Le trasformazioni dei modelli di governance nelle università europee1

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Le trasformazioni dei modelli di governance nelle università europee1
Le trasformazioni dei modelli di governance nelle università europee1
(Carlo Barone, Stefano Boffo, Fabio Di Pietro, Roberto Moscati)
Pubblicato sulla rivista Inchiesta, n. 3, 2009. aprile 2010 - ISBN 9788822082602
TRASFORMAZIONI DEI SISTEMI UNIVERSITARI E NUOVI MODELLI
DI GOVERNO DELLE UNIVERSITA’
(Roberto Moscati)
1. – Mutamenti nelle pubbliche amministrazioni
Il tema del governo delle università si viene lentamente introducendo anche nel
nostro paese come logica conseguenza dei processi di autonomia degli atenei e del
consolidamento del nuovo quadro normativo introdotto dalla riforma degli
ordinamenti didattici (altrove in Europa nota come il “Processo di Bologna”). In
numerosi altri paesi europei il tema viene da tempo dibattuto e ha prodotto una
considerevole letteratura che si articola su alcuni punti di partenza comuni.
Innanzitutto, il declino e il cambiamento del ruolo dello Stato nei confronti dei
sistemi d’istruzione superiore, e la parallela crescente autonomia delle singole
istituzioni. Questo doppio processo esercita naturalmente ricadute sui soggetti
operanti nei sistemi formativi, invitati/costretti a modificare i propri ruoli
professionali, ma incide altresì sulle forme organizzate delle istituzioni e dunque sul
governo degli atenei.
Nell’affrontare questa tematica è opportuno inquadrare il settore dell’istruzione
superiore nel più ampio ambito della pubblica amministrazione. E questo perché il
cambiamento del governo delle istituzioni non è un fenomeno proprio al solo settore
dell’istruzione. Se osserviamo infatti le evoluzioni dei sistemi di erogazione dei
servizi notiamo una comune riduzione della gestione pubblica a favore del crescente
intervento di soggetti privati. Ad un tempo, il diffondersi dei movimenti di capitali e
l’incidenza
crescente
delle
organizzazioni
internazionali
producono
il
1
Questo lavoro deriva da un Progetto PRIN dal titolo ‘La riorganizzazione dei sistemi di alta formazione e ricerca nelle
"economie della conoscenza" europee’ condotto da tre gruppi di ricerca rispettivamente delle Università di Milano
Statale (Marino Regini, coordinatore), Pavia (Michele Rostan, coordinatore), Milano-Bicocca (Roberto Moscati,
coordinatore). Quest’ultima équipe aveva come tema d’indagine le trasformazioni delle forme di governo delle
università in cinque paesi europei.
1
ridimensionamento dello Stato come fondamento delle economie nazionali e il
convincimento che diverse attività ad esso proprie possano (debbano) essere svolte da
altre istituzioni, prevalentemente private, in grado di essere maggiormente efficienti.
Ne è derivato che le amministrazioni pubbliche hanno perso di centralità in favore del
diffondersi di una visione neo-liberista che ha teso a trasferire nel settore pubblico il
modello del mercato. Modello che a sua volta si è trasformato introducendo il
concetto di flessibilità nell’impresa e quindi privilegiando caratteristiche come la
versatilità, l’adattabilità e l’integrazione delle competenze (Bifulco 2008,5).
La visione neo-liberista applicata alle amministrazioni pubbliche le ha spinte ad
adottare logiche e strumenti propri all’impresa secondo il noto modello del New
Public Management (NPM) che si è tradotto – tra l’altro – nell’emergere di strutture
di relazione (in sintonia con i principi di flessibilità) atte a fornire coerenze
organizzative e a gestire politiche, programmazioni e processi decisionali che si
riassumono nel termine di governance.2
2. – Specificità dell’istruzione pubblica
La diffusione del NPM ha incontrato diversi gradi di accoglienza in paesi europei
non anglosassoni come la Francia o la Germania, sia nel settore dei servizi in
generale sia in quello dell’istruzione superiore. Due aspetti centrali, tra loro collegati,
di tale processo corrispondono al grado di autonomia delle singole istituzioni e alle
nuove forme di governo che si sono venute configurando nelle stesse.
Si assume, da un lato, che le istituzioni autonome siano maggiormente in grado di
rispondere alle esigenze dei propri contesti sociali ed economici e siano ad un tempo
maggiormente adatte a valutare le proprie potenzialità e il proprio modo di funzionare
in risposta ai portatori di interessi (gli stakeholders, come ormai vengono
universalmente definiti). In questo processo tuttavia il ruolo dello Stato non scompare
ma assume forme diverse. Secondo una diffusa interpretazione, l’autonomia delle
2
Numerose definizioni del termine governance convergono nel richiamare i concetti di collaborazione organizzativa
attraverso un sistema di regole che favorisca la presa di decisioni nella gestione delle istituzioni.
2
istituzioni è la conseguenza dell’avvento dello Stato valutatore che si trasforma da
guardiano
in
supervisore,
paradossalmente
ottenendo
attraverso
la
deregolamentazione una più decisa forma di regolazione (Neave 2007;Magalhaes,
2004; Magalhaes e Santiago 2009,10)
Questi processi sono riconoscibili in diversi comparti dei pubblici servizi (dalla sanità
alla sicurezza) di numerosi paesi europei. Il settore dell’istruzione – di quella
superiore in particolare - si inserisce in questo quadro pur con alcune sue peculiarità.
Al riguardo l’aspetto della governance assume un ruolo centrale. Al suo interno
l’aspetto forse maggiormente significativo dell’influenza del NPM è rappresentato
dalla crescente rilevanza degli elementi esterni nei processi decisionali e di governo
delle istituzioni accademiche. I cosiddetti “portatori di interessi” nei riguardi delle
attività delle istituzioni universitarie (gli stakeholders) entrano a far parte in sempre
maggior misura degli organismi decisionali come i Consigli di amministrazione
(Boards nei sistemi anglosassoni) e rappresentano una innovazione profonda in
un’area da sempre considerata come riservata al personale accademico. Si ripresenta
qui l’ambiguità legata alle funzioni sociali dell’università che invita a considerare
simili inserimenti come esempi di sviluppo della “democrazia deliberativa”(Ferlie,
Musselin, Andresani 2007).
