto da rendere la politica commerciale e la politica estera spesso sinonimi. Le teorie del commercio internazionale sono giunte ad analizzare la realtà sopranazionale per tentare di dare una spiegazione al passaggio che si è verificato da un’economia chiusa ad un’economia aperta. Il cambio di prospettiva è dovuto all’ipotesi che alcuni fattori della produzione sono ritenuti mobili all’interno di un paese ma immobili tra paesi. In un’economia chiusa, l’equilibrio economico generale – e, quindi, una situazione di ottimo in senso paretiano – viene raggiunto nel momento in cui non c’è eccedenza della domanda di tutti i beni, mentre, in un’economia aperta, questa condizione non 33 deve essere necessariamente rispettata per ciascun paese separatamente considerato, bensì per il mondo nel suo complesso (Belloc, 2006). Le teorie degli scambi internazionali possono essere suddivise in (Padova, 2006): - quelle di stampo economico: le teorie tradizionali e le “nuove” teorie – in cui viene considerata l’ipotesi di concorrenza perfetta; - quelle sviluppatesi in tempi più recenti nell’ambito degli studi economicoaziendali – in cui non viene considerata l’ipotesi di concorrenza perfetta. Le teorie tradizionali Storicamente la teoria economica, più che sull’impresa “in sé”, ha concentrato l’attenzione sui flussi di commercio internazionale, ponendo al centro delle proprie riflessioni la ricerca delle cause che giustificano la loro esistenza. Le teorie tradizionali si suddividono in: a. teorie classiche: dei vantaggi assoluti (Smith), dei vantaggi comparati (Ricardo), della domanda reciproca (Mill); b. teorie neoclassiche: di Hecksher-Olhin e il relativo paradosso di Leontief. Inizialmente, Adam Smith affermava che la ricchezza di un paese fosse da ricercare nel concetto di “lavoro” come unico fattore in grado di creare un’eccedenza – surplus – e non più, quindi, negli scambi né nella terra. Secondo Smith, solo il lavoro è in grado di dare “valore all’eccedenza”. Scambiando, infatti, tale merce prodotta in eccesso all’interno con qualcos’altro di cui si ha necessità, si riesce ad aumentare la soddisfazione di tutti. Smith sosteneva che i progressi nascono dalla migliore divisione del lavoro e permettono una maggiore e più efficiente specializzazione rispetto alle capacità produttive di un paese, accrescendosi in tal modo il reddito e la ricchezza reali, oltre che creando sbocchi per l’eccedenza. In particolare, egli sosteneva che: “Se un paese estero può fornirci una merce più a buon mercato di quanto noi possiamo farlo, sarà meglio acquistarla da quel paese con una parte del prodotto della nostra industria, impiegata in un modo nel quale se ne tragga qualche vantaggio”. Prendendo ad esempio due beni come il “panno” e il “vino”, il vantaggio assoluto si avrà, pertanto, nei due casi evidenziati: 34 Merci Costi unitari di produzione in termini di (unità di) lavoro Inghilterra Portogallo Panno 3 10 Vino 6 5 David Ricardo (1817), padre della teoria dei vantaggi comparati, basa la sua dottrina sull’immobilità del lavoro tra paesi e sulla perfetta mobilità interna, ma, a differenza di Smith, per Ricardo, non contano tanto i vantaggi assoluti di costo, quanto quelli relativi (o, appunto, comparati). Nel modello ricardiano, ogni paese esporta i beni che produce in modo relativamente efficiente e importa i beni nella cui produzione è relativamente inefficiente. Per Ricardo, anche qualora un paese avesse un vantaggio assoluto in termini di produttività del lavoro in più settori, troverebbe conveniente specializzarsi nella produzione di un solo bene: quello in cui il suo vantaggio è proporzionalmente più elevato. I costi comparati possono essere definiti come “il rapporto tra i costi unitari assoluti delle due merci nello stesso paese – ragione di scambio interna (potere di acquisto di un bene rispetto ad un altro)”. La condizione necessaria affinché si realizzi uno scambio internazionale è l’esistenza di una differenza dei costi comparati che a sua volta riflette differenze esistenti nelle tecniche produttive; mentre la condizione sufficiente è che la ragione di scambio internazionale – il rapporto tra i costi unitari assoluti della medesima merce nei due paesi – sia compresa tra le ragioni di scambio interne dei due paesi, senza mai essere uguale ad alcuna delle due. Prendendo nuovamente come esempio i due beni, “panno” e “vino”: Merci Costi unitari di produzione in termini di (unità di) lavoro Inghilterra Portogallo Panno 100 90 Vino 120 80 è necessario calcolare: 1. i costi comparati per i singoli paesi, per verificare che la condizione necessaria sia rispettata: - costi comparati per l’Inghilterra: 100/120 = 0,833; 35 2. costi comparati per il Portogallo: 90/80 = 1,125; le ragioni di scambio internazionali per i singoli prodotti, per verificare che la condizione sufficiente sia rispettata: - ragione di scambio internazionale per il “panno”: 100/90 = 1,11; - ragione di scambio internazionale per il “vino”: 120/80 = 1,50. Poiché nel primo caso la condizione sufficiente è rispettata, a differenza del secondo caso, la conclusione dell’esempio è che l’Inghilterra dovrà produrre “panno” e acquistare “vino” dal Portogallo. Lo sviluppo industriale del XIX e dell’inizio del XX secolo ha rimesso, però, in discussione anche alcuni aspetti della teoria del vantaggio comparato: mentre questa assume che il valore della merce sia determinato unicamente dall’entità del fattore lavoro impiegato, il processo di meccanizzazione dell’industria fa emergere l’importanza del fattore capitale nella produzione. Il commercio internazionale non può dunque essere fatto risalire unicamente a differenze nella produttività del lavoro: le risorse di un paese e, più in generale, la dotazione di fattori produttivi giocano anch’esse un ruolo. Le principali critiche mosse alla teoria classica sono state: a. prima di tutto, il non spiegare le cause che determinano le differenze nei costi comparati, limitandosi ad assumerle come date; b. il supporre la costanza dei costi di produzione o l’assenza di rendimenti di scala (crescenti o decrescenti), ipotesi che non trova molto riscontro nella realtà; c. la mancanza di ogni considerazione circa l’aspetto della domanda; d. nella formulazione del modello si prescinde dalla moneta e, quindi, dai prezzi assoluti, dai salari e dal tasso di cambio; e. i costi unitari di produzione sono espressi in termini reali come quantità del lavoro incorporato in ogni unità prodotta, lavoro supposto perfettamente omogeneo. Ne consegue l’identità di salario fra i settori produttivi dello stesso paese. Alla luce di queste critiche e dei cambiamenti apportati dallo sviluppo industriale di quegli anni due economisti svedesi, Heckscher prima (1919) e Olhin poi (1933) hanno ripreso la teoria di Ricardo, adattandola tenendo conto dell’evoluzione industriale. Il modello neoclassico del commercio internazionale è una teoria basata sull’assunto che “ciascun paese esporta il bene la cui produzione richiede un impiego relativamente 36 più intenso del fattore di cui il paese ha una dotazione relativamente più abbondante, mentre tende ad importare l’altro bene”. Le ipotesi di base del modello sono: - l’esistenza di due paesi (A e B) in grado di produrre due beni (ad esempio, i soliti “panno” e “vino”) con l’impiego di due fattori produttivi (capitale e lavoro) disponibili in quantità limitate; - di operare in un regime di concorrenza perfetta – il che implica proporzionalità fra costi e prezzi dei beni; - l’immobilità internazionale dei fattori produttivi e la perfetta mobilità degli stessi all’interno di ogni paese; - l’assenza di costi di trasporto e di dazi doganali; - l’assenza di differenze tecnologiche fra i paesi – il che implica identità della funzione di produzione nei due paesi per lo stesso bene; - l’identità internazionale dei gusti dei consumatori e l’elasticità della domanda dei due beni rispetto al reddito pari ad uno9. I vantaggi comparati sono, in questa teoria, determinati dall’interazione fra le risorse di cui i paesi dispongono e le tecnologie di produzione. Nonostante i tentativi da parte dei due economisti di applicare il modello dei vantaggi comparati ricardiano alle peculiarità che ormai caratterizzavano il panorama economico industriale, anche questo modello è risultato presentare diverse imperfezioni e, di conseguenza, non può essere accettato come soddisfacente approssimazione della realtà. In particolare, sono state avanzate due critiche fondamentali: a. la prima riguarda la validità della maggior parte delle ipotesi sottostanti al modello, non solo troppo astratte ma addirittura contrarie a ciò che l’esperienza quotidiana mostra essere la regola; b. la seconda fa riferimento all’eccessiva staticità del modello stesso (viene, ad esempio, del tutto ignorato il ruolo del progresso tecnico). Da un punto di vista empirico, è stato dimostrato da Leontief (1954) attraverso una ricerca condotta agli inizi degli anni Cinquanta sulle esportazioni statunitensi che queste contenevano più lavoro, rispetto al capitale, dei beni prodotti in concorrenza con le importazioni. Leontief notò come gli Stati Uniti, ricchi di capitale, esportassero prevalentemente beni per i quali la proporzione di lavoro rispetto al capitale era più 9 Quando si ha elasticità della domanda rispetto al reddito pari ad uno significa che la variazione percentuale del reddito determina la stessa variazione percentuale della quantità domandata del bene (Varian, 2002). 37 elevata. La qual cosa è in netta contraddizione con il teorema di Heckscher-Olhin (da qui l’appellativo di paradosso di Leontief). Dal lavoro di Leontief scaturì un ampio dibattito; semplificando al massimo la spiegazione del paradosso: - nel periodo preso in esame, la produttività del lavoro statunitense era molto più elevata di quella del lavoro estero e ciò faceva sì che fosse proprio il lavoro il fattore più abbondante negli Stati Uniti; - nel valutare il lavoro si deve tenere conto anche della sua “qualità”; - non è corretto considerare solo il capitale fisico, tralasciando, ad esempio, il ruolo delle materie prime, il cui commercio è essenzialmente regolato dalla loro distribuzione sul territorio. Il risultato è che il paradosso di Leontief non può essere considerato una costante, ma deve essere accertato paese per paese e di periodo in periodo. Passando ad una critica più generale delle teorie tradizionali, la ragione principale che mette in discussione tutto il filone di teorie fin qui considerate è quella relativa all’infondatezza delle ipotesi sottostanti. Nelle teorie tradizionali, i fattori di produzione sono immobili fra i paesi; i mercati sono trasparenti – informazione perfetta e omogeneità tra i consumatori di paesi differenti; le imprese operano con identiche conoscenze e tecnologie; non esistono barriere all’entrata né economie di scala; la concorrenza è unicamente basata sul prezzo; infine, vi è pieno impiego dei fattori produttivi. Se, alla luce delle dinamiche evolutive che connotano l’attuale ondata di globalizzazione, alcune di tali ipotesi potrebbero non essere oggi così importanti, rimane tuttavia una limitazione invalicabile: la teoria si concentra sul commercio di merci tra paesi senza alcuna considerazione delle imprese come soggetti competitivi. Non viene considerata, cioè, l’impresa industriale, soggetto imprescindibile per descrivere la realtà di un mercato “imperfettamente concorrenziale”. Le “nuove” teorie Come si è appena sostenuto, la formulazione dei modelli tradizionali non corrisponde alla realtà dei mercati “imperfettamente concorrenziali”, in cui i “divari tecnologici” spiegano la diffusione e i ritardi fra le imprese e fra i paesi nella specializzazione produttiva, le tecnologie e le informazioni non sono liberamente disponibili e la 38 differenziazione e la diversificazione dei prodotti giocano un ruolo rilevante per sfruttare le economie di scala e innalzare le barriere all’entrata. Le c.d. “nuove” teorie, nate quale risposta agli interrogativi posti dal paradosso di Leontief ed, in parte, dai tentativi di spiegare fenomeni quali il diffondersi delle imprese multinazionali ed il crescente ruolo assunto dagli Stati Uniti all’interno degli scambi mondiali, sono: - la teoria del gap tecnologico di Posner; - la teoria del ciclo di vita internazionale del prodotto di Hirsh e Vernon; - la teoria della domanda rappresentativa di Linder. La teoria del gap tecnologico pone enfasi sul ruolo svolto dai cambiamenti tecnologici e sui pattern of trade dei prodotti “nuovi”. Si deve a Posner, in un articolo del 1961, la prima esplicita formulazione della teoria successivamente definita del “gap tecnologico”. Le ipotesi del modello sono: - i due paesi hanno le stesse proporzioni – dotazioni – di fattori produttivi; - identici prezzi assoluti e relativi dei fattori; - identiche strutture di domanda; - assenza di costi di trasporto. L’analisi di Posner consiste nella descrizione del processo dinamico con cui i prodotti e i processi si rinnovano continuamente e le tecnologie esistenti si trasferiscono gradualmente ad altri paesi. Posner sostiene che i vantaggi comparati di un paese rispetto ad un altro (cioè le differenze di costo comparato) non dipendono da dotazioni e prezzi bensì da quello che lui definisce vantaggio tecnologico: sono la creazione e lo sviluppo di innovazioni di processo e di prodotto – tasso di innovazione dei settori – che hanno luogo in un dato paese e non in altri a mettere in moto flussi di commercio internazionale ed a condurre il paese innovatore in una posizione di vantaggio monopolistico. Tale vantaggio ha però una durata limitata al periodo di tempo necessario per l’imitazione delle nuove tecnologie da parte dei paesi inseguitori (monopolio temporaneo). La durata della posizione monopolistica detenuta dal settore innovatore è definita dalla differenza fra il tempo necessario alle imprese straniere per imitare i nuovi 39 processi produttivi (imitation lag)10 e il tempo necessario ai consumatori esteri per manifestare la domanda di nuovi prodotti (foreign demand lag). Inoltre, i produttori che operano nel paese innovatore possono trarre vantaggio dalle economie di scala, le quali possono ritardare il processo imitativo. Con le economie di scala, l’effetto di una prima innovazione può stimolare una concentrazione degli investimenti nel settore, la quale determina un aumento del tasso di progresso tecnico e, dunque, un flusso continuo di nuove innovazioni e di nuovi prodotti. In questo modo, avvenuta l’imitazione, anche se le esportazioni tenderanno a cessare, il modello potrà generare un flusso costante nel tempo di commercio a senso unico se si ipotizza non già una innovazione singola, ma un flusso di innovazioni nel tempo (vedi Figura 1 – Andamenti temporali della produzione e del commercio in un paese imitatore – paese innovatore). Produzione PAESE INNOVATORE PAESE IMITATORE Esportazioni t0 t1 t2 t3 Produzione Esportazioni Fig. 1 – Andamenti temporali della produzione e del commercio in un paese imitatore-paese innovatore Seppur all’apparenza il modello appaia adatto alla realtà di alcuni flussi commerciali odierni, esso non spiega le ragioni per le quali specifiche innovazioni – che pure 10 A sua volta, l’imitation lag sarà determinato dalla disponibilità di vie d’imitazione, dalla prontezza dei produttori locali a rendersi conto della possibilità di una futura minaccia al loro mercato non appena l’innovazione ha luogo nel paese originario (sì che la produzione locale potrebbe iniziare prima che abbia luogo il flusso d’importazioni dal paese innovatore) e dal grado di concorrenza vigente nel settore nazionale (quanto minore è tale concorrenza, tanto meno i produttori locali tenderanno a preoccuparsi della possibilità di importazioni e tanto meno stimolati saranno a trovare vie d’imitazione) (Valdani, Bertoli, 2003). 40 costituiscono l’elemento trainante di tutto il modello – sono inizialmente sviluppate da certi paesi piuttosto che da altri. Ancora, per prodotti ormai vecchi è dubbio che sia ragionevole imputare le differenze temporali d’inizio della produzione come causa delle attuali disparità tecnologiche. Inoltre, nel modello le date di inizio della produzione e il tempo necessario per le imitazioni si riferiscono soltanto alla prima impresa produttrice di ogni paese, mentre non si parla delle attività delle imprese successive. Infine, Posner trascura completamente il fenomeno delle imprese multinazionali: non spiega cioè perché l’impresa innovatrice non scelga di sfruttare direttamente i vantaggi derivanti dalla possibilità di minimizzare i costi di produzione andando essa stessa a produrre nel paese dove quei costi sono minori. La superiorità tecnologica di un paese in una determinata produzione non dipende tanto dalla capacità innovativa del paese intesa nel senso di iniziale produzione di un nuovo bene o di sfruttamento di un nuovo processo produttivo, quanto piuttosto dalla sua capacità di diffusione dell’innovazione tecnologica, ossia dalla misura e dalla rapidità con cui l’innovazione, nazionale o estera, si diffonde all’interno del paese tra le aziende di un dato settore. Nel 1967, Hirsch rielabora la teoria di Posner attraverso la nozione di “ciclo di vita internazionale del prodotto”. Egli sottolinea come col tempo la tecnologia di produzione di un nuovo bene si vada progressivamente standardizzando e come questo comporti delle modificazioni nelle intensità e nella qualità dei fattori impiegati nella sua produzione. Nella fase iniziale di produzione e sviluppo di un prodotto nuovo, questo richiede tecniche ad alta intensità di lavoro qualificato; mano a mano che aumenta la scala produttiva, alle imprese conviene utilizzare macchinari specializzati, capaci di abbreviare al massimo i tempi di produzione. Quando poi il prodotto è maturo e le tecnologie standardizzate, diviene particolarmente importante la disponibilità di lavoro non qualificato. Vernon (1966) giunge a conclusioni molto simili a quelle di Hirsch, partendo però da ipotesi diverse. Nel suo modello, come Hirsch, assume che siano tre le fasi attraverso le quali si può riassumere la vita di un prodotto, ma nell’esaminarle si sofferma sulle caratteristiche della domanda, piuttosto che su quelle dell’offerta. 41 L’ipotesi di base è che, pur essendoci eguali possibilità per le imprese dei paesi sviluppati di accedere alla conoscenza scientifica, non si abbiano uguali probabilità che tali principi vengano applicati nell’elaborazione di nuovi prodotti e che fondamentale sia il ruolo del mercato interno: esso funge non solo da stimolo per l’impresa innovatrice, ma anche da localizzazione preferita per il processo produttivo. Vernon sostiene che la capacità degli imprenditori di trovare le opportunità di applicazione delle conoscenze scientifiche e la rapidità nel coglierne le implicazioni siano influenzate dalla “facilità di comunicazione con i mercati di sbocco” (che a sua volta può ipotizzarsi come variabile dipendente dalla vicinanza geografica). Ciò implica che per ciascun imprenditore è più facile rendersi conto delle possibilità di lanciare nuovi prodotti nel mercato in cui opera che non in mercati in cui non è presente. Inoltre, secondo Vernon, la domanda di nuovi beni di consumo (manufatti) si manifesta più facilmente in paesi ad elevato reddito pro-capite. Con l’espandersi della domanda del prodotto si raggiunge un certo grado di standardizzazione e l’importanza dei costi di produzione comincia a prevalere su quella delle caratteristiche del prodotto. Nel contempo, è probabile che una certa domanda del nuovo prodotto cominci ad apparire anche in altri mercati. Finché il costo marginale di produzione sommato al costo di trasporto dei beni esportati è inferiore al costo medio previsto per produrre nel mercato di importazione, è probabile che i produttori preferiscano evitare l’investimento diretto all’estero, ma influiscono sulla decisione eventuali barriere doganali e la comparsa, nei paesi importatori, di produttori locali del bene. Di fronte ad un prodotto “maturo”, cioè altamente standardizzato (il che significa, da un lato, impianti ad alta intensità di capitale e poco flessibili tecnologicamente e, dall’altro, elevata elasticità della domanda rispetto al prezzo), la competitività si sposta sul prezzo. A queste condizioni, l’area dei PVS può costituire una localizzazione vantaggiosa. In questo modello non si tiene conto solo dei ritardi di domanda e di imitazione messi in luce da Posner, bensì si esplicitano le caratteristiche della domanda, delle funzioni di produzione che mutano lungo il ciclo di vita, e del connesso mutare del mix dei fattori utilizzati. 42 Nonostante questa teoria abbia ben spiegato l’espansione del commercio mondiale nel secondo dopoguerra – guidato dagli Stati Uniti – non sono mancate le critiche, anche da parte dello stesso Vernon. Innanzitutto, si è rilevato che essa offre una spiegazione dell’origine dei vantaggi comparati limitata alla considerazione di un segmento particolare, quello de prodotti manufatti, ossia quelli concepiti per soddisfare consumatori ricchi e rispondere al bisogno di risparmiare lavoro. In secondo luogo, Vernon non ha considerato come le imprese localizzate in paesi poco dotati di materie prime fossero interessate ad introdurre innovazioni volte a risparmiare materie prime piuttosto che lavoro. Al di là di queste limitazioni concettuali, comunque, la capacità esplicativa della teoria ha nel tempo subito un logoramento, a causa dei profondi cambiamenti dell’ambiente internazionale: l’assunto, infatti, che la maggior parte delle innovazioni tecnologiche provenissero da un unico paese in generale, e dagli Stati Uniti in particolare, è stato superato con l’affermazione delle imprese giapponesi ed europee sui mercati mondiali. Inoltre, la maggior parte delle aziende multinazionali, avendo già sviluppato una dimensione internazionale, pianificano la produzione dei prodotti per soddisfare contemporaneamente differenti mercati, contrastando così l’ipotesi del modello che voleva che i nuovi prodotti sviluppati dalle imprese fossero pensati per soddisfare le esigenze della domanda presente in un paese e, solo successivamente, anche di altri mercati. Infine, si rende necessario tenere conto che buona parte dei processi di sviluppo internazionale avvengono mediante acquisizioni di imprese già operanti o tramite alleanze con altre imprese e che non si tratta solamente di grandi imprese multinazionali, ma che la realtà economica è sempre più figurata anche da una miriade di piccole imprese dinamiche che possono operare con una visione globale. Il passo successivo nelle teorie del commercio internazionale è stato realizzato da Linder, il quale sostiene che il commercio dei manufatti è determinato non tanto da differenze nelle condizioni di offerta quanto da somiglianze nelle condizioni della domanda. La proposizione di base è che: “perché un prodotto venga consumato – o usato come bene di investimento – in un paese, occorre che vi sia una domanda per tale prodotto […]”. 43 E poiché il commercio internazionale non è altro che l’estensione dell’attività economica di un paese al di là delle frontiere nazionali, condizione necessaria ma non sufficiente affinché il prodotto sia potenzialmente esportabile è che vi sia una domanda interna “rappresentativa” di tale prodotto. È difficile che un imprenditore concepisca di soddisfare un bisogno che non esiste nel proprio paese, in quanto agisce in un mondo di conoscenza imperfetta; anche se questo bisogno esterno potesse essere percepito, potrebbe essere difficile concepire il prodotto adatto a soddisfare tale bisogno. Infine, anche se riuscisse a concepirlo, sarebbe ancora improbabile che tale prodotto possa alla fine venire adattato a condizioni non familiari senza incorrere in costi proibitivi. Per individuare in quali tipi di paesi si può sviluppare un intenso flusso commerciale, è necessario prima verificare quali fattori determinano la struttura della domanda, tra cui: il clima, la cultura, i gusti nazionali, il reddito pro-capite, la distribuzione del reddito, ecc. Linder sostiene, però, che il più importante di tali fattori sia il livello medio di reddito, in quanto la somiglianza dei livelli medi di reddito potrebbe essere usata come un indice di somiglianza delle strutture di domanda. Le differenze nel reddito pro-capite possono essere un potenziale ostacolo al commercio. Secondo Linder, sono le possibilità pressoché illimitate di differenziazione (reale o presunta) dei prodotti a rendere possibile il commercio di beni sostanzialmente identici. In assenza di differenziazione dei prodotti, la spiegazione dei vantaggi comparati andrà cercata nei vantaggi nella lavorazione di materie prime disponibili in grandi quantità, nella superiorità tecnologica, nella capacità manageriale e nelle economie di scala. La teoria linderiana, pur fondandosi su ipotesi più aderenti alla realtà rispetto alle precedenti, è stata oggetto di numerosi rilievi critici: uno dei limiti più importanti della sua analisi pare derivare dal fatto di non tenere sufficientemente in conto il ruolo delle imprese multinazionali e della loro capacità di attuare un’integrazione verticale a livello internazionale del processo produttivo. Essa si riduce, in sostanza, alla tesi che i più rilevanti flussi di scambio di beni manufatti avranno luogo tra paesi con livelli di reddito pro-capite più simili; ma una volta identificati i paesi che con più probabilità si scambieranno beni, il modello non 44 spiega la composizione merceologica dello scambio tra paesi: non spiega, cioè, quali prodotti ciascun paese venderà all’altro. Le teorie economico-aziendali (o degli investimenti diretti esteri – IDE) Le teorie degli investimenti diretti esteri (IDE) si propongono di spiegare le determinanti dei movimenti internazionali di capitale. Esistono due gruppi di teorie a proposito: a. quelle che si basano sulle ipotesi di concorrenza perfetta: - teoria dei differenziali nei tassi di rendimento; - teoria della diversificazione di portafoglio; b. quelle che si basano sulle ipotesi di imperfezione dei mercati: - teoria economico-industriale di Hymer; - teoria dell’ “internalizzazione” dei mercati di Coase e Williamson; - il paradigma “eclettico” di Dunning; - teoria della rivalità oligopolistica di Knickerbocker; - la scuola giapponese di Kojima e Ozawa. Innanzitutto, la teoria dei differenziali nei tassi di rendimento afferma che l’investimento diretto estero è il risultato di un processo di trasferimento dei capitali in paesi a basso tasso di redditività a paesi a redditività superiore. Se il costo del capitale è uguale, l’impresa ha convenienza ad investire nel paese dove si aspetta di ottenere rendimenti più elevati. Questa teoria poteva essere veritiera nei primi anni del dopoguerra, ma con il tempo, soprattutto negli anni a noi più vicini, ha perso in rilevanza. La spiegazione che si riconduce alla teoria della diversificazione di portafoglio afferma che, nella scelta fra differenti alternative di investimento, un’impresa è presumibilmente guidata sia dalle aspettative di rendimento, sia dal tentativo di abbassare la soglia di rischio. In quest’ottica, gli investimenti diretti esteri sono intesi come una diversificazione internazionale del portafoglio aziendale. L’introduzione della variabile “rischio” rende indubbiamente tale approccio più completo di quello precedente, riuscendo in parte a spiegare perché un paese possa contemporaneamente generare flussi di investimento in entrata e in uscita. Tuttavia, quest’approccio non è in grado di interpretare le differenti propensioni mostrate da determinati settori e imprese ad investire all’estero. 45 Negli ultimi trent’anni si è cambiata prospettiva di analisi: sia la struttura dei mercati sia le strategie delle imprese hanno assunto un ruolo-chiave nella spiegazione delle ragioni degli IDE. Per primo, Hymer (1976) pose il problema di verificare quando le imprese preferiscono realizzare investimenti diretti all’estero, finalizzati alla produzione in loco, piuttosto che continuare ad esportare fabbricati nel paese di origine. Secondo Hymer, l’impresa ha l’obiettivo di accrescere il proprio potere di mercato; l’incremento della quota di mercato è collegata alla capacità di erigere e mantenere barriere all’ingresso – possesso di vantaggi competitivi di varia natura. L’aumento della quota di mercato permette di creare e accrescere situazioni di oligopolio in modo da aumentare i profitti. Hymer si chiede, allora, perché un’impresa decide di sfruttare il proprio vantaggio competitivo attraverso l’investimento diretto estero, anziché “venderlo” ad un’impresa locale mediante qualche forma di accordo contrattuale. Il parere di Hymer è che un’impresa che decida di costituire una consociata all’estero è destinata a: - incontrare una serie di svantaggi competitivi confrontandosi con imprese locali; - subire possibili discriminazioni da parte dei governi o di altri stakeholders locali nei confronti delle imprese straniere. Inoltre, le imprese nazionali hanno una migliore conoscenza di alcuni aspetti competitivi fondamentali quali, per esempio: - i comportamenti e le aspettative della domanda; - gli standard tecnologici e i parametri nella qualità del servizio; - le normative vigenti. La convenienza derivante dagli IDE è riconducibile principalmente al possesso, da parte dell’impresa, di vantaggi di tipo oligopolistico riproposti dall’impresa stessa su scala internazionale: essa, cioè, dovrà usufruire di vantaggi competitivi rispetto alle imprese locali in misura tale da compensare i maggiori costi sostenuti e neutralizzare gli svantaggi sofferti. In mercati oligopolistici, “imperfetti”, dove l’impresa gode di vantaggi competitivi, l’investimento diretto acquista invece significato. 46 Secondo Hymer, un’altra possibile causa alla base dello sfruttamento degli IDE è la rimozione o la prevenzione di possibili conflitti tra imprese di diversa nazionalità all’interno dei settori oligopolistici. Nonostante con l’analisi di Hymer la teoria dell’internazionalizzazione abbia compiuto senza dubbio – anche da un punto di vista empirico – un significativo passo avanti, il modello porta con sé dei limiti, presupponendo l’esistenza di vantaggi oligopolistici e studiandone le modalità di sfruttamento, senza però porre attenzione ai processi di generazione di tali vantaggi, né al vantaggio “in sé” che deriva all’impresa dall’essere internazionale. Inoltre, la teoria non è ancora in grado di spiegare perché un’impresa che disponga di vantaggi competitivi interni debba decidere di investire all’estero, né perché scelga tale opzione di sviluppo internazionale fra le varie possibili. La successiva teoria, quella di Coase e Williamson (teoria dell’internalizzazione dei mercati) afferma che gli oneri collegati allo svolgimento di una transazione possono variare a seconda che questa avvenga fra: - due entità economiche indipendenti tra loro (scambi di mercato); - due entità organizzate sottoposte al medesimo centro di controllo gerarchico (scambi interni all’impresa). L’elemento che influenza i costi di transazione è costituito dall’efficienza relativa dei mercati ovvero dalle loro distorsioni (market failure): - imperfezioni di tipo strutturale: barriere alla competizione che conducono all’oligopolio o al monopolio (già evidenziate da Hymer); - imperfezioni di tipo naturale: discendono invece dal fatto che i soggetti che realizzano lo scambio non dispongono di una conoscenza a priori piena e reciproca delle condizioni della transazione (asimmetria informativa – più nello specifico, selezione avversa) oppure dal fatto che la stesura delle condizioni contrattuali e/o l’azione coercitiva per il rispetto delle stesse può essere molto difficile. Ove i mercati siano fortemente imperfetti, la realizzazione di una transazione tra unità economiche indipendenti non è conveniente, a causa: - dei costi associati alla ricerca della controparte; - alla redazione del contratto; - al controllo e all’eventuale sanzionamento della parte inadempiente. 47 In presenza di tali condizioni (i c.d. costi di transazione), l’impresa può reputare conveniente optare per l’internalizzazione della transazione. Quando il processo di internalizzazione dei mercati supera i confini nazionali, si origina l’impresa internazionale. Secondo questa teoria, le imprese multinazionali sorgono con l’obiettivo di ridurre i costi delle transazioni che si originano dall’imperfezione naturale dei mercati, ponendo gli scambi sotto il controllo di strutture dotate di potere gerarchico unitario (creazione di mercati interni). Alla riduzione dei costi di transazione fanno naturalmente da contraltare i costi dell’internalizzazione, i quali comprendono: - le maggiori spese amministrative e di comunicazione interna; - i costi di coordinamento organizzativo e di controllo; - gli oneri determinati da politiche discriminatorie dei governi locali nei confronti delle imprese straniere. La teoria sconta una difficoltà di fondo nella verifica delle ipotesi ed è stata tacciata da alcuni studiosi di essere troppo generica o addirittura tautologica. Essa, inoltre, non è interessata alle modalità con cui le imprese generano i vantaggi competitivi, ma solo alle modalità di contenimento dei costi delle transazioni; così facendo, non si riescono a cogliere importanti aspetti delle strategie delle imprese. L’inglese Dunning (1981) ha cercato di sviluppare un approccio integrato, che egli stesso ha definito “paradigma eclettico”, che racchiudesse le tre principali linee di pensiero in tema di investimento diretto estero: la teoria dell’economia industriale, quella dell’internalizzazione e quella della localizzazione. Il paradigma proposto adotta una definizione di “attività internazionale” molto ampia: “qualsiasi attività generatrice di valore posseduta o controllata da un’impresa e posta al di fuori del paese d’origine dell’impresa stessa che tiene conto delle nuove modalità con cui le imprese, negli ultimi tempi, hanno sviluppato – attraverso alleanze, accordi cooperativi e vari altri strumenti – strategie di controllo su segmenti della catena del valore posti al di fuori dei confini del paese d’origine”. Secondo questo paradigma, un’impresa intenzionata ad avviare un processo di internazionalizzazione deve essere in grado di soddisfare tre condizioni necessarie e consequenziali: 48 1. ownership advantages: l’impresa deve poter disporre di vantaggi competitivi di proprietà nei confronti delle imprese concorrenti, persistenti nel tempo; 2. internalizations advantages: i vantaggi esclusivi posseduti devono essere impiegati al meglio dall’impresa all’interno della propria organizzazione piuttosto che attraverso il mercato, concedendone la facoltà di utilizzo ad altre imprese indipendenti attraverso scambi di mercato; 3. locational advantages: l’impresa deve trovare conveniente l’impiego di tali vantaggi in combinazione almeno con qualche fattore di produzione localizzato nel paese di destinazione dell’investimento, poiché se così non fosse i mercati potrebbero essere serviti esclusivamente attraverso flussi di esportazione. In sintesi, affinché abbia luogo un IDE, è condizione necessaria che l’impresa detenga vantaggi competitivi e di internazionalizzazione, mentre il paese-ospite goda di vantaggi di localizzazione superiori al paese di origine dell’impresa. Tuttavia, la “teoria eclettica” appare, per la sua indeterminatezza, solo una griglia d’interpretazione, uno schema di analisi dei fenomeni di internazionalizzazione e non come una vera teoria in grado di spiegare il processo stesso per quello che riguarda modalità, dimensioni, motivazioni e tempi della decisione di internazionalizzarsi. Secondo la teoria della rivalità oligopolistica elaborata da Knickerbocker nel 1973, la decisione di investire all’estero da parte di un’impresa è il frutto di una reazione strategica agli investimenti all’estero realizzati dai concorrenti, che può essere suddivisa in: - strategia follow the leader: nei settori caratterizzati da un elevato livello di concentrazione, la decisione d’investire all’estero da parte di un’impresa spingerà i concorrenti di riferimento ad adottare comportamenti simili, al fine di mantenere le proprie quote di mercato; - strategia exchange of threat: stessa logica quando l’IDE risulta dalla reazione di un’impresa all’entrata, anche soltanto minacciata, nel proprio mercato da un concorrente diretto; contromossa che prende la forma d’ingresso nel mercato del concorrente. Alla teoria della rivalità oligopolistica vengono rivolte due critiche fondamentali: innanzitutto, non contempla modalità alternative agli IDE nei processi di sviluppo internazionale; in secondo luogo, non spiega validamente le ragioni del primo investimento, la mossa iniziale che scatena poi il processo di reazione. Di conseguenza, la spiegazione delle dinamiche di internazionalizzazione può dirsi solo parziale. 49 Nondimeno, alla teoria va riconosciuto il merito di introdurre considerazioni relative alla strategia competitiva delle imprese. Infine, Kojima (1978) e Ozawa (1979) hanno cercato di delineare le differenze nei processi di investimento all’estero delle piccole e medie imprese (PMI) giapponesi verso il Sud-Est asiatico poste a confronto con l’espansione delle imprese statunitensi in Europa, evidenziandone le differenze. Le operazioni estere delle imprese americane e inglesi assumono la forma di investimenti diretti: - perché esse non intendono perdere il controllo delle basi concorrenziali che sono all’origine dell’investimento; - per la necessità da parte di tali imprese di trasferire all’estero produzioni per cui godono di vantaggi tecnologici, al fine di sfruttare maggiormente le proprie risorse nel paese di destinazione e di superare le barriere tariffarie che rendono non competitive le esportazioni. Le imprese nipponiche che si internazionalizzano, a differenza di quelle americane, sono: - generalmente di piccole e medie dimensioni; - operanti in settori maturi; - relativamente svantaggiate quanto a dotazione di fattori in generale e al fattore lavoro in particolare. Per queste imprese, la scelta dell’investimento diretto è spesso nei fatti non percorribile per mancanza di risorse manageriali o di capitale, per cui anche modalità d’internazionalizzazione di tipo cooperativo possono essere contemplate se sono in grado di permettere l’acquisizione dei fattori a costi contenuti. In assenza di vantaggi di tipo tecnologico (a livello di prodotto o di processo), ciò che conta è la ricerca di condizioni più favorevoli rispetto a quelle presenti sul mercato domestico. Per quanto concerne i paesi di destinazione degli investimenti, la variabile considerata è quella dell’atteggiamento delle pubbliche autorità nei confronti dei capitali esteri: quanto più questo atteggiamento è di tipo liberista, tanto minori sono i vincoli posti alle imprese operanti nel paese e tanto più alta risulta la possibilità di realizzare investimenti diretti a controllo assoluto. A partire dagli anni Ottanta, il percorso evolutivo delle imprese in questione, però, si è progressivamente allontanato dal modello proposto dai due studiosi giapponesi. 50 Le protagoniste del processo d’internazionalizzazione non sono più solo le imprese minori, ma anche e soprattutto quelle di grandi dimensioni, operanti in settori tecnologicamente avanzati e le cui modalità d’internazionalizzazione hanno ricalcato il classico modello dell’IDE. Inoltre, questi investimenti sono indirizzati in misura maggiore verso i paesi sviluppati che non verso i PVS. Di conseguenza, anche la validità della teoria proposta da Kojima e Ozawa è risultata indebolita. 