Sul reale peso e le effettive aree di influenza dei Boards costituiti da un mix di
componenti interne ed esterne all’accademia le valutazioni sono difformi. Appare
sempre più evidente, tuttavia, la tendenza a creare una diarchia Rettore-Board a
scapito del ruolo di organi prettamente accademici come il Senato, particolarmente in
termini di influenza nei processi decisionali. Si ritiene infatti che un tale sistema sia
maggiormente efficace e produca risultati migliori nel funzionamento dell’istituzione
rispetto a forme più collegiali di governo. Emerge dunque la tendenza a creare
infrastrutture manageriali a fianco o in sostituzione delle strutture accademiche. Ne
deriva che i processi decisionali propri agli accademici vengono integrati all’interno
di percorsi amministrativi dell’organizzazione universitaria, tal ché gli accademici
stessi risultano sempre più avere titolo e riconoscimento nella misura in cui fanno
3
parte dei processi decisionali istituzionali e non si limitano alle tradizionali funzioni
dell’insegnamento e la ricerca (Bleiklie, Kogan 2007). Si tratta – come si vede – di un
passaggio da forme collegiali di governance a forme di razionalismo organizzativo
dove prevalgono le logiche manageriali su quelle tradizionali delle professioni
(corporazioni) accademiche.
Gli effetti di queste forme di governance sulla tradizionale percezione del proprio
ruolo professionale del personale accademico non possono essere certamente positivi
e si riflettono sul diverso grado di resistenza che simile tendenza (come, del resto,
l’introduzione delle più generali logiche del NPM) ha incontrato nei paesi
dell’Europa continentale (De Boer,Huisman,Meister-Scheytt 2007).
D’altro canto, va sottolineato il ruolo centrale acquisito dal settore dell’istruzione
superiore per lo sviluppo dell’economia e della società in Europa all’interno della
nascente “Area Europea d’Istruzione Superiore” di cui il Processo di Bologna e la
Dichiarazione di Lisbona sono gli esempi formalmente più vistosi. Da qui anche
l’importanza peculiare della governance delle istituzioni universitarie e delle sue
trasformazioni.
3. – Caratteristiche dell’università in Italia
In Italia tuttavia il tema non ha assunto sin ad ora un rilievo particolare. E’ ben vero
che vi sono state proposte di trasformazione promosse per lo più dei diversi governi e
dalla Conferenza dei rettori (CRUI) o da alcuni tra i pochi studiosi della materia.3 Ma
mentre queste esercitazioni sono rimaste nell’ambito di circoli ristretti di studiosi, di
recente il governo ha fatto circolare un Disegno di legge di riforma4 che introduce
una diarchia rettore-consiglio di amministrazione, modifica la composizione di
quest’ultimo in favore di una rilevante presenza di elementi esterni all’università,
3
Vanno ricordate le elaborazioni di un “gruppo consultivo” promosso dal MIUR e coordinato da Massimo Egidi allora
rettore dell’Università di Trento, dell’associazione Treelle assieme alle proposte della CRUI nei documenti del 2004 e
2008. Si veda al riguardo Capano 2004;2008
4
Disegno di legge in materia di organizzazione e qualità del sistema universitario, di personale accademico e di diritto
allo studio (28 ottobre 2009)
4
unifica le strutture di base della didattica e della ricerca (facoltà e dipartimenti) e
sottopone a controlli ministeriali i bilanci degli atenei, mentre appare avviato ad
attivare la tanto attesa agenzia nazionale di valutazione (ANVUR).
Ora, sembra evidente che il Disegno di legge (soggetto a modifiche e rinvii da alcuni
mesi e destinato a probabili correzioni nel dibattito parlamentare) si ispiri al modello
inglese che, come si è detto, nasce da un lungo processo di diffusione dell’idea neoliberale introdotta dai governi conservatori guidati dal primo ministro Margaret
Thatcher negli anni ‘70. Sarebbe dunque utile ricostruire il lungo processo di
radicamento di tale modello, evidenziandone l’articolazione a livello dell’intero
sistema d’istruzione superiore e non dimenticandone gli aspetti storicamente
specifici. Tuttavia, rimandando ad altra occasione la ricostruzione del processo nella
realtà britannica,5 si possono qui segnalare le ragioni delle presumibili difficoltà che
un tale progetto verrà ad incontrare nella sua eventuale realizzazione in Italia.
Innanzitutto, manca nel nostro sistema universitario una tradizione di apertura al
mondo esterno che si traduca in una politica di ateneo rivolta ad esercitare quella che
a livello internazionale si definisce la “terza missione” dell’università: quella di
fornire appunto risposte alle diverse e crescenti richieste di applicazione della
conoscenza allo sviluppo della società. Tale carenza si salda, sebbene si tratti di due
problematiche diverse, con la resistenza ad accettare partecipazioni esterne (vissute
come intrusioni) alle decisioni politiche degli atenei. Le stesse politiche degli atenei
sono in realtà la sommatoria delle attività delle diverse aree disciplinari che non sono
sottoposte a strategie complessive istituzionali ma vivono di logiche proprie. Da cui il
ruolo attribuito al rettore come coordinatore e mediatore delle diverse esigenze
settoriali. Questo meccanismo decisionale forniva buoni risultati in un sistema
centralizzato di tipo napoleonico-humboldtiano che ha caratterizzato l’istruzione
superiore italiana praticamente a partire dall’unità dello Stato.
Modificare queste logiche di funzionamento così ben radicate non è cosa semplice. In
parte lo si è visto con l’introduzione della riforma degli ordinamenti didattici che
5
Si vedano tra gli altri i contributi di Becher,Henkel,Kogan 1994; Kogan and Hanney,2000; Reed,2002;
Fulton,2002,2003; Taylor,2005; Shattock,2006
5
presupponeva una larga e autonoma partecipazione delle università alla sua
realizzazione, specie nella dimensione qualitativa (modifica dei contenuti degli
insegnamenti in funzione dei due livelli di formazione e delle prospettive di
prosecuzione degli studi al secondo livello ovvero di inserimento nel mercato del
lavoro). In realtà, si è assistito al prevalere di quella capacità organizzativa detta di
buffering che consente al mondo universitario di attenuare l’impatto dei fenomeni
provenienti dall’esterno resistendo al cambiamento con forme di reazione adattiva
detta di “conservatorismo dinamico”. E la forza di una tale capacità di resistenza al
cambiamento è rappresentata con molta evidenza dalla disponibilità della
corporazione accademica a pagare dei prezzi alti pur di non dover cambiare (le
recenti vicissitudini legate alle riduzioni delle risorse finanziarie alle università
sembrano confermare l’assunto). E tuttavia la storia insegna che non occuparsi dei
propri interessi si rivela quasi sempre perdente (Capano,Tognon, 2009).