2.1.2 La globalizzazione economica: caratteristiche distintive La globalizzazione economica è la conseguenza di un progetto di visione del mondo e dell’economia portato avanti da attori politici, istituzioni e coalizioni transnazionali, basato sul libero scambio sia degli output che degli input (capitale e lavoro): nasce perciò da una scelta di tipo politico, nella quale viene definito il processo di liberalizzazione dei mercati capitali e di privatizzazione della proprietà pubblica dello Stato, che viene ceduta ai privati. In termini più canonici, può essere definita come: “una fase del capitalismo moderno, iniziata negli anni Ottanta e caratterizzata da una crescente integrazione internazionale delle attività economiche sia nelle forme tradizionali – commercio ed investimenti diretti all’estero – sia in forma nuove – investimenti finanziari, speculazioni sui cambi, commercio nei servizi, accordi di cooperazione tra imprese, flussi di tecnologia”. Ma questo non significa, allora, che se la globalizzazione nasce da un fatto politico, essa “può anche” (o forse sarebbe meglio dire, “dovrebbe soprattutto”) essere governata attraverso la politica e le scelte prese all’interno di essa? Lascio per un momento in sospeso questa domanda e faccio un piccolo passo indietro, perché, per comprendere il processo di globalizzazione nel suo profondo, è imprescindibile evidenziare gli elementi che la differenziano rispetto al più antico e noto fenomeno dell’internazionalizzazione delle relazioni economiche (vedi supra par. 2.1.1) e cioè (Zamagni, 2005a): 1. la destrutturazione dei modi di organizzare l’attività produttiva e del modo di concepire i rapporti tra politica ed economia; 2. l’aumento a livello globale della ricchezza e del reddito prodotti che riduce la povertà assoluta, da un lato, e aumenta la povertà relativa, dall’altro; 3. la tendenza all’omologazione culturale. 51 La destrutturazione dell’organizzazione produttiva e dei rapporti tra politica ed economia Innanzitutto, sempre più viene a mancare una corrispondenza biunivoca tra il luogo in cui vengono prese le decisioni produttive e il luogo in cui viene realizzata l’attività produttiva: si vanno a verificare di conseguenza degli effetti diretti. La tendenza a realizzare la produzione fuori del paese di nazionalità dell’impresa – solitamente per motivi legati all’abbattimento dei costi di produzione – va sotto il nome di delocalizzazione dell’attività produttiva: essa implica una sottrazione della responsabilità dell’imprenditore nei confronti dell’ambiente circostante, che si traduce in una diminuzione di responsabilità verso i propri stakeholders. In secondo luogo, la globalizzazione ha destrutturato il rapporto tra politica ed economia. Fino agli anni Settanta del XX secolo fu sempre il potere politico a fissare le priorità dell’attività economica: infatti, i paesi più avanzati da un punto di vista economico sono sempre stati quelli che hanno avuto alle spalle governi stabili ed autorevoli. Ad oggi, invece, i governi nazionali si vedono costretti a cedere quote di sovranità ad altri soggetti emergenti dalla società, oltre che dall’economia, con il risultato che le decisioni economiche tendono a sovrastare le decisioni di natura politica. La globalizzazione consente alle imprese di riprendersi un potere d’azione che in passato venne “addomesticato” dagli strumenti della politica, permettendo loro di esercitare oggi la propria influenza sia sull’organizzazione economica che politica (Screpanti, Zamagni, 2004). La conseguenza è una restrizione dei “gradi di libertà” nelle scelte degli Statinazione (tra loro sempre più vulnerabili e interdipendenti) in merito a: - politica estera; - sicurezza militare; - servizi sociali; - organismi di controllo; - tasse. Quello che è accaduto con la globalizzazione è, in altre parole, un affievolirsi della capacità degli strumenti (fiscale, monetario e del tasso di cambio) a servizio della politica per indirizzare l’economia. È anche vero, che non si può affermare che le istituzioni economiche internazionali abbiano, da sole, delegittimato del proprio potere le istituzioni politiche: è stato un 52 percorso, la cui partenza coincide proprio con le decisioni politiche deliberate dai governi dei paesi più ricchi. A partire dalla Gran Bretagna di Margaret Thatcher e dagli Stati Uniti di Ronald Regan, gli anni Ottanta hanno visto un’ondata di politiche di liberalizzazione dei mercati, di deregolamentazione e di privatizzazione di molte attività economiche precedentemente gestite dallo Stato. Il risultato è stato un ritiro dell’azione pubblica e dei controlli da parte degli Stati-nazione su molte attività economiche, lasciate all’attività delle imprese sia nazionali che straniere. Le decisioni politiche di liberalizzare i mercati, il commercio, gli investimenti e la finanza hanno creato le condizioni per sviluppare queste attività sempre più su scala sovranazionale, svuotando rapidamente le capacità di controllo dei governi nazionali sulle proprie economie (Pianta, 2000). In questo modo, i poteri privati ci impongono, spesso senza neanche un dibattito politico, il nuovo ritmo del cambiamento, gli orientamenti del progresso economico e tecnico e la loro occupazione dei domini non commerciali (De Woot, 2001). Sembra che tutto avvenga come se la globalizzazione s’imponesse agli Stati senza lasciare neanche la libertà di scegliere il tipo di economia di mercato conveniente al proprio paese. Ad oggi, l’interesse dello Stato a conservare la sua quota di sovranità sul territorio non coincide di necessità con l’interesse delle imprese a muoversi liberamente sui mercati internazionali alla ricerca delle migliori opportunità di profitto, né con l’interesse dei cittadini ad ottenere qualità migliori di prodotti di cui fanno domanda e soprattutto ad acquisire più ampi spazi di autogoverno del territorio (Zamagni, 2005a). La diminuzione di povertà assoluta, l’aumento di povertà relativa La globalizzazione ha portato come conseguenza l’aumento della diseguaglianza tra diversi paesi o fasce della popolazione. Il mercato globale sembra aver diviso i cittadini/lavoratori in due grandi categorie (Passini, 2001): i ricchi globalizzati, cittadini di “serie A”, dotati di risorse, competenze, conoscenze ed informazioni; i poveri localizzati, cittadini di “serie B”, ricchi solo di instabilità e svolgenti attività precarie sufficienti appena a garantire un reddito di sopravvivenza. 53 Per comprendere il fenomeno appena descritto, si può fare riferimento al concetto di povertà, sia in termini assoluti che in termini relativi. Secondo la definizione della Banca Mondiale, la povertà assoluta può essere definita come: “la condizione di persone che non possono contare su un reddito giornaliero superiore ad uno (povertà estrema) o due (povertà assoluta in senso proprio) dollari procapite”. La povertà assoluta può essere ridotta non solo con la crescita del reddito medio, ma anche attraverso delle politiche volte ad ottenere il riequilibrio sociale, ossia la riduzione della distanza economica tra le classi più ricche ed il resto della popolazione (Boggio, Seravalli, 2003). C’è chi afferma che questa situazione scandalosa sia frutto della globalizzazione: è stato stimato, invece, che, se negli ultimi 25 anni essa non avesse iniziato ad operare, i poveri assoluti oggi sarebbero oltre un miliardo e 800 milioni (contro il miliardo e 200 milioni contati ad oggi). Paesi come quelli del Sud-Est Asiatico e alcuni paesi dell’America Latina sono usciti dallo stato di povertà assoluta – in cui versavano da secoli – solo a seguito dell’intervenuta liberalizzazione dei mercati (Zamagni, 2005a). Il concetto di povertà relativa riguarda, invece, la disuguaglianza distributiva del reddito di una popolazione e tra paesi diversi e rappresenta la più grave minaccia alla democrazia e alla pace tra i popoli; se nel tempo (dal 1950 al 2000) la popolazione povera nel mondo è diminuita in peso percentuale, ovvero si è assistito ad una riduzione percentuale della povertà assoluta, prendendo in considerazione il concetto di povertà relativa si verifica l’esatto contrario, in quanto tra il 1960 e il 2000 l’andamento della distanza economica tra ricchi e poveri è di segno positivo e il fattore di disuguaglianza è quasi raddoppiato (vedi infra Tabella 1 – Povertà relativa e relativi Grafico 1 e Grafico 2 – Fattore di disuguaglianza). Tabella 1 - Povertà relativa 1960 1970 1980 1990 1995 2000 Quota del reddito dei paesi 18 17 16 12 12 11 più poveri Quota del reddito dei paesi 39 36 35 40 43 43 più ricchi Fattore di disuguaglianza 2,2 Fonte: ONU 54 2,1 2,2 3,3 3,6 3,9 Grafico 1 - Povertà relativa 60 50 Quota del reddito dei paesi più ricchi Quota del reddito dei paesi più poveri 40 30 20 10 0 1960 1970 1980 1990 1995 2000 Fonte: Nostra elaborazione Grafico 2 -Fattore di disuguaglianza 4,5 4,0 3,5 3,0 2,5 2,0 1,5 1,0 0,5 0,0 1960 1970 1980 1990 1995 2000 Fonte: Nostra elaborazione La globalizzazione risulta essere un meccanismo molto efficiente nella produzione di nuova ricchezza – essendo un gioco a somma positiva –, ma non lo è altrettanto nella redistribuzione tra tutti coloro che hanno partecipato alla sua creazione. Ciò vuol dire che tra il concetto di ricchezza e quello di povertà si è aperta una voragine in continua espansione, che può essere controllata, rallentata e (è auspicabile) definitivamente arrestata solo con politiche e istituzioni internazionali e nazionali adeguate e “nella mani dei popoli”. Affinché si possa ridurre la diseguaglianza mondiale – la quale considera anche le diseguaglianze di reddito all’interno di singoli paesi – devono esistere due condizioni: i paesi poveri e altamente popolati devono crescere con un tasso maggiore rispetto ai paesi ricchi; che ciò avvenga senza l’aumento della diseguaglianza interna. Un altro punto da sottolineare, sempre in merito alle modalità di riduzione delle diseguaglianze, è che la globalizzazione ha a che fare con i concetti di conoscenza e 55 capacità tecnologica, che sono strumenti per applicare il processo di trasferimento delle tecnologie. Mi spiego meglio. È ormai indiscutibile il ruolo ricoperto dalla “terza rivoluzione industriale”, quella delle ICT (Information and Communication Technologies), nell’affermazione e nell’evoluzione della globalizzazione: il nuovo sistema tecnologico, basato sull’insieme di innovazioni che agiscono sulle telecomunicazioni, ha esteso la sua possibilità di raggiungimento di ogni punto dello spazio e ha permesso un approccio più flessibile al commercio e agli investimenti, nonché alla diffusione delle informazioni e degli stili di vita. È, sicuramente, proprio il ruolo assunto dalle ICT uno dei maggiori aspetti positivi che caratterizzano la globalizzazione: grazie a questi nuovi strumenti e soprattutto allo sviluppo di Internet, la possibilità di diffondere informazioni a livello mondiale ed in tempo reale è finalmente possibile, generando così un sentimento di conoscenza e curiosità nei confronti di situazioni, luoghi e popoli finora irraggiungibili e offrendo la possibilità di “esportare” anche importanti conquiste sociali – come la democrazia – in contesti in cui questi difficilmente si sarebbero realizzate autonomamente. Inoltre, come sostiene Passini (2001), nella “società mondiale del rischio”, argomenti che prima erano trattati a porte chiuse, vengono ora discussi in pubblico, come per esempio la decisione di investimenti economici, le composizioni chimiche di prodotti, i programmi scientifici di ricerca, lo sviluppo di nuove tecnologie; oggi il mercato deve saper rispondere agli interrogativi che i consumatori/cittadini, grazie ad una migliore informazione, pongono ai governi e alle aziende (per esempio, le problematiche relative agli OGM, la mucca pazza, ecc.). È anche vero, d’altro canto, che questo fenomeno globale, a differenza delle precedenti rivoluzioni industriali, facendo perno sulla knowledge (la conoscenza) prevede, di conseguenza, che quella incorporata in una data tecnologia sia solo in parte codificabile; per lo più, essa è tacita, specifica di determinate persone e istituzioni, acquisita tramite l’educazione, l’esperienza e la ricerca e, pertanto, non trasferibile a costo nullo. La conoscenza può ben essere offerta socialmente, ma per essere messa a frutto deve essere assorbita individualmente (Zamagni, 2005a). In questo modo, mentre i lavoratori superqualificati vedono progressivamente aumentare la loro posizione di benessere, quelli a qualificazione intermedia o coloro che 56 soffrono di rapida obsolescenza intellettuale vedono peggiorare le loro condizioni di vita. La struttura economica basata sulla produzione di “idee” è differente, “a clessidra” invece che “a piramide” come quella fordista, in cui, perciò, non esiste un vertice e le mansioni di basso profilo sono sempre più necessarie mentre i profili professionali di mezza misura sono sempre meno indispensabili: IERI OGGI La conseguenza è che per essere competitive sul mercato globale, le imprese hanno necessità di abbassare i prezzi, e quindi i costi: si interviene così sulla voce di costo più rilevante – il costo del lavoro – riducendo l’occupazione o tagliando i salari. Ciò significa che la crescita economica non permette di ridurre la disoccupazione quanto piuttosto sembra accentuarla, andando a sostituire i posti di lavoro con processi di automatizzazione sempre più efficaci. Inoltre, la globalizzazione, in questa prospettiva, minaccia i diritti dei lavoratori in quanto cittadini, a favore dello sfruttamento della manodopera a basso costo. Il costo del lavoro, infatti, è composto sia dal salario percepito che dagli oneri di finanziamento al Welfare, cioè assistenza sanitaria, previdenza sociale, politica ambientale ed istruzione. Gli Stati-nazione, perciò, pur di attirare le imprese, riducono la tutela dei diritti sociali di cittadinanza, cioè quelli dei lavoratori, per mantenere la manodopera a basso costo. L’omologazione culturale e l’insicurezza sociale Il terzo tratto caratteristico della globalizzazione è la tendenza all’appiattimento delle varietà culturali dei differenti paesi. Per omogeneizzazione culturale si intende (Zamagni, 2005a) “un processo che tende ad uniformare, nel corso del tempo e tra paesi diversi, tre elementi: le tradizioni; gli stili di vita; 57 le norme sociali di comportamento”. Il problema risiede nel fatto di non riuscire a far convivere la multiculturalità, cioè la presenza di varietà culturali come condizione di successo della dinamica sociale, e l’integrazione socio-economica dei vari paesi, cioè la convergenza verso livelli dignitosi di benessere, quale condizione di pace e democrazia. La disuguaglianza reddituale originata da una globalizzazione fondata esclusivamente sulla massimizzazione del profitto genera a sua volta un clima di insicurezza sociale che spesso sfocia in una chiusura verso “l’altro”, in paura del diverso, in atteggiamenti nazionalistici che rifiutano sia la tolleranza che, quindi, di conseguenza, il confronto con una società che ormai è multietnica e multiculturale. Diretta conseguenza di tutto ciò sono i c.d. conflitti identitari, i quali nascono dal fatto che nelle nostre società vanno crescendo le richieste di cittadini o gruppi di persone che non hanno come oggetto principale variabili monetarie o genericamente economiche, e, pertanto, non possono essere risolti tramite strumenti monetari/economici, come invece avviene per i conflitti d’interesse (come, ad esempio, le lotte di classe), bensì necessitano di strumenti di riconoscimento (Bruni, Zamagni, 2004) che permettano alle persone ed ai gruppi di riconoscersi e di essere riconosciuti nella loro differenza e nella loro identità, senza cadere nella chiusura, nell’isolamento e in atteggiamenti xenofobi, che troppo spesso sfociano in fondamentalismi e minano la pace e la democrazia. I problemi delle società multi-identitarie sono particolarmente importanti per la democrazia, perché essa è propensa ad accogliere identità diverse sul piano di parità. Anche usare il concetto di tolleranza, infatti, non è del tutto corretto in un contesto democratico: se “io tollero” qualcosa presuppongo un senso di superiorità da parte mia, non di uguaglianza. Quando identità maggioritarie si astengono, per determinazione unilaterale, dal soffocare quelle minoritarie in nome delle tolleranza non riconoscono necessariamente il concetto di uguaglianza (Zagrebelsky, 2007). La propensione della democrazia ad accogliere identità diverse sul piano di parità significa due cose: che non possa essere imposta la non-manifestazione dei simboli culturali a nessuno in particolare, ma, allo stesso tempo, che nessuno utilizzi gli stessi simboli per aggredire od offendere altre identità. 58 Se e quando prevarrà lo spirito di reciproco rispetto e apertura, il problema, che ad oggi appare tanto acuto quanto irrisolvibile – perché alle identità si associa un’idea di esclusività ed aggressione –, si supererà da solo. La democrazia ha la possibilità di sopravvivere alla sfida del c.d. pluriculturalismo solo se si realizzerà questa condizione di “spirito pubblico” nella nostra società. 2.2 Per una convivenza tra democrazia e globalizzazione Il futuro e la stabilità economica globale si gioca sempre più ora sul rovesciamento dei dogmi che hanno portato all’instabilità ed a crescenti disuguaglianze mondiali, sulla riforma delle istituzioni economiche internazionali, su un nuovo ruolo della società civile a livello sia nazionale che globale e sul ritorno di un forte intervento dei governi nazionali per realizzare obiettivi condivisi di politica economica e sociale. A livello globale, esiste un vuoto di istituzioni capaci di misurarsi con i poteri economici che operano sempre più su scala planetaria. Gli organismi esistenti vanno profondamente riformati e democratizzati. A livello nazionale, nuovo spazio e legittimità devono essere riconosciuti all’intervento pubblico nell’economia, al perseguimento di obiettivi di sviluppo, di occupazione, di equità e di redistribuzione. A livello della società civile, una nuova alleanza deve essere costruita tra il mondo delle associazioni, delle ONG, delle forze sindacali, che in questi anni hanno iniziato ad affrontare i problemi e gli effetti della globalizzazione sul terreno dei diritti umani e sociali. La società civile ha potenzialità importanti per svolgere un ruolo crescente in più direzioni. Da un lato, è necessario svilupparne il protagonismo all’interno dei singoli paesi, riequilibrando i rapporti di forza con i poteri economici, le imprese e i governi, dando spazio a forme di auto-organizzazione sociale che superino il dirigismo e la centralizzazione di molte politiche pubbliche del passato. Dall’altro lato, è importante sviluppare il ruolo e l’attività internazionale della società civile di tutti i paesi coinvolti. 2.2.1 La conservazione della varietà istituzionale La necessità primaria è quella di contrastare la tendenza all’appiattimento delle varietà istituzionali esistenti nelle diverse regioni del mondo. 59 La globalizzazione spinge verso la direzione opposta, come precedentemente visto; le regole del libero mercato mal si sposano con l’eterogeneità culturale e trovano nella difformità degli stili di vita, dei sistemi di Welfare, dei modelli educativi, ecc., un forte ostacolo alla loro diffusione. Occorre allora agire di modo tale che il filtro selettivo imposto dalla competizione globale non annienti le varietà meno forti. Salvaguardare la diversità delle vie dello sviluppo è oggi il modo più efficace di combattere il tragico aumento delle diseguaglianze tra paesi e gruppi sociali (Zamagni, 2005a). Non si può continuare ad agire come se non ci fosse un divario tra paesi ricchi e PVS e, soprattutto, non fare niente per colmarlo; le istituzioni da applicare e le modalità con cui farlo non possono essere gli stessi per i paesi che già hanno beneficiato del benessere creato con la globalizzazione e per i paesi che, invece, risentono principalmente degli aspetti negativi del processo considerato. Ad esempio, secondo Stiglitz (2006), c’è bisogno di un regime economico internazionale più equilibrato nel garantire il benessere sia dei paesi sviluppati sia dei PVS, attraverso alcune linee guida: un impegno da parte dei paesi sviluppati a lavorare nella direzione di un regime commerciale più equo, che davvero promuova lo sviluppo; un nuovo modo di intendere la proprietà intellettuale e la promozione della ricerca – con accesso anche per i PVS; un impegno, da parte dei paesi sviluppati, a retribuire i PVS per i loro servizi ambientali; un riconoscimento esplicito che tutti noi condividiamo lo stesso pianeta e che il riscaldamento globale rappresenta una minaccia concreta i cui effetti sarebbero disastrosi per alcuni PVS; un impegno da parte dei paesi sviluppati a pagare il giusto ai PVS per le loro risorse naturali e ad estrarle in modo da non deturpare l’ambiente; la conferma dell’impegno già assunto dai paesi sviluppati a fornire ai PVS aiuti finanziari in ragione dello 0,7% del PIL – al 2002, solo cinque paesi l’hanno mantenuto: Danimarca, Lussemburgo, Svezia, Norvegia, Olanda; un ampliamento ad un maggior numero di paesi dell’accordo raggiunto nel giugno del 2005 per il condono del debito; riforme dell’architettura finanziaria globale, finalizzate a limitare l’instabilità ed a spostare il peso maggiore del rischio sui paesi ricchi; 60 riforme giuridiche ed istituzionali volte, ad esempio, a scongiurare il pericolo di nascita di nuovi monopoli globali, a gestire equamente situazioni fallimentari complesse a livello internazionale, ecc.; un impegno concreto da parte dei paesi sviluppati a rinunciare a tutte le procedure che minacciano la democrazia (commercio delle armi, segreto bancario, corruzione ), adoperandosi invece per la sua promozione. 2.2.2 La società civile come policy-maker La seconda strada da percorrere è quella che declina a livello transnazionale il principio di sussidiarietà (orizzontale)11, consentendo alle organizzazioni della società civile di andare oltre i compiti di advocacy, cioè di promozione e patrocinio attivo di una causa, nonché di denuncia, per assumere ruoli ben definiti di policy-making (Zamagni, 2005a). In questo modo, si tratta di restituire potere alla politica economica vista come una componente delle scelte generali adottate da una collettività attraverso gli strumenti della democrazia. È importante, in questo senso, ricostruire una visione comune degli effetti che la globalizzazione ha sui lavoratori, sui diritti, sui consumatori, sulla società stessa e sull’ambiente, proponendo comportamenti e politiche alternative. La società civile deve cercare delle risposte valide alle grandi questioni politiche e sociali legate alla sua funzione di progresso economico e tecnico; accettare di partecipare a certe attività di cooperazione che non derivano dal mercato, apportando il suo know-how, il suo spirito, la sua capacità di agire per raggiungere l’obiettivo del bene comune. Concretamente, tutto questo può avere un doppio significato a due differenti livelli di ragionamento. A livello dei singoli paesi e di istituzioni, si tratta di ridimensionare il potere di certi attori – come le banche centrali – e ricollocare le scelte chiave sull’economia in sedi politiche elettive e controllabili democraticamente. Si tratta di applicare il concetto espresso da Alexis de Tocqueville (1840), per cui la democrazia, da intendersi come libertà di partecipazione politica alle gestione della cosa 11 “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l' autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.” – Costituzione della Repubblica Italiana, Titolo V, art. 118, comma 4. 61 pubblica, è la condizione di una libertà intesa come indipendenza dal paternalismo di coloro che detengono il potere esecutivo (Greblo, 2000). A livello internazionale, questa stessa esigenza pone il problema del giusto ruolo delle istituzioni internazionali esistenti: infatti, ad oggi, la globalizzazione, così com’è stata applicata, non risulta essere democratica in quanto le stesse istituzioni create a Bretton Woods12 nel 1944 e negli anni immediatamente successivi (il Fondo Monetario Internazionale – FMI, la Banca Mondiale – World Bank, l’Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio internazionale o General Agreement on Tariffs and Trade – GATT, diventato poi successivamente l’Organizzazione mondiale del commercio, OMC o World Trade Organization – WTO) non lo sono. L’FMI nacque con il compito di promuovere la cooperazione monetaria internazionale, di facilitare l’espansione del commercio internazionale, di promuovere la stabilità e l’ordine dei rapporti di cambio evitando svalutazioni competitive, di dare fiducia agli Stati membri rendendo disponibili – con adeguate garanzie – le risorse del Fondo per affrontare difficoltà della bilancia dei pagamenti, di abbreviare la durata e ridurre la misura degli squilibri delle bilance dei pagamenti degli Stati membri. La Banca Mondiale venne creata, invece, con l’obiettivo di accordare prestiti a lungo termine, garanzie ed assistenza tecnica per aiutare i PVS ad implementare politiche di riduzione della povertà. Il GATT (e, successivamente, il WTO) è un accordo che stabilisce il divieto di ogni forma di restrizione quantitativa attuata tramite contingenti, licenze all’importazione o all’esportazione o con qualsiasi altro mezzo che possa porre limiti agli scambi commerciali internazionali. Tutte le suddette istituzioni, anche se nate sotto i migliori auspici, hanno sempre e solo riflettuto gli interessi dei paesi avanzati, o meglio ancora, degli interessi particolari all’interno di quella categoria di paesi. Lo squilibrio che inevitabilmente è venuto a crearsi è frutto di un sistema distorto di attribuzione dei diritti di voto o di puro e semplice potere economico dei paesi e degli interessi in gioco. 12 Mentre il secondo conflitto mondiale era ancora in corso, le Nazioni Unite convocarono a Bretton Woods (USA) una conferenza sui problemi finanziari e monetari. La conferenza, a cui parteciparono 44 paesi (esclusi quelli usciti sconfitti dal conflitto, tra cui l’Italia), ebbe il compito di discutere i gravi problemi economici e gli squilibri monetari che avevano travagliato il mondo dopo la crisi de 1929 e di dare indicazioni sui modi e sulle istituzioni internazionali e intergovernative in grado di garantire un ordinato sistema monetario internazionale e un processo di ricostruzione e riattivazione delle economie martoriate dalla guerra (Valdani, Bertoli, 2003). 62 Queste istituzioni internazionali sono imperniate su quello che lo stesso Stiglitz (2006) chiama Washington Consensus: si tratta di una grave mancanza di autonomia delle istituzioni economiche internazionali nei confronti della superpotenza americana, la quale non protegge le economie più deboli né garantisce la stabilità del sistema economico globale, perseguendo esclusivamente i propri interessi a discapito di quelli delle nazioni più povere, attraverso i concetti di austerità fiscale, privatizzazione e liberalizzazione del commercio. Unendo le due prospettive (nazionale ed internazionale) è fondamentale riconoscere che la responsabilità è da attribuire in parte anche a chi vota, nel senso che, pur rendendoci conto del fatto di far parte di una realtà economica sempre più globale, continuiamo a vivere in comunità circoscritte e a pensare in termini di realtà locale. Occorre, invece, valutare correttamente quali effetti possono avere determinate politiche da noi auspicate sull’economia globale e non limitare le preoccupazioni all’analisi dell’impatto diretto sulla propria collettività (uno slogan rappresentativo per questa situazione potrebbe essere “Think & Act Global!”). Per quanto riguarda le istituzioni internazionali, sarebbe, innanzitutto, necessario democratizzare l’FMI, facendo in modo che operi in condizioni di maggiore trasparenza, rispondendo ai paesi e alle società delle proprie azioni. A queste condizioni sarebbe possibile ricapitalizzare l’FMI utilizzando risorse di molti più paesi, riducendo il potere degli Stati Uniti e dei paesi più ricchi. Si dovrebbe cercare di focalizzare l’FMI sull’obiettivo di ricoprire il ruolo di responsabile della stabilità finanziaria mondiale, di garante dei conti esteri e delle condizioni favorevoli per una crescita dei PVS. La Banca Mondiale dovrebbe, dal canto suo, abbandonare il finanziamento di progetti che provocano distruzioni ambientali e sociali, per sostenere invece le iniziative di sviluppo sociale e umano. L’OMC (o WTO) dovrebbe anch’essa essere ridimensionata e offrire maggiori tutele ai paesi poveri, nonché essere portata all’interno del sistema delle Nazioni Unite (ONU) per garantire una maggiore trasparenza nel suo agire. Più in generale, le iniziative dell’ONU per lo sviluppo e la stabilità economica internazionale vanno potenziate e coordinate, diventando così un elemento essenziale anche per le tradizionali attività dell’ONU in difesa dei diritti umani, il mantenimento della pace e la soluzione di problemi sociali. 63 2.2.3 Una politica globale di redistribuzione La terza necessità che oramai grava a livello globale è quella relativa alla realizzazione di una politica redistributiva su scala mondiale, che vada ad attaccare direttamente e quanto più profondamente il problema della povertà. Andando a definire regole per la redistribuzione del reddito – tra paesi e gruppi tra gruppi sociali – si provvede a realizzare un presupposto fondamentale per generare un aumento dei livelli di competitività e dello sviluppo. La redistribuzione consente livelli più elevati di spesa sociale, la quale migliora la qualità del capitale umano, in quanto permette di investire in educazione e politiche sanitarie, e rende possibile creare istituzioni che siano in grado di ridurre il conflitto sociale. Entrambi gli effetti favoriscono sia la produttività media, sia il tasso di imprenditorialità e quindi la competitività del sistema. Ciò che è fondamentale comprendere, e per cui è imprescindibile trovare delle soluzioni opportune, è la questione che non è la globalizzazione in quanto fenomeno l’errore commesso, bensì il modo in cui essa è stata implementata. Si tratta di una globalizzazione asimmetrica, in cui i mercati dei PVS hanno aperto alle merci dei paesi industrializzati senza che questi facessero altrettanto nei loro confronti (Stiglitz, 2006). L’unico modo per affrontare la situazione che ormai si è venuta a creare è quello di affrontare il fenomeno così come si presenta oggi e correggere la direzione. Per realizzare una globalizzazione più equa, Stiglitz suggerisce ai paesi industriali avanzati di puntare su una sempre maggiore qualificazione della forza lavoro, ma anche sul consolidamento degli ammortizzatori sociali e sull’aumento della progressività della tassazione del reddito: sarebbe giusto allentare la pressione fiscale sulle categorie più povere e aumentare le imposte per coloro che finora hanno ricevuto vantaggi maggiori. D’altro canto, si dovrebbero aumentare gli investimenti nella ricerca, i quali incrementano la produttività dell’economia, attraverso l’innalzamento dei redditi e dei salari. La sfida è, dunque, quella di universalizzare le preoccupazioni relative alla globalizzazione e democratizzare le procedure e le soluzioni che possono far finalmente funzionare questo fenomeno, con l’obiettivo di trarne il beneficio maggiore per tutti gli Stati coinvolti. 64 “La relazione tra Capitolo democrazia e 3 3.1 sviluppo economico” Crescita, sviluppo e relativi indicatori Nonostante spesso vengano usati come sinonimi, i termini crescita e sviluppo si riferiscono a concetti ben diversi tra loro. La crescita economica fa riferimento alla capacità di un sistema economico di incrementare la disponibilità di beni e servizi atti a soddisfare il fabbisogno di una determinata popolazione, in maniera continua e graduale; è, quindi, caratteristica propria di una società che è già entrata nell’area dello sviluppo e che pertanto ha solo il problema di mantenere nel lungo periodo la sua linea di tendenza (trend). Lo sviluppo è, invece, un processo più impegnativo, è la transizione, il passaggio, se non proprio il salto, da uno stadio arretrato alla modernità; il cambiamento, per essere definito tale, deve interessare, oltre che l’economia, anche le strutture sociali e politiche, nonché i quadri mentali (Marchese, Mancini, Greco, Assini, 1997). Questa fondamentale distinzione, tuttavia, è stata compresa ed applicata solamente in anni più recenti; mentre la storia, da un punto di vista economico, per lungo tempo, ha trattato solamente il problema della crescita (facendovi coincidere il concetto di sviluppo) e ha progressivamente teorizzato dei modelli che potessero illustrare e spiegare le determinanti della crescita economica di un paese. 3.1.1 Le principali teorie della crescita Queste teorie sono suddivise in due tipologie: a. quelle della crescita esogena: si basano su variabili determinate e inserite all’interno del modello, a prescindere dal suo funzionamento; 65 b. quelle della crescita endogena: si basano su variabili determinate in base al funzionamento del modello. Del primo gruppo di teorie fa parte la teoria neoclassica della crescita realizzata da Solow (1956). Partendo dalla funzione neoclassica di produzione: Y = F (K, L) con Y, livello di produzione dell’economia; F (K, L), funzione di capitale e lavoro; la quale prevede sia l’aumento della produzione all’aumentare di anche un solo input, sia allo stesso tempo la legge dei “rendimenti decrescenti” (derivata seconda negativa), Solow modifica la funzione, aggiungendovi un nuovo elemento, il fattore A, ovvero il progresso tecnologico, quale spiegazione della crescita di un paese. Pertanto, la funzione di produzione assume la seguente forma: Y = AF (K, L) Il progresso tecnico introdotto da Solow può, in base al modo concreto in cui si applica, modificare il processo produttivo. Questo perché il progresso tecnologico può essere di tre tipi (Boggio, Seravalli, 2003): a. neutrale, se a parità di tasso di profitto, il rapporto capitale prodotto è costante nel tempo e, quindi, non si modifica la produzione del paese; b. di cambiamento, per cui la produzione del paese viene modificata, il quale si suddivide a sua volta in: - risparmiatore di capitale: se, a parità di tasso di profitto, il rapporto capitale prodotto diminuisce nel tempo; - utilizzatore di capitale: se, a parità di tasso di profitto, il rapporto capitale prodotto aumenta nel tempo. In questo modo, secondo Solow, si raggiunge automaticamente – grazie ai meccanismi di mercato – l’uguaglianza: Gn = gy = s/v la quale esprime il fatto che il tasso di crescita naturale (Gn) coincida con il tasso di crescita del prodotto e del capitale che occorre avere per mantenere l’uguaglianza esatta 66 tra domanda effettiva e capacità produttiva – rispettando, in tal modo, la condizione di piena occupazione della forza lavoro. Con il secondo filone di teorie, quelle della crescita endogena, si fa un passo in avanti e si supera la teoria di Solow, affrontando il problema della crescita seguendo fondamentalmente due strade: 1. sostituendo l’ipotesi di progresso tecnico come free good con quella di progresso tecnico endogeno; 2. allargando il concetto di capitale e scindendolo in capitale fisico (C) e capitale umano (H) – cioè lavoro istruito. Proprio per quest’ultimo motivo, la funzione di produzione su cui si basano le teorie della crescita endogena non è quella neoclassica, bensì una funzione del tipo CobbDouglas, la quale assume la seguente forma: 1- Y=C H Quindi il capitale, che prima era solamente un fattore produttivo, ora è anche un prodotto del processo, il quale spiega la generazione di capitale umano – istruito – attraverso un processo di formazione (learning by doing). Nel 1990, Barro realizza, attraverso un modello di crescita endogena, un tentativo di collegamento tra crescita e politica economica strutturale13; l’ipotesi cruciale è quella dell’esistenza di beni pubblici, forniti dallo Stato, ed utilizzati dagli agenti economici come input nella funzione di produzione. Di conseguenza, quest’ultima viene modificata in modo da avere produttività marginali decrescenti rispetto alla spesa pubblica (G) e al capitale (K), ma rendimenti costanti, se entrambi i fattori produttivi vengono considerati congiuntamente: 1- Y=K G In questo modo, l’azione del governo sostiene la crescita, bloccando gli effetti della produttività marginale decrescente del capitale privato, andando ad agire tramite la spesa – resa possibile attraverso meccanismi di tassazione – per beni pubblici, quali istruzione e formazione del capitale umano. 13 Per politica economica strutturale si intende un complesso di interventi pubblici che non hanno come scopo diretto ed immediato quello di influire sul grado di utilizzo della capacità produttiva e sulla dinamica dei prezzi e dei cambi (Boggio, Seravalli, 2003). 67 Un ulteriore passo è stato quello compiuto da Romer (1986), che ha fornito spiegazione di come la conoscenza mediante l’esperienza (il learning by doing, appunto) possa generare delle esternalità positive ad essa collegate. In questo modello, lo Stato è chiamato a fornire incentivi alle imprese per la formazione interna (formazione continua) e/o a finanziare ed organizzare direttamente la formazione professionale. In tal modo, le imprese potranno generare delle esternalità positive (K ), derivanti dal capitale fisico, che verranno sfruttate a livello di sistema economico per ottenere rendimenti crescenti di scala: Y = (AK L ) K con ( + ) = 1 (condizione che permette una crescita a tasso costante). L’ultimo passaggio per quel che riguarda le principali teorie della crescita (in particolare, di quella endogena) è il modello di Lucas, che verrà, però, trattato in un paragrafo seguente (vedi infra par. 3.1.3), alla luce della successiva esposizione del concetto di sviluppo. 3.1.2 La crescita economica e il PIL In passato, si riteneva che esistesse un rapporto univoco e diretto tra il grado di sviluppo (e di benessere) di un paese e la ricchezza da questo posseduta. Così, nel 1940, Kuznets ideò un indicatore che potesse misurare la crescita economica di un paese, il prodotto interno lordo (PIL), il quale può essere calcolato: - o come sommatoria di beni e servizi finali14 prodotti all’interno15 di un’economia in un determinato periodo di tempo16 (spesa in beni finali o aggregata) e quindi come somma di “consumi”, “investimenti”, “spesa pubblica” e della differenza tra “esportazioni ed importazioni”; 14 Non è considerato, pertanto, il valore dei beni e servizi intermedi. Il riferimento è spaziale, per cui il PIL assume significato se definito in una determinata area geografica. 16 Il PIL è quindi una grandezza flusso (opposta ad una grandezza stock, la quale viene calcolata come media), che pertanto assume significato all’interno di un determinato intervallo temporale. 15 68 - o come valore aggiunto creato nei diversi settori produttivi: somma del “valore aggiunto” (calcolato come differenza tra produzione e consumi intermedi) ed “imposte indirette al netto dei contributi ai prodotti”; - o come somma dei redditi: somma dei “redditi da lavoro dipendente”, “imposte indirette al netto dei contributi ai prodotti” e “risultato di gestione”. La base teorica sottostante al PIL come indicatore di crescita economica è quella della modernizzazione, sviluppatasi tra gli anni Cinquanta e Sessanta, che prevede che lo sviluppo sia un processo lineare e multi-dimensionale, inarrestabile e positivo, basato sulla liberazione delle energie latenti nei processi di crescita economica e di scambio (Solivetti, 2002). Il maggior interprete della teoria della modernizzazione può essere considerato l’economista e sociologo americano Walt Whitman Rostow (1962), il quale sostenne che i sistemi economici seguono cinque “stadi”: 1- la società tradizionale, la cui struttura si sviluppa entro limitate funzioni produttive, gli incrementi di produzione sono possibili ma entro un certo limite, “oltre il quale non poteva salire il livello della produzione pro-capite”; 2- le condizioni preliminari per il decollo, come periodo di transizione in cui restano dominanti i tratti della società tradizionale, ma iniziano a generarsi nuove funzioni produttive; 3- il decollo (take-off), che si verifica nel momento in cui all’accelerazione dell’innovazione tecnologica si unisce l’affermarsi di una nuova élite fautrice del progresso economico e capace di realizzare politiche pubbliche per l’aumento, soprattutto in campo agricolo, della produttività. Si assiste ad un consistente aumento del tasso degli investimenti produttivi e allo sviluppo dell’attività industriale; 4- il passaggio alla maturità, quando la tecnologia si diffonde maggiormente e il commercio internazionale diventa una parte essenziale del settore economico – di conseguenza, si ha un calo delle importazioni. Si sfruttano razionalmente le risorse a disposizione e si ottiene una produzione diversificata. La maturità è raggiunta “circa sessant’anni dopo il decollo”; 5- il consumo di massa, in cui la crescita del reddito disponibile favorisce la creazione di un’ampia domanda di beni considerati, diversi da quelli essenziali; le società scelgono di assegnare maggiori risorse al benessere e alla 69 sicurezza sociali. Oltre all’aumento del reddito pro-capite, aumenta anche la forza-lavoro industriale e, come conseguenza, la popolazione urbana. Molte le critiche rivolte alla “teoria degli stadi”, a partire dalla rozza visione delle società tradizionali – per definizione società sottosviluppate – per arrivare alla sicurezza nel sostenere che dopo la fase di decollo non possano esistere fenomeni di crisi, stagnazioni e regresso – questo perché l’ideologia implicita è ingenuamente evoluzionistica, cioè suppone che la storia segua una linea progressiva per tappe necessarie. Di conseguenza, secondo questa teoria non può esistere l’ipotesi – o quantomeno il “sospetto” – che gli stadi possano sovrapporsi o possano essere saltati. Lo stesso Rostow si accorse in parte delle carenze della sua teoria e in scritti posteriori aggiunse un sesto “stadio”, quello della ricerca della qualità, caratterizzato dalla percezione dei costi in termini di ambiente, ingiustizie non eliminate, valori umani che trascendono i macchinari e gli apparecchi per il consumo di massa. Pur non essendo un buon indicatore della produttività di un paese – ovvero la relazione esistente tra il livello delle risorse economiche ed il livello del PIL –, il PIL continua ad essere l’indicatore economico maggiormente utilizzato dagli economisti, dai governi e dalle organizzazioni economiche, i quali associano spesso la crescita economica al benessere di una popolazione, continuando a seguire la strada indicata dal concetto di modernizzazione. Tuttavia, è sempre più innegabile che il PIL presenti delle lacune che si trasformano in limiti della bontà di calcolo di questo indicatore; i motivi per cui il PIL si rivela un indicatore insufficiente per misurare lo sviluppo ed il benessere sono (Renzo, 2003): a. la mancata considerazione dei costi sociali ed ambientali: il PIL ignora ogni cosa che accade al di fuori degli scambi monetari, non includendo nel suo calcolo né i costi sociali né quelli ambientali. Ne deriva, come già detto, che alcune esternalità17 negative, fra cui i costi del declino sociale (ad esempio, il crimine) e del degrado ambientale (ad esempio, l’inquinamento ed i disastri naturali), vengono considerate solo perché motori di transazioni monetarie che discendono dall’adozione di misure utili per la loro eliminazione. Appare evidente come siano tralasciate tutte le ripercussioni negative sullo stato emotivo, psicologico e fisico degli individui. Inoltre, se da un lato il PIL considera l’aumento della produzione, occorre precisare che non contabilizza 17 Un’esternalità è una conseguenza (positiva o negativa) di un’azione economica posta in essere al di fuori di una relazione contrattuale – o comunque negoziale – tra soggetti e a cui pertanto non viene associato un prezzo e per cui non esiste un mercato (Stiglitz, 2003). 70 la svalutazione del capitale fisso, inteso come esaurimento – depletion – delle risorse naturali, né tantomeno l’inquinamento. Inoltre, il PIL ignora tutte le attività non di mercato che aumentano il benessere della società ma non producono flussi finanziari, come, ad esempio, il volontariato. Infine, sono escluse dal calcolo del PIL le transazioni illegali e le attività sommerse; b. la difficoltà di un confronto intertemporale: le quantità prodotte di ogni bene, oppure il loro prezzo, possono variare di anno in anno, oppure ancora alcuni beni possono uscire dalla produzione, rimpiazzati da altri; c. la difficoltà di un confronto internazionale: ogni singolo paese adotta particolari criteri per la sua valutazione, il che rende impossibile confrontare direttamente il PIL fra più paesi. Inoltre, a ciò si aggiunge il problema del tasso di cambio da adottare per rendere omogenei i dati: convertire tutti i dati in un’unica valuta (solitamente US $ PPA) secondo il tasso di cambio nominale può essere fuorviante, in quanto esso solitamente riflette, oltre a quelli reali, gli aspetti speculativi di un’economia; d. i problemi di distribuzione e redistribuzione: il PIL non rileva come realmente il prodotto nazionale sia effettivamente suddiviso all’interno della popolazione del paese considerato. 3.1.3 Lo sviluppo umano e l’HDI Tutti i sovresposti limiti del PIL hanno fatto emergere, negli ultimi anni, un paradigma oggettivamente diverso da quello della modernizzazione, il quale si orienta piuttosto allo studio e all’intervento su condizioni percepite come oggettivamente negative che costituiscono un problema di specifici gruppi sociali. In anni più recenti, infatti, ci si è accorti che la crescita economica è solo una componente di un concetto più ampio di sviluppo e che, perciò, il PIL è un indicatore riduttivo e non totalmente efficace per la misurazione della situazione di benessere di una popolazione (a meno che, l’accezione di “benessere” sia quella utilitaristica). Come esposto già nel 1971 da Mahbub Ul Haq, ispiratore e successivamente ideatore del primo “Rapporto sullo sviluppo umano” (o Human Development Report) (1990), l’idea di base è la seguente: “ci avevano insegnato ad occuparci solo del prodotto interno lordo perché poi quest’ultimo si sarebbe preso cura della povertà. Ribaltiamo questa opinione, occupiamoci della povertà perché ciò, a sua volta, 71 si prenderà cura del prodotto interno lordo. In altri termini, preoccupiamoci del contenuto del prodotto interno lordo, ancor più del suo tasso di incremento”. La nostra attenzione, affinché le cose vadano come previste da Mahbub Ul Haq, si deve concentrare sul concetto di sviluppo, così come definito dall’United Nations Development Program (UNDP) nel 1995: “la creazione di un ambiente idoneo per le persone affinché possano godere di una vita lunga, salutare e creativa”. Ancora più nello specifico, si può parlare di sviluppo umano quando si ha: “un continuo miglioramento delle condizioni che permettono a tutta la popolazione di vivere una vita lunga, in buona salute e creativa”. Il nuovo paradigma è basato su un concetto relativamente “recente”: i basic needs, ovvero i “bisogni di base” di ogni individuo, i quali dovrebbero essere soddisfatti prima che i bisogni meno essenziali di pochi individui vengano presi in considerazione. Si tratta di ricollocare la persona al centro del concetto di sviluppo, evitando qualsiasi approccio che consideri l’essere umano essenzialmente solo come homo oeconomicus. Pertanto, mentre da un lato si riconosce che la crescita economica sia necessaria per realizzare gli obiettivi umani essenziali, dall’altro lato si ritiene fondamentale analizzare come questa crescita si traduce – o non si traduce – in sviluppo umano. Solo una crescita accompagnata da un’azione pubblica rivolta a contenerne gli aspetti negativi e a ri-indirizzare i benefici prodotti potrà effettivamente generare sviluppo umano. È, perciò, strettamente necessario evitare una crescita “jobless, ruthless, voiceless, rootless and futureless” (UNDP, 1996). Una crescita “jobless” è tale perché lo sviluppo economico complessivo non espande le opportunità di occupazione di un paese. “Ruthless” è una crescita in cui i benefici vanno soprattutto a favore dei ricchi, aumentando la povertà delle masse. Una crescita “voiceless” è tale quando non è accompagnata dall’espansione delle forme democratiche e della distribuzione del potere. “Rootless” è a sua volta una crescita che va a discapito delle identità culturali delle società. 72 Infine, una crescita “futureless” è quella che distrugge le opportunità di uno sviluppo futuro attraverso un irragionevole sfruttamento delle risorse naturali disponibili, l’inquinamento dell’ambiente, la distruzione della biodiversità. Dovendo perseguire uno sviluppo umano inteso in questi termini, è stato elaborato un indicatore idoneo a tradurre in cifre tale concetto: l’indice di sviluppo umano (ISU o HDI, Human Development Index), il quale viene impiegato sia per valutare il grado di sviluppo di un paese, sia per misurare l’impatto di politiche economiche nella qualità della vita. Esso risulta essere composto da tre variabili, le quali rientrano nella definizione di sviluppo umano data dall’UNDP (Boggio, Seravalli, 2003): il PIL pro-capite, come indice delle condizioni standard di vita; la speranza di vita alla nascita18, come indice di longevità; l’indice di scolarizzazione19, come indice di creatività. Questa misura dello sviluppo umano è diversa dal “reddito pro-capite”, il quale si preoccupa soltanto della disponibilità di beni materiali, in quanto fa coincidere lo sviluppo di una popolazione con l’aumento della qualità della vita (come aveva intuito anche Rostow con la realizzazione del sesto “stadio” della sua teoria). Le teorie della crescita che si sono susseguite nel tempo hanno sempre considerato fondamentale il ruolo del capitale fisico come determinante della crescita economica e quindi dello sviluppo (vista, in passato, la sua coincidenza con il concetto di sviluppo economico). Con il modello di Lucas (1988) per la prima volta si evidenziò, invece, il ruolo del capitale umano come fondamento della crescita di una economia e di un paese; egli suppose che ogni unità di capitale umano sia tanto più produttiva quanto maggiore è la dotazione totale di capitale umano dell’economia, supponendo, pertanto, l’esistenza di esternalità positive generate dal capitale umano, nella relazione seguente: 1- Y = (K H )H con K , capitale fisico; H1- , capitale umano; H , esternalità positive del capitale umano. 18 La speranza di vita alla nascita viene calcolata come numero medio di anni di vita vissuta da una generazione di nati (Boggio, Seravalli, 2003). 19 L’indice di scolarizzazione viene calcolato come la media tra tasso di alfabetizzazione (con peso pari a ) e tasso di partecipazione all’istruzione secondaria (con peso pari a ) (Ibidem). 73 Il livello di capitale umano è determinato dagli investimenti in istruzione, formazione e ricerca che un paese è disposto a sostenere; in questo modo il capitale umano è in grado sia di utilizzare le innovazioni ma anche di produrle, spostando in avanti la frontiera di produzione ed aumentando il livello di innovazione. Ho voluto illustrare questo modello, perché ritengo che permetta di collegarsi a ciò che già gli antichi greci avevano capito, e che purtroppo è stato accantonato col passare dei secoli: la funzione che l’educazione e l’istruzione hanno all’interno di un popolo. Come già detto precedentemente, la globalizzazione si basa soprattutto sulla conoscenza, a differenza delle due precedenti rivoluzioni industriali; se la si possiede, si è soggetti attivi di questo fenomeno, altrimenti si è in balìa di fatti non direttamente gestibili, schiavi di uno sviluppo di altri da cui si rimane però personalmente esclusi. Attraverso lo sviluppo umano, inteso come nella definizione dell’UNDP, si vuole scongiurare questa possibilità, per mezzo di un ampliamento delle opportunità a disposizione dei singoli individui che appartengono ai paesi più poveri, tramite la formazione ed il potenziamento delle capacità umane. Per questo motivo diventa di fondamentale importanza l’analisi e la comprensione della rilevanza di concetti come la mortalità infantile, la speranza di vita alla nascita, l’istruzione, la diffusione di mezzi di comunicazione culturale, l’allargamento dei regimi democratici e dei diritti umani (Solivetti, 2002). 3.1.4 Analisi empirica delle componenti dell’HDI La vita è il prerequisito di ogni altro aspetto di benessere e di qualità dell’esistenza, dal momento che ovviamente beni e servizi possono avere valore solo se si è vivi. Pertanto, la mortalità infantile (IMR) – la quale misura la possibilità di sopravvivere al primo anno di vita – è evidentemente la pietra angolare dello stesso sviluppo umano. I livelli di mortalità infantile nei vari paesi del mondo al 2001 (vedi infra Grafico 3 – Evoluzione della mortalità infantile tra il 1960 e il 2001) si collocano, con una sola eccezione – l’Azerbaijan –, al di sopra della diagonale che indica una condizione di perfetta staticità rispetto a livelli registrati nel 1960. Si tratta quindi di un miglioramento generale. Negli anni ’60, se si escludono i paesi industrializzati, la situazione per le altre aree era – tra loro – assai simile: tassi medi di mortalità infantile tra i 100 e i 160 morti nel primo anno di vita (ogni 1.000 nati vivi). La situazione più recente è, invece, molto più diversificata: vi sono stati miglioramenti significativi in America Latina e Carabi, Asia Orientale e Pacifico, e anche in Medio 74 Oriente e Nord Africa; mentre i miglioramenti per Asia Meridionale e Africa SubSahariana sono stati più modesti. Nel complesso, nell’arco di circa quarant’anni, il tasso di mortalità infantile mondiale si è dimezzato, passando da circa 120 a meno di 60. Grafico 3 – Evoluzione della mortalità infantile tra il 1960 e il 2001 Fonte: Solivetti (2002) Un altro elemento fondamentale per misurare lo sviluppo umano è la speranza di vita alla nascita, peraltro strettamente collegata all’indicatore IMR. L’andamento di questa seconda determinante è speculare rispetto a quello della mortalità infantile: infatti, come si può intuitivamente comprendere, la diminuzione della mortalità infantile è accompagnata da un aumento della speranza di vita. Negli ultimi anni, la speranza di vita dei paesi più sviluppati si è collocata intorno agli 80 anni. Complessivamente, si può notare (vedi infra Grafico 4 – Evoluzione della speranza di vita tra il 1960 e il 2001) come il miglioramento abbia interessato tutti i paesi del mondo, eccetto alcuni paesi dell’Africa Sub-Sahariana (Zimbabwe, Zambia, Botswana). L’area dell’Asia Orientale e Pacifico, che si trovava all’inizio del periodo considerato in fondo alla scala, insieme con l’Africa Sub-Sahariana, ha compiuto un miglioramento spettacolare, al contrario di quanto avvenuto nell’Africa Sub-Sahariana – un arretramento tra il 1990 e il 2000. 75 Il Medio Oriente e l’Africa del Nord, che si trovavano in posizioni intermedie, hanno registrato un miglioramento notevole, mentre il gruppo di paesi ad alto reddito ha registrato un miglioramento contenuto. A differenza di quanto è avvenuto con la mortalità infantile, la speranza di vita per i paesi più svantaggiati e per quelli in posizione intermedia non solo è in media decisamente migliorata, ma ha anche ridotto la sua distanza in termini percentuali rispetto ai paesi avanzati. Grafico 4 – Evoluzione della speranza di vita tra il 1960 e il 2001 Fonte: Solivetti (2002) Il livello di istruzione sembra sempre più essere esplicativo rispetto alla determinazione dello sviluppo futuro dello stesso paese. L’istruzione, in un’evoluzione temporale, è passata ad essere da variabile accessoria dello sviluppo economico a chiave per il benessere materiale e lo sviluppo complessivo, oltre che fattore e parametro di scelta e libertà. Negli ultimi decenni, c’è stata un’evoluzione positiva per quello che riguarda l’istruzione nel mondo. Il generale andamento in senso nettamente migliorativo presenta poche eccezioni, relative soprattutto ai paesi dell’Africa Sub-Sahariana (vedi infra Grafico 5 – Evoluzione dell’istruzione tra il 1970-80 e il 2000). Anche il dato relativo all’andamento dell’istruzione femminile è incoraggiante, ad eccezione di quello che riguarda le situazioni dei paesi islamici. 76 Il dato sull’istruzione femminile è enormemente importante e influente su un altro fattore, la mortalità infantile: infatti, la maggiore istruzione delle madri ha come conseguenza positiva una minore mortalità dei figli. Grafico 5 – Evoluzione dell’istruzione tra il 1970-80 e il 2000 Fonte: Solivetti (2002) Un aspetto collegato con il livello di istruzione è costituito dalla diffusione dei mezzi di comunicazione culturale – Internet, la radio, la televisione, il giornale quotidiano. In particolare, il dato relativo a quest’ultimo mezzo citato, non è del tutto rasserenante, poiché esistono differenze marcatissime nella diffusione dei giornali tra le varie aree del mondo. In particolare, si nota il divario tra paesi sviluppati ed Africa Sub-Sahariana e Medio Oriente. Tuttavia, anche se apparentemente sembra essere correlato al livello di reddito, analizzando i dati ad esso relativi, imputare la diffusione dei mezzi di comunicazione solo ad un effetto reddito risulta errato: è altrettanto importante, infatti, l’effetto dell’atteggiamento culturale preponderante all’interno del paese di riferimento. Il dato sulla diffusione dei mezzi di comunicazione è fondamentale all’interno della concezione di sviluppo umano, poiché la maggiore capillarità di questi strumenti è sinonimo di maggiore trasparenza – intesa come assenza o controllo della corruzione –, di partecipazione politica, di controllo delle azioni di governo. 77 Di conseguenza, è positivamente associata con il livello di democrazia e di difesa dei diritti umani, ossia con concetti che fanno parte integrante dell’idea di sviluppo umano. 3.2 Viene prima lo sviluppo economico o la democrazia? Come si lega il concetto di sviluppo economico con quello di democrazia? Quale dei due nasce per primo e, una volta affermatosi, genera l’altro? Per l’intero Ottocento non si è mai ritenuto che la democrazia si fondasse su precondizioni economiche e che il suo avvento dipendesse dalla crescita economica. La discussione ha preso forma nel momento in cui la democrazia, inizialmente concepita come una forma politica che assicura protezione, è passata ad essere una forma politica che assicura potere. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, era opinione diffusa tra gli economisti che, in particolare nei paesi del Terzo Mondo, fosse necessario, innanzitutto, applicare delle riforme economiche – come la riforma agraria –, una più equa distribuzione della ricchezza e lo sviluppo industriale, affinché questi generassero a loro volta, in modo quasi automatico, la democrazia politica. C’è chi sostiene, infatti, – Lipset (1960), Barro (1999), Djankov (2003), Glaeser et Al. (2004) – che è dallo sviluppo economico che nasce la democrazia, seguendo quella che va sotto il nome di tesi della modernizzazione, la quale si fonda su due idee (Zamagni, 2005b): la prima è che solo i paesi i cui cittadini abbiano già raggiunto un certo livello di educazione saranno in grado di eleggere, per via democratica, leaders capaci di governare, poiché la popolazione si interesserà sempre più alla politica e alla partecipazione attiva e consapevole; la seconda è che solo nei paesi in cui la prosperità economica abbia raggiunto la maggioranza dei cittadini è possibile che l’introduzione del suffragio universale non porti il parlamento ad approvare politiche marcatamente redistributive, le quali metterebbero a repentaglio le opportunità future di crescita, a causa di una cessazione della produzione da parte dei soggetti più ricchi oppure di una loro dipartita verso l’estero, cui seguirebbe un arresto dello sviluppo economico del paese d’origine. 78 Se la maggior parte della società vive in condizioni di povertà accentuata e solo una piccola parte è ricca, è molto più probabile che la popolazione venga governata da un regime oligarchico o da una tirannia. Anche secondo Huntington (1999), la modernizzazione dei paesi, realizzata attraverso un processo di industrializzazione, porta alla democratizzazione: questo perché si viene a creare una sfera economica attiva, difficile da controllare da parte di un regime autoritario. Lo sviluppo economico innesca un meccanismo virtuoso che aumenta l’educazione dei cittadini e, di conseguenza, alimenta lo sviluppo di valori democratici, come fiducia e conoscenza. La crescente urbanizzazione rende più facile la comunicazione tra le persone nelle città piuttosto che nei villaggi rurali, così da rendere più difficoltoso il controllo e la soppressione delle persone da parte di un regime autoritario. Inoltre, Huntington sostiene che, parallelamente allo sviluppo economico, i paesi aumentano il commercio internazionale e si aprono al mondo sviluppato. Così, la popolazione di questi paesi si trova sempre più esposta agli approcci democratici prevalenti nel mondo sviluppato. Agli antipodi di questo pensiero ci sono altri studiosi – Sen (2000), Rodrik et Al. (2002), Acemoglu et Al. (2002) – nonché le stesse Nazioni Unite – nel Rapporto sullo Sviluppo Umano del 2002 – che sostengono che sia proprio la democrazia, una volta affermatasi, a generare sviluppo economico, per tre ordini di motivi (Zamagni, 2005b): la democrazia è un meccanismo di creazione e diffusione delle informazioni, le quali essendo necessarie per un’economia di mercato, generano sviluppo economico; la democrazia facilita l’accumulazione di capitale sociale, indispensabile ai fini dello sviluppo poiché motore della diffusione delle virtù civiche; infine, la democrazia riduce le diseguaglianze e conseguentemente l’incertezza sulla propria vita, favorendo la creatività e l’innovazione, le quali sono componenti fondamentali dello sviluppo umano nonché economico. In particolare, il premio Nobel Amartya Sen (2000) dà una propria definizione di sviluppo, intendendolo come “un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani” e sostiene, di conseguenza, che i problemi portati dal XX secolo – miseria, fame, violazione dei diritti e delle libertà fondamentali – sorgano dall’illibertà. L’espansione delle libertà reali degli individui è sia lo scopo principale (ruolo costitutivo) che il mezzo principale (ruolo strumentale) dello sviluppo. 79 Sen (vedi anche infra par. 3.4.3) distingue tra capacitazioni e funzionamenti, intendendo con il primo termine ciò che le persone sono effettivamente capaci di fare e di essere, ovvero l’insieme delle opportunità reali che una persona ha per realizzare la propria vita, la libertà di poter scegliere un comportamento alternativamente ad altri; mentre con il secondo termine egli intende stati di essere o di fare cui gli individui attribuiscono valore. Le capacitazioni, dunque, vengono a configurarsi come insieme di combinazioni alternative di funzionamenti che una persona è in grado di realizzare; mentre le combinazioni di funzionamenti di una persona rispecchiano la sua riuscita reale, sostiene Sen, l’insieme delle capacitazioni rappresenta le sue libertà di riuscire, le combinazioni alternative di funzionamenti tra cui può scegliere. Ciò che lega il concetto di libertà così inteso e le capacitazioni è il fatto che quest’ultime dipendono in modo cruciale dagli assetti economici, sociali e politici; questo significa che, per avere la libertà di scelta tra le diverse capacitazioni, è necessario, tra l’altro, possedere dei diritti civili e delle libertà politiche che permettano – ed è per questo che Sen le configura come libertà strumentali – alla popolazione di stabilire chi deve governare e i principi che dovrà seguire, di avere la possibilità di esaminare e criticare le autorità, di discutere liberamente di politica, di avere una stampa non soggetta a censura, di scegliere fra più partiti politici, in poche parole di raggiungere quella particolare libertà sostanziale che va sotto il nome di democrazia. Che l’economia sia il motore della democrazia – in termini semplicistici – è una tesi che nessuno più sostiene; ma quali sono allora le condizioni facilitanti lo sviluppo di una democrazia? Sartori (2007) elenca le seguenti: una politica come “pace”, da intendersi contrapposta alla politica come “guerra” di Carl Schmitt, il quale sosteneva che la guerra fosse il giusto strumento nelle mani della politica per affermare le proprie idee e il proprio volere; l’autonomia della società civile, caratteristica che si riallaccia alla separazione tra pubblico e privato e alla secolarizzazione della politica; delle credenze di valore pluralistiche. È solo a questo punto che subentra la relazione tra democrazia e dibattito economico: da un lato, come sostiene Sartori, è abbastanza vero – seppure con qualche grossa eccezione – che il benessere facilita la democrazia; dall’altro lato, però, è dubbia l’ipotesi che la democrazia produca benessere. Se lo fa è probabilmente perché le 80 democrazie non disturbano i processi economici più di tanto, e cioè lasciano che si realizzino i meccanismi di mercato. Da questo deriva la certezza che il mercato non sia condizione sufficiente di democrazia, nonché la necessità di verificare se la democrazia trovi nel mercato una sua condizione necessaria. Quest’ultimo problema può essere affrontato sotto due punti di vista: quello economico e quello politico (Sartori, 2007). Il discorso economico sostiene che quanto più una democrazia conta sul benessere ed è attesa a distribuirlo, di altrettanto richiede un’economia in crescita, e cioè una “torta” crescente che consenta sempre più ampie spartizioni. Il discorso politico sostiene, invece, che il requisito per la democrazia sia la diffusione di potere, ovvero la disgregazione di qualsiasi concentrazione di potere – soprattutto se si tratta di potere politico congiunto al potere economico – poiché si verrebbe altrimenti a creare un potere soverchiante contro il quale all’individuo non resta possibilità di difesa. Sottolineando quest’ultimo punto di vista, ci si rende immediatamente conto del rilievo che ha il poter garantire ai cittadini la propria libertà all’interno del loro contesto di riferimento, ovvero la società civile: infatti, come sostiene Bobbio (Bobbio, Viroli, 2001), la libertà democratica è in primo luogo quella di poter decidere le norme che regolano la vita sociale. Da qui nasce l’importanza di comprendere come le componenti della società civile si muovono a favore della promozione della libertà democratica dei cittadini e di analizzare, quindi, la relazione esistente tra le c.d. istituzioni politiche ed economiche. 3.3 Comprendere il ruolo delle istituzioni per cogliere la relazione tra democrazia e sviluppo 3.3.1 I diversi approcci all’analisi istituzionale-economica Acemoglu et Al. (2004) definiscono un’istituzione come “un insieme di regole del gioco in una società o, più formalmente, costrizioni ideate umanamente che determinano l’interazione umana” e che vengono determinate, pertanto, in modo endogeno dalla società stessa (vedi infra Tabella 2 – Categorie di istituzioni). 81 Tabella 2 - Categorie di istituzioni Fiducia Diritti di proprietà Intermediari Informazioni Rent-seeking Reputazione Gruppi di pressione e lobbies Istituzioni amministrative Valori Privatizzazioni Relazioni industriali Concorrenza Free-Riding Fonte: Tridico (2006) Meccanismi di selezione Organizzazioni Leggi e costituzioni Sindacati e club industriali Imprese L’economia istituzionale si interroga sull’impatto che le istituzioni possono avere sulla crescita economica. Si tratta di un filone dell’economia (parte della nuova economia politica20) che si pone come obiettivo di varcare i limiti posti dalla teoria neoclassica ortodossa all’analisi degli effetti economici delle istituzioni. La teoria ortodossa cercava di spiegare le scelte degli agenti economici, le loro interazioni e i risultati a livello collettivo assumendo che: fini e motivazioni umane siano dati a priori; l’assetto legale-istituzionale sia un dato che condiziona le scelte ma che non è da esso condizionato. Ora, invece, l’obiettivo si sposta sull’analisi della determinazione dei vincoli attraverso lo studio delle proprietà di insiemi alternativi di regole legali-istituzionali. Secondo Tridico (2006), nel paradigma più ortodosso della teoria neoclassica non esiste nessun meccanismo istituzionale diverso dall'allocazione del mercato. La sola istituzione ammessa è il mercato dove i prezzi sono determinati. Questa allocazione non coinvolge regole di equità, norme o comportamenti, e le istituzioni sono esogene, o meglio, non sono considerate nell'analisi economica. Nella teoria neoclassica, con ipotesi di informazione e concorrenza perfetta, il sistema allocativo delle risorse e dei beni è guidato dal prezzo (price-guided) ed i costi di transazione sono pari a zero. 20 Sotto l’espressione nuova economia politica si è soliti raggruppare un insieme variegato di approcci e di aree di studio che vanno dalla teoria delle scelte pubbliche a varie scuole neoistituzionaliste, dall’economia comportamentale alla teoria dei diritti di proprietà. (Screpanti, Zamagni, 2004) 82 Pertanto, le istituzioni (a parte il mercato) non sono utili né efficienti in alcun senso, al contrario esse possono ostacolare le performance economiche. Inoltre, rispetto all’origine delle organizzazioni e delle imprese, esse sono il frutto di un processo di massimizzazione vincolata: nel lungo periodo le organizzazioni emergono spontaneamente in virtù del principio della concorrenza e dell’ottimizzazione vincolata. Nel breve periodo sono un dato, un ulteriore vincolo ai processi di massimizzazione degli agenti. Le proposizioni neoclassiche di perfetta informazione, costi di transazione nulli e agente razionale massimizzante impediscono qualsiasi domanda circa il ruolo delle istituzioni, come: “che ruolo hanno le istituzioni nel panorama economico?”; “perché esistono istituzioni diverse?”; “qual è il contributo delle istituzioni alla produttività?”; “perché esistono istituzioni inefficienti?”; “quali sono i meccanismi del cambiamento istituzionale?”. L’analisi istituzionale più recente ha, invece, portato ad una duplice configurazione del concetto di istituzione economica (Tridico, 2006): a. istituzione informale: norme sociali, convenzioni, valori morali, credenze religiose, tradizioni ed altre norme comportamentali che si tramandano attraverso il tempo e sono sopravvissute durante la storia di una determinata società. Le istituzioni informali determinano il comportamento degli agenti e delle organizzazioni nel perseguimento dei loro obiettivi. Queste regole informali sono parte dell'evoluzione dinamica di una comunità ed eredità del suo patrimonio culturale. Esse si auto-rinforzano attraverso meccanismi di imitazioni, tradizioni ed insegnamento. Il processo di auto-rinforzamento (selfreinforcing) è favorito anche da alcune forme di sanzione sociale quali: l’appartenenza ad una comunità, la paura di espulsione da essa, la reputazione ed il timore di essere il solo a non rispettare le regole; b. istituzione formale: è definita generalmente come la sfera della legge, con costituzioni, regolamenti e organizzazioni. C'è un collegamento diretto tra le istituzioni formali e la struttura politico-economica di una società. Alla base di tale struttura vi sono: distribuzione dei diritti di proprietà, sistema giudiziario, governance ecc. Il processo di rinforzamento nella sfera delle istituzioni formali è garantito prevalentemente dal sistema legale. 83 Il dualismo istituzionale così definito evidenzia la complessità di un sistema normativo che, come è sottolineato dalla successiva tabella (vedi Tabella 3 – Descrizione di un sistema normativo), è caratterizzato da una dimensione formale e da una dimensione informale, ognuna con le proprie specifiche caratteristiche: Tabella 3 - Descrizione di un sistema normativo Regole FORMALI Regole INFORMALI CONFORMITÀ Obbligo giuridico Obbligo sociale Reputazione, PROCESSI DI Sanzioni legali, ortodossia di RINFORZAMENTO incentivi appartenenza MOTIVAZIONE STRUMENTI Strumentalità Leggi, organizzazioni, statuti LEGITTIMITÀ Giuridica-statuale Prevalenza Convenzioni tacite, norme sociali, abitudini, valori Culturale-tradizionale Fonte: Tridico (2006) Approfondiremo, d’ora in poi, come si è sviluppata l’analisi istituzionale-economica più recente, per comprenderne le peculiarità che permetteranno successivamente di cogliere la relazione che intercorre tra istituzioni economiche e istituzioni politiche. Il primo neoistituzionalismo che prendiamo in considerazione è quello “utilitarista”: esso è legato al pensiero utilitarista, rivisitato da Douglas North (1990, p.6), secondo cui: “le istituzioni […] rappresentano il modo in cui molte economie affrontano i fallimenti del mercato” . Ma, come si può derivare da un’analisi più approfondita dei campi di studio trattati, si considera riduce il concetto di istituzione ad una soluzione per problemi di efficienza del mercato derivanti dai costi d’uso. Il primo campo di studio vede l’istituzione impresa assumere un ruolo problemsolving nei confronti dell’inefficienza del mercato generata da quei costi connessi all’informazione (Coase, 1937). Williamson (1975, 1985) suddivide questi costi, i c.d. costi di transazione, in: “ex ante”: costi connesi alla negoziazione e alla redazione dei contratti; “ex post”: costi che sorgono nella fase di esecuzione della transazione se si verificano circostanze non regolate preventivamente dal contratto; 84 e la loro dimensione dipende dalle caratteristiche della transazione, che sono: specificità (relativa all’investimento richiesto da parte di una o entrambe le parti), frequenza (dei rapporti tra le parti), incertezza (più lo scambio è incerto, più dovrà essere dettagliato il contratto che lo regola). Williamson definisce i costi di transazione come “i costi di gestione del sistema economico”. Più precisamente si realizza una transazione quando “un bene o un servizio viene trasferito attraverso un raccordo separabile sotto il profilo tecnologico”. Il sistema economico è una catena di transazioni ciascuna implicante il passaggio di beni e servizio da un agente ad un altro. L’utilizzo delle istituzioni di mercato, che favoriscono l’incontro della domanda e dell’offerta, la ricerca delle informazione, lo scambio in sé, la negoziazione, il raggiungimento dei mercati, e tutto quanto concerne il fine ultimo dello scambio e della protezione dei diritti, ha un costo rappresentato dal costo della transazione, appunto, che tutti gli agenti cercano di minimizzare o comunque di economicizzare. Un secondo campo di studio analizza l’istituzione impresa in relazione alla teoria dei diritti di proprietà – diritto al reddito residuale e diritto al controllo residuale. L’interpretazione originaria di Demsetz (1982) prevedeva che la struttura dei diritti d’impresa fosse una risposta ai costi di transazione, mentre l’elaborazione più recente di Grossman, Hart e Moore (1986, 1990) vede l’impresa come un insieme eterogeneo di attività, beni capitali e competenze necessarie per il processo produttivo. Il ruolo fondamentale è ricoperto dal proprietario dell’impresa che è portatore di conoscenze e capacità tali da renderlo indispensabile per l’impresa stessa. L’ultimo ambito di studi di questo filone di ricerca riguarda la teoria d’agenzia, che regola il rapporto tra due soggetti, il principale e l’agente, con funzioni-obiettivo differenti tra loro. Quest’ultimo aspetto causa dei problemi di asimmetria informativa che si risolvono tramite i c.d. contratti di incentivazione, i quali producono costi d’agenzia che generano la necessità di definire una struttura organizzativa appropriata di corporate governance, come insieme di strumenti organizzativi, legali, culturali che garantiscono il massimo ritorno dell’investimento. La seconda dottrina che consideriamo è il nuovo “vecchio” istituzionalismo, il quale fa riferimento al c.d. Old Institutional Economics (OIE) degli anni ‘40 di Thorstein Veblen, John Commons e Wesley Mitchel. 85 La OIE rifiuta il concetto di individualismo metodologico ed il concetto di individuo razionale che massimizza la propria utilità; invece, enfatizza il ruolo delle abitudini, delle regole comportamentali e delle norme sociali come base dell'azione degli agenti. L'OIE sviluppa un concetto alternativo di comportamento economico che trova le sue origini proprio nelle istituzioni. Le istituzioni sono le regole secondo le quali le imprese ed i consumatori rispettivamente "soddisfano" e non "massimizzano" il loro profitto e la loro utilità. Secondo quest’approccio, in economia "institutions matter": le istituzioni non sono necessariamente create per essere socialmente ed economicamente efficienti (in senso paretiano); al contrario, esse sono create per servire e preservare gli interessi di alcuni gruppi sociali e per creare nuove istituzioni. Pertanto, le istituzioni possono definirsi “efficienti” fin tanto che esse permettano il raggiungimento degli obiettivi per i quali originariamente sono state create. Durante gli anni ‘60 - ’70, negli Stati Uniti, torna in auge il filone dell’OIE tuttavia rivisto da esponenti come John Galbraith (1961): il suo obiettivo era quello di esplorare la natura societaria e i modi di pianificazione del sistema delle imprese, nonché studiare l’influenza dei c.d. imperativi tecnologici, la formazione sociale delle preferenze individuali, l’interazione tra sfera privata e sfera pubblica, le forze che influenzano la formazione di opinioni del settore pubblico. Galbraith promosse la “teoria del potere compensativo” (countervailing power), secondo cui un modo per tenere in equilibrio un sistema sociale – riducendone gli aspetti negativi – è quello di bilanciare l’eccesso di potere detenuto in gruppi socioeconomici, consentendo la costituzione di gruppi con interessi contrapposti. Secondo Galbraith, la “mano invisibile” smithiana sarebbe solo causa di disuguaglianza nonché sottodimensionamento dell’attività di R&S, che invece avrebbe grande rilievo per il processo di sviluppo economico. Un altro esponente di questa corrente di pensiero fu Allan Garfield Gruchy (1982), il quale si fece grande sostenitore del fatto che il mercato sia fonte di fallimenti ed inefficienze quali: disoccupazione, diseguaglianza dei redditi, inflazione, inadeguatezza dei servizi sociali, strapotere delle grandi imprese, alienazione e oppressione dei lavoratori/consumatori. Gruchy si focalizza sulla necessità di politiche incisive sulla struttura del sistema economico, tra cui: attiva politica dei redditi; 86 forte regolamentazione delle S.p.A.; risoluta politica antimonopolistica; sviluppo di programmi sociali avanzati; pianificazione economica nazionale – basata sul modello socialdemocratico dei Paesi Scandinavi. Egli, inoltre, teorizza un approccio da lui stesso definito holistic economics, poiché ha l’obiettivo di combinare tra loro le varie discipline sociali; secondo Gruchy, infatti, la disciplina economica deve essere una scienza della cultura e svilupparsi in simbiosi con la sociologia, l’antropologia, la storiografia e la politica. Infine, un altro esponente della stessa corrente di pensiero è Warren J. Samuels (1982), il quale si concentrò sull’indagine della disciplina di Law and Economics in merito al ruolo dello Stato nella costruzione sociale ed economica, svolto attraverso la determinazione dei diritti e delle libertà, l’attribuzione del potere e l’imposizione della coercizione. Parallelamente a ciò che stava accadendo negli Stati Uniti, in Europa si sviluppò un altro tipo di pensiero economico istituzionalista: quello del neoistituzionalismo evoluzionista. È esplicita la tendenza alla tradizione critica di Veblen: questo tipo di neoistituzionalismo rifiuta in blocco il sistema neoclassico, poiché rigetta le ipotesi che definiscono l’homo oeconomicus: a. edonismo; b. individualismo; c. utilitarismo; d. razionalità sostanziale; e. completezza delle informazioni; f. esogeneità delle preferenze. Queste ipotesi vengono sostituite dal concetto di evoluzione darwiniana che comporta il mutamento delle istituzioni, organizzazioni, abitudini, apparati produttivi, norme, in base all’evoluzione della specie per la sopravvivenza umana. Secondo gli esponenti di questa tesi, l’affermazione di certe istituzioni su altre dipende dal loro modo di servire i bisogni degli individui: sopravvivono, perciò, le istituzioni migliori in questo senso e, di conseguenza, lo stato in cui si trova la società in un dato momento storico diventa path-dependent. La prospettiva evolutiva costituisce il filo conduttore del sistema teorico di Friedrich August von Hayek (1937), il quale, negando la possibilità di un’efficace capacità 87 esplicativa da parte della categoria di equilibrio e, di conseguenza, del sistema da essa retto, prova a sostituirlo con il concetto di ordine spontaneo – cioè non indotto artificialmente –, applicandolo al sistema di mercato. L’ordine di mercato è l’elemento centrale della scienza economica così come viene intesa da Hayek. Il mercato rende possibile utilizzare la conoscenza, che Hayek ritiene essere caratterizzata da limitatezza ed individualità (Boccaccio, 1996). Il mercato assume il ruolo di procedimento di scoperta evolutiva attraverso cui si aggiustano sistematicamente le scelte dei soggetti economici e i loro risultati, di luogo in cui, ancora prima di essere scambiati beni e servizi, si scambiano le informazioni (ad esempio, attraverso il meccanismo dei prezzi) ad essi relative. Diceva Hayek: “Uno dei nostri principali obiettivi sarà quello di mostrare che la maggior parte delle regole di condotta che governano le nostre azioni e la maggior parte delle istituzioni che emergono da tali regolarità di comportamento, sono adattamenti all’impossibilità, in cui ciascuno si trova, di conoscere consapevolmente in dettaglio tutti i fatti particolari che influenzano l’ordine della società.” Alla base del ragionamento di von Hayek c’è la concezione di evoluzione culturale intesa come processo di selezione competitiva da cui scaturiscono regole di condotta individuale e istituzioni sociali con cui vengono affrontati i problemi dell’interazione umana. Questo non significa che Hayek sostenne che i sistemi di norme sociali di un dato contesto vadano lasciati a sé, bensì che l’azione a favore di un disegno istituzionale può e deve avere luogo tutte le volte che le condizioni generali possono essere migliorate per accrescere l’utilizzo e la scoperta di nuove conoscenze. Gli economisti Paul David e Brian Arthur (1985, 1988) si soffermarono sulla ricerca di una spiegazione relativa al ruolo dei rendimenti crescenti nello sviluppo economico, ritenendo che la dinamica dei sistemi economici sia history-dependent, dipendente, cioè, dalle condizioni iniziali e dal successivo sentiero perseguito dall’economia nei periodi antecedenti il momento considerato. La scelta del sentiero è molto spesso frutto di processi deliberativi di tipo collettivo che chiamano in causa le relazioni sociali e le politiche prevalenti nella società (Bruni, Zamagni, 2004). 