Ma è pur vero che il modello anglosassone di verticalizzazione della leadership e di
governance elettiva esercita un fascino particolare anche su diversi sistemi
d’istruzione superiore dell’Europa continentale che sono venuti introducendolo – sia
pure con una serie di adattamenti - negli ultimi anni, sotto la pressione della crescente
competizione tra sistemi nazionali e tra singole istituzioni (si pensi al proliferare delle
classifiche nazionali e internazionali degli atenei). E il fascino deriva da una duplice
convinzione: (i) che, da un lato, sia ormai inadatto il modello di controllo dello Stato
sul sistema formativo basato sul principio della “omogeneità legale” (nell’ambito di
una progressiva perdita di legittimità dello Stato centralistico), e (ii) che, dall’altro, la
richiesta generalizzata di competenze, ritenuta indispensabile per il successo
individuale nel mondo economico, si combini virtuosamente con l’introduzione di
regole di quasi-mercato (la competizione tra istituzioni per il miglioramento della
qualità dei prodotti). Su questi presupposti il modello anglosassone appare di gran
lunga più idoneo di quello a lungo sperimentato nei sistemi dell’Europa continentale.6
6
Sulle differenze di origine dei sistemi d’istruzione superiore si possono vedere,tra gli altri, i contributi di
Neave,2002a;2002b;Moscati,2004
6
E’ ancora troppo presto per valutare l’introduzione di questo modello nelle realtà di
paesi come l’Austria, la Svezia, la Danimarca o il Giappone, ma resta l’interesse per
gli effetti di così profonde modifiche delle forme organizzative e di distribuzione del
potere all’interno di sistemi e di mondi accademici storicamente organizzati secondo
ben diverse logiche. Si tratta certamente di mutamenti non solo organizzativi ma
anche antropologico-culturali che in quanto tali richiedono tempi lunghi di
sedimentazione, appunto perché vengono a incidere sull’identità professionale dei
soggetti interessati. E sono comunque i soggetti interessati che interpretano le logiche
del contesto normativo nel quale operano. Questo dato appare con particolare
evidenza nel mondo universitario e dunque nelle diverse interpretazioni delle
innovazioni legislative e – per quello che qui più ci riguarda – nella realizzazione
delle forme di governance degli atenei.
Nel caso italiano si può aggiungere che la dialettica tra Stato autore delle riforme e
mondo accademico che deve realizzarle soffre da tempo di una mancanza profonda di
comprensione reciproca che si traduce in forme di conflittualità latente che vanno
dalle misure legislative punitive alle resistenze passive o alle trasformazioni
“cosmetiche,” di pura facciata.
Il non cercare una politica univoca che punti a costruire finalità di cambiamento
condivise, dentro e fuori l’università, impedisce nei fatti un’evoluzione positiva del
sistema (se di sistema si può parlare) d’istruzione superiore nel nostro paese.
Come invertire allora questo meccanismo perverso che attraverso la contrapposizione
del mondo politico e del mondo accademico frena la gran parte dei possibili effetti
positivi dello sviluppo della conoscenza ?
Sul versante della politica sarà importante la presa di coscienza reale della rilevanza
dell’istruzione superiore (comprendente la ricerca scientifica e l’istruzione nel suo
insieme) per la crescita della società. Al di là delle parole lo si dimostrerà innanzitutto
con la rilevanza degli investimenti nel settore (come avviene in tutti i paesi
sviluppati), ma anche con politiche di sostegno e ammodernamento del sistema che lo
collegassero a finalità condivise in uno scenario di sviluppo della società.
7
Da parte del mondo accademico sarà cruciale la riconsiderazione delle finalità del
sistema e del ruolo dei singoli attori al suo interno.
Il nodo comune ai due versanti è legato alla necessità di accettare l’idea
dell’inevitabilità del cambiamento. Per il mondo politico (per le classi dirigenti del
paese) allo scopo di contrastare il processo di marginalizzazione internazionale da
tempo in atto. Per il mondo accademico per essere in grado di dimostrare la propria
legittimità alla auto-gestione del proprio cambiamento (salvando così in forme nuove
la propria autonomia).
Appare chiaro dunque come il processo di inversione dell’attuale tendenza debba
muovere dalla condivisione dei compiti e delle finalità del sistema d’istruzione
superiore. Come risulta da una ormai ricca letteratura internazionale, la direzione da
perseguire è quella della combinazione di nuove finalità e nuovi compiti con quelli
tradizionali. I nuovi compiti di sostegno all’economia non possono infatti cancellare
quelli tradizionali della diffusione della cultura e della conoscenza nel modo più
ampio possibile. Occorre dunque muovere dal presupposto che le diverse finalità
possono coesistere così come è per la ricerca pura e la ricerca applicata. Il quadro
che ne emerge è naturalmente ricco di ambiguità, del resto inevitabili nelle
organizzazioni complesse come l’università7.
Ma il punto di partenza non può che essere questo. In seguito si tratterà di
determinare le priorità attraverso appropriati incentivi nelle direzioni privilegiate. Ed
è sulle priorità che si decideranno le funzioni dell’istruzione superiore e
dell’università pubblica.
In questa logica, l’indagine condotta dal gruppo di ricerca dell’università di MilanoBicocca - che qui si presenta in forma sintetica - si propone di segnalare le peculiarità
dei principali sistemi d’istruzione superiore in Europa – con riferimento al caso
italiano - e in essi l’esercizio concreto della gestione degli atenei.