88 Le differenti tipologie di rendimenti crescenti – learning-by-doing e learning-byusing, effetti di coordinamento, esternalità di rete – causano irreversibilità degli investimenti dovuti all’utilizzo di particolari tecnologie. Di conseguenza, si vengono a creare dei problemi collegati ai rendimenti crescenti, quali (Screpanti, Zamagni, 2004): a- l’esistenza di equilibri21 multipli22; b- l’esistenza di forme di inefficienza paretiana23; c- effetti di lock-in: significa che una volta raggiunto un certo stato in economia è poi difficile modificarlo; d- fenomeni di path-dependence: la dinamica è influenzata dalle condizioni iniziali, così che la storia risulta essere rilevante; e- processi di symmetry-breaking: nonostante i presupposti di partenza siano caratterizzati da simmetria, lo stato conclusivo può realizzarsi in condizioni di asimmetria. Ognuno di questi problemi può essere direttamente collegato, piuttosto che a variabili economiche, alle convenzioni e alle norme sociali che regolano il funzionamento delle organizzazioni ed istituzioni e che sono carriers of history: possono, cioè, scaturire dall’evoluzione di strutture originatesi spontaneamente ed endogenamente oppure possono essere il risultato di regole d’interazioni consapevoli. L’ipotesi basilare di partenza è quella dell’interpretazione dell’economia come sistema complesso, ovvero un ambiente in cui la storia non si ripete. I modelli di crescita e sviluppo tecnologico con rendimenti crescenti sono particolarmente adatti a rappresentare sistemi economici che si comportano caoticamente, cioè in cui c’è non-linearità e, pertanto, si verifica il fenomeno che va sotto il nome di “caos deterministico”, una dinamica generata da leggi che in sé non 21 Il riferimento è alla teoria dei giochi, dove per equilibrio di Nash si intende un vettore di strategie, una per ciascun giocatore, tali che la strategia di ogni giocatore è la risposta ottimale (in termini di payoff) alle strategie scelte dagli altri giocatori (Cabral, 2002). 22 Si hanno equilibri multipli quando un gioco può avere più di un equilibrio di Nash (Varian, 2002). 23 L’inefficienza paretiana deriva dalla possibilità di ottenere un “miglioramento paretiano” dell’allocazione delle risorse, cioè dall’esistenza di una modalità ulteriore rispetto alla situazione attuale di aumentare la soddisfazione di qualcuno senza diminuire quella di qualcun altro (Ibidem). 89 comportano alcunché di stocastico24, ma che può produrre traiettorie erratiche in relazione a piccole “perturbazioni” delle condizioni iniziali. In base ai differenti livelli di sviluppo tecnologico, si definiscono le caratteristiche di un’economia in un determinato momento temporale: a. a bassi livelli di sviluppo tecnologico corrisponde un’economia c.d. stazionaria; b. a livelli più elevati di sviluppo tecnologico sorgono delle oscillazioni periodiche, i c.d. cicli economici; c. a livelli ancora più avanzati di sviluppo tecnologico si ha la possibilità di avere una sovrapposizione di due o più periodicità; d. in una fase ancora più avanzata l’economia è in uno stato turbolento, con variazioni irregolari e marcata dipendenza dalle condizioni iniziali. Essendo quest’ultimo lo stato più vicino alla situazione economica attuale, si può sostenere che la necessità preminente sia quella di accantonare l’analisi di equilibrio di un sistema per lasciare spazio allo sviluppo di approcci che studiano come le preferenze, le aspettative e le azioni dei soggetti economici reagiscono in modo sistematico all’insieme di risultati che esse stesse generano. Da un punto di vista di politica economica, le istituzioni governative dovranno esercitare la loro autorità per adottare strutture di comportamento capaci di crescere in modo spontaneo. 3.3.2 Interdipendenza tra istituzioni economiche e istituzioni politiche Entrando più nello specifico, le istituzioni economiche possono essere definite come “la struttura dei diritti di proprietà e la presenza e il perfezionamento dei mercati”; la loro influenza si ripercuote sulla struttura degli incentivi economici della società; inoltre, esse aiutano ad allocare le risorse ai loro usi più efficienti e determinano a chi spettano i profitti delle attività economiche, le entrate e i diritti residui di controllo. La definizione, l’allocazione e la protezione dei diritti di proprietà è una delle più complesse e difficili questioni che ogni società deve affrontare. Si può pensare di devolvere maggiori diritti e proprietà allo Stato, riducendo e limitando la proprietà privata, se questo viene considerato più efficace da un punto di vista sociale; si può altresì pensare di ridurre le proprietà e le prerogative dello Stato a 24 Il concetto di stocasticità individua una situazione caratterizzata da deviazioni casuali del sentiero di equilibrio che influiscono sulla tendenza di lungo periodo (Screpanti, Zamagni, 2004). 90 beneficio degli individui, se questo viene considerato più efficiente per una migliore allocazione delle risorse. Tuttavia, quello che invece bisogna evitare è l’ambiguità, l’incertezza e la non distribuzione dei diritti di proprietà, in quanto ciò condizionerebbe negativamente il sistema produttivo (Alchian e Demsetz, 1973). Questo perché i diritti di proprietà determinano in modo esclusivo e definitivo come le risorse devono essere usate e da chi devono essere usati (individui, Stato, collettività). Le istituzioni economiche incoraggiano l’emergere della crescita economica quando le istituzioni politiche allocano il potere in gruppi che esprimono interesse verso il rafforzamento dei diritti di proprietà generalizzati, quando esse creano costrizioni effettive su chi detiene il potere, nonché quando esistono relativamente poche possibilità di essere costretti nelle proprie azioni da coloro che detengono il potere. Le istituzioni economiche sono importanti per la crescita economica perché influenzano gli incentivi degli attori economici chiave della società; in particolare, influenzano gli investimenti in capitale fisico ed umano e in tecnologia ed organizzazione della produzione, per cui determinano prosperità. Le istituzioni economiche sono endogene, determinate come scelte collettive, in larga parte per le loro conseguenze economiche: la società sceglierà le istituzioni economiche che sono socialmente efficienti – concetto che va al di là del semplice “ottimo paretiano” e che è associato ad un surplus, alla massimizzazione del benessere o dei risultati. Per questo motivo le istituzioni economiche variano da paese a paese, sono diverse nei diversi contesti sociali e non hanno, generalmente, un modello verso cui esse convergono, nel senso che in alcuni contesti alcune istituzioni possono essere presenti in altri no, ed anche laddove esse sono simili, non è detto che svolgano la stessa funzione o abbiano gli stessi effetti. La distribuzione del potere politico nella società è anch’essa endogena; in particolare se ne distinguono due tipologie: potere politico de jure (istituzionale): è quello derivante dalle istituzioni politiche della società, che determinano le costrizioni sugli attori chiave e i loro incentivi, ma nella sfera politica (non economica); potere politico de facto: è quello nelle mani di gruppi di individui che non ricevono il potere dalle istituzioni politiche, ma che lo derivano da altre fonti: a. dall’abilità del gruppo in questione di risolvere il suo problema di azione collettiva; 91 b. dalle risorse economiche che determinano sia le loro abilità nell’usare (o misurare) le istituzioni politiche esistenti, sia la possibilità di assumere ed usare il potere contro differenti gruppi. Schematizzando, la rappresentazione di quanto fin qui esposto può essere la seguente: 2 VARIABILI DI STATO ISTITUZIONI POLITICHEt DISTRIBUZIONE DELLE RISORSEt POTERE POLITICO “DE JURE”t POTERE POLITICO DE FACTO” t ISTITUZIONI ECONOMICHEt RISULTATI ECONOMICIt e DISTRIBUZIONE DELLE RISORSEt+1 ISTITUZIONI POLITICHE t+1 Fonte: Acemoglu et Al. (2004) Definiti gli ambiti di interesse delle due diverse tipologie di istituzioni, la questione è la seguente: in che modo delle “semplici” istituzioni possono essere appellate con l’aggettivo democratiche? Che cos’è che rende queste istituzioni capaci di garantire ai cittadini i diritti politici, intesi come “quei diritti che permettono alle persone di partecipare liberamente al processo politico – includendo in questa definizione: il diritto di votare liberamente per distinte alternative in elezioni legittimate, di competere per i pubblici uffici, di far parte di partiti politici ed organizzazioni, nonché di eleggere rappresentanti che abbiano un impatto decisivo sulle politiche pubbliche e siano capaci di rendicontare all’elettorato – e che sono fondati sul livello di controllo da parte di ciascun individuo nei confronti di coloro che governano uno Stato (Saurabh, 2007)?” Persson e Tabellini (2005) affermano che la risposta risiede in ciò che essi definiscono come capitale democratico, ovvero “l’esperienza storica di una nazione democratica e l’incidenza sul paese stesso da parte di paesi democratici confinanti”, il quale permette di, da un lato, ridurre il tasso di uscita da un regime democratico, dall’altro, aumentare il tasso di entrata in un regime autocratico. Nelle democrazie, un più alto stock di capitale democratico stimola la crescita in modo indiretto, attraverso l’incremento della probabilità di un colpo di Stato da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni. 92 Se la democrazia influenza la performance economica, come dimostrano anche Acemoglu et Al. (2004) – le istituzioni politiche al tempo t influenzano le istituzioni economiche al tempo t e, di conseguenza, i risultati economici al tempo t –, quest’ultima, quasi per definizione, influenza i rendimenti attesi degli investimenti. Attraverso gli investimenti, le prospettive di una futura democrazia, allora, diventano determinanti fondamentali della performance economica attuale. Per valutare correttamente le conseguenze economiche della democrazia, bisogna perciò guardare al di là del regime politico attuale, cercando di prevedere il suo grado di stabilità. Persson e Tabellini (2005), partendo da una funzione di produzione neoclassica nella sua forma intensiva, determinano la produzione aggregata yt come: yt = A (at) f (kt) con kt = capitale per lavoratore; ; f = funzione concava tale per cui fk(0) A = fattore totale di produttività (TFP – Total Factor Productivity). Il livello di TFP viene calcolato per distinguere tra regime democratico, indicato con at = 0, e il regime autocratico, indicato con at = 1. Le differenze di TFP dei diversi regimi politici possono riflettere le priorità di politica economica che ora sono lasciate implicite. All’inizio del periodo t, si possono individuare tre variabili di stato: a. kt , lo stock di capitale accumulato per lavoratore nel periodo t – 1; b. at-1, il regime politico alla fine del precedente periodo; c. dt-1, il capitale democratico accumulato fino al periodo precedente. Ne deriva che, durante il periodo t: 1- in un regime democratico (at-1 = 0), un tentativo di colpo di Stato ha luogo con la probabilità (0), mentre in un regime autocratico (at-1 = 1), un tentativo di insurrezione avviene con probabilità (1); 2- se un tentativo di colpo di Stato o di insurrezione è realizzato, ogni individuo anziano deve prendere una decisione individuale sull’eventuale partecipazione in difesa della democrazia (resistere 93 al colpo di Stato o partecipare all’insurrezione)25. Questa decisione è basata su un segnale sintomatico e specifico-individuale, sui costi mit e sul beneficio percepito della partecipazione nella difesa di successo bt; 3- la probabilità che un regime democratico sopravviva ad un colpo di Stato, o che un regime autocratico cada dopo un’insurrezione, è uguale a st, la proporzione della popolazione anziana che partecipa alla difesa della democrazia; 4- una volta che at – il regime politico nel periodo t – è stato determinato secondo il punto 3, il valore attuale del TFP, A (at), è realizzato; 5- le decisioni di investimento per il periodo successivo, t +1, sono compiute da ciascun individuo giovane, basandosi sui rendimenti attesi nel periodo t +1. L’accumulazione di uno stock di capitale civile e sociale – capitale democratico – attraverso l’insegnamento sia del paese stesso, tramite l’analisi e la comprensione della sua esperienza storica, sia dei paesi a esso confinanti, consente di innescare un circolo virtuoso, una spirale di reazione positiva tra democrazia e sviluppo economico: DEMOCRAZIA SVILUPPO STABILE ECONOMICO EFFETTI CONSOLIDAMENTO ACCUMULO POSITIVI SU DEMOCRAZIA DI CAPITALE REDDITO E DEMOCRAZIA Fonte: Nostra elaborazione L’accumulazione di capitale fisico e democratico ha un effetto reciprocamente rinforzante, che promuove lo sviluppo economico congiuntamente al consolidamento della democrazia. Questo dimostra come le aspettative sui regimi politici futuri giocano un ruolo importante, legato al rischio che l’uscita dalla democrazia danneggi la crescita economica. L’effetto positivo della crescita della democrazia è reso più forte mettendo in conto la possibilità di un cambiamento di un regime politico, la cui probabilità è determinata a livello mondiale, in cui i cittadini individualmente decidono se partecipare nel difendere la democrazia (o nel far cadere un dittatore): decisione che riflette la dotazione di capitale democratico della società in questione. 25 Si supponga come ipotesi di base del modello che i giovani non prendano parte alla difesa della democrazia (Persson, Tabellini, 2005). 94 Tuttavia, è importante rendersi conto della difficoltà di entrata all’interno di questo circolo virtuoso, dovuta al fatto che la stabilità di un regime democratico non può essere raggiunta istantaneamente. È stato dimostrato (Persson, Tabellini, 2005) come esista un concetto di pathdependence storico legato al regime politico di uno Stato: ma questo “sentiero” da che cosa è a sua volta influenzato? 3.3.3 L’incidenza del concetto di “cultura” sul funzionamento ottimale delle istituzioni Le istituzioni non sono necessariamente create per essere socialmente ed economicamente efficienti (in senso paretiano); al contrario, esse sono create per servire e preservare gli interessi di alcuni gruppi sociali e per generare nuove istituzioni. Pertanto, le istituzioni possono definirsi “efficienti” fin tanto che esse permettono il raggiungimento degli obiettivi per i quali originariamente sono state create. Le istituzioni economiche sono strumenti, regole e modelli comportamentali che non solo creano le preferenze ma anche aboliscono il meccanismo di massimizzazione da parte degli agenti, sostituendo ad esso un modello il cui comportamento degli agenti non è guidato dal prezzo, bensì è determinato dalle istituzioni (Matzner, 1993). Tabellini (2007) definisce con il termine cultura un “insieme di valori e di convinzioni individuali in merito allo scopo di applicazione di norme di buona condotta”. In molti paesi poveri o stagnanti da un punto di vista politico-economico, i politici sono inefficaci e corrotti, i beni pubblici sono sotto-forniti e le politiche pubbliche conferiscono benefici ad élite privilegiate; inoltre, l’applicazione della legge è inadeguata e, di conseguenza, il moral hazard26 è diffuso all’interno di istituzioni pubbliche e private. Anche all’interno di uno stesso paese (come, ad esempio, l’Italia) si presentano grandi differenze nel funzionamento della burocrazia, nonostante si sia sottoposti alla stessa legislazione e agli stessi incentivi, nonché si disponga di risorse simili. 26 Con il termine moral hazard si intende una forma di opportunismo post-contrattuale causata dalla non osservabilità di certe azioni, che permette agli individui incaricati di eseguirle di perseguire i propri interessi personali, a spese della controparte (Milgrom, Roberts, 1997). 95 Una ragione del perché la politica economica “standard”, con il suo approccio, trovi difficoltà nel spiegare queste differenze risiede soprattutto nel suo concentrarsi sugli incentivi economici e sui conflitti redistributivi. Ma, mentre gli incentivi individuali sono forti ed influenti nella maggior parte delle situazioni economiche, questo non vale per numerose situazioni politiche in cui il risultato aggregato riflette le azioni di molti individui atomistici. Per spiegare alcuni risultati politici o il funzionamento delle istituzioni burocratiche, si potrebbe dover andare oltre gli incentivi economici puri ed analizzare altri fattori che motivano il comportamento individuale e che sono caratterizzati da un’evoluzione lenta nel tempo – i c.d. valori normativi individuali. Infatti, un’interpretazione “alternativa”27 di cultura si riferisce “ad oggetti più primitivi, come valori individuali e preferenze individuali” (Akerlof, Kraton, 2003). La lunga modifica delle attitudini individuali è influenzata da risultati politici ed economici del passato remoto, ovvero, da un punto di vista macroeconomico, dai fallimenti e dai successi di un governo determinati in diverse aree politiche (Tabellini, 2007): controllo della corruzione (corruption); qualità della burocrazia (bureaucratic quality); assenza del rischio di rifiuto dei contratti governativi (repudiation); qualità delle infrastrutture (infrastructures); rafforzamento della conformità delle tasse (tax compliance); assenza di rischio di insolvenza del debito estero (S&P rating); qualità dell’ambiente (environment); protezione dei diritti di proprietà (gadp). Da un punto di vista statistico, la correlazione tra questi indicatori è generalmente molto alta e sempre significante (vedi infra Tabella 4 e relativo Grafico 6 - Qualità degli indicatori di governo: correlazioni pair-wise). Attraverso questi parametri è possibile stabilire la qualità di un governo come caratteristica generale di un paese. 27 Il significato più diffuso del termine cultura è quello definito da Schotter (1981), Myerson (1999), Greif (1994): “Convenzioni sociali e credenze individuali che sostengono l’equilibrio di Nash come punto centrale in interazioni sociali ripetute o quando ci sono equilibri multipli”. 96 L eprincipaligeneratricidicapitalesocialebridgingsono,invece,leorganizazioni Fonte: Tabellini (2007) Grafico 6 - Qualità degli indicatori di governo: correlazioni pair-wise 1 Corruption 0,8 Bureaucratic quality 0,6 Repudiation 0,4 Infrastructures 0,2 Tax Compliance S&P rating 0 0 2 4 6 8 10 Gadp Fonte: Nostra elaborazione Una volta compreso il concetto di valori normativi individuali, è necessario introdurre quello di “moralità”, intesa come istituzione informale, ovvero un insieme di norme sociali, convenzioni, valori morali, credenze religiose, tradizioni ed altre norme comportamentali che si tramandano attraverso il tempo e sono sopravvissute durante la storia di una determinata società e che, pertanto, fanno parte dell’eredità del patrimonio culturale di una comunità. Esse si auto-rinforzano attraverso meccanismi di imitazione, tradizioni ed insegnamento – processo di self-reinforcing – favoriti anche da alcune forme di sanzione sociale quali l’appartenenza ad una comunità (con conseguente paura di espulsione da essa), la reputazione ed il timore di essere il solo a non rispettare le regole. Esistono, infatti, due tipologie di moralità: a- quella limitata, derivante dalle società gerarchiche, in cui i codici di buona condotta e di comportamento onesto sono spesso confinati a piccoli circoli di persone imparentate; 97 b- quella generalizzata, derivante dalle società democratiche, in cui le regole astratte di buona condotta sono applicate a diverse situazioni sociali e sono supportate dai valori normativi individuali. Se da un lato la moralità limitata induce comportamenti imbroglianti e alimenta il problema del free riding28, dal lato opposto la moralità generalizzata alimenta la cooperazione reciproca, induce rispetto e confidenza – riducendo il fenomeno del free riding –, facendo crescere la partecipazione degli individui alla vita politica e amministrativa della propria comunità. La conseguenza della moralità generalizzata è l’induzione di un buon funzionamento delle istituzioni attraverso: a- il rafforzamento della legge; b- una riduzione della tendenza alla corruzione all’interno dell’apparato burocratico; c- una crescente attesa dei votanti di comportamenti onesti e trasparenti da parte dei rappresentanti politici. È stato dimostrato (Tabellini, 2007) che i valori individuali coincidenti con la moralità generalizzata sono diffusi in società che nel loro passato remoto venivano governate da istituzioni politiche non dispotiche, che questo incida notevolmente sul buon funzionamento delle istituzioni e, di conseguenza, dato il legame illustrato precedentemente, sulla performance economica di un paese. Tabellini (2007) ha condotto una ricerca, da un punto di vista microeconomico, che, attraverso un “approccio epidemiologico”, dà prova di quanto appena sostenuto: come misura delle attitudini individuali viene utilizzato un indicatore di fiducia generalizzata verso gli altri, criterio di valutazione sia della credibilità di un comportamento onesto da parte degli altri sia dell’importanza data dagli individui interpellati all’onestà e all’affidabilità degli altri. Il campione di paesi considerato (vedi infra Tabella 5 e relativo Grafico 7 – Paesi di origine degli immigrati negli Stati Uniti) è caratterizzato da un livello attuale di sviluppo abbastanza omogeneo, anche se non in termini di storia politica ed economica nel passato remoto. 28 Con il termine free riding si intende il comportamento di un individuo attuato per poter raggiungere il livello ottimale di consumo individuale indipendentemente dal suo contributo ai costi di produzione del bene consumato, a causa della caratteristica di non escludibilità dei beni pubblici (Milgrom, Roberts, 1997). 98 All’interno di questo campione di paesi vengono esaminati i 4320 immigrati negli Stati Uniti appartenenti alla terza generazione, vale a dire quegli individui nati negli Stati Uniti che hanno almeno due nonni nati all’estero. Tabella 5 – Paesi di origine degli immigrati negli Stati Uniti Numero di Numero di Paese d' origine Paese d' origine individui individui Austria 69 Jugoslavia 45 Canada 200 Lituania 40 Cecoslovacchia 149 Messico 252 Danimarca 51 Paesi Bassi 94 Finlandia 46 Polonia 376 Francia 63 Portogallo 30 Germania 834 Russia 162 Grecia 38 Spagna 40 Ungheria 75 Svezia 153 Irlanda 485 Regno Unito 450 Italia 668 Totale 4320 Fonte: Tabellini (2007) Grafico 7 - Paesi di origine degli immigrati negli Stati Uniti Austria Canada Cecoslovacchia Danimarca Finlandia Francia Germania Grecia Ungheria Irlanda Italia Lituania Messico Paesi Bassi Polonia Portogallo Russia Spagna Svezia Regno Unito Jugoslavia Fonte: Nostra elaborazione Per ognuno di questi individui immigrati sono state prese in considerazioni alcune caratteristiche distintive: a. sesso (M o F)*; 99 b. reddito *; c. educazione; d. stato lavorativo *; e. età *; f. religione; g. stato civile; h. con o senza figli; i. educazione impartita ai genitori *; j. numero di nonni nati all’estero; con * = caratteristiche particolarmente significative da un punto di vista statistico. Il risultato della ricerca effettuata si concretizza nella presenza di una più ampia componente di fiducia negli immigrati di terza generazione che provengono da paesi che più di un secolo fa ebbero delle forti istituzioni politiche (vedi infra Grafico 8 – Fiducia attuale degli immigrati di terza generazione). Fonte: Tabellini (2007) Ciò dimostra come sia stretto e fondamentale il legame tra istituzioni sane e diffusione capillare nella società di un sentimento di fiducia che permetta la realizzazione di un regime politico di tipo democratico. 100 3.3.4 Supremazia della legge, apertura economica, democrazia e crescita di un paese In termini politico-economici, l’atteggiamento da parte delle istituzioni di un paese che presenta un regime democratico ammette la prevalenza della supremazia della legge – rule of law – e il rafforzamento dei diritti di proprietà, questi ultimi intesi come componenti del concetto più ampio di diritti civili, ovvero quelle tutele basilari di ogni persona, che dovrebbero essere fornite ad ogni cittadino dalla legge. La rule of law e i diritti di proprietà sono elementi endogeni del sistema democratico, essendo determinati, tra l’altro, anche dalle condizioni politiche ed economiche. Il legame di stretta dipendenza tra le diverse variabili endogene è sottolineato nel metodo alternativo proposto da Rigobon e Rodrik (2004), che va sotto il nome di “Identificazione attraverso Eteroschedasticità” (Identification through Heteroskedasticity – IH) e che si occupa dei risultati di equazioni simultanee che sono probabilmente presenti nella determinazione congiunta di istituzioni, apertura e reddito di un paese. Date le due equazioni che descrivono la relazione tra reddito (y) e qualità delle istituzioni (I): y= I+ e I= y+v la forma strutturale del modello (che non può essere stimata) diventa: AX = c + con A = matrice che caratterizza la relazione contemporanea tra le variabili endogene; X = N variabili endogene; c = vettore che denota i termini costanti; = shock strutturali. La forma ridotta del modello (che, invece, può essere stimata) è: X= c + A 101 con = A-1 = scarto della forma ridotta. = A Le N variabili endogene tenute in considerazione nella matrice sono: reddito (y); istituzioni democratiche (idem); istituzioni economiche – rule of law (irol); grado di apertura commerciale (open); distanza dall’equatore (disteq); superficie del territorio (area); popolazione (pop). Il modello assume, perciò, la seguente forma: Ne derivano i seguenti risultati: 1- relativamente al reddito (y): • la democrazia e la rule of law sono entrambe positive per la performance economica, ma la seconda ha un impatto molto più forte sui redditi – sia da un punto di vista statistico che quantitativo; • l’apertura commerciale (commercio/PIL) ha un impatto negativo sui livelli di reddito; • i paesi che si trovano distanti dall’equatore sono più ricchi; 2- relativamente alle istituzioni (idem e irol): • redditi più alti producono migliori istituzioni; • la rule of law e la democrazia solitamente si rinforzano reciprocamente e tendono ad alimentarsi l’un l’altra: una migliore rule of law produce più democrazia e viceversa; • l’apertura commerciale è buona per la rule of law ma negativa per la democrazia; 102 3- relativamente all’apertura commerciale (open): • le variabili determinanti il grado di apertura sono collegate alla “geografia”: distanza dall’equatore (disteq); superficie del territorio (area); popolazione (pop). La relazione tra apertura commerciale, identità dello Stato-nazione e istituzioni democratiche è ripresa dallo stesso Dani Rodrik (2000), che pone come questione i possibili trade-off tra i concetti considerati: secondo l’economista, infatti, la globalizzazione dell’economia mondiale genera un triangolo di obiettivi (il c.d. trilemma politico) che, purtroppo, possono e devono essere perseguiti solo per coppie di due. Il trilemma impone una scelta del tipo “pick two, any two”: si disegni un triangolo con ai vertici le tre variabili; poi si scelga uno dei tre lati, che lega a due a due i vertici della figura. Si otterranno così tre combinazioni diverse, che si escludono reciprocamente. Rodrik ritiene che questo trilemma rappresenti una sorta di evoluzione di quello che aveva dominato la prima stagione dell’integrazione economica mondiale – quella compresa tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e le crisi, monetarie ed energetiche, degli anni Settanta – quando mobilità dei capitali, autonomia monetaria nazionale ed un regime di cambi fissi erano tre aspirazioni che potevano essere conseguite solo a coppie di due. Il compromesso di Bretton Woods si fondava sulle ultime due: un regime di dollar standard e la responsabilità monetaria delle autorità nazionali (vedi infra Figura 2 (A) – Standard Trilemma). La crescente mobilità di capitali su scala internazionale impose, infatti, di rinunciare al dollar standard in favore di tassi flessibili mentre, nel precedente regime di gold standard, la mobilità dei capitali ed un regime di cambi fissi riducevano drasticamente il grado di libertà per le politiche monetarie nazionali. 103 Fig. 2 (A): Standar Trilemma Fonte: Rodrik (2000) Oggi, la globalizzazione ci impone di convivere con tre aspirazioni diffuse: un regime di piena democrazia politica; la presenza di Stati nazionali ed un marcato processo di integrazione economica. Il trilemma può essere trasformato pur mantenendone le caratteristiche di fondo: si sostituisca all’autonomia monetaria la mass politics (cioè l’attuazione di politiche democratiche), alla parità fissa lo Stato-nazione e al libero movimento dei capitali la globalizzazione (cioè la piena integrazione economica internazionale). La scelta sarà così tra le combinazioni “Stato-nazione e globalizzazione”, “globalizzazione e mass politics”, “Stato-nazione e mass politics”. E cioè, la scelta sarà tra il modello della golden straitjacket, un federalismo globale, o, infine, un nuovo compromesso di Bretton Woods (vedi infra Figura 2 (B) – Augmented Trilemma). Cedrini (2005) sostiene che la prima, e cioè la “camicia di forza dorata”, corrisponde al lasciare che i mercati governino il paese, affinché la loro fiducia non venga mai meno. Se però si vuole un mondo globalizzato nel quale la politica non sia esautorata, bisogna rinunciare allo Stato-nazione e affidare il potere sul pianeta alle Nazioni Unite o comunque a un governo federale mondiale. Se, infine, si ritiene che il problema, almeno per ora, sia ancora quello di consegnare ai cittadini di un paese la scelta sulla propria via allo sviluppo o, in generale, sulla gestione dell’economia e sui fini sociali, politici, economici e morali che in tal modo s’intendono raggiungere, allora bisogna rinunciare a considerare la sempre maggiore integrazione economica come obiettivo ultimo dell’azione politico-economica. 104 Fig. 2 (B): Augmented Trilemma Fonte: Rodrik (2000) Tanto più, aggiunge Rodrik, che la soluzione probabilmente migliore, e cioè un governo democratico e federale che assicuri la convivenza all’interno del one world, è lontana almeno un secolo. Il nuovo trilemma ci pone di fronte al seguente interrogativo: se le decisioni di rilevanza pubblica devono essere prese da coloro i cui interessi sono in gioco, e contemporaneamente proseguire il processo di integrazione economica internazionale, c’è ancora posto per gli Stati-nazione, cioè per uno Stato che, in termini di politica economica, sia capace di farsi carico del regime di previdenza sociale e della stabilità macroeconomica di un mercato che ricada sostanzialmente nel perimetro amministrativo dei suoi confini? L’attenzione si sposta, a questo punto, sulla comprensione degli interessi in gioco di coloro che assumono decisioni istituzionali. Più precisamente, se le istituzioni sono forti e si muovono a tutela dei più poveri, rendendo impossibile l’appropriazione del loro reddito attraverso il rent-seeking da parte dei più ricchi, allora ne consegue che il benessere individuale determina in larga misura gli atteggiamenti verso il rafforzamento dei diritti di proprietà e, conseguentemente, la distribuzione di benessere determina il prodotto politico in questo senso (Gradstein, 2004). In economia, con il termine rent-seeking – o “ricerca di rendita” – si intende una situazione in cui un individuo, un’organizzazione o un’azienda cerca di guadagnare manipolando e facendo pressione sull’ambiente economico o giuridico – lobbying –, piuttosto che realizzando un profitto attraverso il commercio e la produzione di benessere, derivante dal possesso di una licenza per una determinata attività, perché si 105 vuole evitare, attraverso la distribuzione di nuove licenze, che la propria rendita o posizione di vantaggio acquisita – di monopolista – venga ridotta (Tridico, 2006). Quando l’apparato politico è controllato da una ristretta e ricca élite, non è interessante per lo Stato una protezione contro il rent-seeking, proprio perché quest’ultimo beneficia relativamente i più ricchi. Gradstein (2004) ha analizzato il caso in cui, endogenizzando la partecipazione politica, l’élite inizialmente detiene il potere politico e contempla la possibilità di autorizzare la partecipazione politica di massa. Prevedendo l’effetto negativo del rent-seeking sugli investimenti individuali – crescita aggregata – l’élite potrebbe volere sia democratizzare che vincolare il governo futuro a rinforzare la protezione dei diritti di proprietà. L’eventuale partecipazione politica di massa avverrà solo se esiste la condizione iniziale di “moderata ineguaglianza” all’interno della società o quando il ceto medio è inizialmente attivo politicamente. Allora, la democratizzazione sarà seguita da un incremento degli investimenti, i cui frutti saranno protetti dal governo dominante, riducendo l’ineguaglianza e alla presenza di una crescita rapida. Se, tuttavia, le condizioni iniziali non dovessero prevalere, allora l’élite manterrà il potere, e gli investimenti e la crescita saranno quantitativamente inferiori. In questo caso, i guadagni economici potenziali come risultato della partecipazione politica di massa per ridurre il rent-seeking saranno impossibili da realizzare. La ragione di quanto sopraindicato, secondo Gradstein (2004), deriva dalla irrealizzabilità di definizione di un contratto sociale con il quale le masse povere si impegnino a risarcire l’élite ricca dopo che il nuovo governo sia stato costituito. Ponendo a confronto i modelli di democratizzazione dei diritti di proprietà (property rights - PR) e del rent-seeking (RS), Gradstein dimostra che: 1- sotto il regime PR, la variabilità del reddito decresce, mentre sotto il regime RS cresce lungo tutto il periodo analizzato; l’investimento netto economico ed il livello di crescita del reddito medio è maggiore sotto il primo regime; 2- sia con che senza l’impegno di un regime istituzionale, più ricco è un individuo più favorevoli questi sarà nei riguardi del RS inefficiente; e quando l’inclinazione politica a favore dei ricchi (la soglia di franchigia o reddito del policy-maker) è abbastanza ampia, il RS sarà preferito da parte dell’élite politica; 106 3- quando i policy-makers decisivi appartengono all’élite ricca, la franchigia non sarà estesa nonostante la sua crescita e l’aumento potenziale di benessere. Solo quando il reddito del policy-maker è nella serie intermedia, la franchigia sarà estesa in modo tale da vincolare i governi futuri ad un regime di protezione della proprietà privata; 4- la democratizzazione fondamentalmente dipende dalle condizioni iniziali. Se la classe media è in possesso del diritto di voto o se l’ineguaglianza iniziale è relativamente bassa e l’economia è sufficientemente produttiva da generare crescita del reddito tra i poveri, la democratizzazione eventualmente sarà possibile, come risultato della protezione dei diritti di proprietà, della minore ineguaglianza e della crescita più rapida. Viceversa, l’economia sarà dominata dall’élite benestante e il rent-seeking prevarrà, generando crescita lenta e elevata ineguaglianza. La riduzione di un comportamento massimizzante i propri interessi personali da parte dei soggetti governanti e, pertanto, l’applicazione del concetto di accountability29 anche in questo contesto, ha come conseguenza la possibilità per le democrazie di avere più basse barriere all’entrata in un mercato rispetto a regimi politici autocratici. Aghion, Alesina e Trebbi (2007) si sono interrogati su se e quando la democrazia migliori la crescita economica, partendo dal presupposto che le istituzioni politiche – e in particolare la democrazia – potrebbero avere effetti diversi su differenti settori dell’economia. Il modello da loro posto in essere ha l’obiettivo di dimostrare che la libertà di entrata – che è collegata ai diritti politici – è favorevole al miglioramento economico, specialmente per quei settori più vicini alla frontiera tecnologica, perché nuove imprese e competizione implicano l’innovazione tecnologica. Prendendo in considerazione un solo periodo di riferimento t e un solo settore di produzione i, data la tecnologia di produzione yt : yt = (1/ ) con: 1 0 Ait1- xit di (0,1); 29 Con il termine accountability politica ci si riferisce alla rendicontazione politica che interessa tre dimensioni: delle elezioni, legislativa ed elettorale (Dwivedi, Jabbra, 1989). 107 Ait = parametro di produzione, che esprime la qualità dell’input intermedio nella produzione del bene finale; xit = quantità intermedia di input prodotta; si confronta un regime di monopolio con un successivo modello sequenziale leaderfollower (imprese innovatrici e imitatrici), considerando come variabili chiave indipendenti la democrazia e la distanza dalla frontiera tecnologica. Ne deriva che: a- non ci sono effetti della democrazia sulla velocità di crescita per le industrie in una regressione ad effetti fissi a livello di paese e, quindi, non si hanno robusti effetti della democrazia sulla crescita aggregata; b- a livello disaggregato, non esiste un effetto della democrazia significativo dal punto di vista statistico o quantitativo; c- introducendo un termine d’interazione (differenziale) della distanza tra frontiera tecnologica e democrazia, si nota come questo sia di solito negativo, mentre il livello di democrazia è positivo; questo implica che quando si è vicini alla frontiera tecnologica, l’effetto della democrazia sulla crescita è positivo, mentre diminuisce man mano che ci si allontana dalla frontiera. Il risultato ottenuto deriva dal fatto che le istituzioni democratiche favoriscono la crescita nei settori dell’economia che sono particolarmente avanzati in termini di valore aggiunto per lavoratore e, perciò, vicini alla frontiera tecnologica a livello mondiale; la conclusione è che (purtroppo) la domanda di democrazia è più elevata in paesi in cui sono già presenti le istituzioni democratiche, che hanno un livello di reddito pro-capite che risente del livello di democrazia interno al paese e con un’economia più avanzata, più vicina alla frontiera tecnologica (Rigobon, Rodrik, (2004) e Aghion, Alesina, Trebbi (2007)). 