In una fase di incertezza e di trasformazione delle funzioni dell’istruzione superiore
le pressioni per il mutamento delle forme di governo dell’università rivestono un
7
Si veda fra gli altri Bleiklie 1998
8
ruolo cruciale e non per caso sono oggetto dell’intervento legislativo cui si è fatto
cenno All’interno di un quadro vieppiù complesso di ripensamento dell’intervento
dello Stato, di apertura dell’università alle richieste della società e di mediazione fra
esigenza di autonomia e necessità di risorse diversificate, la governance
dell’università risente altresì dell’evoluzione storica del potere interno all’accademia:
da quello della cattedra a quello delle discipline e a quello dell’istituzione, con
commistioni esterne dei diversi portatori di interessi. Da qui l’attualità di questa
ricerca.
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11
LA RICERCA
NUOVI MODELLI DI GOVERNO DEGLI ATENEI IN EUROPA (Roberto
Moscati)
1. - Introduzione
L’indagine ha scelto tre università in ciascun sistema preso in considerazione,8 tra le
quali una di tipo tecnico, una generalista storica e di grandi dimensioni e una
generalista di dimensioni più contenute e di origini relativamente più recenti.
Intendendo esaminare i processi di cambiamento nella governance delle università, la
decisione di prendere in esame i singoli atenei invece di concentrarsi sui sistemi
nazionali d’istruzione superiore ha tenuto conto sia delle specificità delle diverse
situazioni locali (i rapporti tra ateneo e mondo esterno), sia delle dimensioni e
peculiarità degli atenei stessi, come della presenza di distinte aree disciplinari, ma in
particolare della importanza di chi deve recepire e applicare le spinte al cambiamento.
E dunque si è ritenuto cruciale il ruolo del personale docente e tecnicoamministrativo ai diversi livelli, in accordo, da questo punto di vista, con quello che
raccomanda Burton Clark che sostiene: “the best to find out how universities change
the way they operate is to proceed in research from bottom-up and the inside-out.
‘System’ analysis done top-down cannot do the job. It misses the organic flow of
university internal development” [Clark 2004, 2].
Così facendo si è inteso evitare, per quanto possibile, il rischio di assumere come
dato di partenza l’esistenza di un trend comune a tutti i sistemi d’istruzione superiore
europei destinati inevitabilmente a confluire in un unico modello. Di conseguenza,
8
I sistemi d’istruzione superiore oggetto dell’indagine facevano riferimento a Francia, Germania,Gran Bretagna,Spagna
e Italia. Per ciascun sistema d’istruzione superiore è stato elaborato uno specifico rapporto. In particolare, Carlo Barone
ha scritto il country report relativo alla Germania, Stefano Boffo quello relativo alla Spagna, Fabio Di Pietro il rapporto
sulla Francia, Roberto Moscati il country report sulla Gran Bretagna, mentre il rapporto sul sistema universitario
italiano è stato steso congiuntamente da Stefano Boffo e Roberto Moscati. In ciascun paese sono state analizzate in
particolare tre università: Université de Reims, Université de Compiègne, Université de Rennes2, (in Francia); Ruprecht
Karl Universität-Heidelberg, Freie Universität Berlin, Technische Universität Berlin,(in Germania); Universitad
Politecnica de Valencia, Universitad de Siviglia, Universitad de el Pais Vasco,(in Spagna); Coventry University,
University of Bristol, University of Warwick, (in Gran Bretagna);Università di Padova, Università di Roma 3,
Politecnico di Torino (in Italia).
12
facendo riferimento alle caratteristiche dei sistemi nazionali d’istruzione superiore, si
sono esaminati sia le origini storiche sia gli aspetti organizzativi dei singoli atenei a
cominciare dall’analisi dei rispettivi statuti.
Sono quindi state condotte interviste semi-strutturate ai rappresentanti, nei diversi
livelli, del governo delle università, dai rettori (o loro omologhi), ai pro-rettori (o loro
omologhi), ai presidi di facoltà, direttori di dipartimento, membri dei consigli di
amministrazione (accademici e “laici”), direttori amministrativi, rappresentanti del
personale amministrativo e degli studenti coinvolti in processi di gestione, per un
totale che si è aggirato attorno alle 15-20 interviste per ateneo.
L’ipotesi centrale che si è inteso verificare riguarda la crescita progressiva di una
serie di ragioni economiche e socio-politiche in grado di esercitare una crescente
pressione sui sistemi d’istruzione superiore (e sulle singole università), volta a
modificarne le finalità, il funzionamento e dunque l’organizzazione interna.
Ne dovrebbe essere derivato sia il cambiamento o l’aggiornamento delle finalità
(mission) delle università, sia la ristrutturazione interna delle stesse.
Più in particolare, la pressione ad aprire l’università verso il mondo esterno, al fine di
fornire risposte alle crescenti richieste di uso economico e sociale della conoscenza,
crea la necessità di entrare in competizione per l’acquisizione delle risorse in una
logica di mercato.
Il modello di riferimento per tale cambiamento tendenzialmente diventa quello
anglosassone che si é strutturato da tempo – sia a livello di sistema, sia a livello di
singole istituzioni – secondo una logica competitiva di mercato, con tutta una serie di
conseguenze strutturali e organizzative.
L’incontro tra questa pressione indotta dalla diffusa interpretazione delle funzioni
della conoscenza e dell’istruzione superiore e le tradizioni di funzionamento delle
singole università – inserite nei diversi sistemi d’istruzione superiore – rappresenta
l’aspetto maggiormente interessante di questo processo, che consiste dunque nella
13
diversa combinazione di logiche e modelli tradizionali con logiche e modelli “di
importazione”.
All’interno di questa emergente forma ibrida è sembrato cruciale analizzare in
particolare le trasformazioni nei meccanismi di governo sia a livello meso
(d’istituzione universitaria), sia a livello micro (di articolazione organizzativa di base:
facoltà, dipartimento), attraverso i comportamenti, e dunque principalmente le
reazioni alla richiesta di cambiamento, dei soggetti interessati (il personale
universitario). Le teorie della sociologia dell’organizzazione e della sociologia delle
professioni sono dunque apparse le basi naturali dei riferimenti teorici, cui si devono
necessariamente aggiungere i riferimenti all’etnometodologia e in particolare a quella
componente dell’interazionismo simbolico che sottolinea le dinamiche della
“definizione della situazione” [Collins 1988, 332] , qui riferita alle interpretazioni
dei processi di mutamento ad opera dei soggetti direttamente coinvolti nelle diverse
dimensioni del governo dell’università.