108 3.4 Democrazia, sviluppo e libertà: i diversi approcci “Dove non c’è legge, non c’è libertà” (Locke) Se è vero che le istituzioni democratiche, per quanto importanti, non producono automaticamente lo sviluppo, poiché il loro uso è condizionato dalla scala di valori della popolazione e dall’esistenza di opposizioni organizzate, è anche vero, secondo Sen (2000), che “non ci sono carestie nelle democrazie”, perché il paese democratico, per quanto povero, evita le carestie se il governo persegue quest’obiettivo e, in una democrazia multipartitica con elezioni e mezzi d’informazione liberi, il governo è fortemente incentivato, sul piano politico, ad impedirle. Ne deriva che, in questo modo, la libertà politica – democrazia – contribuisce a salvaguardare la libertà economica – sviluppo economico – e la libertà di sopravvivere. Potendo, perciò, affermare che sia la democrazia a garantire sviluppo economico, piuttosto che il contrario, si rende necessario comprendere in che modo garantire questo assetto istituzionale nel lungo periodo, essendo la democrazia un bene “fragile”, che va difeso continuamente da attacchi esterni e dai suoi detrattori interni (Zamagni, 2005b). Come sostiene Sartori (2007), la vera libertà da considerare quando si parla di democrazia è la libertà intesa come rapporto, l’essere libero o non-libero in relazione ad altri. E la libertà politica si dispiega tutta nel rapporto: è coesistere in libertà e resistere nella illibertà. Si tratta di comprendere in che cosa consiste la libertà esteriore nonché la libertà di fare, poiché si tratta di una libertà pratica, empirica e specifica. Sempre secondo Sartori, l’autore che ha definito la libertà politica più precisamente è Hobbes: “libertà propriamente significa assenza di impedimenti esterni” (Leviatano, cap. 21). Egli centra il problema perché la libertà politica si applica al rapporto cittadiniStato esaminato dal punto di vista dei cittadini; si tratta di considerare, quindi, una libertà contraddistinta da una caratterizzazione “negativa” (o meglio ancora, protettiva). 3.4.1 Il libertarismo morale di Nozick Il concetto di libertà negativa è stato teorizzato dal filosofo americano Robert Nozick (1974), che ha sostenuto che il mercato è il solo meccanismo giustificabile per l’allocazione delle risorse, perché esso solo è compatibile con la protezione della libertà come assenza di costrizioni. La soluzione ottimale, secondo Nozick, sarebbe quella di 109 uno “Stato minimo”, uno Stato vigilante e garante della proprietà privata, le cui priorità sono nell’ordine: 1- libertà; 2- fraternità; 3- uguaglianza. Non si tratta di configurare, pertanto, né un Welfare State né uno Stato in cui sia prevista redistribuzione. Per quanto riguarda l’intervento dello Stato in economia, esso deve avvenire, innanzitutto, in modo tale che nessun individuo debba trovarsi a stare peggio di quanto starebbe in assenza dell’intervento pubblico; in secondo luogo, nessuna valutazione morale può essere data dagli esiti di mercato, dal momento che nessuno dei presenti sul mercato può essere ritenuto responsabile per averne “voluto” l’esito (Screpanti, Zamagni, 2004). Nozick propone quello che va sotto il nome di libertarismo morale, per cui lo Stato minimo deve essere organizzato in modo tale da assicurare il rispetto dei diritti di proprietà, concetto intorno al quale si sviluppa l’approccio libertario, tramite tre principi (Arnsperger, Van Parijs, 2003): 1- il principio della proprietà di sé: una società libera deve attribuire a ciascun individuo il pieno diritto di proprietà su se stesso, con conseguente possibilità di “diritto di veto” su qualunque uso si possa fare del proprio corpo; questo principio sottostà a tre restrizioni: • non può esistere il diritto di vendersi in schiavitù – poiché andrebbe contro l’ideale di società libera del libertarismo; • il paternalismo non è sempre fuori luogo quando si tratta dei bambini; • è ammesso restringere la proprietà di sé di coloro che minacciano quella altrui; 2- il principio di giusta circolazione dei diritti di proprietà: è possibile divenire legittimi proprietari di un bene: • sia acquistando per mezzo di una transazione volontaria – cioè senza costrizioni e senza frodi (il che, tuttavia, non implica che avvenga in condizioni di informazione perfetta); • sia creandolo senza utilizzare altro che beni acquisiti a loro volta attraverso transazioni volontarie; 110 3- il principio di acquisizione iniziale: riguarda sia le risorse naturali che le idee e comporta che il principio di giusta circolazione dei diritti di proprietà si possa applicare solo se il precedente titolare fosse legittimo. Il libertarismo si configura, in definitiva, come una teoria (Orsini, 2007): a. monistica: l’unica libertà considerata e promossa da questo approccio è quella negativa, ovvero la libertà dalle costrizioni altrui; b. deontologica e anticonsequenzialista: si ha una valutazione delle azioni ex ante – relativa alla coerenza con i diritti – ma non una valutazione degli esiti – approccio orientato al processo (process oriented) e non allo stato finale (endstate oriented); c. in cui il criterio di scelta implicito è l’unanimità: tutti hanno diritto di veto; d. in cui si ha una dimensione morale dell’uguaglianza, poiché tutti hanno uguale diritto alla libertà negativa; e. in cui non si ha una dimensione della giustizia distributiva (è una teoria storica): le diseguaglianze sono ammissibili a patto che comportino la libertà. La libertà che i principi libertari garantiscono a tutti è una libertà puramente formale: senza i mezzi indispensabili all’esercizio effettivo di questa libertà si tratta di un diritto senza portata reale. Questi principi riflettono una concezione particolare di libertà e quest’approccio appare essere non tanto la formulazione coerente e plausibile di un ideale di società libera, quanto l’esaltazione dei diritti naturali. 3.4.2 L’egualitarismo liberale di Rawls Cambiando punto di vista rispetto all’approccio proposto da Nozick e focalizzandosi su un modello orientato allo stato finale (end-state), ovvero che, per poter esprimere una valutazione, pone attenzione al risultato finale piuttosto che al processo, si giunge all’approccio teorizzato da John Rawls (1971): l’egualitarismo liberale. Rawls ipotizza che le priorità di una società siano nell’ordine: 1- libertà; 2- uguaglianza; 3- fraternità. Egli propone di formulare le esigenze della giustizia in termini di beni primari, ovvero di mezzi che generalmente sono necessari per realizzare una concezione di “vita 111 buona” e perseguirne la realizzazione, a prescindere dal suo esatto contenuto, e che si suddividono in (Arnsperger, Van Parijs, 2003): • beni naturali primari: cioè salute e talenti, non direttamente sotto il controllo delle istituzioni sociali; • beni sociali primari: che a loro volta si suddividono in tre categorie: libertà fondamentali, accesso alle diverse posizioni sociali; vantaggi socio-economici legati a queste posizioni (ricchezza, poteri, prerogative, e le “basi sociali del rispetto di sé”). Una società giusta è una società le cui istituzioni suddividono i beni sociali primari in modo equo tra tutti i membri, tenendo conto del fatto che questi sono differenti gli uni dagli altri in termini di dotazioni di beni naturali primari: si tratta di scegliere i principi di giustizia dietro il c.d. velo di ignoranza, ovvero sottomettendo il proprio giudizio ad una condizione d’imparzialità. L’equa distribuzione dei beni sociali primari viene fatta attraverso tre principi: 1- il principio di eguale libertà: a garanzia del fatto che a tutti i cittadini sia assicurata una lista determinata di libertà fondamentali al livello più elevato possibile in condizioni di eguaglianza; 2- il principio di equa eguaglianza delle opportunità: non esige che si garantisca a tutti i cittadini la stessa probabilità d’accesso alle diverse posizioni sociali, bensì soltanto che le persone che hanno gli stessi talenti abbiano la stessa opportunità di accesso a quelle posizioni – ripartizione delle opportunità, non delle probabilità; 3- il principio di differenza: prevede che ogni individuo abbia diritto alla stessa quota di beni sociali primari, ammettendo diseguaglianze nella distribuzione se e solo se esse vanno a favore di chi è più svantaggiato – regola del maximin. Per Rawls, la funzione di benessere sociale, diversamente a quello che accadeva per gli utilitaristi (vedi supra par. 1.3.2), dovrebbe essere rappresentata da una curva d’indifferenza sociale con la seguente forma (Stiglitz, 2003): 112 UTILITÀ di B UTILITÀ di A Ciò significa che il benessere della società aumenta solo se migliora il benessere del più povero, mentre non trae nessun vantaggio da un aumento di benessere degli altri individui. In altre parole, nessun incremento, di qualsiasi ammontare, del benessere dell’individuo più ricco potrebbe compensare la società per una diminuzione del benessere dell’individuo più povero. Il contrattualismo30 di Rawls si delinea come una teoria (Orsini, 2007): a. deontologica: definisce prima il “giusto” e poi il “bene”, a prescindere dalla concezione individuale di ciò che è il “bene”; b. propriamente distributiva: considera la natura puramente collettiva e distributiva; c. riflessiva: bilancia giudizi intuitivi e valutazioni razionali; d. pluralista: persegue il pluralismo dell’ordine dei valori e prevede uguale rispetto delle diverse concezioni di “vita buona” che possono esistere in una società; e. conseguenzialista: pur essendo deontologica, valuta comunque gli effetti finali; f. basata sulla scelta unanime: potere di veto al più svantaggiato; g. basata sul concetto di eguaglianza democratica31: redistribuzione dell’arbitrarietà della lotteria naturale32 iniziale. La teoria di Rawls ha sortito un risultato importante, quello di reintrodurre nell’economia lo studio di fenomeni quali: le regole morali di convivenza; 30 Il contrattualismo comprende quelle teorie politiche che vedono l'origine della società in un contratto tra governati e governanti, che implica obblighi precisi per ambedue le parti. In questa concezione il potere politico si fonda su un contratto sociale che pone fine allo stato di natura, segnando l'inizio dello stato sociale e politico. 31 Il concetto di eguaglianza democratica è differente rispetto a quello di eguaglianza liberale, in cui bisogna rispettare l’esito della lotteria naturale iniziale. 32 Per lotteria naturale si intendono le dotazioni e le posizioni sociali riservate inizialmente a ciascun individuo in una situazione di futuro incerto (Ichino, 2004). 113 i contratti di lungo periodo; i rapporti di autorità; la reputazione. Nonostante ciò essa è stata criticata per diversi punti, cui Rawls ha replicato dicendo: “le persone vanno trattate come fini in sé. Nessuna teoria è infallibile.” 3.4.3 Il concetto di libertà di Amartya Sen Il concetto di libertà politica fin qui ipotizzato nei diversi approcci consiste sostanzialmente in una libertà da: i cittadini sono liberi a patto che non siano impediti. Ma esiste un altro “lato della medaglia” del concetto di libertà, la libertà c.d. “positiva” (libertà di), per cui la libertà politica si configura come mezzo per la realizzazione di altri tipi di libertà. Sostenitore di questa tipologia di libertà è il premio Nobel per l’economia Amartya Sen (2000), il quale critica sia il pensiero di Rawls, per il fatto di non mettere in chiaro se alla libertà della persona si debba dare lo stesso tipo di importanza che si dà ad altri vantaggi personali – reddito, utilità, ecc. – e non di più, sia quello di Nozick, poiché la proposta di una teoria della priorità politica indipendente dalle conseguenze è minata da una grave indifferenza per le libertà sostanziali che gli esseri umani possiedono o meno e ciò non può essere una base adeguata di un sistema di valori accettabile. Come già precedentemente riportato (vedi supra par. 3.2), Sen distingue le capacitazioni dai funzionamenti, ciò che un individuo è effettivamente capace di fare e di essere dagli stati di essere o di fare cui gli individui attribuiscono valore. Per capire più in profondità il ruolo delle capacitazioni si deve tener conto: 1- del loro rapporto diretto con il benessere e la libertà degli esseri umani; 2- del loro ruolo indiretto in quanto fattori che influiscono sul cambiamento sociale; 3- del loro ruolo indiretto in quanto fattori che influiscono sulla produzione economica. Sen sostiene che la libertà individuale sia un prodotto sociale e che esiste una relazione bidirezionale fra gli assetti sociali destinati ad espandere le libertà individuali e l’uso di queste libertà non solo per il miglioramento della propria vita, ma anche per rendere più adeguati ed efficienti gli stessi assetti sociali. 114 La concezione dello “sviluppo come libertà” ha conseguenze di vasta portata non solo per gli obiettivi ultimi dello sviluppo, ma anche per quelli che sono i processi e le procedure da rispettare. Come esseri umani responsabili e intelligenti, cioè – etimologicamente parlando – che hanno facoltà di intendere, pensare e giudicare, ma soprattutto di scegliere tra diverse alternative33, secondo Sen, non possiamo sottrarci al compito di giudicare una situazione e definire quali sono gli interventi necessari. In un certo senso, la responsabilità, per essere esercitata, richiede libertà: dunque, gli argomenti a favore di un interveto della società che renda più liberi gli individui possono essere anche visti come argomenti a favore della responsabilità individuale. Senza libertà sostanziale e capacitazioni a compiere un’azione, la persona non ha la responsabilità di farla; ma se di fatto ha la libertà e la capacitazioni di fare una cosa, allora è suo dovere chiedersi se farlo o meno, e questo comporta una responsabilità individuale. Nel giudicare i vantaggi individuali e nel valutare i successi o gli insuccessi sociali, la libertà sostanziale, secondo Sen, viene al primo posto; il punto di vista orientato alla libertà consente tuttavia variazioni notevoli, che oscillano dall’attribuire maggiore importanza all’esigenza di efficienza, piuttosto che a quella di equità. Ad ogni modo, è dimostrato che porre il concetto di libertà al primo posto all’interno dello sviluppo (quindi libertà umane come motore di uno sviluppo umano ed economico) comporta una differenza sostanziale, legata a due ordini di caratteristiche della libertà: a. l’aspetto processuale; b. l’aspetto possibilitante. Innanzitutto, poiché la libertà riguarda tanto i processi decisionali quanto le possibilità di ottenere risultati considerati di valore, non si può limitare il proprio interesse solo a risultati come l’aumento della produzione o del reddito o dei consumi (o, comunque, l’incremento di altre variabili legate al concetto di crescita economica). Non si possono considerare processi come la partecipazione alle decisione politiche e alle scelte sociali dei semplici “mezzi” dello sviluppo, bensì devono essere intesi anche come parte integrante degli stessi “fini” dello sviluppo. 33 La parola intelligente deriva dal latino intelligens,-entis , participio presente di intelligere, comprendere, composto da inter (tra) e legere (scegliere). 115 La seconda ragione per la quale l’idea dello “sviluppo come libertà” è diversa dai punti di vista più convenzionali sullo sviluppo medesimo ha a che fare con un contrasto interno dell’aspetto possibilitante. Oltre alle libertà relative ai processi politici, sociali ed economici, si deve considerare in che misura uomini e donne abbiano la possibilità di ottenere cose cui danno valore. I livelli di reddito reale della popolazione sono importanti, perché ogni livello coincide con una certa possibilità di acquistare beni e servizi e di godere del tenore di vita corrispondente. Tuttavia accade spesso che il livello di reddito non sia un indicatore adeguato di aspetti importanti come la libertà di vivere a lungo, la capacità di sottrarsi a malattie evitabili, la possibilità di trovare un impiego decente o di vivere in una comunità pacifica e libera dal crimine. Queste variabili, estranee al reddito, hanno a che fare con possibilità cui chiunque dà valore e che non sono strettamente legate alla prosperità economica. Dunque, sia l’aspetto processuale, sia quello possibilitante della libertà ci pongono di andare ben oltre la tradizionale idea dello “sviluppo come crescita del PIL”. 3.4.4 Democrazia illiberale e sviluppo sotto dittatura In concreto, la libertà politica rifiuta il potere arbitrario e assoluto chiedendone la trasformazione in potere legale, limitato da leggi eguali per tutti: in altre parole, si tratta dell’affermazione della supremazia della legge – rule of law – sugli interessi individuali (vedi supra, par. 3.3.4). La libertà politica combatte l’abuso di potere; ciò che chiede è la capacità di controllare e limitare l’esercizio del potere, al fine di garantire indipendenza nell’affermare – attraverso il voto, la partecipazione, la dimostrazione – i propri diritti, senza ostacoli di nessuna sorta. Se così fosse, si verrebbe a configurare una democrazia illiberale (Polterovich, Popov, 2007), caratterizzata sì da un processo di democratizzazione, ma anche da una scarsa supremazia della legge, che si tramuterebbe, di conseguenza, in un’insufficiente protezione dei diritti civili, inclusi i diritti di proprietà, di stipulare contratti e di investimento. La conseguenza principale sarebbe il declino dell’efficacia del governo legata ad altri elementi con un rapporto causa-effetto: una scarsa conformità del regime fiscale; l’espansione della c.d. economia sommersa; 116 la difficoltà nella riscossione delle tasse; una lenta crescita delle entrate e delle spese del governo. Quando si verificano contemporaneamente anche un’elevata disuguaglianza dei redditi pro-capite e differenze di efficienza tra i diversi settori dell’economia, si va incontro ad un fallimento del governo nel porre in essere un’azione ridistribuiva a favore dei gruppi sociali più poveri, nonché alla sua impossibilità di sussidiare le imprese e le aziende inefficienti Tutto ciò comporta: dal punto di vista politico, l’esistenza di istituzioni sempre più deboli, con conseguente fallimento dei beni pubblici necessari (supremazia della legge, sistema sanitario, protezione dei diritti civili, ecc.); dal punto di vista economico, l’esistenza di politiche macro e industriali scarse, che hanno come conseguenza la perdita di consenso, il deficit del bilancio di governo, l’aumento dell’inflazione, la sopravvalutazione dei tassi di scambio. L’aumento delle disuguaglianze nei redditi, nonché l’aumento dei crimini e la riduzione dell’aspettativa di vita sono le conseguenze delle carenze istituzionali che generano a loro volta, insieme alle limitatezze delle politiche economiche, bassi livelli di investimenti e una più lenta crescita economica. Una buona democrazia davvero definibile in quanto tale è quella che cerca attraverso i suoi strumenti (istituzioni politiche ed economiche) di determinare uno spazio di libertà individuale all’interno del contesto politico-socio-economico, tale da permettere la realizzazione del cittadino in tutte le sue forme all’interno dello schema di dirittidoveri di cui fa parte. L’esempio dei Paesi Asiatici In un panorama mondiale di crisi (si pensi, ad esempio, alla crisi dei mutui subprime in America, la crisi alimentare globale, la crisi del Welfare State in Italia, ecc.), il ruolo dei paesi emergenti, come Cina e India, risulta ancora più marcato nell’economia globale (Rampini, 2008). Per la Cina, il successo ha coinciso con un cambio di rotta delle politiche economiche, concretizzatosi con il passaggio da una crescita fondata sulle importazioni ad una basata sulle esportazioni, per sfruttare l’integrazione ai mercati internazionali (vedi infra Tabella 6 e relativo Grafico 8 – Cina: importazioni ed esportazioni); mentre l’India, pur aprendosi al commercio internazionale, ha mantenuto una maggiore 117 predisposizione per le importazioni rispetto alle esportazioni (vedi infra Tabella 7 e relativo Grafico 9 – India: importazioni ed esportazioni e Grafico 10 – Cina e India a confronto). Tabella 6 – Cina: importazioni ed esportazioni IMPORTAZIONI ESPORTAZIONI Anno Milioni di $ Anno Milioni di $ 2003 295,3 2003 325,6 2004 397,4 2004 436,1 2005 552,4 2005 538,1 2006 631,8 2006 752,2 2007 777,9 2007 974 Fonte: http://www.indexmundi.com/it (2008) Tabella 7 – India: importazioni ed esportazioni IMPORTAZIONI ESPORTAZIONI Anno Milioni di $ Anno Milioni di $ 2003 53,8 2003 44,5 2004 74,15 2004 57,24 2005 89,33 2005 69,18 2006 113,1 2006 76,23 2007 187,9 2007 112 Fonte: http://www.indexmundi.com/it (2008) Grafico 8 - Cina: im portazioni ed esportazioni 1200 1000 800 IMPORTAZIONI 600 ESPORTAZIONI 400 200 0 2003 2004 2005 2006 2007 Fonte: Nostra elaborazione Grafico 9 - India: importazioni ed esportazioni 200 150 IMPORTAZIONI 100 ESPORTAZIONI 50 0 2003 2004 Fonte: Nostra elaborazione 118 2005 2006 2007 Grafico 10 - Cina e India a confronto 1200 1000 Importazioni Cina 800 Importazioni India 600 Esportazioni Cina 400 Esportazioni India 200 0 2003 2004 2005 2006 2007 Fonte: Nostra elaborazione Nonostante da un punto di vista economico i due paesi asiatici considerati siano spesse volte sovrapposti a causa del boom economico che ha investito entrambi, il percorso di ognuna delle due nazioni risulta essere storicamente ed intrinsecamente differente. Come sostiene Sen (2000), da tempo (la Cina dal 1979, l’India dal 1991) i governi di entrambi i paesi stanno cercando di passare ad un’economia più aperta, attiva sul piano internazionale ed orientata al mercato. Pur raggiungendo qualche successo, l’India non è riuscita a conseguire i grandissimi risultati raggiunti dalla Cina: un fattore importante di questo contrasto sta nel fatto che, dal punto di vista di preparazione della società, la Cina è molto più avanti dell’India quanto a capacità di utilizzare l’economia di mercato. Prima della riforma economica, il paese era profondamente scettico riguardo al mercato, ma non lo era affatto riguardo all’istruzione di base e ad un’ampia diffusione dell’assistenza sanitaria: così, nel 1979, quando si passò al sistema di mercato, gran parte della popolazione era già alfabetizzata. Invece l’India, quando nel 1991 è passata al sistema di mercato, aveva una popolazione per metà analfabeta e da allora la situazione non è di molto migliorata. L’arretratezza sociale dell’India, con il suo privilegiare elitariamente gli studi superiori e la massiccia noncuranza per il sistema scolastico e per le strutture sanitarie di base, non ha preparato il paese ad un’espansione economica diffusa. I risultati, misurati in termini di PIL, sono quelli che noi tutti conosciamo (vedi infra Tabella 8 e relativo Grafico 11 – PIL: Cina e India). 119 Tabella 8 – PIL Cina e India CINA INDIA Anno Trilioni di $ Anno Trilioni di $ 2003 5,7 2003 2,66 2004 6,449 2004 3,033 2005 7,262 2005 3,319 2006 8,883 2006 3,666 2007 10,17 2007 4,156 Fonte: www.indexmundi.com/it (2008) Grafico 11 - PIL Cina e India 12 10 8 CINA 6 INDIA 4 2 0 2003 2004 2005 2006 2007 Fonte: Nostra elaborazione Ma a che condizioni la Cina gode (e godrà nel futuro più immediato34) di questa prosperità economica e industriale? Per certi aspetti, in realtà, la Cina è senz’altro svantaggiata rispetto all’India, proprio per la mancanza di libertà democratiche. Il problema è particolarmente sentito per quel che riguarda la flessibilità della politica economica e la capacità d’azione pubblica di reagire a crisi sociali e disastri imprevisti. Quando le cose vanno bene, la mancanza del potere protettivo della democrazia si può anche avvertire in misura minore, ma il pericolo può non essere distante. Le previsioni di una democratizzazione della Cina la indicavano come ipotesi reale per il 2015, data che venne successivamente (nel 2007) posticipata al 2025. La storia economica dimostra che, mentre sono frequenti i casi in cui una prolungata crisi economica conduce ad una democrazia, assai più rari sono i casi opposti, in cui una 34 Ad oggi, le previsioni per il futuro sostengono che nel 2020 la Cina raggiungerà gli Stati Uniti in termini di PIL; fino al 2005 le previsioni indicavano la data del sorpasso nel 2040 (Rampini, 2005b). 120 rapida espansione economica porta al superamento della dittatura, la quale potrà invece addirittura consolidarsi (Zamagni, 2005b). Secondo la teoria della modernizzazione, gli effetti democratici a questo punto dello sviluppo economico cinese dovrebbero aumentare. Invece, per chi sostiene che viene prima la democrazia dello sviluppo, se in un’ottica di breve periodo un regime dittatoriale produce un livello maggiore di sviluppo economico rispetto ad un regime democratico – che genera redistribuzione – non si può dire altrettanto se la prospettiva da cui si osserva la situazione è di lungo periodo. L’andamento del PIL nel tempo assumerà la seguente forma (vedi infra Figura 3 – Rapporto PIL/t in regimi differenti): PIL democrazia dittatura t* Fig. 3: Rapporto PIL/t in regimi differenti t Fonte: Nostra elaborazione Una spiegazione plausibile in merito è fornita da Acemoglu (2003), il quale sostiene che nelle società non democratiche35, in cui il potere politico è saldamente nelle mani del partito unico (come accade in Cina con il Partito Comunista Cinese - PCC) oppure di una ristretta oligarchia, i detentori di potere economico riescono non solo a mantenere relativamente basso il livello della tassazione, ma anche ad elevare forti barriere all’entrata sul mercato così da conservare il proprio potere a fronte di potenziali entranti futuri. Nelle società democratiche, invece, accade il contrario: poiché il potere politico è distribuito su tutte le classi sociali, i ceti meno abbienti riescono ad ottenere 35 In altri termini, si parla di dittatura – in contrapposizione ad un regime democratico – ovvero di un regime politico caratterizzato dalla concentrazione del potere, dal non rispetto delle libertà fondamentali dei cittadini, dalla mancanza di legittimazione e dal ricorso sistematico alla violenza. Si distingue tra dittature totalitarie (in cui il politico invade la società, annientandone l’autonomia) e autoritarie, le quali si suddividono a loro volta in regimi militari, civili-militari, civili. In quest’ultima definizione rientrano i regimi: nazionalisti, fascisti e comunisti (Marchese, Mancini, Greco, Assini, 1997). 121 provvedimenti fiscali in chiave redistributiva a loro favore; allo stesso tempo però i produttori già presenti sul mercato non riescono ad introdurre barriere all’entrata, così che i potenziali produttori non saranno discriminati. Sia la tassazione a fini distributivi sia la conservazione di posizioni di monopolio rappresentano casi di politiche discorsive: la prima perché scoraggia gli investimenti, nonché il processo di accumulazione di capitale; la seconda perché, rendendo più difficoltoso l’ingresso nel mercato di potenziali entranti, impedisce la competizione e quindi non consente che possano entrare agenti più capaci di innovazione o più efficienti. Nel breve periodo e in contesti caratterizzati da lenta evoluzione tecnologica, i costi della redistribuzione tendono a superare gli altri: ciò spiega perché nelle fasi iniziali del processo di sviluppo i sistemi dittatoriali registrano, in genere, più alti tassi di crescita. Infatti, la prima generazione di imprenditori-produttori, in generale, non ha bisogno di competizione per tenere alta la performance economica. Viceversa, quando si passa al lungo periodo e soprattutto quando il mutamento tecnologico risulta accelerato ed endemico, i costi del mantenimento delle barriere all’entrata superano di gran lunga i costi della redistribuzione. Per questo motivo, il sentiero democratico è quello più sicuro per lo sviluppo economico. Esattamente l’opposto di quanto sta accadendo, ad esempio, in Cina: le nazioni emergenti non hanno ancora politiche economiche adeguate per garantire che i benefici del commercio estero siano ben distribuiti a tutte le popolazioni; perciò si assiste anche, in quei paesi, ad una crescente reazione contro la globalizzazione. Inoltre, la diffusione della corruzione contribuisce a creare la percezione che la crescita va a vantaggio di ristrette élite. Infatti, la Cina non ha partecipato, diversamente dal Giappone, alla prima ondata di democratizzazione e, malgrado le promesse di democrazia del PCC (al governo dal 1949), il paese non ha preso parte nemmeno alla seconda ondata. La Rivoluzione Culturale (1967-1976) politicizzò quasi tutti gli aspetti della vita umana e il governo di Mao Zedong portò all’uccisione di una cifra tra i 40 e i 55 milioni di cinesi. Dopo di lui, Deng Xiaoping divenne il leader supremo della Cina: sotto il suo governo, l’economia cinese fu gradualmente trasformata da economica pianificata a capitalistica. La protesta di Piazza Tiananmen (1989) fu brutalmente repressa e anche il terzo tentativo di democratizzazione passò oltre la Cina. 122 La società civile e i suoi conflitti – salariali, redistributivi, sociali di ogni genere – vengono ignorati, cancellati dall’orizzonte di una classe dirigente per cui ciò che importa è “lo sviluppo prima di tutto” (Rampini, 2005a). In Cina, possono essere classificate, in base all’origine sociale e ai settori in cui hanno fatto fortuna, due categorie di ricchi (Huchet, 2006): gli uomini legati al partito; i grandi imprenditori. Com’è noto, lo sviluppo cinese è stato condizionato dall’invadente onnipresenza del PCC, anche attraverso la circoscrizione dei settori in cui si possono sviluppare le attività economiche private. Il primo gruppo, dunque, raccoglie gli uomini direttamente legati al potere comunista, quelli che hanno accesso a ogni settore di attività, compresi gli ambiti che dipendono dalla proprietà pubblica: i figli degli alti dignitari del Partito, nonché i boss delle imprese statali e i funzionari. Il secondo gruppo è quello dei “capitani” d’industria, i self-made men senza legami particolari con il Partito, di origini sociali spesso modeste, che hanno fatto la fortuna nei settori dove il governo ha autorizzato appunto lo sviluppo della proprietà privata. Il rapporto che intercorre tra le due classi di potere cinesi, tuttavia, non è di mutualistica influenza, bensì è il PCC che, da un lato, corteggia gli imprenditori perché ha bisogno di posti di lavoro; dall’altro, però, è sempre pronto ad annullare le fortune del secondo gruppo, alla minima velleità politica. Apparentemente, la Cina possiede un organo democratico, un parlamento, il c.d. Congresso Nazionale del Popolo; ma tutte le decisioni sono, in realtà, prese dal Politburo del PCC. La popolazione può solamente votare nelle elezioni locali. Oggi, le idee democratiche iniziano a farsi sentire in Cina e ciò è dovuto soprattutto all’aumento dell’apertura del paese e alla grande diaspora cinese. Pertanto, il PCC si trova gradualmente ad affrontare il concetto di democrazia; d’altro canto, però, esso non ha nemmeno intenzione di ritirarsi dal suo ruolo di governo, sostenendo invece fermamente la necessità del suo intervento per tre motivi: a. il PCC incoraggia lo sviluppo economico; b. il PCC garantisce che un paese etnicamente diverso non vada in frantumi; c. il PCC assicura un forte e stabile Stato. 123 La situazione cinese è, in realtà, è estremamente instabile, complice anche il problema interno delle diseguaglianze e di uno sviluppo economico ineguale. Come si può vedere dalla successiva figura, infatti, non c’è coerenza tra l’andamento crescente del PIL cinese in termini percentuali e il relativo HDI: C’è, invece, conformità se si relazionano l’HDI e il PIL pro-capite, relativamente basso a causa delle diseguaglianze redistributive del PIL complessivo: Valore HDI 1. Islanda (0.968) 79. Repubblica Domenicana (0.779) 80. Belize (0.778) 81. Cina (0.777) 82. Grenada (0.777) Tasso di Tasso di iscrizione alla Speranza di vita alfabetizzazione scuola alla nascita adulta primaria, (anni) (% 15 anni e secondaria e più) terziaria (%) PIL procapite (PPP US $) 1. Lussemburgo (60.228) 1. Giappone (82.3) 1. Georgia (100.0) 1. Australia (113.0) 66. Bulgaria (72.7) 52. Giordania (91.1) 102. Moldavia 84. Gabon (69.7) (6.954) 67. Seychelles (72.7) 53. Ecuador (91.0) 68. Cina (72.5) 69. Lituania (72.5) 83. Armenia (0.775) 70. Mauritius (72.4) 177. Sierra Leone (0.336) 177. Zambia (40.5) 103. Botswana (69.5) 104. Cina 54. Cina (90.9) (69.1) 55. Sri Lanka 105. Paraguay (90.7) (69.1) 106. Bosnia 56. Indonesia Erzegovina (90.4) (69.0) 139. Burkina 172. Niger Faso (23.6) (22.7) Fonte: Rapporto sullo Sviluppo Umano 2007/2008 124 85. Ucraina (6.848) 86. Cina (6.757) 87. Santa Lucia (6.707) 88. Venezuela (6.632) 174. Malawi (667) Il relativamente basso HDI può essere imputato proprio alla mancanza di un regime democratico, con tutto ciò che ne comporta: scarsa attenzione ai diritti civili e conseguente mancanza di adeguate azioni pubbliche, abusi contro i diritti umani nelle fabbriche cinesi, orari di lavoro che coprono quasi interamente la giornata dell’individuo e sfruttamento del lavoro minorile. La situazione cinese è, inoltre, gravata dalla conformazione del proprio territorio, il quale favorisce il commercio nella parte occidentale (la fascia costiera) a discapito della zona centro-orientale, prettamente orientata all’attività rurale. La vocazione prevalentemente agricola delle regioni interne, la bassa qualificazione delle risorse umane, la difficoltà a diversificare l’economia e la scarsa presenza di infrastrutture sono caratteri che hanno frenato e tuttora rallentano i meccanismi di sviluppo (Musso, Bartolucci, Pagano, 2005). Inoltre, il PCC agisce sulla popolazione con una pesantissima azione di repressione, sia sulla libertà di parola, che di associazione: basti pensare alle limitazioni concesse anche dai motori di ricerca su Internet – come Google – sotto le pressioni del governo cinese o alla censura di immagini, video e foto trasmessi da Lhasa su YouTube in merito alla ribellione del Tibet degli ultimissimi giorni (Corriere della Sera, 2008) (vedi infra “Mappa della libertà”, Freedom House, 2007). Fonte: Rapporto della Freedom House, 2007 125 Essendo la legittimazione del PCC da parte della popolazione36 fondata prevalentemente sulla sua abilità nel favorire la crescita economica, cogliere l’eterogeneità del paese e incrementare l’importanza della nazione nel mondo, c’è da chiedersi cosa potrebbe accadere se la Cina sperimentasse un’importante recessione o un grosso rallentamento nella crescita economica – fatto non così irreale data la situazione di recessione che attualmente colpisce gli Stati Uniti e che ben presto avrà ripercussioni su tutte le economie globali. Così come lo sviluppo economico è alla base delle legittimazione del PCC, una forte crisi economica potrebbe essere una grave minaccia per il Partito stesso. Anche se la Cina non dovesse subire un’importante recessione, ad un certo punto la crescita economica da sola non sarà più sufficiente a legittimare il governo del PCC. In conclusione, la Cina si presenta come l’esempio di uno sviluppo effimero, superficiale, che nasconde dietro alle sue cifre stratosferiche e in costante crescita (da un punto di vista economico) disagi e conflitti (da un punto di vista sociale e politico) con i quali, prima o poi, dovrà “fare i conti”, dato che la stessa tesi della modernizzazione, se fosse stata realmente applicabile per la Cina, dovrebbe, alla luce del fatto della sostenuta crescita economica, aver già portato alla democratizzazione del paese, che invece continua ad essere governato da un regime autoritario che non sembra dare segni di crisi imminente (Roccu, 2007). 36 In un’indagine di opinione cross-country realizzata tra il 1998 e il 2002 in 72 nazioni, la Cina si è posizionata al quattordicesimo posto rispetto alla legittimazione del suo governo (Mengeringhaus, 2008). 126 Capitolo 4 4.1 “L’alternativa: un altro homo e un’altra democrazia” L’inadeguatezza della dottrina utilitaristica e dell’homo oeconomicus È mia opinione che la più grande colpa dell’utilitarismo e dell’economia ad essa ispirata (economia del benessere e relative teorie) sia stata quella di considerare fondamentale, ancora più della ricerca dell’efficienza e della prosperità, il ruolo dell’economia come unica disciplina alla base di tutto il resto (etica e morale incluse) – concetto che va sotto il nome di imperialismo economico. Gia Aristotele, in “Politica”, condannava la crematistica (da chrèmata, che significa “gli averi”), ovvero la ricerca di denaro fine a se stessa, invece che come mezzo. L’elevazione dell’utile e del benessere materiale a fine autonomo, come sostiene anche Zamagni (2006), è il difetto alla base del sistema capitalitisco, così come la sua ossessiva ricerca dell’ottimalità paretiana, metodo assolutamente limitato di valutazione dei risultati sociali. Ben noti sono i limiti dei teoremi dell’economia del benessere, relativi all’insostenibilità reale delle ipotesi fondanti (vedi supra par. 2.2.2), che generano fallimenti di mercato nella ricerca di efficienza e fallimenti di governo nella ricerca di equità. La dottrina utilitaristica ignora, tendenzialmente, le diseguaglianze distributive (ricordiamo che si fonda su un “ordinamento per somma” e sul concetto di “bene totale”) e non si cura di diritti, di libertà e di altri valori non utilitari: l’approccio utilitaristico non attribuisce un’importanza intrinseca alle rivendicazioni di diritti o libertà, che hanno valore solo indirettamente e solo in quanto influiscono sulle utilità. Inoltre, la stessa concezione utilitaristica del benessere individuale non è particolarmente stabile, dato che può essere influenzata senza difficoltà dal condizionamento mentale e dalla disposizione all’adattamento (Sen, 2006). 127 Privilegiare in modo esclusivo certe caratteristiche mentali – come piacere, felicità o desiderio – può essere particolarmente limitativo quando si fanno raffronti interpersonali di benessere e carenze. Il calcolo utilitaristico può essere profondamente iniquo verso chi è deprivato in modo permanente: anche se esistono persone che non hanno la possibilità di manifestare la loro preferenza nei confronti di certi valori (si pensi a coloro che vivono in un regime oppressivo e che non hanno il coraggio di desiderare la libertà), nulla esime dal dovere di accordare loro ciò che essi non chiedono esplicitamente. Secondo Screpanti e Zamagni (2004), sul piano dei diritti, l’utilitarismo presenta delle lacune per tre ordini di motivi: a. in primo luogo, per la sua visione alquanto ristretta dell’essere umano, poiché, come sostiene Sen (1984): “Essenzialmente, l’utilitarismo vede le persone come localizzazioni delle loro rispettive utilità […]. Una volta considerata l’utilità della persona, l’utilitarismo non ha alcun ulteriore diretto interesse a qualsiasi informazione su di essa”; b. in secondo luogo, perché i diritti, poiché rappresentano aree di discontinuità, non possono trovare posto in una struttura teorica che invece postula la continuità; c. infine, qualsiasi tentativo di introdurre i diritti nel calcolo morale entra in conflitto con l’ordinamento per somma che sta alla base dell’utilitarismo: nel mettere insieme i pezzi di utilità in una somma totale si perdono sia le identità delle persone che la loro separatezza, requisiti necessari per rendere possibile un’attribuzione di diritti. La conclusione cui si è giunti è il non poter far conciliare l’individualismo della dottrina utilitarista con una tutela del diritto degna di essere chiamata tale. Nel 1970, Sen realizzò il c.d. teorema di impossibilità del liberale paretiano, con il quale dimostrò che non è possibile unire il principio democratico e il principio liberale. Non esiste nessuna regola o funzione di scelta sociale che soddisfi, contemporaneamente, tre condizioni o criteri di scelta: 1. dominio non ristretto (o universale): implica l’inesistenza di vincoli; 2. condizione di Pareto – principio democratico: la vittoria va alla maggioranza, cioè se tutti gli individui preferiscono x a y, x deve essere socialmente preferito a y; 128 3. libertà minimale: deve esistere almeno una coppia di alternative, appartenenti alla sfera protetta dell’individuo, rispetto alle quali il desiderio o la volontà dell’interessato devono considerarsi sovrani (principio liberale). Sen parte dall’ipotesi che esistono due individui: A, un individuo molto prude, e B, che, invece, è privo di scrupoli morali. Oggetto della scelta sociale è la lettura di un libro considerato libertino, “L’amante di Lady Chatterley”; le alternative di gioco sono tre: - solo A legge il libro (x); - solo B legge il libro (y); - nessuno dei due legge il libro (z). In base alle caratteristiche psicologiche dei due individui, l’ordine di preferenze è (con > che significa “preferito a”): - per A, z > x > y; - per B, x > y > z. Quando si chiede ad A di scegliere tra z e x, questi opterà per z, mentre all’opzione di scelta tra z e y, B risponderà y. Sulla base della condizione di libertà minimale, risulta che la scelta collettiva dovrà soddisfare l’ordinamento y > z > x. Eppure, per entrambi gli individui x è Pareto superiore rispetto a y. La scelta collettiva che rispetta la condizione di libertà minimale contraddice la scelta collettiva che rispetta il principio di Pareto; quindi, democrazia e libertà minimale non possono coesistere. Questa teoria sta a dimostrare come l’introduzione della categoria dei diritti nel processo della scelta sociale pone nuovi problemi, difficilmente risolvibili se non si tiene conto delle motivazioni sottostanti le preferenze individuali e della natura delle alternative sociali in gioco. Invece, l’homo oeconomicus basa le scelte sulla valutazione della sua personale funzione di utilità, non considerando le scelte e libertà altrui. Egli rispecchia la caratteristica di amoralità, cioè di invidividuo che ignora qualsiasi valore sociale o vi aderisce solo se vi intravede il proprio tornaconto. La critica, sostenuta anche da Frey (2005), è relativa alle spiegazioni che sottostanno all’agire dell’homo oeconomicus: l’azione dell’individuo non può essere giustificata solo da motivazioni strumentali, cioè da ragioni che spingono il soggetto a muoversi solo a fronte di un aumento della propria utilità. 