2 L’autonomia delle università
Il governo delle università nei sistemi d’istruzione superiore europei è in
trasformazione per tutta una serie di fenomeni tra loro correlati. La crescente
convinzione della centralità della conoscenza per lo sviluppo economico e sociale ha
modificato le finalità dell’istruzione superiore ed ha accresciuto la domanda sociale,
spingendo le università ad aprirsi al mondo esterno ed innalzando il livello di
autonomia degli atenei.
Ad un tempo, la dipendenza del sistema d’istruzione superiore dallo stato si è andata
modificando, soprattutto in ragione delle difficoltà per quest’ultimo di coprire i
crescenti costi del sistema. Ne è derivato che il finanziatore principale (lo stato) ha
sviluppato la richiesta di verificare la produttività dell’istruzione superiore anche
laddove l’autonomia del sistema formativo pubblico era più consolidata (Il Regno
Unito). Per contro, nei sistemi dove il controllo dello stato era per tradizione
14
stringente e tendente a garantire l’uniformità dell’offerta formativa (sistemi
napoleonici), si è attribuita alle singole istituzioni una crescente autonomia di
iniziativa, accanto alla quale si è venuta sviluppando una serie di verifiche ex-post
delle performances (non la sparizione della presenza dello stato quindi, bensì, come
sostiene Christine Musselin, “l’état autrement”) [Musselin 2001, 196].
Le mutate condizioni sociali ed economiche hanno dunque creato i presupposti per
una maggiore autonomia degli atenei e li hanno posti in vario modo in competizione
per l’acquisizione dei riconoscimenti e l’incremento delle risorse.
Autonomia e competizione hanno esercitato inevitabilmente una forte influenza sui
valori che caratterizzano l’istruzione superiore e in particolare sui sistemi di governo
degli atenei. Per meglio dire, si è venuta sviluppando la necessità di giustificare le
trasformazioni dei sistemi d’istruzione superiore e così, ai valori tradizionali di
collegialità, collaborazione, libertà individuale dei docenti/ricercatori, come a quelli
di autonomia della ricerca e dell’offerta formativa, che caratterizzavano la comunità
accademica, si sono venuti sovrapponendo nuovi modelli connotati come positivi
(dunque considerati in termini valoriali), quali l’assunzione di responsabilità nel
compimento delle proprie attività professionali (accountability) nei confronti dei
soggetti coinvolti nelle stesse (gli stakeholders), assieme al passaggio da una gestione
amministrativa ad una gestione manageriale delle istituzioni formative e di ricerca,
tra loro poste in competizione.
In particolare, il processo di diffusione dei nuovi modelli interpretativi circa le
finalità dei sistemi d’istruzione superiore e delle istituzioni formative viene
presentato come doveroso perché giusto, e giusto (dunque dotato di valore) perché
utile alla società.
In questa prospettiva la competizione tra università rappresenta la logica del mercato
e si applica a diversi livelli: a livello locale (dove peraltro è chiamata a coesistere con
il valore simmetrico della cooperazione, sovente al fine di creare sinergie
indispensabili al raggiungimento di una massa critica utile alla competizione
internazionale: vedi il fenomeno dei PRES – Polo di Ricerca dell’Insegnamento
15
Superiore – in Francia); ma anche a livello nazionale e, appunto, internazionale, nei
confronti delle entità e dei soggetti che intendono/devono servirsi dei prodotti del
mondo accademico. Ad un tempo è facilitata la competitività tra aree disciplinari e
scientifiche all’interno della stessa istituzione, in funzione delle richieste esterne
(espresse o anche solo potenziali). Così il reperimento di risorse aggiuntive va
interpretato secondo le stesse logiche di mercato, sotto forma di offerta di servizi
legati alla conoscenza. L’apertura al mondo esterno, in questa prospettiva, significa
dunque maggiore dipendenza da logiche diverse da quelle proprie dell’accademia e
soprattutto caratterizzate da un rapporto con il mercato che implica maggiore
flessibilità, capacità di adattamento nel proprio funzionamento e minori regole
vincolanti rispetto al tradizionale modus operandi degli universitari.
Comporta altresì lo sviluppo di nuove qualità nel personale docente, di ricerca e
tecnico-amministrativo delle università. La competitività – si dice – richiede rapidità
nella presa di decisioni e questo incide sui comportamenti dei singoli, ma soprattutto
sui meccanismi decisionali e sulle strutture coinvolte nel processo di elaborazione
delle politiche di ateneo.
Da qui la crescente centralità dei temi legati al governo delle università e alle
caratteristiche riconosciute alla leadership che, a loro volta, appaiono strettamente
legate all’immagine che l’università assume nei distinti momenti storici e nelle
diverse società. A quest’ultimo riguardo, appare opportuno richiamare qui
sinteticamente la tipologia elaborata da Robin Middlehurst [Middlehurst 1995], che
propone un collegamento tra il modo di intendere l’università e le connesse
specificità della sua leadership, riferendosi fondamentalmente a tre casi: l’università
come comunità di professionisti, l’università politico-burocratica e l’università a rete.
L’università intesa come comunità di professionisti sottolinea la rilevanza sia della
competenza e dell’esperienza (“seniority”) come fonti dell’autorità, sia di alcuni
interessi
comuni,
condivisi
principalmente
a
scopo
di
autodifesa,
autoregolamentazione e sviluppo della professione o della disciplina, ma sopratutto si
caratterizza per il valore attribuito all’autonomia dei singoli. In questa prospettiva il
16
leader è visto come rappresentante delle aspirazioni e dei successi della collettività e
la leadership è basata sulla negoziazione, la persuasione e il raggiungimento del
consenso, mentre l’autorità e la capacità di esercitare una significativa influenza si
fondano sulla riconosciuta esperienza e credibilità professionale. In questo senso il
leader deve poter simboleggiare i valori del gruppo e da lui ci si aspetta che svolga
una intensa attività di consultazione e condivisione delle pratiche di gestione
dell’istituzione.