129 In questo modo, le c.d. motivazioni estrinseche, cioè ricompense e punizioni che provengono dall’ambiente esterno, dominano l’agire individuale, portano ad un riduzionismo antropologico della scelta economica, secondo l’effetto soprannominato moral crowding out. Facendo prevalere, invece, le c.d. motivazioni intrinseche, proprie del soggetto, di natura affettiva, tradizionale ed etica, supportandole tramite interventi esterni che le rafforzano, il soggetto coinvolto percepisce tali azioni come di sostegno ai propri sforzi (effetto moral crowding in), continuando, così, a perseguire obiettivi diversi dal puro e semplice tornaconto personale, agendo all’interno di un gruppo sociale che riconosce, stima e incentiva l’operato non utilitaristico della persona. 4.2 Il rapporto tra democrazia ed eguaglianza Prima di passare a delineare i tratti fondamentali e caratteristici della democrazia che vorremmo si diffondesse nelle società, è bene puntualizzare il concetto di eguaglianza, relativamente al suo rapporto con un regime politico democratico, ovvero quale tipo di eguaglianza la democrazia deve principalmente perseguire. Sartori (2007) fornisce una classificazione delle eguaglianze, distinguendole in: a. eguaglianza giuridico-politica; b. eguaglianza sociale; c. eguaglianza di opportunità; d. eguaglianza economica. Quella che più attira la nostra attenzione è l’eguaglianza di opportunità, la quale crea un dibattito relativamente alla sua interpretazione: si tratta solo di garanzia di eguale accesso per tutti a tutto, come sostiene anche il principio di equa eguaglianza delle opportunità di Rawls, oppure la definizione si estende alla garanzia di eguali condizioni di partenza che diano a tutti eguali capacità iniziali? Eguale accesso vuol dire “eguale riconoscimento a eguali capacità” e quindi promuove una meritocrazia; eguali partenze vuol dire “eguali condizioni di partenza”. L’eguale accesso è posto da forme – diritti, procedure, modalità – di accesso; le eguali partenze sono poste da condizioni e circostanze materiali. L’eguagliamento delle posizioni e condizioni iniziali viene cercato, innanzitutto, nell’eguale educazione per tutti, la quale molto spesso però non è sufficiente. 130 Pertanto si ricorre a trattamenti preferenziali per gli “svantaggiati”: il nodo della questione è che il povero è sempre svantaggiato, per un verso o per l’altro, a fronte del ricco. Finisce, allora, che l’eguale partenza richiede un relativamente eguale benessere, rivendicando così una relativa eguaglianza economica. Questo significa che pareggiare i soggetti economici estremi (per esempio, il miliardario e il mendicante) significa non soltanto perseguire una giustizia economica, ma anche una giustizia di opportunità. Secondo quanto esposto, quindi, il sistema politico di un paese deve garantire, come direbbe Sen (2000), le capacitazioni ai propri cittadini, per metterli in grado di scegliere la propria vita ed esprimere in questo modo la propria libertà, per promuovere uno sviluppo che non sia solo economico, ma anche e soprattutto umano. Sarà, quindi, in seguito necessario delineare una particolare tipologia di democrazia, che coinvolga attivamente e direttamente i cittadini che la compongono affinché possa realizzarsi uno sviluppo umano che rispetti i principi di eguaglianza, sostenibilità, partecipazione e produttività – quindi, non solo, ma anche uno sviluppo di tipo economico – non essendo più soddisfacente il tipo di democrazia elitistico-competitiva sopra descritta (vedi supra par. 1.4)ed attualmente vigente nella maggior parte dei paesi che ritengono di possedere un regime politico di tipo democratico. 131 4.3 Le fondamenta per un nuovo modello democratico 4.3.1 La democrazia come bene relazionale “Permettetemi di iniziare contrapponendo due differenti concezioni di democrazia. Una concezione sostiene che una società democratica è quella in cui il pubblico ha i mezzi per partecipare in qualche modo significativo nella gestione dei propri problemi ed i mezzi di informazione sono aperti e liberi. Se cercate il lemma “democrazia” nel dizionario troverete una definizione di questo tenore. Una concezione alternativa di democrazia è quella secondo cui il pubblico dev’essere preservato dal gestire i propri problemi, ed i mezzi di informazione devono essere tenuti sotto stretto e rigido controllo. Potrebbe sembrare una strana concezione di democrazia, ma è importante rendersi conto che è quella prevalente.” (Chomsky, 2001) I cambiamenti apportati dall’ultimo secolo nella nostra società, nel nostro vivere e pensare, anche quotidiano, sono ormai irreversibili, come il fenomeno stesso (la globalizzazione) che li ha generati; siamo parte integrante di una società multietnica e multiculturale e spesso questo è visto come fatto negativo, perché si vuole far risultare – grazie anche all’aiuto di mass-media come la televisione – solo le problematiche derivanti da una convivenza forzata con il “diverso”, piuttosto che l’arricchimento, ad esempio in termini di conoscenza, che può essere generato dal vivere civile con gli altri – il che include la comprensione di ciò che è “nuovo” e fino a quel momento sconosciuto – , poiché come disse Terenzio (II sec. a.C.): “Il seme e la terra sono in conflitto, ma da quel conflitto nasce la pianta”. Lo strumento – questa volta inteso come mezzo con dei fini “nobili” e civili e non per far emergere un partito politico piuttosto che un altro (vedi supra par. 2.3.2) – per poter realizzare una società veramente civile è la democrazia; ma una democrazia, diversa, ripensata e adattata ai mutamenti storici e sociali, nonché economici, cui ci troviamo di fronte. Dovrebbe essere, a mio parere, un tipo di democrazia riconducibile al concetto di bene relazionale, ovvero di un bene la cui utilità per il soggetto che lo consuma 132 dipende, oltre che dalle sue caratteristiche intrinseche ed oggettive, dalle modalità di fruizione con altri soggetti (Bruni, Zamagni, 2004). Il bene relazionale postula la conoscenza dell’identità dell’altro, in cui i soggetti coinvolti si conoscono a fondo; si tratta, inoltre, di un bene anti-rivale, il cui consumo alimenta il bene stesso, e che richiede un investimento di tempo, non di denaro. Ritengo, pertanto, che una democrazia così pensata potrebbe sminuire, se non eliminare nel lungo periodo, le problematiche che ci troviamo a dover fronteggiare, ma che non affrontiamo, accartocciandoci nel nostro individualismo e dando sfogo alle nostre paure. Precedentemente ho illustrato la tesi secondo cui è la democrazia a generare sviluppo economico; ora intendo rinforzare questa posizione con altri argomenti. Se la democrazia venisse realmente intesa come bene relazionale, potrebbe essere un bene “prodotto da”, e allo stesso tempo “generatore di”, un contesto economico particolare: quello dell’economia civile, cioè un’economia in cui coesistono tutti e tre i principi regolativi: dello scambio di equivalenti; di redistribuzione; di reciprocità. I primi due principi sono gli elementi costitutivi dell’economia politica; la sfida dell’economia civile non è quella di spiazzare i primi due principi e sostituirli con il terzo, bensì quella di vederli integrati, sottolineando, in particolar modo, l’importanza del terzo. L’economia civile, infatti, non rinnega i fondamenti dell’economia di mercato, su cui invece si fonda: 1- divisione del lavoro: specializzazione delle mansioni cui segue la necessità dello scambio per aumentare la produttività; 2- concetto di “sviluppo”: inteso come preoccupazione da parte della generazioni presente di occuparsi di quella del futuro (concetto di solidarietà intergenerazionale); 3- principio della libertà d’impresa: chi ha le doti37 per essere imprenditore deve essere lasciato libero d’iniziare un’attività, poiché se c’è libertà di impresa c’è 37 Le doti proprie di un imprenditore sono reputate essere: la propensione al rischio, l’innovatività/creatività, l’ars combinatoria (intesa come capacità organizzativa). 133 competizione e, quindi, una selezione qualitativa che va a vantaggio del consumatore finale. La differenza tra un’economia di mercato che assume un orientamento capitalistico ed un’economia di mercato civile risiede nella quarta caratteristica: quella relativa al fine ultimo dell’agire. Come abbiamo (vedi supra par. 2.2.2), infatti, c’è differenza tra il concetto di bene totale e bene comune, essendo il primo il risultato di una sommatoria e il secondo di una produttoria. L’economia civile fonda la sua attività sul perseguimento del bene comune, tramite, soprattutto, il principio di reciprocità. Questo postula l’esistenza del concetto di fraternità: mentre il principio di equità consente ai diversi di essere uguali, il principio di fraternità permette agli uguali di essere diversi, in quanto si basa sul concetto di “pluralismo” e sulla prospettiva personale. Ma “reciprocare” significa anche cooperare, ovvero operare insieme per raggiungere un obiettivo (più o meno materiale), e per farlo deve esistere fiducia tra i soggetti della relazione, il che presuppone la loro conoscenza. L’atto di fidarsi è, infatti, la combinazione di credere negli altri e nella loro affidabilità e delle preferenze specifiche (avversione al rischio, reciprocità, altruismo) di chi si fida. Le due componenti della fiducia sono pertanto credenze e preferenze, in cui le prime sono più dinamiche delle seconde. È stato dimostrato (Sapienza, Toldra, Zingales, 2007) come la variabilità di ognuna di queste due componenti dipende dal livello di omogeneità e dal livello di conoscenza reciproca all’interno di ogni caso preso ad esempio. Se esiste questa conoscenza allora sarà possibile cooperare anche da un punto di vista prettamente economico, in modo tale da generare così sviluppo economico. Concludendo il ragionamento, la democrazia intesa come bene relazionale dà vita ad uno sviluppo economico “civile”, fondato sulle relazioni tra persone e non sull’individualismo utilitaristico. 134 4.3.2 La rivalsa dell’homo reciprocans e dell’intelligenza “emotiva” “Le emozioni hanno relazioni con l’apparato cognitivo perché si lasciano modificare dalla persuasione” (Aristotele) L’agire umano in campo economico non può essere ridotto alla mera ricerca della propria utilità, senza curarsi della realtà sociale in cui si opera. Si possono identificare, da un punto di vista temporale, due macroperiodi che vanno sotto i nomi di moderno e post-moderno (Screpanti, Zamagni, 2004). Il primo periodo vede l’affermazione della credenza nella portata universale della ragione umana e la relativa nascita dell’homo oeconomicus, che, come già esplicitato, è caratterizzato in particolar modo dalla sua razionalità soggettiva, che si traduce in conoscenza perfetta e completa delle condizioni in cui opera, illimitata capacità di calcolo, abilità di trovare i giusti mezzi per giungere ai propri fini. Con il periodo post-moderno, invece, si assume la consapevolezza che l’uomo è razionalmente finito e che gli agenti economici razionali, seguendo l’agire dell’homo oeconomicus, possono operare in modo tale da non essere in grado di determinare l’insieme delle loro relazioni umane, isolandosi da quella che è la realtà della società civile e rendendo, conseguentemente, irragionevole il proprio comportamento. Già in precedenza (vedi supra par. 1.3.2) è stato fatto riferimento a come le ipotesi dell’homo oeconomicus si reggano su di un concetto di intelligenza limitato alle capacità di analisi e sintesi, alle abilità logico-matematiche, nonché alla capacità di individuare una sequenza in una serie o di definire un metodo ed una struttura, ovvero alla c.d. intelligenza cognitiva. Ma è realistico pensare che l’agire umano si limiti a questo tipo di abilità intellettiva? La risposta è, ovviamente, negativa. Due psicologi, Howard Gardner prima, e Daniel Goleman poi, hanno individuato altre strade di definizione dell’intelligenza di una persona. In particolare, Goleman (1997) ha sottolineato un particolare tipo di intelligenza c.d. emotiva (quella cui si riferisce anche Gardner quando parla di intelligenza intrapersonale e interpersonale), legata alla capacità di provare emozioni non razionali, ma, tuttavia, di usarle in modo consapevole. È stato dimostrato da uno studio condotto presso l’Università della California di Berkeley nel febbraio 1995 come le persone dotate di grande intelligenza emotiva siano socialmente equilibrate, espansive ed allegre, non soggette a paure o al rimuginare di 135 natura ansiosa; hanno la spiccata capacità di dedicarsi ad altre persone o ad una causa, di assumersi responsabilità e di avere concezioni e prospettive etiche. Inoltre, nelle loro relazioni con gli altri sono comprensive, premurose e protettive. Secondo la teoria di Goleman, la consapevolezza delle proprie emozioni ed il loro riconoscimento sono elementi chiave al fine di maturare un rapporto fondato sull'interscambio sociale e sulla capacità di creare empatia, un rapporto biunivoco o “uno-a-molti” e che coinvolge una pluralità di interlocutori. L'utilizzo di questa forma di intelligenza si fonda sulla capacità di intuire i sentimenti e le aspirazioni delle persone da cui si è circondati, ed al contempo avere una piena cognizione del proprio stato d'animo. La descrizione di questa tipologia di intelligenza non rientra nel concetto di homo oeconomicus e, in questo modo, ha permesso di evidenziarne un’altra tipologia, il c.d. homo reciprocans. Partendo dalla teoria dei giochi, si individua come caratteristica del soggetto sopraccitato l’attribuzione di un valore positivo all’azione buona di per sé. Rielaborando, infatti, il gioco del prigioniero proposto nel capitolo 2, e riprendendo in considerazione, come esempio, la possibilità di realizzare la raccolta differenziata, si determinano quattro nuove opzioni con differenti valori: 1. “tutti sì, me compreso” 2. “gli altri sì, io no” valore = 3; 3. “gli altri no, io sì” valore = 2; 4. “nessuno sì, me compreso” valore = 4; valore = 1. Date le strategie possibili coopera (C) o non coopera (NC), la matrice dei pay-off di questo gioco è la seguente: C NC C 4,4 2,3 NC 3,2 1,1 La soluzione adottata dall’homo reciprocans, a differenza di quello che accadeva per l’homo oeconomicus, è ottimale ed è imputabile alla ragionevolezza (intesa come “pensiero pensante”) da lui utilizzata. L’homo reciprocans agisce in via principale seguendo il principio di reciprocità, termine chiave dell’economia civile. 136 Il suddetto principio è caratterizzato dalla presenza di tre soggetti (struttura triadica) ed una persona delle tre compie un’azione per un’altra non con una pretesa ma con un’aspettativa, pena la rottura della relazione tra le due. Negli scambi governati da questo principio si susseguono una serie di trasferimenti bi-direzionali, indipendenti ma allo stesso tempo interconnessi (Kolm, 1994). Il fatto che gli scambi siano indipendenti implica che c’è volontà, libertà in ogni trasferimento, in modo tale che nessuno di questi possa essere un prerequisito di uno successivo. La bi-direzionalità dei trasferimenti, inoltre, permette di differenziare la reciprocità dal mero “altruismo”, che si manifesta attraverso trasferimenti unidirezionali, pur avendo a che fare, in entrambi i tipi di scambio, con trasferimenti di natura volontaria. L’ultima caratteristica degli scambi regolati dal principio di reciprocità è la transitività: la risposta dell’altro può anche non essere rivolta versa colui che ha scatenato la reazione di reciprocità, bensì è ammissibile che sia indirizzata verso un terzo soggetto. Attuando questi comportamenti l’homo reciprocans non solo agisce mettendo in primo piano le emozioni (l’intelligenza emotiva) ma riesce anche a rendere la razionalità “ragionevole”, così che i sentimenti possano venire prima della pura e semplice razionalità, intesa come l’utilità caratteristica dell’homo oeconomicus. A questo punto, ricollegandosi al discorso alla base di questa trattazione, dimostrato che non esiste solo un tipo di homo, ma che è invece possibile spostare il fulcro dell’agire economico e politico (inteso nell’accezione primordiale del termine) sulla reciprocità piuttosto che sull’utilità degli scambi, si rende necessario capire quali caratteristiche debba avere la democrazia per poter essere considerata al pari di un bene relazionale, per fare in modo che essa sia una solida base di un’economia civile. 137 4.4 Lo sviluppo futuro della democrazia: verso una democrazia deliberativa 4.4.1 La democrazia deliberativa “Io ravviso dunque il più alto valore di una democrazia nella possibilità di una libera e razionale discussione e nella capacità di questa discussione critica di incidere sulla politica.” (Karl Popper, filosofo) La democrazia elitistico-competitiva è giustamente criticata per essere la forma politica che rappresenti l’aggregazione degli interessi individuali, ignorando, invece, concetti come partecipazione, confronto, cooperazione e riconoscimento reciproco. Il limite più grande della democrazia rappresentativa è quello di non riconoscere alla società civile di ricoprire un ruolo determinante per lo sviluppo di se stessa e delle sue componenti. La necessità di adottare un atteggiamento critico che si indirizzi alla contestazione degli attuali assetti politico-istituzionali e socio-economici e di concentrarsi sul reale funzionamento dei processi democratici – basati sulla legittimità delle procedure democratiche – ha portato ad una ragionevole proposta di modello democratico: essa deriva dai sostenitori – uno per tutti, James Fishkin – di quella che va sotto il nome di democrazia deliberativa, cioè un regime politico in cui la legittimazione di un ordinamento dipende dalla capacità dei cittadini di discutere gli affari pubblici e basato su una visione generale della società che attribuisce perciò grande peso alla loro dotazione di informazioni ed argomenti, alla loro partecipazione alla vita politica e alla loro autonomia morale (Bosetti, Maffettone, 2004). Bisogna sottolineare la differenza concettuale che il termine deliberazione ha: in inglese, infatti, “deliberation” indica il processo attraverso cui una questione viene esaminata e se ne valutano pro e contro prima di prendere una decisione; in italiano, “deliberazione” si sposta temporalmente sulla fase decisionale poiché indica l’atto di prendere una decisione dopo aver esaminato i pro e i contro (Martello, 2007). Ad ogni modo, la democrazia deliberativa rientra nel concetto più ampio di democrazia diretta, quella che ha caratterizzato il governo ateniese dal VI al IV secolo 138 a.C. e che realizza pienamente l’identificazione tra governanti e governati38, secondo il principio per cui, se il dominio è inevitabile, sia il popolo ad esercitarlo su di esso (Marchese, Mancini, Greco, Assini, 1997). Le caratteristiche principali del metodo deliberativo sono tre (Bruni, Zamagni, 2004): 1. la deliberazione riguarda le cose che sono in nostro potere; il che fa della deliberazione un discorso volto alla decisione di qualcosa che ci riguarda; 2. la deliberazione è un metodo per cercare la verità pratica e, pertanto, è incompatibile con lo scetticismo morale; non può quindi essere considerata una pura tecnica senza valori; 3. il processo deliberativo postula la possibilità dell’auto-correzione, di modo tale che ognuno possa cambiare le proprie preferenze ed opinioni alla luce di ragioni addotte dall’altra parte. La democrazia deliberativa prevede il perseguimento di due valori complementari, l’uguaglianza politica, ovvero ponderare con uguale peso i punti di vista di tutti i membri del corpo sociale, e la deliberazione, la cui qualità dipende, secondo Fishkin, da quattro fattori cruciali: a. argomentazione completa; b. informazioni precise sul tema; c. consapevolezza e correttezza delle persone coinvolte; d. pluralismo delle posizioni presentate. Il processo deliberativo si basa sullo scambio dialogico e deve rispondere ai requisiti di uguaglianza politica, non-tirannia e pubblicità dello spazio di discussione (Bohman, 2006)39; di conseguenza deve fondarsi su un riconoscimento reciproco – sviluppato tramite adeguate forme comunicative – e sulla cooperazione sociale, perseguendo fini di giustizia sociale, intesa come insieme delle condizioni istituzionali che promuovono l’autodeterminazione e l’autosviluppo di ciascun membro della società. Certamente sbaglia chi ritiene che un simile modello di democrazia sia facile da implementare, ma credo altrettanto che sia necessario sforzarsi verso questo tipo di governo in quanto qualsiasi decisione politica ha delle ripercussioni sui diritti di ognuno di noi; per cui tutti dovrebbero poter esprimersi in merito e avere il “diritto di essere ascoltati”. 38 “Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventi qualificato, ma che ogni cittadino può diventare governante e che la società lo pone, sia pure astrattamente, nelle condizioni generali di poterlo diventare; la democrazia politica tende a far coincidere governanti e governati” – Antonio Gramsci. 39 Bohman, J., in Zola, D., (2006). 139 Come propone Fishkin, per soddisfare la necessità di una maggiore consapevolezza dei cittadini di fronte ai programmi politici in discussione, si potrebbe implementare il c.d. sondaggio deliberativo (deliberative polling), una forma di sondaggio, su temi specifici, che consiste nell’usare un campione tradizionale – scelto con metodi demoscopici40 – in modo non tradizionale, cioè riunire tra le trecento e le cinquecento persone, così come avveniva nell’antica Grecia41, compensate per il distacco dalle loro attività, in un unico luogo e farle rispondere ad un questionario di base; successivamente, si tratta di far loro ricompilare il questionario dopo aver fornito però delle informazioni, averli fatti confrontare con esperti e, soprattutto, averne discusso tra di loro. L’obiettivo è duplice: da un lato incentivare la partecipazione dei cittadini alla gestione del bene comune e dall’altro predisporre un sistema strutturale di informazioni. La partecipazione è un problema non di poco conto se si considera che ogni volta si prendono in considerazione “solo” trecento/cinquecento persone per il sondaggio; la proposta di Fishkin (insieme ad Ackerman) diventa allora quella di istituire delle “giornate della deliberazione”, i c.d. deliberation days, giorni di festività nazionale, da dedicare alla deliberazione su larga scala dell’intera popolazione, con i metodi del sondaggio deliberativo. Uno degli esempi più recenti di sondaggio deliberativo riguarda l’opinione pubblica europea: è stata realizzato, infatti, per la prima volta a livello europeo un deliberative polling presso il parlamento di Bruxelles, tra il 12 e il 14 ottobre 2007 (Buonocore, 2007). L’esperimento ha visto la presenza di 362 persone, “semplici” cittadini, a rappresentanza dell’intera popolazione europea, i quali sono stati informati su temi complessi ed impegnativi come il ruolo dell’UE: nelle politiche di Welfare nazionali; nei mercati del lavoro; nella competizione economica globale; nelle politiche energetiche; nell’allargamento e nell’esigenza di una comune politica estera. 40 Il metodo demoscopico si basa su un sondaggio dell'opinione pubblica in merito a determinate questioni e viene effettuato con metodi statistici (Dizionario della lingua italiana, Garzanti, 2008). 41 Nella polis del IV secolo a.C. l’Assemblea aveva perso la sua antica autorità e tutte le decisioni istituzionali più importanti venivano prese nell’ambito di piccoli gruppi di circa cinquecento cittadini estratti a sorte (Bosetti, Maffettone, 2004). 140 Dopo la prima fase di informazione, essi sono stati divisi in gruppi multilinguistici – con a disposizione traduttori simultanei del Parlamento e moderatori che gestivano i dibattiti – per discutere tra di loro e giungere, infine, alla manifestazione della loro opinione in merito. L’esperienza, così come dedotto dagli organizzatori leggendo i questionari finali compilati dai 362 soggetti, è stata molto preziosa e utile. Anche in Italia sono stati mossi i primi passi verso il sondaggio informato “à la Fishkin” e più precisamente dalla Regione Lazio. Qui, infatti, si è svolto il 03 dicembre 2006 un deliberative polling in merito ai temi della politica e dell’amministrazione locale. È stato individuato un campione rappresentativo per età, sesso e condizione sociale composto da 119 cittadini laziali. Il risultato raggiunto è stato un 85% del totale con un’idea più chiara sui temi affrontati. Personalmente, la mia opinione in merito è duplice: da un lato, ritengo che la partecipazione dei cittadini alla vita politica, nonché civile, sia fondamentale e configurabile come un diritto naturale e, perciò, sostengo il concetto di democrazia deliberativa. Più nello specifico, giudico in maniera positiva il sondaggio deliberativo, ma solo quando esso viene applicato alla luce dei suoi limiti: con questo voglio dire che credo che il sondaggio deliberativo possa risultare efficace nel momento in cui la sua applicazione avvenga in un’ottica di breve periodo, con l’obiettivo di responsabilizzare le persone e stimolare in loro l’interesse verso la partecipazione e l’informazione su fatti che le coinvolgono in quanto cittadini, non di un paese o di una città, ma del mondo. In un’ottica di lungo periodo ritengo, invece, maggiormente auspicabile che l’attenzione verso certe tematiche e problematiche nasca “dal basso”, direttamente dai cittadini, come se fosse naturale (ma la questione in realtà dovrebbe essere: “perché non dovrebbe esserlo?”) occuparsene. In tal caso, il problema – che sussiste anche quando parliamo di sondaggio deliberativo – sarebbe quello di garantire una corretta informazione ai cittadini: la disinformazione, infatti, è un problema non meno importante e frequente della partecipazione. I mezzi che producono informazioni sono sempre più concentrati in poche mani e simili tra loro, le fonti delle notizie sono sempre le stesse, la ricerca dell’articolo “ad 141 effetto” da parte dei giornalisti fa passare spesso in secondo piano i principi della deontologia professionale. Da questo punto di vista, la nostra società assomiglia sempre di più a quella descritta da George Orwell in “1984”, in cui lo slogan del “Ministero della Verità” recitava così: “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza.” Ma quando Orwell scrisse il suo romanzo nel 1948 non poteva prevedere anche la terza rivoluzione industriale, che ha fatto delle ICT ed, in particolar modo, di Internet, il mezzo di comunicazione (e in un certo senso di democrazia) per eccellenza. Internet, in quanto spazio virtuale, ha permesso la nascita di spazi liberi ed indipendenti, nati con l’obiettivo di poter fare discutere e partecipare le persone ed abbattere le barriere della conoscenza. Ovviamente, anche in questo caso è necessario fare un distinguo tra i diversi casi di applicazione di Internet, rispetto al concetto di democrazia: non si può certo affermare che Internet ed i siti web che permettono di creare opinioni popolari, solo perché aggregano i voti individuali espressi dai cittadini in merito a determinate materie, possano essere considerati rappresentanti del concetto di democrazia deliberativa, in quanto non c’è scambio di informazioni e di opinioni ex ante (Sunstein, 2003). Ma se, invece, Internet fosse proprio lo scenario per i sondaggi deliberativi, il luogo per realizzare discussioni su argomenti civili? Rimango dell’opinione che lo scenario migliore per deliberare sia il proprio luogo di vita quotidiano, perché le relazioni personali non possono essere sostituite da quelle virtuali; nonostante questo, non sarebbe un’ottima alternativa per quei casi in cui impedimenti – come, ad esempio, la distanza fisica – limiterebbero altrimenti la possibilità di partecipare ad un dibattito o di scambiarsi informazioni in merito ad uno specifico tema? Vedremo in un successivo paragrafo (par. 4.4.3) l’approfondimento dell’argomento democrazia deliberativa applicato alle ICT. Più in generale, viene a configurarsi un diritto necessario e fondante del diritto stesso di partecipazione alla vita civile e di deliberazione: quello di “accesso all’informazione”, necessaria per esprimere il proprio parere e poter applicare il concetto di democrazia deliberativa. 142 4.4.2 Gli effetti economici della democrazia diretta Ad oggi, numerosi studi empirici hanno dimostrato che le istituzioni della democrazia diretta hanno effetti significativi e robusti sui risultati economici di un paese. L’analisi di Persson e Tabellini (2003) aveva analizzato gli effetti delle istituzioni su una serie di variabili: 1. politica fiscale: le dimensioni del governo, la composizione della spesa del governo, la dimensione del deficit di bilancio; 2. estrazione di rendite da parte del governo: in particolare, la corruzione percepita dal governo e l’efficacia con cui il governo fornisce beni pubblici e servizi; 3. misure composte dalle politiche promotrici di crescita così come la protezione dei diritti di proprietà privata: queste possono avere riflessi nel lavoro così come nella produttività totale dei fattori. Dall’analisi di Blume, Müller e Voigt (2007) deriva una significativa influenza delle istituzioni democratiche dirette sulle variabili della politica fiscale. La presenza di istituzioni democratiche dirette è correlata ad una più bassa spesa da parte del governo, ad una riduzione del deficit di bilancio e della corruzione così come ad una maggiore efficacia delle azioni del governo e ad un migliore sviluppo economico. Come sostenuto da Persson (2005), infatti, la forma di democrazia adottata in un paese ha delle conseguenze importanti per l’adozione di politiche strutturali che promuovono le performance economiche di lungo periodo. La forma di democrazia potrebbe essere uno dei collegamenti mancanti tra storia, politica attuale e sviluppo economico di un paese: se effettivamente le istituzioni incidono sulla politica fiscale e sulla corruzione, probabilmente esse saranno rispecchiate anche nelle politiche strutturali che promuovono lo sviluppo economico così come i diritti di proprietà che preservano regolamenti e politiche commerciali non protezionistiche. Se la storia e la cultura effettivamente incidono sulle istituzioni societarie importanti, esse saranno rispecchiate molto probabilmente nella progettazione delle istituzioni politiche, così come la forma di governo o il sistema elettorale. La forma di democrazia è, dunque, critica per la progettazione del commercio e dei regimi regolatori. 143 4.4.3 La partecipazione diretta nelle realtà globali e locali Lo strumento del deliberative polling nasce e si sviluppa come mezzo di diffusione del concetto di democrazia diretta. Tuttavia, non può avere la pretesa di essere considerato l’unico metodo attraverso cui possa essere diffusa la partecipazione attiva dei cittadini. Durante un incontro dal titolo “Democrazia locale e nuove forme di partecipazione”, tenutosi in data 15 febbraio 2008, un professore francese, Yves Sintomer, ha proposto una tassonomia sulle diverse forme di partecipazione possibili, composta da sei modelli, tenendo conto di cinque variabili: contesto sociale, politico ed economico; quadro ideologico e scopi ufficiali (amministrativi, sociali, politici, ecologici, economici, ecc.); procedure partecipative; dinamica dell’azione collettiva; relazione tra politica partecipativa e politica convenzionale. I modelli così individuati sono (Ardizzoni, 2008): 1. democrazia partecipativa: presenza di forte politicizzazione e combinazione di tecniche top-down e bottom-up, per una società civile forte in cui si assiste l’empowerment delle classi medie; 2. democrazia di prossimità: strumentalizzazione della partecipazione in quanto la prossimità è solo geografica, ma non è lasciata ampia autonomia alla società civile; il governo locale è forte ed agisce dall’alto senza però impartire regole chiare; 3. modernizzazione partecipativa: strumentalizzazione della partecipazione, attuata solo per trasmettere l’idea di una modernizzazione dell’amministrazione locale che invece impartisce gli ordini dall’alto; 4. partenariato pubblico/privato partecipato: la posizione dominante è rivestita questa volta dal mercato; i governi locali sono deboli, ma in questo modo non vengono esclusi i cittadini; 5. sviluppo comunitario: i cittadini partecipano attivamente alle decisioni e sono loro che poi sviluppano i progetti inerenti; 6. neo-corporativismo: lo Stato afferma il suo ruolo in modo centrale, ma anche l’organizzazione degli interessi in associazioni che poi partecipano alla 144 discussione sulle politiche pubbliche. La partecipazione è settoriale e la pianificazione strategica. È sufficientemente ovvio e reale che esistano dei limiti al passaggio, in un periodo di tempo breve, da una democrazia rappresentativa ad una totalmente diretta; probabilmente, non è nemmeno auspicabile che l’una vinca definitivamente sull’altra senza vivere una fase di transizione, di mediazione tra le due forme di democrazia, per poter cogliere gli errori del passato e farli diventare i punti di forza del futuro, ottenendo così la miglior forma di democrazia che possa nascere “dai cittadini, per i cittadini”. Attualmente, per un paese in cui vige il regime democratico elitistico-competitivo, sarebbe auspicabile un cambiamento lungo tre direzioni: a. una maggiore partecipazione aperta a tutti i cittadini; b. una combinazione di democrazia diretta e rappresentativa, con regole interne determinate dai partecipanti; c. un’allocazione delle risorse per gli investimenti basata su di una combinazione di criteri generali e tecnici. Quanto appena descritto è ciò che avvenne nel 1989 a Porto Alegre, capitale dello stato brasiliano di Rio Grande do Sul, una città quasi di confine, con un’economia basata sul commercio e il terziario e una prevalenza di microimprese. Quando nel 1988 il Partido dos Trabalhadores (Partito dei Lavoratori, coalizione politica di sinistra) andò al governo fece, innanzitutto, una riforma fiscale per drenare le risorse; poi, inventò insieme alla cittadinanza dei modi per far partecipare quante più persone possibili alle scelte collettive. Nasce così la partecipazione sociale al bilancio (o bilancio partecipativo – Orçamento Participativo – OP) come processo, organizzato e guidato dall’amministrazione, con il quale il cittadino viene chiamato a partecipare a scelte inerenti la destinazione di spesa di una parte del bilancio comunale e che nasce dalla necessità di coinvolgere i cittadini nella risoluzione di determinati problemi che riguardano il territorio in cui vivono, favorendone l’interessamento e la partecipazione. L’obiettivo principale è quello di formare un’opportuna coscienza civica e di costruire una vera e propria comunità di persone sensibili allo sviluppo e alla vita del proprio territorio. La proposta di Porto Alegre fonda le sue radici in una tradizione di autonomia e di movimenti popolari urbani, su cui si sono spontaneamente costituite le 16 aree in cui è suddivisa la città. 145 Tramite la pratica dell’OP, sono attivamente coinvolti ogni anno circa 45.000 cittadini (su un totale di 1.300.000 abitanti)42. La preparazione annuale dell’OP si articola in due percorsi paralleli, uno territoriale e l’altro tematico, ed è scadenzata in due turni principali, separati da un periodo intermedio di discussioni (assembleias intermediarias) nei vari quartieri delle 16 aree della città. La prima tornata, che avviene tra marzo ed aprile, si sviluppa in 16 assemblee plenarie territoriali, una per regione comunale, e 5 assemblee plenarie su altrettante tematiche: trasporto e circolazione; salute ed assistenza sociale; educazione, cultura e riposo; sviluppo economico e tassazione; sviluppo urbano. In queste assemblee si presentano i conti e si valutano le opere realizzate nell’anno solare precedente, si eleggono i delegati per i Forum dei Delegati della Regione e per la Plenaria Tematica, in numero proporzionale alla partecipazione dei singoli quartieri all’assemblea della regione comunale. I delegati hanno il compito di organizzare la partecipazione popolare alle assemblee, mantenendo un costante contatto con i contesti locali di appartenenza, a cominciare dalla tornata intermedia, che si svolge in ogni regione tra aprile e maggio con decine di riunioni di quartiere. Nella seconda tornata, i delegati eleggono i consiglieri, due per ogni regione e due per ogni tema (quindi 32 più 10), eleggibili al più per due cariche consecutive, i quali vanno a comporre il Consiglio Popolare del Bilancio Partecipativo (COP). I consiglieri hanno l’incarico di valutare le priorità di bilancio emerse nelle riunioni precedenti e di organizzare la proposta di programma di investimento da presentare all’amministrazione comunale. A questo punto, si tratta di trovare nel confronto con gli organismi del governo municipale propriamente detti il giusto equilibrio di bilancio: ciò avviene tramite un dialogo tra le parti – non esente da momenti di tensione – e coerentemente a tre criteri generali: 42 Il 58% sono donne, il 42% maschi; i bianchi sono il 61%, i neri il 20%, gli indios il 3,6%. I ceti meno istruiti e con reddito inferiore partecipano di più, ma la tendenza vede un aumento dell’interesse delle classi medie (Cangemi, 2002). 146 1. popolazione totale della singola regione; 2. grado di carenza di servizi e infrastrutture; 3. priorità tematiche indicate da ogni regione. La redazione finale della proposta di bilancio, approvata o modificata dal COP, dovrà essere discussa e convalidata dal Consiglio Comunale entro la fine di novembre. Essa costituirà la base del nuovo piano di investimenti. Le principali caratteristiche di questo processo democratico che è il bilancio partecipativo sono sostanzialmente tre: a. la partecipazione avviene su base volontaria e a titolo assolutamente gratuito; b. il bilancio partecipativo non possiede una base strettamente legale, ma si erge su una base prevalentemente morale – la sua forza risiede nel “patto politico” tra amministrazione popolare e cittadini; c. il bilancio partecipativo è regolato da un articolo dello Statuto comunale – e non da una vera e propria legge ad hoc –, la cui informalità permette modifiche e correzioni anche in corso d’opera. Con queste modalità di azione, Porto Alegre è stata la prima città a perseguire palesemente tre obiettivi di fondamentale rilevanza: una migliore valutazione delle necessità e delle energie sociali della popolazione; rifondare la relazione di fiducia fra cittadini ed istituzioni; ridare significato all’asfittica capacità di rappresentanza dimostrata negli anni precedenti dalla classe politica al governo della città. I risultati di cui si può vantare Porto Alegre sono visibili a tutti: se nel 1987 erano 400.000 i poveri che abitavano in 200 favelas, oggi molte di queste sono stata riqualificate ed urbanizzate, il 99% della popolazione dispone di acqua potabile e il 92% di servizi igienici. Le scuole comunali da 29 sono diventate 90 e l’evasione scolastica si è ridotta a meno del 2%. Ci sono progetti per lo sviluppo di piccole imprese e cooperative nell’ambito dell’economia popolare solidale e gli indicatori dell’HDI si avvicinano a quelli del Nord del mondo: l’aspettativa di vita è di 70,3 anni, la mortalità infantile è del 15 per mille, la popolazione alfabetizzata è il 97%. Inoltre, Porto Alegre è considerata dall’ONU, che raccomanda il bilancio partecipativo come best practice, una delle quaranta città meglio gestite al mondo. 