L’università caratterizzata dal prevalere delle logiche politico-burocratiche è, per
contro, sede di possibili competizioni tra aree disciplinari portatrici di valori e
interessi diversi per la varietà di finalità, strategie e referenti esterni, sovente peraltro
legati a peculiarità epistemologiche. I conflitti sono dunque potenzialmente derivanti
dalle differenze di valori e tesi alla conquista di spazi e di rilevanza interna
all’istituzione. La dimensione burocratica tende qui a sottolineare la necessità di
ordine, regolazione e controllo, attraverso catene gerarchiche di comando, di
definizione attenta di ruoli e responsabilità e di procedure fondate su finalità
condivise. L’utilità di una tale organizzazione della complessità, attraverso la
formalizzazione dell’articolazione interna, è giustificata sia dalla diversificazione
disciplinare sia dalla rilevanza crescente dei rapporti col mondo esterno (con gli
sponsor, i clienti, gli stakeholders) nei confronti del quale l’istituzione deve essere
affidabile (accountable).
Nella dimensione politico-burocratica la leadership deve legittimare le differenze di
valori e interessi, operando per raggiungere finalità condivise attraverso mediazioni e
compromessi, ma anche, in certi casi, mirare a trarre vantaggio delle differenze,
governando secondo il principio del “divide et impera”. Sotto il profilo della gestione
burocratica la leadership delle università sovente è spinta ad assumere caratteri
manageriali per l’enfasi posta sulla presa delle decisioni e la definizione di sistemi di
controllo e coordinamento.
Infine, nelle forme più moderne l’università si presenta come un sistema a rete, cioè
formato da elementi interagenti collegati ad altri sistemi esterni (le comunità locali, i
17
gruppi internazionali di ricerca, il mondo economico ai diversi livelli) attraverso una
rete che coinvolge solo alcuni dei propri elementi (dipartimenti, centri di ricerca,
facoltà).
In particolare, riferendosi ai nuovi modelli di università, emerge come la leadership
tenda a divenire inevitabilmente sempre più diffusa ed a coinvolgere i singoli soggetti
ai diversi livelli all’interno dell’istituzione, giustificando in tal modo l’uso dello
stesso termine di “governance”.
3 – La governance dell’università in Europa
Il termine di ”governance” è stato identificato con la struttura di relazioni che tiene
insieme la coerenza organizzativa, e dunque autorizza politiche, programmazioni,
decisioni, e altresì fornisce riscontri della loro correttezza, coerenza e convenienza.
Per contro, il “management” consiste nel raggiungere le mete prefissate attraverso
l’attribuzione di responsabilità e risorse, oltre al monitoraggio della loro efficienza ed
efficacia. L’”amministrazione”, a sua volta, può essere intesa come il processo di
interpretazione e perseguimento delle finalità dell’organizzazione, in accordo con le
politiche e le procedure stabilite [ Gallagher 2001;Meek 2003, 12].
La governance è dunque riferita al contesto nel quale le università operano e, quindi,
anche ai processi e alle strutture attraverso e con le quali si raggiungono (o, meglio, si
mira a raggiungere) i risultati prestabiliti. Si può dunque sostenere che il concetto di
governance incorpori quelli di management, amministrazione e leadership
istituzionale. Come ha sostenuto Renate Mayntz, il termine governance comprende
dunque un sistema di regole e altresì il modo in cui tale sistema opera. A sua volta il
sistema di regole va considerato come un quadro istituzionale secondo il quale gli
attori di un particolare campo di politiche orientano le loro attività [Mayntz 2004, cit.
in Kehm, Lanzendorf 2006, 15].
Un modello di riferimento molto noto per definire le dimensioni della governance è
quello del “triangolo di governo/coordinamento” elaborato da Burton Clark: si tratta
18
di un sistema di regole dirette ai comportamenti degli attori del mondo accademico e
variamente influenzato vuoi dal mercato, vuoi dallo stato, vuoi dall’oligarchia
accademica. Il triangolo è stato successivamente modificato dallo stesso Clark
aggiungendo
un
quarto
angolo,
costituito
dalla
leadership
gerarchica
e
imprenditoriale delle istituzioni accademiche. Si ottiene così un parallelogramma del
potere che rappresenta un regime di governance nel quale – nelle diverse circostanze
– viene a prevalere una delle quattro componenti [Clark 1983; 1997]. Occorre
conseguentemente chiedersi come e perché emergano nuove forme di governance.
Innanzitutto, osserviamo come alcune caratteristiche di contesto quali l’alto livello
raggiunto dalla spesa pubblica per l’istruzione superiore, assieme alla collocazione
relativamente bassa dell’istruzione superiore nell’agenda politica delle priorità dei
governi nazionali, abbiano facilitato lo sviluppo dell’autonomia-controllata degli
atenei e correlativamente la spinta alle modifiche della governance. Ad un tempo, la
globalizzazione e l’internazionalizzazione accelerata dei processi di produzione e
distribuzione della conoscenza hanno dato avvio ad una contrapposizione tra diversi
attori
(uomini
politici,
intellettuali,
accademici,
studenti,
rappresentanti
dell’economia) circa la vera natura del sapere e le sue utilizzazioni. Si sono
sviluppate nuove lotte di potere tra diversi gruppi, nel mondo politico e in quello
economico, attorno alle funzioni delle strutture formative e produttrici di conoscenza,
che hanno visto il crescere delle applicazioni del pensiero neo-liberale rappresentato
dalla teoria del “New Public Management”. Secondo questo approccio, l’università
va trasformata da istituzione a “legami deboli” (loosely coupled) in organizzazione
saldamente strutturata, al fine di potersi collocare efficacemente in dinamiche di
mercato, e dunque sopportare logiche competitive e richieste di affidabilità attraverso
verifiche.
Nello specifico, il cambiamento di fondo ha riguardato i tradizionali modi di
interpretare la relazione tra università e società. Si assiste infatti ad una crisi di
egemonia dell’università come autonoma sede di creazione e trasmissione di sapere,
cui si aggiunge una crisi di legittimazione a seguito delle difficoltà di incontro tra
19
domanda e offerta del prodotto dell’istruzione superiore nel mercato del lavoro (crisi
di employability), ma in particolare si manifesta una crisi istituzionale per la
peculiarità organizzativa di un’università la cui maggiore autonomia relativa viene
attribuita in un contesto di subordinazione a standard di efficienza e di produttività
propri al modello manageriale che prende piede nella realtà accademica.