147 L’introduzione dell’OP ha migliorato la vita di migliaia di persone e ha ridotto le forme di clientelismo e di corruzione. Parallelamente, ha sviluppato il senso di responsabilità collettiva e di appartenenza alla comunità, la capacità di risolvere conflitti e di costruire patti sociali, la coscienza critica e il controllo sull’operato dei politici, ma anche la comprensione di quanto è complesso gestire una metropoli. E soprattutto la crescita del sapere collettivo sui propri luoghi di vita e la progettazione di nuovi modelli di sviluppo e convivenza. L’esempio di Porto Alegre è stato da qualche anno “esportato” in altre realtà: oltre 140 città in Brasile, infatti, hanno adottato l’OP, così come altre in America Latina (Montevideo, Rosario, Buenos Aires) hanno iniziato a sperimentare strumenti di partecipazione modellati sull’OP, adattandoli a territori, storie e culture differenti. L’eco brasiliano è arrivato fino ai paesi dell’Occidente: prima in Francia (Saint Denis, Bobigny, Morsane sur Orge), poi in Inghilterra (Manchester) e in Spagna (San Feliu de Llobregat, Rubi e alcune sperimentazioni alla Diputacio di Barcellona), fino alle città tedesche di Moenchweiler e Blumberg e in altre del Land Nordreno-Westfalia, alla neozelandese Christchurch e ad alcune città USA. L’esempio di Porto Alegre è stato declinato in Francia secondo il modello della “democrazia di prossimità” attraverso la legge n°276/2002 (detta anche “Loi Vaillant”), facente parte di quei testi di legge concentrati sulla statuizione “formale” di diritti alla partecipazione popolare delle scelte, inseriti all’interno di leggi “di riforma dell’ordinamento e degli statuti degli enti locali”. La legge si pone i seguenti obiettivi: avvicinare maggiormente i cittadini alle decisioni locali; rinforzare (in quanto già altre disposizioni legislative li prevedevano) i diritti degli elettori locali, in particolare quelli dell’opposizione – diritto all’informazione e di partecipazione; facilitare l’accesso ai mandati locali, articolare meglio questi mandati con l’attività professionale, rinforzare la formazione degli elettori locali e migliorare le condizioni di esercizio dei mandati; assicurare la trasparenza dei processi di elaborazione dei progetti di ristrutturazione e di equipaggiamento così come la partecipazione del pubblico all’elaborazione di grandi progetti. 148 All’origine dell’introduzione di questa trasformazione vi è l’idea che gli eletti sono disponibili, con sempre maggiore frequenza, ad ascoltare i cittadini, ma senza compartire il potere decisionale. La legge sulla democrazia di prossimità introdusse sostanzialmente due strumenti di partecipazione: i Consigli di Quartiere e i Fondi di Quartiere (Allegretti, Herzberg, 2004). I primi vennero introdotti obbligatoriamente in tutte le città con oltre 80.000 abitanti; nonostante questo sia uno strumento che riconosce un grado di partecipazione alle scelte che propone soluzioni e punti di vista diversi dalla volontà delle autorità locali, tuttavia, nella maggioranza dei casi, il suo ruolo resta meramente consultivo. Al Consiglio di Quartiere partecipano il Sindaco, i consigliere eletti, gli abitanti o alcuni rappresentanti dell’associazionismo; i temi sono per lo più micro-locali e riguardano la gestione del quartiere – trasporti, urbanistica, sicurezza, spazi pubblici, ecc. L’altro strumento di partecipazione è costituito dai Fondi di Quartiere (o “portafogli di quartiere”) che hanno introdotto delle forme di democrazia diretta su scala microlocale. I cittadini, riuniti in assemblee aperte o attraverso riunioni di rappresentanti nominati in maniera diversa, possono decidere su un quantitativo di denaro destinato ad investimenti infrastrutturali o a dei progetti locali. Negli ultimi anni grazie al Fondo di Partecipazione degli Abitanti (FPH), le esperienze sono passate da qualche decina ad alcune centinaia in tutto il paese. In Francia, la struttura del bilancio partecipativo permette forme di deliberazione dove il potere decisionale è condiviso tra i cittadini e la municipalità, grazie ad organismi di rappresentanza che riuniscono un numero ridotto di partecipanti delegati per approfondire e dettagliare argomenti e richieste indicati in assemblee più ampie. Il problema di fondo riscontrato in Francia è, però, che spesso non si ha ben chiaro a che cosa si partecipa. Secondo il professore universitario francese Rémy Lefebvre (Ardizzoni, 2008), gli obiettivi che ci si propone di raggiungere attraverso questa nuova tecnica di coinvolgimento sono – nell’ordine in cui vengono perseguiti– principalmente quattro: a. manageriale: miglioramento della gestione urbana, costruzione un’accettabilità sociale, modernizzazione dei servizi pubblici; b. sociale: partecipazione come progetto di coinvolgimento della società; c. politico; d. di democratizzazione. 149 di È per questo motivo che gli amministratori in Francia hanno la tendenza a preferire la democrazia “di prossimità” piuttosto che quella “partecipativa”. Alla base vi sta un’ambiguità che permette lo sviluppo di logiche opportunistiche, tant’è che esiste la tendenza a mantenere più vivi i rapporti con il locale piuttosto che con il nazionale. I politici puntano sulla prossimità perché è una risposta alla professionalizzazione e, quindi, cercano di essere vicini fisicamente perché sono molto lontani socialmente. In Italia molti comuni (oltre 20, tra i quali Napoli, Venezia e Roma) hanno formalizzato l’interesse per l’adozione dello strumento partecipativo, nominando un assessore o un consigliere comunale delegato del Sindaco alla sperimentazione. Nella realtà, a quest’impegno formalizzato, solo poche città hanno fatto corrispondere azioni concrete d’innovazione dei processi di costruzione del bilancio comunale. L’OP ha spesso rappresentato una “moda” spendibile nella programmazione elettorale o uno strumento di contrattazione tra i partiti o nei rapporti tra questi e i tessuti sociali. Questo atteggiamento da parte delle amministrazioni pubbliche italiane ha portato alla distinzione tra bilancio partecipativo e bilancio partecipato: il primo determina percorsi di coinvolgimento duraturi, reiterati e strutturati, dove i cittadini svolgono un ruolo attivo nella costruzione delle decisioni; il secondo, invece, denuncia ambizioni minori e riveste esclusivamente alcuni momenti di partecipazione popolare inseriti in processi sostanzialmente tradizionali. Si tratta quindi di una reinterpretazione di basso livello di quello che era stato proposto ed implementato a Porto Alegre, che viene portata avanti in una quindicina di città italiane. Si configura perciò la necessità di perseguire il superamento della “mitologia” del modello di Porto Alegre, per coglierne la filosofia di base da adattare alle nostre realtà locali, sostituendo la pigrizia di un approccio imitativo con la dinamicità di uno creativo. Uno dei pochi esempi in Italia degni di menzione è quello di Grottammare, nelle Marche. Si tratta di un comune di circa 14.000 abitanti che introdusse la pratica partecipativa già dal 1994, con la vittoria alle elezioni amministrative di una lista civica chiamata “Solidarietà e Partecipazione”, formata da persone provenienti dalla società civile (senza esperienza politica o amministrativa), come dai partiti tradizionali, nonché da diverse realtà associative del luogo. 150 Da quel momento, la neo-amministrazione non si impaurì e cominciò a convocare le Assemblee cittadine prima della redazione del Bilancio di Previsione Annuale proprio per ricevere non solo una maggiore legittimazione, ma anche una funzionale conoscenza delle esigenze e delle problematiche della cittadinanza. In concreto, l’implementazione della partecipazione cittadina si è sviluppata tramite due strumenti: le Assemblee di Quartiere e i Comitati di Quartiere. Le prime sono dei momenti comuni e collettivi in cui i singoli cittadini esternano segnalazioni, fanno interventi e proposte, discutono il bilancio, individuano i problemi e cercano insieme le soluzioni. Il tutto è regolarmente verbalizzato e successivamente portato in Giunta. Sono convocate prima della redazione del Bilancio di Previsione Annuale, una in ognuno dei 6 quartieri per due cicli (per un totale di 12 assemblee), con l’obiettivo di giungere ad un’approvazione condivisa e generalizzata del documento contabile. I Comitati di Quartiere, invece, rappresentano la dimensione permanente della partecipazione popolare, in quanto hanno il compito di seguire lo stato di attuazione delle richieste fatte dai cittadini ed, eventualmente, riferire; sono, inoltre, portatori di nuove richieste, preparano il dibattito assembleare, possono richiedere “assemblee tematiche” e allo stesso tempo sollecitare l’apparato amministrativo su questioni delicate. Infine, avvisano i cittadini in merito ad eventuali questioni da discutere, concordano date e modalità dello svolgimento delle assemblee con il Comune e svolgono un ruolo informativo per la collettività. Da un punto di vista di funzionamento, non è possibile standardizzare – poiché non formalizzato e, quindi, in movimento – il processo partecipativo. Tuttavia, se ne possono delineare i tratti caratteristici, riconducibili alla suddivisione del processo in due fasi fondamentali: “Gli Amministratori ascoltano i Cittadini”, con inizio ad ottobre; “Decido anch’io”. Nella prima fase, la Giunta raccoglie tutte le richieste d’intervento fatte dai cittadini impegnandosi, prima dell’inizio della seconda fase, a razionalizzarle e a suddividerle in tre settori distinti: 1. segnalazioni: interventi che riguardano l’ordinaria amministrazione e sui quali non c’è un grosso potere decisionale da porre in essere; pertanto, sono interventi di piccola entità che l’amministrazione non ha realizzato perché momentaneamente impossibilitata o semplicemente perché non ne era al 151 corrente. Una volta raccolte tutte le segnalazioni di tutti i quartieri, esse vengono accorpate e girate automaticamente agli uffici di competenza; 2. interventi di quartiere: riguardano quegli interventi in cui il potere decisionale è decisivo e la realizzazione di una richiesta può escluderne un’altra; sono usualmente opere che prevedono una spesa di media importanza da parte del Comune e che per questo sono decise dalla base popolare. Anch’esse vengono riportate in apposite schede successivamente consegnate all’interno del secondo ciclo assembleare e sulla quale i cittadini potranno materialmente esprimere la propria preferenza. La Giunta si impegna a realizzare quella più richiesta all’interno di ogni quartiere; 3. interventi cittadini: sono quelle richieste che toccano tutta la città e non solo il quartiere di riferimento. Riguardano normalmente “macro-interventi” strutturali che impegnano il Bilancio Comunale in maniera piuttosto importante. Anche in questo caso le richieste vengono isolate e riportate su schede dove i cittadini andranno ad esprimere la propria preferenza; chiaramente in questo caso la Giunta non si impegna a realizzare l’intervento entro l’anno, bensì a prendere a titolo di sondaggio questo strumento per uno sviluppo condiviso dalla comunità. La seconda fase, Decido anch’io, è quella che si svolge in autunno inoltrato e che vede il cittadino ancora più protagonista, in quanto: a- il Sindaco rende conto delle risposte degli uffici tecnici a riguardo delle segnalazioni espresse nell’Assemblea precedente; b- vengono espresse le preferenze sugli interventi di quartiere (l’intervento più richiesto sarà realizzato entro l’anno); c- vengono espresse le preferenze sugli interventi cittadini. La partecipazione ha avuto un forte peso sulla realtà cittadina, andando principalmente a portare cambiamenti riguardanti: il miglioramento della qualità della vita di alcuni quartieri che prima di allora erano caratterizzati dal degrado; una maggiore educazione popolare e più vaste dinamiche inclusive per i Cittadini; una crescente responsabilizzazione economica delle richieste da parte dei Cittadini (oltre il 60 % delle richieste sono a basso costo – nessuna spesa o talmente bassa da non rappresentare un problema per le casse comunali). 152 Seppur efficace e significativa l’esperienza partecipativa in tema di Bilancio, essa non risulta esaustiva al fine di illustrare i meccanismi partecipativi in essere nella realtà di Grottammare. Percorso altrettanto significativo è quello relativo al Piano Regolatore Generale. Decine di Assemblee tematiche, una forte azione dei Comitati di Quartiere e l’istituzione di un Ufficio di Piano in cui le persone potevano vedere l’evolvere dei lavori esprimendo la propria idea di sviluppo permisero di arrivare ancora una volta ad un’approvazione condivisa e generalizzata di questo documento così importante. La scommessa in questo caso, come per il Bilancio, fu quella di far intervenire in maniera effettiva i cittadini su percorsi per troppo tempo relegati agli “addetti ai lavori”; attraverso una costante e capillare opera di semplificazione fatta quartiere per quartiere si è potuto dimostrare che non solo non esistono argomenti in cui la cittadinanza non può essere coinvolta, ma anche che la trasparenza è garanzia essenziale per scongiurare dinamiche di collusione tra potere politico ed economico sul terreno del consenso. La partecipazione attiva dei cittadini in temi che fino a qualche tempo fa erano unicamente accessibili alle pubbliche amministrazioni fa parte di un progetto più ampio, composto da diversi punti di forza, che va sotto il nome di Rete del Nuovo Municipio. Si tratta di un coordinamento costituito da amministratori locali, esponenti del mondo associativo di base e ricercatori, i quali vogliono collegare in una struttura operativa stabile ed a rete le iniziative già in atto sul territorio nazionale, per conferire loro una forte valenza propositiva ed anticipatrice in un contesto di sviluppo locale. La Rete del Nuovo Municipio è composta da quattro tipologie di soggetti: 1. gli organi istituzionali: con funzioni di tipo propositivo e di coordinamento tipiche di un comitato tecnico-scientifico; 2. i soci: sono gli elementi catalizzatori e attivatori dei processi di trasformazione locali promossi e collegati dalla Rete; 3. i nodi territoriali: hanno il compito di promuovere e coordinare le azioni intraprese nell’area di competenza iscrivendole negli orientamenti generali della Rete, nonché di raccogliere i feed-back necessari per orientare le scelte future; 4. i sottoscrittori: sono centinaia tra amministratori locali, associazioni, ricercatori e privati cittadini sensibili alle esigenze di riorientamento dello sviluppo economico, sociale e territoriale. 153 La Rete del Nuovo Municipio si fonda sulla Carta del Nuovo Municipio, elaborata nel 2002 in occasione del Forum Sociale Mondiale tenutosi a Porto Alegre (Altomeni, 2004). La Carta, scritta da amministratori pubblici, docenti universitari ed esponenti della società civile, sancisce alcuni principi su cui orientare la politica amministrativa, a partire da un approccio partecipativo alla democrazia e alla valorizzazione delle società locali, e che sono i seguenti: a. globalizzazione e sviluppo locale; b. nuovo ruolo degli enti locali e delle loro unioni per una globalizzazione dal basso; c. nuove forme di democrazia diretta; d. nuovi territori multiculturali; e. nuovi indicatori di benessere; f. nuovi sistemi economici locali autosostenibili – con valorizzazione dei beni territoriali e ambientali comuni; g. forme di valorizzazione del patrimonio territoriale locale; h. reti di scambio equo e solidale. Pertanto, la Rete, fondandosi sulla Carta del Nuovo Municipio, si orienta verso la realizzazione di dinamiche comuni che possano contemporaneamente valorizzare le diverse realtà e le loro peculiarità, per mantenere quella “biodiversità” culturale, su cui si fonda una democrazia definibile realmente in quanto tale. A livello regionale, degno di menzione è il caso della Regione Toscana: già nel 2005 era stato approvato il nuovo Statuto Regionale che prevedeva all’art. 3 – “Principi generali” – da un lato, il sostegno da parte della Regione ai principi di sussidiarietà sociale ed istituzionale, attraverso l’integrazione delle politiche locali e il riconoscimento delle formazioni sociali e il supporto per un loro libero sviluppo; dall’altro, la garanzia da parte della Regione della partecipazione di tutti i residenti e dei toscani residenti all’estero alle scelte politiche. Successivamente, in data 27 dicembre 2007, è stata approvata la Legge Regionale n°69 in merito alle “Norme sulla promozione della partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali”, la quale è servita come banco di prova della possibilità di realizzare percorsi partecipativi interscalari, per modellare gli organi superiori di governo come espressioni delle comunità locali (Magnaghi, 2008). 154 Con questa legge, la Giunta ha, innanzitutto, voluto dar corpo e piena attuazione allo Statuto Regionale in merito alla partecipazione dei cittadini alle scelte di governo affermando il principio del metodo partecipativo come “forma ordinaria di governo in tutti i settori e in tutti i livelli amministrativi” (art. 1, comma 3, lett. “b”); in secondo luogo, realizzare nei processi partecipativi la massima inclusività, soprattutto dei soggetti più deboli e privi di rappresentanza e promuovere forme di auto-organizzazione e di autogoverno della società civile. Per quanto riguarda la partecipazione su “scala locale”, la legge prevede la “promozione e diffusione dei processi partecipativi locali”, incentivando le “buone pratiche” e progetti specifici di attivazione di processi partecipativi promossi da enti locali, cittadini, associazioni, nonché la definizione di principi che garantiscono “requisiti essenziali” del processo partecipativo – inclusività, trasparenza e pari opportunità – e il sostegno delle “iniziative autonome” della società civile e delle sue forme associative. In merito, invece, alle procedure partecipative per le “politiche regionali”, la legge prevede, oltre alla generalizzazione e sistemizzazione delle procedure partecipative già presenti in molti settori: a. l’istituzione del “Dibattito Pubblico Regionale”, ovvero la possibilità che, su grandi interventi, opere pubbliche o questioni di rilevante impatto ambientale e sociale per la vita dell’intera comunità regionale, si svolga un confronto pubblico che si articoli sulla base di regole precise, dalla durata di sei mesi, organizzato e condotto sotto la responsabilità di un organo “terzo”, indipendente e “neutrale”, che la legge istituisce: l’“Autorità regionale per la garanzia e la promozione della partecipazione”; b. un’“azione di sostegno e di supporto ai processi locali di partecipazione”, siano essi promossi sia dagli enti locali che dai cittadini, o da altri soggetti. La legge prevede che un ente locale, ma anche un gruppo di cittadini, un’associazione, un istituto scolastico o anche un’impresa, possano presentare un progetto di processo partecipativo, intorno ad un oggetto ben definito e circoscritto, della durata massima di sei mesi, indicando i metodi e gli strumenti più adatti, tali da assicurare comunque la massima “inclusività”, ossia che tutti i punti di vista e gli interessi siano coinvolti e che tutti abbiano pari opportunità di esprimersi. Spetta all’Autorità regionale la valutazione e l’ammissione dei progetti presentati, sulla base di una serie di condizioni e requisiti che la legge indica. 155 L’ente competente in materia dichiara, all’inizio del processo, di impegnarsi a “tener conto” dell’esito del processo partecipativo o, in ogni caso, di motivare adeguatamente e pubblicamente le ragioni del mancato o parziale accoglimento dei risultati. Il sostegno regionale ad un progetto può essere di tipo finanziario, metodologico (assistenza, consulenza, ecc.) o anche logistico (ad esempio, supporti informatici); c. il rafforzamento e l’estensione, tramite una serie di modifiche alla legislazione regionale vigente, dei numerosi momenti di “partecipazione” che sono già previsti nelle politiche regionali e nelle stesse procedure della programmazione della Regione Toscana. 4.4.4 Gli strumenti e i mezzi delle ICT per la diffusione della partecipazione Parallelamente al mondo reale, noi tutti oggi siamo cittadini di quello che è un mondo virtuale: ma chi dice che i due universi debbano essere nettamente separati e non possono, invece, su alcune tematiche venirsi incontro, sviluppando un rapporto di mutuo aiuto? Due concetti, la democrazia e la tecnologia: l’una desiderosa di uno spazio informativo quanto più ampio possibile, l’altra offerente di ciò che la prima cerca per potersi espandere e sviluppare. Internet sembra offrire nuove possibilità di partecipazione politica direttamente ai cittadini, ai gruppi politici, alle istituzioni. La demografia di Internet, considerata in relazione a dati sulla partecipazione politica, mostra che gli utenti partecipano alla politica e che, viceversa, coloro che sono politicamente attivi tendono ad usare Internet. La partecipazione tramite Internet, vista la natura della rete, tende a trascendere confini nazionali ed istituzionali e ad innescare nuove pratiche di cittadinanza, mediatica e culturale (Lusoli, 2005). Internet e le altre tecnologie della comunicazione interagiscono con trend esistenti di sviluppo socio-politico nelle democrazie occidentali avanzate, specificamente in riferimento all’individuazione, frammentazione ed uscita dall’alveo istituzionale dei comportamenti politici, individuali e collettivi, ed il modo in cui questo cambiamento è concettualizzato in scienza politica. I nuovi media favoriscono il controllo decentralizzato della comunicazione, ogni utente diventa un produttore, avviene un’interazione tra i comunicanti, si favorisce un 156 processo di apprendimento socio-politico, vi è controllo sociale del mezzo comunicativo. Già in uno studio del 1988, Abramson, Arterton e Orren identificarono sei caratteristiche che rendono i nuovi media una tecnologia democratica: 1- migliore qualità e maggiore disponibilità di informazioni per governanti e governati; 2- Internet favorisce un maggior controllo sull’informazione da parte di coloro che la ricevono; 3- tempo e spazio sono vincoli minori per la circolazione e la fruizione di informazione digitale; 4- i nuovi media rendono il narrowcasting43 economicamente conveniente; 5- i nuovi media favoriscono la decentralizzazione dell’uso ed una certa capacità di produzione da parte degli utenti, sebbene la proprietà dei mezzi di produzione rimanga nelle mani di pochi; 6- i processi comunicativi di rete sono propriamente interattivi. La maggior parte dei lavori sulla democrazia elettronica (o e-democracy) può essere suddivisa in tre principali modelli (Lusoli, 2005): a. teledemocrazia, i cui fautori rilevano l’importanza dei cittadini nei confronti delle istituzioni e la capacità dei nuovi media di creare un collegamento più diretto fra le preferenze dei cittadini e la decisione politica; b. democrazia virtuale comunitaria, i cui teorici enfatizzano la capacità di Internet di favorire la creazione e di sostenere vincoli comunitari, a loro volta la pietra angolare di una società politicamente emancipata; c. democrazia elettronica deliberativa, i cui cultori sostengono che i nuovi media favoriscono la creazione di ambienti quasi-istituzionali deliberativi, che assomigliano alla sfera pubblica, prima della decadenza. I punti in comune delle tre modalità di applicazione dei concetti di democrazia e ICT sono, da un lato, l’estromissione dei tradizionali “agenti della rappresentanza politica”, mentre, dall’altro, l’assunzione che i nuovi media indeboliscano – piuttosto che rafforzino – i mediatori tradizionali e che servano ad appiattire le gerarchie istituzionali. 43 Il narrowcasting è una metodologia di diffusione di informazioni o che permette a chi usa la rete di avere notizie e commenti in tempo reale da tutto il mondo su qualsiasi tema usando gli strumenti che mette a disposizione Internet (forum, mailing list, blog, newsletter, ecc.) (Wikipedia, 2008). 157 In particolare, la deliberazione online è definita come “ogni pratica di comunicazione interattiva in cui attori democratici cercano di modellare le decisioni altrui influenzandone le opinioni riguardo a fatti, valori, concetti o interessi” (Applbaum, 1999). La prospettiva deliberativa origina al contempo teledemocrazia e comunità virtuali e condivide l’assunzione che i nuovi media – nello specifico, le teleconferenze – siano strumento che consente di migliorare l’accesso dei cittadini al processo decisionale. Nel concreto, la democrazia elettronica deliberativa si realizza attraverso lo strumento del Town Meeting (TM): esso nacque circa quattrocento anni fa negli Stati Uniti, nella regione del New England, ovvero nei primi villaggi coloniali sorti nella zona nord-est degli USA. In questi luoghi è stato usato sin dall’inizio come espressione di democrazia diretta, attraverso assemblee che si tenevano per discutere tra gli abitanti le esigenze e le politiche del paese. Più recentemente è stata sperimentata una nuova versione del TM, che offre elementi innovativi legati alle ICT: l’Electronic Town Meeting (e-TM). Questo metodo è caratterizzato dall’uso di una combinazione di tecniche che consentono di coniugare i vantaggi della discussione per piccoli gruppi, con quelli di un sondaggio rivolto ad un ampio pubblico. In una continua alternanza fra momenti di discussione e momenti di voto individuale si può ottenere anche un ulteriore vantaggio: quello di costruire l’agenda dei lavori in modo progressivo, ossia permettendo che l’esito delle discussioni produca delle domande da sottoporre immediatamente all’assemblea (in una logica di continuum mezzi-fini). Nell’e-TM si svolgono in successione tre differenti fasi di lavoro, volte a facilitare i partecipanti nel trattamento dei temi oggetto della discussione (proprio come avviene nel deliberative polling): 1. una prima fase di informazione ed approfondimento grazie agli apporti di documenti ed esperti; 2. una seconda fase di discussione in piccoli gruppi; 3. una terza fase in cui i temi sintetizzati e restituiti in forma di domande sono proposti ai partecipanti che si possono dunque esprimere in modo diretto votando individualmente mediante delle tastierine (polling keypads). Con quanto fin qui illustrato, sembra che Internet si sia “messo al servizio” della democrazia, attraverso il suo world wide web e gli strumenti ad esso legati. Come in 158 tutte le situazioni, tuttavia, esiste il rovescio della medaglia, cioè esistono dei potenziali ostacoli che potrebbero minare la “collaborazione” tra le ICT e la democrazia (Lusoli, 2005). Il primo impedimento consiste nella volontà e capacità dei tradizionali mediatori – partiti, parlamenti e sindacati – di riformare le strutture di rappresentanza politica per accomodare le nuove tecnologie, al fine di favorire l’emergere di nuovi modelli di cittadinanza. Infatti, in generale, l’offerta di opportunità di partecipazione digitale rimane ad oggi limitata, specialmente in relazione alla notevole recente evoluzione di Internet, in termini di audience ed accessibilità. Un secondo ostacolo è rappresentato dalla volontà e dalla capacità dei cittadini di partecipare elettronicamente. Per quanto riguarda la volontà, la maggior parte degli studi sulla partecipazione politica in rete dimostra, in modo persuasivo, che soltanto una piccola minoranza di utenti è coinvolta in un numero limitato di attività politiche. Per quanto concerne la capacità di partecipare, è forse più preoccupante che questa minoranza provenga da determinate sezioni della società – uomini, con educazione universitaria, provenienti da ceti sociali medio-alti, con significativi livelli di interesse politico – in particolare coloro che già partecipano in varie attività politiche. Posto che esistono dei limiti attuali alla possibilità di utilizzo ottimale delle ICT applicate alla diffusione della partecipazione democratica, giudico fondamentale il ruolo ricoperto da Internet e dagli strumenti derivanti dalla terza rivoluzione industriale per poter diffondere una “cultura del dialogo”, sia nel mondo virtuale sia del mondo reale. Nonostante i regimi dittatoriali (si pensi al caso della Cina – vedi supra par. 3.4.4) riescano comunque ad avere potere anche su quello che viene proclamato il principale strumento di comunicazione democratico, il potenziale di Internet come mezzo di diffusione di informazioni relative alla realtà dei fatti (e che quindi permettono alla persona di ampliare la propria conoscenza in merito a diverse tematiche), nonché come mezzo di informazione delle principali attività partecipative del proprio territorio e come luogo di dialogo, di scambio di opinioni e di sondaggi tematici, è assolutamente indiscutibile. Le pubbliche amministrazioni dovrebbero investire maggiormente sulle ICT, sia in generale – e-government – (i dati relativi all’implementazione delle tecnologie informatiche negli uffici delle amministrazioni pubbliche sono decisamente sconfortanti), sia per la parte strettamente relativa alla partecipazione democratica dei cittadini. 159 In merito, bisogna, invece, evidenziare l’esistenza di progetti di e-democracy, che stanno prendendo piede sul nostro territorio nazionale. In particolare, cito, da un lato, il progetto Partecipa.net promosso dalla regione Emilia-Romagna e, dall’altro, il progetto “EDEMPS: e-democracy con la pianificazione strategica”, che riunisce più comuni sul territorio nazionale. Per quanto riguarda la Regione Emilia-Romagna, l’attività partecipativa tramite ICT è espressione della volontà contenuta nello Statuto Regionale del 2005, ed, in particolare, di due articoli: art. 7 – “Promozione dell’associazionismo”: la Regione valorizza le forme di associazione ed autotutela dei cittadini e, a tal fine, opera per: a. favorire forme di democrazia partecipata alle scelte delle istituzioni regionali e locali, garantendo adeguate modalità di informazione e di consultazione; b. garantire alle associazioni ed alle organizzazioni della Regione pari opportunità nel rappresentare i vari interessi durante il procedimento normativo; c. tutelare i consumatori nell’esercizio dei loro diritti di associazione, informazione, trasparenza e controllo sui singoli servizi e prodotti; art. 9 – “Formazioni sociali”: la Regione, nell’ambito delle funzioni legislativa, d’indirizzo, programmazione e controllo, in attuazione del principio di sussidiarietà previsto dall’articolo 118 della Costituzione, riconosce e valorizza: a. l’autonoma iniziativa delle persone, singole o associate, per lo svolgimento di attività di interesse generale e di rilevanza sociale, nel quadro dello sviluppo civile e socio-economico della Regione, assicurando il carattere universalistico del sistema di garanzie sociali; b. la funzione delle formazioni sociali attraverso le quali si esprime e si sviluppa la dignità della persona, e, in questo quadro, lo specifico ruolo sociale proprio della famiglia, promuovendo le condizioni per il suo efficace svolgimento. Così nella primavera del 2004 è stato presentato il progetto Partecipa.net, iniziativa alla quale collaborano, sotto il coordinamento della Regione Emilia-Romagna, l'Assemblea Legislativa Regionale, i Comuni di Bologna, Modena e Ferrara, l'Associazione dei Comuni di Argenta, Portomaggiore, Ostellato e Voghiera, le 160 Province di Ferrara e Piacenza. Assieme a queste amministrazioni si affiancano associazioni attive sul territorio regionale in particolare per rappresentare il punto di vista dei soggetti potenzialmente esclusi dai processi di partecipazione democratica, come, ad esempio, le categorie svantaggiate (dal punto di vista delle abilità/disabilità). Gli obiettivi del progetto sono: primo fra tutti quello di offrire nuovi canali per incoraggiare, rafforzare e stimolare la partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche; in secondo luogo quello di accentuare il legame fra gli stessi cittadini e le amministrazioni coinvolte, in un'ottica di dialogo e collaborazione reciproca al fine di attivare processi democratici di cittadinanza attiva. Affine alla proposta emiliano-romagnola è il progetto “EDEMPS: e-democracy con la pianificazione strategica”, che ha l’obiettivo di elaborare strumenti che consentano la partecipazione alla decisione delle politiche pubbliche da parte dei cittadini e delle forze economiche e sociali del territorio e in cui l'uso delle tecnologie di rete serve a favorire la partecipazione con ruoli decisionali. Il Piano Strategico, in questa logica, mira a sperimentare nuove forme di partecipazione e di cittadinanza attiva dei soggetti, ricercando anche nuove espressioni di democrazia deliberativa, da affiancare alle pratiche di democrazia rappresentativa tradizionali. Il progetto coinvolge i seguenti soggetti: associazione dei Comuni del Copparese, associazione Torino Internazionale, Comune di Asti, Comune di Barletta, Comune di Bolzano, Comune di Carbonia, Comune di Caserta, Comune di Catania, Comune di Cesena, Comune di Firenze, Comune di Jesi, Comune di La Spezia, Comune di Perugia, Comune di Pesaro, Comune di Reggio Calabria, Comune di Spoleto, Comune di Terni, Comune di Trento, Comune di Venezia, Comune di Verona. In particolare, per ciò che riguarda il Comune di Pesaro, è stato avviata una forma innovativa di coinvolgimento e di partecipazione dei cittadini: si tratta del portale PartecipaPesaro.it che mette a disposizione strumenti per dialogare con l’Amministrazione Comunale in maniera semplice, snella ed efficace. Il Comune ha deciso di partire con una prima sperimentazione: il forum di discussione dedicato ai giovani sulle tematiche della partecipazione e cittadinanza attiva, gestito anche grazie alla collaborazione dell’Assessorato alle Politiche Giovanili. A questa prima esperienza seguiranno poi delle altre; il sito offre, infatti, svariati strumenti di partecipazione, che, in un prossimo futuro, sarà possibile attivare in 161 funzione delle esigenze di coinvolgimento manifestate dai cittadini, per favorire e consolidare sempre più il patto tra le istituzioni e la comunità locale. Personalmente, mi sento di esprimere una critica in merito al progetto, che è la seguente: la partecipazione dei giovani è indubbiamente elemento fondamentale per la rivalutazione della città di Pesaro, ma anche in termini più generali. Tuttavia, ritengo che l’incentivo a partecipare avrebbe dovuto essere esteso a tutti i membri della cittadinanza e non limitato ai giovani – oltretutto su tematiche forse poco incidenti (ad esempio, un post del forum conteneva la domanda: “Cosa cambieresti della Biblioteca San Giovanni?”). Spero, dunque, che i limiti riscontrati nell’utilizzo di uno strumento con un potenziale di efficacia così alto possano essere superati in una successiva fase del progetto e che la cittadinanza attiva possa integrare l’amministrazione comunale nelle questioni di ordine pubblico. 162 Capitolo “Il ruolo del non profit nella promozione di democrazia e 5 5.1 sviluppo” Il non profit e la partecipazione alla vita civile Come già l’esempio della Rete del Nuovo Municipio (vedi supra par. 4.4.2) può far capire, il concetto di democrazia non può esulare dalla parola cooperazione. “Cooperare” significa “operare insieme ad altri”, ma anche “contribuire con la propria opera al conseguimento di un fine”. Per questa ragione la parola “cooperazione” è un termine collettivo, in quanto postula l’esistenza di più persone (e sottolineo persone, non individui, per la differenza espressa nel par. 1.3.2), poste in relazione tra loro e che agiscono assieme per raggiungere un fine comune. Così come la cooperazione, anche la democrazia, per esistere in quanto tale, postula l’esistenza di una pluralità di persone, agenti (almeno in linea teorica) nell’interesse del bene comune. La definizione più alta e “nobile” di democrazia vorrebbe proprio che il popolo fosse sovrano e che, in quanto tale, operasse insieme per il bene comune. Come precedentemente illustrato, non sempre la realtà aderisce perfettamente alla definizione del concetto di democrazia, sia perché il modello attualmente prevalente è quello di una democrazia rappresentativa (o elitistico-competitiva) sia perché, di conseguenza, alla base dell’agire risiedono delle motivazioni che portano le persone ad operare per l’ottenimento dei propri interessi individuali, piuttosto che per il bene comune. Tuttavia, è possibile individuare, nel panorama odierno, l’esistenza di soggetti giuridici privati che si muovono verso un fine comune e di utilità sociale. 163 Sono le c.d. organizzazioni della società civile44, dove con il termine “organizzazione” si intende “un’unità sociale, deliberatamente costituita, dotata di una struttura di ruoli funzionali al perseguimento di determinati fini”, ovvero soggetti caratterizzati da omogeneità interna, che fanno scelte libere ed autonome, in cui esiste un livello almeno minimo di differenziazione dei compiti per perseguire obiettivi più o meno espliciti, comuni e condivisi (Bassi, 2008). In particolare, queste tipologie di organizzazioni hanno delle caratteristiche che le diversificano da altre tipologie di organizzazioni e che sono (Bassi, 2008): a. la natura privata: sono disciplinate dal diritto civile – caratteristica che le differenzia dallo Stato, disciplinato dal diritto pubblico; b. l’essere formalmente costituite: attraverso un atto costitutivo e/o uno statuto, che permettono di definire una linea di demarcazione della responsabilità e di dare stabilità nel tempo – caratteristica che le differenzia dalle relazioni informali o primarie; c. un fine non profit: sintetizzato nel “vincolo di non distribuzione degli utili”, che prevede la redistribuzione per intero degli utili maturati durante l’attività dell’organizzazione; d. la volontarietà: declinabile rispetto all’origine dell’organizzazione, alla configurazione delle risorse umane (volontari), alle risorse economicofinanziarie disponibili (donazioni); e. l’autogestione: si concretizza nelle forme e nelle modalità di gestione della classe dirigente, che deve essere la “cartina tornasole” della compagine associativa; f. la pubblica utilità: riguarda la differenza tra organizzazioni “mutualistiche” e “solidaristiche”: nelle prime, i soggetti beneficiari sono i facenti parte della compagine sociale; nelle seconde, i soggetti beneficiari sono terzi rispetto all’organizzazione. Le prime tre caratteristiche sopramenzionate sono strettamente identitarie di questa tipologia di organizzazioni, mentre le successive tre possono essere definite come accessorie e possono essere presenti in misura più o meno ampia all’interno delle diverse tipologie di OSC. 44 Il dibattito in merito alle definizioni terminologiche di “terzo settore” è tuttora al centro degli studi dei sociologi mondiali (cfr. Colozzi, Bassi, 2003). In questo contesto si è scelto di usare, pertanto, il termine “organizzazioni della società civile”. 