Nelle università europee si sono dunque registrati mutamenti nelle forme di
governance, che hanno spostato l’equilibrio del potere e dell’autorità in direzione di
uno sviluppo di nuove strutture centrali. L’amministrazione centrale viene rinforzata
ed acquista un ruolo cruciale. I tradizionali sistemi “bicamerali”(Senato accademico e
Consiglio di Amministrazione in Italia) evolvono verso un rafforzamento delle
capacità amministrative. Cresce la partecipazione di soggetti esterni portatori di
interessi (gli “stakeholders”) negli organi decisionali e parallelamente si accentuano
le critiche alla collegialità dei processi decisionali e si propende verso la
centralizzazione delle decisioni al più alto livello istituzionale, con conseguente
riduzione, in alcuni casi (Francia), delle decisioni a livello disciplinare (dipartimenti).
I rettori a volte sono nominati e non più eletti, mentre i presidi e i direttori di
dipartimento (i middle managers) sono visti come professionisti dell’amministrazione
e dunque possono venir nominati dal rettore. In determinati casi essi vengono a far
parte, con alcuni dirigenti amministrativi, di una sorta di giunta informale di
consulenza al rettore [Amaral, Jones, Karseth 2002, 287].
Ecco che allora i ruoli deputati al governo delle università si vengono modificando,
anche se in realtà non si assiste alla sostituzione completa di un modello ad un altro.
Così il ruolo di primus inter pares, tradizionalmente attribuito ai leader nei diversi
ruoli (rettore, preside di facoltà, direttore di dipartimento o di corso di laurea), non si
può dire sia sparito né abbia perso di legittimità, bensì venga a combinarsi con altri ai
quali, peraltro, i leader accademici non sono stati preparati (come le capacità di
gestione, di valutazione e di programmazione) [Musselin 2001].
Quanto alla governance si pone il problema della costruzione di una leadership
collettiva sufficientemente coesa ma basata su logiche diverse da quelle tradizionali.
20
Infatti, i principi tradizionali di collegialità, coerenti con il ruolo di primus inter pares
e destinati a costruire forme di consenso, non si rivelano così adatti alla
identificazione di priorità e alla realizzazione delle decisioni prese: si tratta dunque di
sviluppare nuove modalità di consenso e forme di cooperazione in un processo
decisionale
che
proviene
in
genere
dal
vertice
(rettore/président/vice-
chancellor/rektor) e che deve trovare corrispondenza a livello dei presidi/direttori e
da qui a quello del personale docente. Cresce dunque il ruolo dei dirigenti intermedi,
il cosiddetto “middle management”, che devono svolgere più che mai compiti delicati
di trasmissione nei due sensi delle istanze e delle decisioni. Ai diversi livelli di
responsabilità si sommano dunque ruoli tradizionalmente accademici con ruoli di
stampo manageriale, difficilmente combinabili e fonte di disagio sia tra i diretti attori
dei ruoli di leadership, sia tra i membri della collettività accademica. I primi si
sentono infatti sopraffatti dalle incombenze organizzative difficilmente combinabili
con quelle tradizionali della didattica e della ricerca e inoltre non riescono facilmente
ad acquisire la capacità di guardare al di fuori dell’università, né di immedesimarsi
nelle aspettative esterne. Il personale docente, d’altro canto, non accetta facilmente la
nuova concezione della leadership accademica, né la logica della riduzione di parte
dell’autonomia individuale in nome di un vantaggio collettivo. Stenta a farsi largo, in
sintesi, la concezione dell’appartenenza ad una istituzione e l’adesione alle
trasformazioni dei propri ruoli professionali in ragione delle nuove finalità attribuite
all’istruzione superiore e in conseguenza alle università.
Uno degli aspetti che evidenziano la difficoltà a recepire il processo di transizione è
rappresentato dalla scarsa attenzione dedicata allo sviluppo della leadership
accademica. L’avversione al concetto di managerialità è probabilmente una delle
principali ragioni che spiega il ricorso a stereotipi e luoghi comuni che fanno ritenere
la leadership come una dote naturale, oppure un’arte, o una capacità che si acquista
con l’esperienza. Simili atteggiamenti automaticamente escludono la necessità di una
formazione professionale specifica, con il rischio tuttavia di finire per essere costretti
ad adottare modelli applicati in altri contesti.
21
4 – Fasi e caratteristiche del cambiamento
Allo stato dei fatti ci si può tuttavia domandare se la rivoluzione manageriale stia
davvero occupando le strutture di governance dell’università o se invece il
managerialismo sia solo uno strumento politico di tipo retorico, utile ad incoraggiare
l’adattamento alle nuove condizioni di funzionamento delle istituzioni accademiche.
In effetti, il managerialismo non convince come unico paradigma per la gestione delle
istituzioni pubbliche e il modello tradizionale trova ancora applicazioni in particolare
nel settore dell’istruzione superiore, dove non si riscontrano forme di management
puro e dove l’autogoverno accademico e la regolamentazione statale mantengono un
peso considerevole.
Non va inoltre trascurata tutta una serie di effetti negativi, in parte prodotti o quanto
meno incentivati dall’applicazione delle nuove forme di governance e di
management. Si assiste infatti alla progressiva trasformazione degli accademici in
lavoratori della conoscenza con la crescente “proletarizzazione” della professione. Il
declino del “dominio dei Dons” sembra coincidere con il declino dell’autonomia
istituzionale delle università (attraverso il crescente controllo dello stato sotto forma
di valutazione) [Halsey 1992]. E tuttavia va ricordato come la crisi della collegialità
accademica, in quanto guida della vita universitaria, si sia manifestata prima dello
svilupparsi delle teorie neo-manageriali.
Piuttosto sembra che il Nuovo Management Pubblico spinga le università verso una
situazione caratterizzata da “scarsa fiducia e forte controllo”, che appare la
conseguenza della nuova autonomia regolata. La tradizionale fiducia su cui si
fondava la dinamica sociale nell’università viene, infatti, progressivamente sostituita
dalla verificabilità dell’affidabilità (accountability). Ne deriva che il crescente
controllo burocratico e manageriale proprio delle logiche di mercato rappresenta, di
fatto, una messa in dubbio della probità morale del corpo accademico. E tuttavia,
secondo molte evidenze, le organizzazioni efficienti si fondano sulla fiducia. Ci si
22
può domandare, in conseguenza, quali siano le condizioni istituzionali che
favoriscono la fiducia o la sfiducia.