164 Queste organizzazioni si inseriscono all’interno del dibattito riguardante il preesistente modello dicotomico di ordine sociale composto da mercato e Stato, il primo produttore e fornitore di beni privati, il secondo fornitore di beni pubblici e redistributore delle risorse secondo canoni di equità fissati a livello politico: il tutto secondo il “volere” dei Teoremi dell’Economia del Benessere. L’esistenza delle organizzazioni della società civile (d’ora in avanti, OSC) sarebbe legittimata, secondo alcuni studiosi, dal verificarsi, da un lato, del fallimento dello Stato (government failure) teorizzato da Weisbrod (1975), dall’altro, di quello del mercato (market failure) teorizzato da Hansmann (1986). Secondo Weisbrod, le OSC nascono per soddisfare, dal lato dell’offerta, una domanda di beni pubblici simili a quelli che lo Stato fornisce ma non è in grado di evadere per quantità e che non viene soddisfatta dal privato profit, in quanto non c’è incentivazione alla loro produzione da parte di questi soggetti, poiché si tratta di beni non escludibili (cui non si può, cioè, applicare un prezzo che permetterebbe di escludere i consumatori finali nel caso in cui non fossero disposti a pagarlo) che non generano il profitto ricercato. Nei contesti ad elevato grado di sviluppo, a causa del “principio di maggioranza”, lo Stato è portato a soddisfare quasi sempre solo i bisogni espressi da una particolare tipologia di elettore, il c.d. elettore mediano, chiamato così poiché corrispondente alla mediana delle preferenze espresse dall’elettorato. Di conseguenza, secondo la teoria di Weisbrod, verrebbero ad esistere delle “minoranze insoddisfatte” di dimensioni direttamente proporzionali al grado di eterogeneità – etnica, religiosa, culturale – della società cui ci si riferisce, la cui presenza legittimerebbe l’origine delle OSC come fornitori di beni pubblici. Hansmann, invece, si concentra sul lato della domanda (cioè tenta di spiegare perché esiste la domanda dei beni e servizi offerti) e trae la conclusione che le OSC prendano vita per rimediare al problema delle asimmetrie informative, che induce le imprese che operano per la massimizzazione del profitto a fornire beni e servizi privati di qualità inferiore rispetto a quella promessa o dichiarata (Bruni, Zamagni, 2004). Secondo Hansmann, le OSC riuscirebbero a supplire il suddetto problema grazie al vincolo di non distribuzione degli utili (Non Profit Distribution Constraint - NPDC), cui sono tenute a sottoporsi per essere fedeli alla loro forma giuridica, e che sarebbe sufficiente come segnale di inesistenza di comportamenti opportunistici, adottati, invece, dalle imprese profit. 165 Entrambe le interpretazioni della nascita delle OSC summenzionate rientrano in una visione assolutamente riduttiva e residuale dell’esistenza di questo tipo di organizzazioni, poiché ritengono, in entrambi i casi, che le OSC si originino dal fallimento di una delle due colonne portanti del modello dicotomico, Stato e mercato; sul versante opposto c’è, invece, chi sostiene che le OSC nascano con una propria identità, con una spinta “dal basso”, per un volere indipendente e ben definito delle persone che ne stanno alla base. Questa prospettiva consiste nell’interpretare la nascita e la diffusione delle OSC come espressione della società civile, cioè come “libero coerire di persone per un progetto da realizzarsi in comune” (Zamagni, 2007b) e nell’individuare come base concettuale delle suddette organizzazioni il principio di sussidiarietà orizzontale (vedi supra par. 2.2.2): questo principio è previsto nel nostro ordinamento nazionale all’art. 118, comma 4, Titolo V della Costituzione della Repubblica italiana: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l' autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” e prevede una “condivisione” della sovranità, delle funzioni e del potere che spetta alla pubblica amministrazione, ai diversi livelli istituzionali45. Il fatto che dal 2001, nel nuovo Titolo V della Costituzione italiana, venga riconosciuta e legittimata la possibilità per i cittadini di essere soggetti attivi nel perseguimento dell’interesse generale fa si che, nel rapporto amministrazione-cittadino, vi siano oggi elementi che ampliano gli spazi di presenza dei cittadini come “la partecipazione al procedimento amministrativo, la trasparenza, la comunicazione pubblica, ecc.” (Arena, 2007). Si tratta di un riconoscimento costituzionale dell’esistenza di una terza dimensione, altra rispetto alla dicotomia di Stato e mercato: la dimensione del civile. Secondo Teubner (2005), la società di oggi può darsi altri ordini di tipo costituzionale originati, invece che dagli organismi politici, dalla società civile. Si tratta dell’emersione di “governi privati a carattere pubblico” che nascono con la necessità di essere democratici e, pertanto, hanno bisogno di una propria costituzionalizzazione. 45 A differenza del concetto di sussidiarietà verticale, in cui si verifica una “cessione” di quote di sovranità (Zamagni, 2007b). 166 Questi soggetti non possono, cioè, accontentarsi del fatto che la loro costituzionalizzazione venga realizzata tramite un “super-Stato” o una “metacostituzione globale”: bensì, richiedono una costituzione sociale dualistica per una società civile globale. Secondo Teubner (2005), infatti, laddove il diritto si accoppia ai vari sottosistemi sociali deve sapersi distanziare ed adattare ad essi, come nel caso della politica. La “società civile globale” si configura, pertanto, come nuovo soggetto sociale avente il compito di rigenerare i processi democratici di produzione del diritto. Ebbene, il riconoscimento da parte della Costituzione della legittimità dell’agire attivamente incentiva la nascita di OSC, come espressione democratica dell’agire del cittadino per l’ottenimento del bene comune. La Costituzione italiana afferma che i cittadini possono essere autonomamente attivi nell’interesse generale (non in quanto appaltatori, concessionari di pubblici servizi, ecc.) e che, se lo sono, il Comune, la Regione e il Ministero di competenza devono favorire queste iniziative con proprie risorse, competenze ed organizzazioni. Il paradigma bipolare che vedeva, da un lato, l’interesse pubblico di competenza esclusiva della pubblica amministrazione – che era, dunque, amministratore “unico” – e, dall’altro, i cittadini ricoprire un ruolo meramente passivo – di amministrati – è entrato in crisi e ora i due soggetti sono sullo stesso piano e ricoprono il ruolo di coamministratori (Arena, 2007). I cittadini attivi sono persone che autonomamente, responsabilmente e concretamente riassumono la sovranità che giustamente spetta loro. È a questo punto che sorge un paradosso peculiarmente italiano: la nostra Costituzione – che è forse una delle poche al mondo a formulare il principio di sussidiarietà orizzontale – prevede la possibilità di partecipare legittimamente e attivamente all’ottenimento del bene comune, ma il più delle volte l’atteggiamento dei cittadini italiani è, invece, di menefreghismo di fronte ai problemi che riguardano tutti. Si opera così delegando “gli altri” ad agire per l’interesse pubblico: questo aspetto è ovviamente legato alla cultura del nostro paese e, pertanto, non è immediatamente modificabile – abbiamo visto precedentemente che, per apportare cambiamenti nella cultura di un paese, i dati rilevano la necessità di un periodo temporale che ricopre almeno tre generazioni di individui (vedi supra par. 3.3.3). 167 Tuttavia, il fatto che esista un riconoscimento legislativo dell’importanza dell’agire del cittadino attivo nell’interesse di tutti è già indiscutibilmente un passo in avanti rispetto al passato. Ciò nonostante, ricollegandosi al pensiero di Teubner in merito alla costituzionalizzazione del civile (2005), non si può considerare esaustivo quanto previsto finora dall’apparato giuridico relativamente alle OSC: intendo dire che se, da una parte, è vero che è stata riconosciuta la possibilità a queste organizzazioni di nascere ed ai cittadini, attraverso l’art. 118 della Costituzione, è dato supporto in questo senso, d’altra parte, invece, non sono ancora state implementate delle pratiche tali da poter consentire alle diverse espressioni della società civile organizzata di avere accesso ai luoghi della decisione pubblica, facendo così in modo, ancora una volta, di porre lo Stato su quel “piedistallo giuridico” che è ormai anacronistico. Teubner suggerisce in questo senso una rivisitazione delle fonti del diritto, spostando il focus della questione da una modalità gerarchica ad una eterarchica, in cui si sottolinei la distinzione tra il centro e la periferia della produzione normativa. Questo perché non si può più considerare il diritto come il prodotto normativo di uno Stato-nazione e la ragione di ciò è da ricercare proprio nel concetto di “globalizzazione”. Questo fenomeno poliedrico (vedi supra par. 2.1 e ss.) implica l’esigenza di uno spostamento dell’oggetto del diritto verso la periferia dello Stato-nazione: le sfere sociali globalizzate. La sfida è quella di costituzionalizzare il civile senza appesantire questi soggetti di formalità, fatto che limiterebbe la loro operatività. Si tratta, perciò, di mantenere il dinamismo della società civile, attraverso il pluralismo dei sottosistemi globali sociali. Invece, la situazione in cui ci si trova ancora oggi è quella di “riconoscimento senza rappresentanza”, se così si può dire, nel senso che il sistema dicotomico Stato-mercato riconosce l’esistenza di questi soggetti, senza però porre in essere degli spazi di confronto, nonché di reciproco controllo, con essi. Anche in un’ottica di collaborazione tra dimensione del pubblico e dimensione del privato sociale per la realizzazione di un Welfare Mix in sostituzione del concetto – ormai da lungo tempo in crisi di Welfare State – non è possibile ignorare la necessità di porre in essere un modello di rappresentanza delle realtà e delle esigenze che nascono all’interno delle OSC: un modello che trova nella sua essenza deliberativa la possibilità di giungere ad un confronto e all’ottenimento delle conseguenti decisioni. 168 Affinché le OSC possano esprimere in modo olistico la propria natura (privata ma con fini di utilità sociale) è indispensabile che il concetto di democrazia sia vigente sia al loro interno che rispetto all’ambiente esterno. Quello che intendo dire è che è necessario che un modello di democrazia deliberativa venga implementato prima di tutto internamente alla singola OSC, per gestire le sue attività e per poter prendere delle decisioni; in secondo luogo, che spazi deliberativi vengano realizzati anche nel rapporto tra OSC, Stato e mercato: non si può riconoscere l’esistenza di certi soggetti ma, al contempo, ignorare “la loro voce”, poiché così si cade nella strumentalizzazione di quei soggetti legittimati ad agire ma illegittimati ad esprimersi e a partecipare attivamente alle decisioni che li riguardano. Se fino ad ora la situazione che si è venuta a configurare può essere rappresentata nel modo seguente: ad oggi si sente sempre più l’esigenza di uno shifting ad un rappresentazione di quest’altro genere: 169 In aggiunta, deve esistere anche un altro elemento affinché le OSC possano rappresentare la migliore forma di espressione democratica della società civile e di diffusione del concetto di democrazia – come originariamente pensato: mi riferisco al tipo di governance interna ai soggetti di cui stiamo parlando. Le organizzazioni della società civile devono sviluppare al loro interno delle forme di democrazia che vanno sotto il nome di democratic stakeholding (o governance multistakeholding), cioè una forma di governance che offre a tutti coloro che intrattengono rapporti con le OSC, che sono influenzati e/o influenzanti dalle/le attività dell’organizzazione – gli stakeholders, appunto – la possibilità reale di partecipare al processo decisionale. Per poter governare quanto più democraticamente possibile una OSC non sono sufficienti i modelli di governo che si basano solo sull’informazione e sulla consultazione: queste due forme di controllo sono condizioni necessarie ma non sufficienti per poter dire che la governance dell’OSC è democratica. Infatti, oltre alla diffusione a tutti gli stakeholders delle informazioni riguardanti l’organizzazione e alla realizzazione di momenti di confronto, di coinvolgimento saltuario, è indispensabile che si “respiri” costantemente “un’aria” di partecipazione quotidiana rispetto alle decisioni da assumere e alle attività da implementare. Ritengo che, come in un processo osmotico, quante più organizzazioni della società civile riusciranno ad implementare una governance multistakeholding e ad agire secondo motivazioni e metodi democratici, tanto più la società civile circostante avrà la possibilità di vedere diffuse pratiche e ideali di democrazia, riempiendo di nuovo significato quest’ultimo termine. 170 5.2 Il non profit e lo sviluppo di una società 5.2.1 Il capitale sociale Il ruolo riconosciuto alle OSC, per far sì che esse possano essere concretamente soggetti promotori di “democrazia” e “sviluppo”, deve comprendere anche l’agire per la promozione e la diffusione del c.d. capitale sociale, inteso come “insieme di valori, di stili di vita, di norme di comportamento che rendono le scelte individuali compatibili con la promozione del bene comune in tutte le situazioni di non coincidenza tra interesse privato e interesse collettivo” (Sacco, Zarri, 2006). Il livello di capitale sociale di una data area territoriale è elevato nella misura in cui sono numerose le situazioni nelle quali una frazione significativa di soggetti adotta spontaneamente comportamenti rispettosi dell’interesse collettivo. Il termine capitale sociale ha una duplice connotazione: da un lato, economica (forza di produzione, ovvero capitale), dall’altro, sociale (relazione connettiva). Le componenti di base del capitale sociale sono riconducibili sostanzialmente alla fiducia e alla reciprocità e per questo motivo esso viene prodotto nel momento in cui due persone con stesse motivazioni dell’agire interagiscono tra loro (Donati, Colozzi, 2006). Il vantaggio comparato delle OSC è da valutare relativamente alla loro capacità di favorire la produzione di relazionalità e l’accumulazione di capitale sociale. In particolare, secondo Putnam (2004), esistono tre tipologie di capitale sociale: - bonding social capital – o capitale sociale intragruppo: è quella forma di capitale sociale che “serra”, che si configura come linea di demarcazione tra gli appartenenti di un gruppo e coloro che ne restano esclusi. Ha, quindi, una connotazione negativa e si riferisce a piccoli gruppi di persone simili tra loro, che condividono sempre le stesse informazioni e raramente si fanno contaminare dalle novità (Sabatini, 2008); - bridging social capital – o capitale sociale intergruppo: è quella forma di capitale sociale che “crea ponti” tra chi fa parte di un determinato gruppo sociale e altri individui che invece non fanno parte del gruppo di soggetti che ha favorito l’accumulazione di tale forma di capitale. È costituito da legami orizzontali all’interno di gruppi eterogenei di persone e permette di collegare ambienti socio-economici e culturali diversi, informazioni; 171 favorendo il trasferimento delle - linking social capital – o capitale sociale di collegamento: descrive le relazioni verticali che collegano gli individui, o le reti sociali cui appartengono, a persone o gruppi che si trovano in posizioni di potere politico o economico (Sabatini, 2008). Il bonding social capital è quello di cui Banfield (1958) parlava analizzando il Mezzogiorno italiano: si tratta dell’incapacità degli abitanti di agire collettivamente per il bene comune o, almeno, per qualsiasi fine che trascenda l’immediato interesse materiale del nucleo familiare (fenomeno chiamato familismo amorale). Pertanto, il bonding social capital non è solo una causa, ma anche una conseguenza del sottosviluppo di un territorio. Ovviamente, la nostra attenzione si focalizza sulla seconda e la terza tipologia di capitale sociale, essendo quelle forme che permettono, a livello macro, il diffondersi e il moltiplicarsi della c.d. fiducia generalizzata o interpersonale, la quale, di conseguenza, permette la creazione di reti sociali (social networks) o fiduciarie, formali e informali, che stimolano reciprocità e cooperazione. La mancanza di collegamento tra cittadini ed istituzioni è un fattore chiave del sottosviluppo di un territorio: in questo contesto, il benessere sociale può essere migliorato significativamente e in breve tempo solo mediante il rafforzamento del capitale sociale di tipo linking. Da un punto di vista economico, il capitale sociale permette di ridurre i costi di transazione e d’incertezza associati agli scambi economici e di incoraggiare ad investire in capitale fisico, finanziario ed umano (Fiorillo, 2005). Numerosi studi empirici (World Values Survey – WVS, New South Wales, Barometer of Social Capital, Index of National Civic Health, GSCS) hanno dimostrato la relazione esistente tra l’aumento della componente “fiducia” del capitale sociale, nonché della vita associativa e della partecipazione civile di una determinata area geografica e la crescita in termini economici della stessa. In società “ad alta fiducia” le persone possono spendere meno risorse nel tutelare se stesse, sia contro comportamenti opportunistici nelle transazioni economiche, sia contro violazioni illegali (criminali) dei loro diritti di proprietà. Inoltre, una bassa fiducia può scoraggiare le innovazioni: se gli imprenditori devono spendere molto del loro tempo nel controllare il comportamento dei loro soci, impiegati, fornitori, al fine di evitare eventuale malafede, essi avranno meno tempo da investire in nuovi prodotti e processi. 172 Lo stesso Arrow (1972) aveva identificato nell’assenza di fiducia reciproca uno dei principali fattori alla base del ritardo dei processi di sviluppo a livello mondiale. L’intervento e la diffusione capillare delle OSC nel tessuto nazionale si rendono necessari per poter selezionare ed alimentare nella società motivazioni comportamentali di natura “non strumentale”, nonché di contribuire all’accumulazione di fiducia generalizzata. In questo modo, si avrebbero due importanti conseguenze: da un lato, la possibilità di produrre una quantità tale di capitale sociale tale da poter sopperire all’eventuale carenza del suddetto nel sistema economico generale; dall’altro lato, la possibilità di avere degli effetti positivi di “contaminazione” su altre sfere dell’economia – come, ad esempio, la pratica della responsabilità sociale d’impresa (RSI o Corporate Social Responsibility - CSR) per le imprese profit: il non-profit, in questo caso, diverrebbe un “alleato” per le imprese intelligenti al fine di migliorare l’ambiente contestuale in cui operano. I collegamenti tra fiducia a diversi livelli (orizzontale, meso e verticale) e di capitale sociale (bonding, bridging e linking) sono così riassumibili: Fonte: Nostra elaborazione 173 Per realizzare tutto ciò è strettamente necessario puntare ora sulle OSC come soggetti attivi nella produzione di fiducia, soprattutto tramite il concetto di linking social capital. Come ipotizzato da Putnam, Leonardi e Nanetti (1993), le OSC funzionano come “scuole di democrazia”, la cui attività favorisce la diffusione delle norme di fiducia e reciprocità nell’ambiente sociale circostante. La fiducia verso le istituzioni migliora se i cittadini sentono di poter incidere sulle azioni dei policy maker grazie alla loro partecipazione sociale. Al contempo, l’appartenenza alle OSC rende più frequenti le interazioni sociali e crea i presupposti per lo sviluppo di legami fiduciari, che stimolano i comportamenti cooperativi anche al di fuori del contesto dell’OSC. Questi meccanismi giocano un ruolo fondamentale nel determinare il buon funzionamento dei mercati e la sostenibilità della crescita economica (Sabatini, 2008). In un ambiente sociale ricco di opportunità di partecipazione, le persone si incontrano spesso, si conoscono meglio e parlano tra loro. La migliore diffusione delle informazioni e l’elevata probabilità che l’interazione tra ciascuna coppia di agenti si ripeta più di una volta aumentano l’importanza della reputazione. Il comportamento degli agenti diviene più facilmente prevedibile e si determina una riduzione dell’incertezza, che abbassa i costi di transazione. A livello aggregato, tale processo migliora la performance dell’intero sistema economico preso in considerazione. Nelle aree caratterizzate da elevate dotazioni di capitale umano e bassi livelli di fiducia intermedia e verticale diviene, allora, di fondamentale importanza incoraggiare il radicamento delle OSC e la partecipazione sociale dei cittadini. 5.2.2 Modalità di supporto allo sviluppo da parte delle diverse tipologie di organizzazioni della società civile Con il concetto di “organizzazioni della società civile” si identifica un insieme di più soggetti con determinate caratteristiche in comune (vedi supra par. 5.1), ciascuna delle quali è declinata, in modo tale da dare vita a realtà differenti tra loro. Rispetto alle diverse tipologie di OSC, i sociologi hanno realizzato una tassonomia che prevede l’esistenza, nel panorama italiano, di almeno cinque tipologie di soggetti (Colozzi, Bassi, 2003): 1. organizzazioni di volontariato (OdV); 2. associazioni di promozione sociale (Aps); 3. cooperative sociali; 174 4. fondazioni civili; 5. altri enti non-profit – in cui rientrano i soggetti non ascrivibili nelle categorie suddette. Un’organizzazione di volontariato è definita come “un organismo liberamente costituito […] che si avvalga in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti” (Legge quadro sul volontariato, n°266/91, art. 3). In particolare, le OdV si differenziano rispetto agli altri attori del nonprofit per la particolare configurazione delle risorse umane (volontari) e per il fatto che i beneficiari del servizio sono soggetti terzi rispetto ai soci – motivo per cui il livello di benefici fiscali è massimo ed esiste la possibilità di deduzione dell’importo delle donazioni a loro favore dalla dichiarazione dei redditi del donatore. La definizione di associazione di promozione sociale è, invece, contenuta all’art. 2 della legge n°383/00 (“Disciplina delle associazioni di promozione sociale): “Sono considerate associazioni di promozione sociale: le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti, le federazioni, costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati”. Vengono esclusi dal concetto di Aps: i partiti politici, le organizzazioni sindacali, le associazioni dei datori di lavoro, le associazioni professionali e di categoria, tutte le associazioni che hanno finalità la tutela esclusiva di interessi economici degli associati. Rispetto alle altre categorie di OSC, le Aps si differenziano per l’erogazione ai propri membri o familiari della loro offerta. Le cooperative sociali sono regolate dalla legge n°381/91, la quale definisce all’art. 1 come quelle cooperative che “[…] hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso: a. la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi (cooperative sociali di tipo “A”); b. lo svolgimento di attività diverse - agricole, industriali, commerciali o di servizi finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate (cooperative sociali di tipo “B”). In confronto alle altre OSC, le cooperative sociali si differenziano per il loro carattere imprenditoriale: sono, infatti, le uniche – da un punto di vista della forma giuridica – a poter essere società a responsabilità limitata e a seguirne la relativa disciplina legislativa. 175 Infine, l’ultima tipologia di OSC sono le fondazioni civili, per le quali, tuttavia, non esiste una definizione univoca. Per poterne dare una caratterizzazione prendiamo in questa sede la definizione data dall’European Foundation Centre: “Ente senza finalità di lucro con una propria sorgente di reddito che deriva normalmente, ma non esclusivamente, da un patrimonio. Questo ente ha il suo organo di governo ed usa le proprie risorse finanziarie per scopi educativi, culturali, religiosi, sociali o altri scopi di pubblica utilità, sia sostenendo persone ed associazioni, sia organizzando e gestendo direttamente i suoi programmi”. Ognuna di queste tipologie di OSC agisce nella come “motore produttivo” di capitale sociale differente a diversi livelli dimensionali. Volendo classificare le OSC in base a questo concetto, lo si può fare come segue: TIPOLOGIA di OSC CREAZIONE DIRETTA di CAPITALE SOCIALE OdV APS Cooperative Fondazioni sociali civili Linking Bridging Bonding Fonte: Nostra elaborazione Il capitale sociale bonding viene maggiormente prodotto in quelle associazioni di promozione sociale che vedono i propri soci riunirsi per una particolarità che viene da tutti condivisa: ad esempio, la passione per il teatro o per la musica, ecc. Per questo, i membri di un’associazione di promozione sociale tendono a identificarsi e a riunirsi, andando escludendosi dal resto delle altre OSC. Le principali generatrici di capitale sociale bridging sono, invece, le organizzazioni di volontariato, che permettono l’instaurazione di rapporti fiduciari orizzontali tra i soggetti facenti parte l’organizzazione e i beneficiari che sono invece esterni; ciò, soprattutto, è imputabile alla particolare composizione del personale di questa forma organizzativa (almeno il 70% deve essere personale volontario per legge). Inoltre, le organizzazioni di volontariato sono le migliori produttrici di linking social capital, in quanto riescono ad intrattenere relazioni verticali poiché inserite in una fitta rete di rapporti, ad esempio con i Centri Servizi per il Volontariato (CSV), le fondazioni di origine bancaria (che sono tenute per legge ad erogare al Fondo per il Volontariato 176 una somma pari ad 1/15 degli utili annuali), la P.A. (attraverso la possibilità di stipulare convenzioni), il governo statale (tramite l’Osservatorio nazionale per il volontariato, istituito sempre per legge, presieduto dal Ministro della Solidarietà Sociale). Vorrei sottolineare anche l’importanza delle fondazioni civili in questo senso, poiché esse riescono, attraverso l’erogazione di finanziamenti o la realizzazione diretta di progetti di utilità sociale, a mettere in contatto tra loro realtà diverse (profit e non) che spesso non riuscirebbero altrimenti ad incontrarsi. Fino ad ora sono stati elencati gli attori del mondo non-profit che generano capitale sociale fiduciario (e, di conseguenza, sviluppo) a diversi livelli, ma, comunque, quasi sempre a livello nazionale. Tuttavia, esistono dei soggetti non-profit che svolgono la loro attività principalmente – anche se non esclusivamente - in particolari contesti internazionali: mi riferisco a quelle che nella legislazione italiana – legge n°49 del 1987, “Nuova disciplina della Cooperazione dell'Italia con i Paesi in via di sviluppo” – vengono definite ONG (Organizzazioni non governative)46, soggetti del Terzo Settore che operano attivamente per lo sviluppo dell’educazione, della salute e per l’abbattimento della povertà, in particolare nei confronti dei PVS. Questi attori sono fondamentali catalizzatori di fiducia per quei paesi in cui ancora nella popolazione non si sono sviluppate delle reti sociali, a causa di problemi legati all’asimmetria informativa, alla fragilità – delle persone e, di conseguenza, delle relazioni tra loro – e ai conflitti esistenti tra i diversi villaggi. Le ONG si fanno promotrici per quel che riguarda la creazione di meccanismi informali che possano creare network di fiducia e reciprocità in contesti in cui altrimenti sarebbe difficile dare inizio a circuiti virtuosi di questo genere. In conclusione, dato che il capitale sociale di tipo bridging e linking, se opportunamente investito, produce beni relazionali e, posto che ritengo che la democrazia possa essere annoverata tra i suddetti beni (vedi supra par. 4.3.1), sono fermamente convinta che le OSC, permettendo la diffusione di capitale sociale, siano i soggetti collettivi migliori per poter diffondere i principi democratici all’interno della società civile affinché si abbia uno sviluppo economico, ma non solo, della popolazione. L’opportunità di dare vita ad un tessuto nazionale composto da tre soggetti (Stato, mercato e settore non-profit) indipendenti – seppur tra loro interconnessi – e tutelati – 46 Si sottolinea il contesto nazionale in quanto il significato della sigla ONG risulta essere differente di paese in paese (nei paesi anglosassoni, per ONG – in inglese NGO, non governmental organization – si intendono le organizzazioni non-profit in termini più generali). 177 da un punto di vista legislativo – è offerta al nostro paese dallo scenario attuale: come già visto, infatti, nonostante l’esistenza di un apparato legislativo non propriamente conforme alle necessità del settore non-profit (realtà più che altro dovuta alla realizzazione dello stesso da parte di soggetti che con il Terzo Settore non hanno mai avuto a che fare direttamente) è tuttavia evidente il raggio di libertà di creazione delle OSC e, almeno sulla carta, l’incoraggiamento costituzionale affinché questo avvenga. Al contempo, una tale concezione di cittadinanza societaria, intesa come “forma di un complesso di diritti-doveri delle persone e delle formazioni associative che articola la vita civica in autonomie universalistiche, capaci di integrare la generalità dei fini con le pratiche di autogestione” (Donati, 2000), e una simile interpretazione del principio di sussidiarietà orizzontale (vedi supra par. 5.1) conduce necessariamente verso una ridefinizione della nozione stessa di democrazia, in cui non è tanto lo Stato, quanto la società civile, il centro attorno a cui è chiamato a gravitare l’intero ordinamento giuridico. La realtà dimostra che i cittadini che vogliono operare attivamente sul proprio territorio spesso si uniscono in gruppi (le organizzazioni della società civile appunto) e il loro agire è basato sul concetto di “cooperazione” (vedi supra par. 5.1). Va da sé, dato il legame tra cooperazione e democrazia evidenziato precedentemente, che agire tramite le OSC sia attualmente la via più attiva e democratica che un cittadino oggi possa decidere di percorrere. 178 CONCLUSIONI “Il diritto allo sviluppo è un diritto inalienabile dell’uomo, in virtù del quale ogni essere umano e tutti i popoli hanno il diritto di partecipare e di contribuire ad uno sviluppo economico, sociale, culturale, politico nel quale tutti i diritti dell’uomo e tutte le libertà fondamentali possano essere pienamente realizzati, e di beneficiare di questo sviluppo.” (Dichiarazione sul diritto allo sviluppo, Risoluzione 41/128 dell’Assemblea generale, 4 dicembre 1986) Gli avvenimenti storici portano con sé cambiamenti che toccano le persone e le loro idee, è ineluttabile; tuttavia, come molto spesso è stato dimostrato, la storia si ripete e, con le dovute trasformazioni, le persone assumono atteggiamenti già scorti nelle pieghe del “grande libro” della storia dei popoli. È per questa ragione che, durante la stesura di questo lavoro, mi sono particolarmente sorpresa nel riscontrare che ciò che era ovvio in passato, oggi agli occhi di molti può sembrare “strano” ed “inappropriato”: mi riferisco al fatto che, nell’antica Grecia, il governo diretto del popolo fosse inscindibile dalla condizione di libero cittadino. Questo presupposto, tanto importante quanto correlato alla natura sociale dell’uomo, nonostante fosse stato già al tempo dei Greci compreso quale caratteristica fondamentale per la vita dell’uomo in quanto cittadino di una polis, è stato progressivamente reso meno rilevante e basilare, attraverso quello che può essere chiamato “effetto spiazzamento” (crowding out), secondo cui, figurativamente, “la moneta buona viene scacciata da quella cattiva”. Infatti, con il passare del tempo, grazie anche alla convergenza di cause che ebbero origine in più ambiti (sociali, politici, economici, ecc.), è stato il fattore economico a prendere il sopravvento sull’importanza della libertà: questo fondamentale diritto, per il quale molti hanno combattuto e lottato, nelle più diverse forme, nel corso dei secoli, ha assunto una posizione di secondo piano, lasciando spazio nella scala delle priorità alla “moneta” e al “potere” da essa promulgato. Ha preso piede l’individualismo e, di conseguenza, l’interesse per la polis e il bene della collettività sono stati mano a mano soppiantati dagli interessi personali (sempre più tendenti a coincidere con quelli monetari ed economici). 179 Le contingenze economiche e sociali hanno portato, dopo un processo di industrializzazione che ha percorso – nelle sue diverse fasi – oltre due secoli di storia, al fenomeno che va sotto il nome di “globalizzazione”, con la conseguente emersione di dinamiche sociali ed economiche che, seppure su vastissima scala, ricalcano gli insegnamenti che la storia passata ha già indicato. L’interpretazione utilitarista della globalizzazione – e non il fenomeno in quanto tale – ha fatto affiorare la necessità di un cambio di prospettiva per non soccombere sotto il continuo aumento del divario economico, e, quindi, anche sociale, tra i diversi popoli della Terra. Pertanto, l’ottica che ho suggerito di adottare in questo lavoro è quella del perseguimento dello sviluppo umano, che sposta il focus dell’agire dall’individuo alla persona e, conseguentemente, da una democrazia elitistico-competitiva e rappresentativa ad una democrazia deliberativa e diretta. Come dimostrato nell’analisi condotta nelle pagine precedenti, la forma democratica prevalente nei paesi c.d. sviluppati si dimostra ad oggi insufficiente nel perseguire la concretizzazione di bisogni espressi dalle persone, che sono sì cittadini del loro territorio, ma anche cittadini “del mondo”. La globalizzazione estende il pensiero e l’agire umano ad un campo di azione che non ha confini geografici; questo, purtroppo, si traduce, spesso e volentieri, nel non avere confini di responsabilità, perché non ci sono istituzioni formali di dimensioni altrettanto vaste che possano, così come sono attualmente poste in essere (mi riferisco a World Bank, FMI, WTO), controllare efficacemente l’agire umano a livello globale. Per poter garantire una vita “lunga, in buona salute e creativa” ad ogni essere umano è necessario, quindi, ripensare le modalità di azione che, a mio parere, non possono esulare dal guardare alla dimensione locale, come un atomo di una molecola globale: una democrazia “dal basso” (bottom-up), creata e supportata da reti fiduciarie composte da singoli e organizzazioni della società civile, in una commistione di pensieri ed azioni orientate al bene comune. Il significato del termine “democrazia” non può essere ridotto ad indicare solamente un particolare sistema politico: la democrazia è molto di più. Cito da Sen (2004, pp. 62-63): “[…], possiamo distinguere tre modi diversi attraverso i quali la democrazia arricchisce e migliora la vita dei cittadini. Primo, la libertà politica è parte integrante della libertà umana in generale, e i diritti civili e politici sono fondamentali per garantire agli individui un pieno inserimento nella 180 vita della società. La partecipazione politica e sociale costituisce un valore intrinseco per la vita e il benessere dell’uomo. La proibizione di prendere parte attiva alla vita politica della comunità non può che essere considerata una grave restrizione. Secondo, […], la democrazia ha un importante valore pratico per accrescere l’attenzione ottenuta dal popolo quando dà voce alle proprie richieste e pretende di svolgere un effettivo ruolo politico (anche per soddisfare le proprie necessità economiche). Terzo […], la pratica della democrazia offre ai cittadini l’opportunità di imparare gli uni dagli altri, e alla società quella di formare i propri valori e definire le proprie priorità. Lo stesso concetto di “bisogno” (inclusa la definizione dei “bisogni economici”) richiede una discussione pubblica e uno scambio di informazioni, opinioni e analisi. In questo senso la democrazia ha funzione costruttiva, che si aggiunge al suo valore intrinseco per la vita dei cittadini e al suo valore pratico nella formulazione delle decisioni politiche. Chi sostiene che la democrazia è un valore universale deve tenere conto di questi molteplici aspetti”. Quest’ultima affermazione di Sen mi permette di sottolineare come non tutti gli studiosi della relazione tra democrazia e crescita economica siano concordi nell’affermare l’assoluta necessità dell’implementazione di un governo (e di un pensiero olistico) democratico in un paese come base per un aumento degli indici di benessere economico. A mio avviso, ciò che non viene compreso è la differenza tra crescita e sviluppo economico: andando a sovrapporre questi due termini, infatti, non si può negare la possibilità che i sostenitori della c.d. tesi della modernizzazione abbiano una qualche ragione; tuttavia, come precedentemente mostrato nello svolgimento del lavoro, crescita e sviluppo non sono sinonimi. Questi due concetti hanno significati differenti, poiché riguardano orizzonti temporali e campi di azione differenti e, pertanto, è possibile avere una crescita economica senza un successivo sviluppo (economico, ma anche umano), ma non viceversa. Personalmente, non comprendo chi sostiene che sia attraverso lo sviluppo economico che si possa raggiungere la democrazia, dato che la storia ci insegna che esso, se non generato a sua volta dalla democrazia, dalla collettività nel suo complesso, sfocia in individualismo e, nel peggiore dei casi, in tirannia, minando così la realizzazione della democrazia stessa. 181 Non si può più auspicare ad uno crescita o ad uno sviluppo economico senza avere un impianto democratico alla base; o almeno questo è il pensiero di chi, come me, crede nella ragionevolezza dell’uomo come caratteristica superiore alla razionalità, e, perciò, auspica all’aumento globale del numero di homines reciprocantes. Ciò che mi domando è: se anche fosse vera – ricordo che le ricerche in merito sono ad oggi ancora in corso d’opera – la tesi che la crescita economica comporti, in un secondo momento, la possibilità di un passaggio ad un regime democratico, potendo tuttavia scegliere anche – secondo gli studiosi – di rimanere nel totalitarismo (o, comunque, nel regime autoritario) che l’ha generata, ne vale la pena? Vale la pena minare le libertà fondamentali umane in nome della crescita economica di un paese? O, forse, sarebbe meglio cercare di trovare un trade-off tra ricchezza e diritti umani, riempiendo il termine “felicità” di significato non solo economico? (Menziono, in questo contesto, il filone di studi che va sotto il nome di “Economia della felicità” di Easterlin, il quale con i suoi studi dimostra l’esistenza di limiti in merito alla relazione tra ricchezza e felicità dell’uomo). Mi rendo conto di parlare da un punto di vista non condiviso dai più, ma, come sostiene Kant: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” e la “mia legge morale” non mi permette di fare mio un pensiero che vuole il perseguimento del fine economico prima ancora di quello umano. Per questi motivi, nel corso della redazione di questo lavoro, ho potuto, inoltre, comprendere l’importanza che sempre ha avuto l’educazione, in termini generali, nell’affermazione dei diritti civili, poiché, come disse José Martì (politico, poeta e scrittore cubano nonché leader del movimento per l'indipendenza cubana): “Essere colti è l’unico modo per essere liberi”. Di conseguenza, ho riflettuto, in particolare, anche sul ruolo dell’“Educazione Civica”, materia ormai dimenticata nella maggior parte delle scuole e che, invece, sarebbe di fondamentale importanza per far comprendere, fin da bambini, che vivere come cittadini (ormai, del mondo) comporta dei diritti e dei doveri che non possono essere delegati né sostituiti con il denaro, in nome di uno sviluppo economico, che in realtà agevolerebbe pochi a discapito di molti. Quando le persone percepiscono di essere libere e di poter contare, attraverso l’espressione della propria opinione, non può accadere nulla di negativo per la società. 182 Viceversa, quando non si possono esprimere le proprie idee, queste ultime fermentano all’interno della persona, per poi esplodere brutalmente verso l’esterno. Ritengo, inoltre, che nella nostra epoca, anche il persistere di una democrazia rappresentativa possa simboleggiare una potenziale minaccia, in quanto l’appartenenza forzata (mi riferisco, in particolare, al momento delle elezioni) ad un partito politico, rappresentante di valori ed idee già prefissate e il più delle volte immutabili, rischia di accendere lotte tra i partecipanti dei diversi partiti politici. Concludendo, vorrei sottolineare come, in origine, “economia” era il termine con il quale si designavano gli “affari di casa”, per cui il nucleo di riferimento era la famiglia; è impossibile pensare di poter tornare a quella interpretazione del concetto, tuttavia deve essere invece possibile e realizzabile un ridimensionamento dell’economia e una sua applicazione più civile, che abbia un ruolo fondamentale nell’affermazione e nel mantenimento di una democrazia partecipativa e informata: un’economia e una democrazia “di tutti e per tutti”. 183 BIBLIOGRAFIA AA. 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