La domanda si collega al problema della coerenza tra organizzazione centrale delle
istituzioni accademiche (approccio manageriale, struttura gerarchica del potere) e
funzionamento concreto delle strutture di base, della didattica come della ricerca. Se
le logiche e i valori accademici sopravvivono, le pratiche collegiali sono o no
indispensabili per la sopravvivenza delle istituzioni universitarie? In caso di risposta
affermativa va forse aperta una riflessione su possibili forme ibride di organizzazione
accademica [Amaral, Jones, Karseth, cit., 294]. Va detto che nell’attuale situazione di
incertezza sul piano della identificazione dei processi e dei livelli decisionali, molti
accademici avversano il funzionamento degli organismi collettivi (“troppe riunioni
senza presa di decisioni”) e se sono coinvolti in forme di “capitalismo accademico”
(nel senso che i loro interessi professionali si rivolgono per lo più al di fuori della vita
dell’ateneo) appaiono favorevoli alla concentrazione del potere a livello centrale
[Amaral, Fulton, Larsen 2003, 277].
Sia pure di fronte a una serie di segnali a volte tra loro contraddittori e tenendo ben
presente le specificità dei sistemi nazionali d’istruzione superiore, sembra possibile
tuttavia identificare alcune tendenze comuni, o quanto meno simili, nelle diverse
realtà istituzionali.
Non si è imposta, innanzitutto, una sola definizione di governance, anche se una serie
di innovazioni si sono diffuse e stanno diffondendosi: i controlli e le forme di
incentivo/sanzione sono aumentati; l’autonomia operativa delle singole istituzioni è
cresciuta, ma anche le regole stabilite dai governi, e si è moltiplicata la ricerca di
legittimazione attraverso il meccanismo di accountability. In ogni caso la
regolamentazione statale ha ancora un suo rilievo, specie nell’Europa continentale.
Al riguardo va ricordato, all’interno di una diversa origine storica del sistema
d’istruzione superiore continentale europeo rispetto a quello anglosassone, come
l’università sia sempre stata, nel primo, un’istituzione statale e come sia dunque stato
cruciale il ruolo regolatore dello stato nei suoi riguardi. Da qui anche i dubbi circa le
23
logiche di mercato e i processi di privatizzazione dei settori pubblici presenti nei
paesi europei.
Si è dunque indebolito l’autogoverno accademico, ma non si prevede una sua
sparizione. Circa il suo impatto molto sembra dipendere dal tipo di leadership attuata
da chi occupa posizioni di comando. Sempre più frequentemente, del resto, vengono
a configurarsi situazioni nelle quali i leader accademici appaiono spinti a svolgere
ruoli di intermediari fra valori accademici e domande esterne [Kehm, Lanzendorf,
cit., 207].
Resta aperta la verifica del grado di realizzazione delle tendenze generali – qui
sommariamente indicate – nei diversi atenei collocati all’interno degli specifici
sistemi d’istruzione superiore europei presi in esame dalla ricerca.
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25
L’AUTONOMIA ISTITUZIONALE E LA PROFESSIONALITA’ DELLA
GESTIONE (Carlo Barone)
1. Gradi di autonomia
L’esame dei casi studiati suggerisce di introdurre una distinzione di fondo costituita
dal grado di autonomia di cui godono gli atenei nei diversi sistemi d’istruzione
superiore, un aspetto che consente di mettere in luce gli elementi, che sono apparsi
influenzare il caratterizzarsi delle forme di governance nelle diverse realtà, ancorché
occorra subito aggiungere che si tratta dovunque di una autonomia variamente
limitata.
In Germania una serie di leggi federali e statali ha notevolmente aumentato i margini
di autonomia degli atenei, ma le burocrazie dei Länder tendono a mantenere un certo
grado di controllo diretto. I Länder decentrano molto “a parole”, ma poi cercano di trattenere un margine d’interferenza sull’operato degli Atenei9. Inoltre, le dinamiche di coalizione politica, o anche solo le convinzioni dei singoli Ministri dell’Istruzione di ciascun Land, possono spingere in avanti, oppure al contrario rallentare, le tendenze al decentramento. Tuttavia, nel complesso, la trasformazione in corso appare di vasta portata e in particolare si manifesta in alcuni comparti:
introduzione di budget globali, con la possibilità per gli Atenei e le Facoltà non solo di gestire più flessibilmente le diverse voci di spesa, ma anche di spostare risorse da un anno all’altro, accantonando fondi (es. per progetti di ricerca molto onerosi) secondo una logica di investimento di medio periodo, che prima non era neppure concepibile; reclutamento del personale, con controlli diretti da parte del Land che risultano indeboliti e la definizione degli organici che viene ormai considerata, in generale, una questione interna degli Atenei. Non mancano alcune interferenze da parte 9
Peraltro non si deve pensare che tali intromissioni siano sempre male accette da parte dei Rettori. Talvolta costoro
possono usarle come uno scudo protettivo, specialmente quando sono chiamati a prendere decisioni impopolari (“devo
tagliare questa Facoltà perché è il Ministro che me lo chiede”).
26
dei Ministeri dell’istruzione: ad esempio, questi ricevono la documentazione delle procedure concorsuali e possono invalidarne o sovvertirne gli esiti (non solo per vizi formali). Oppure, può capitare che il Land non solo tagli i fondi a un Ateneo ma informalmente indichi pure quali aree di ricerca, o addirittura quali cattedre, preferirebbe che venissero tagliate; definizione dell’offerta formativa: agli Atenei spetta ora un potere effettivo più ampio nella decisione di aprire nuovi corsi di laurea, di avviare scuole di dottorato o altre iniziative didattiche. Anche in questo caso, il Land mantiene un potere di controllo preventivo, ma solo di rado se ne avvale per bloccare tali iniziative. Peraltro, accanto a questi controlli, si sta affermando, sebbene lentamente e parzialmente, un sistema di accreditamento dei corsi basato su agenzie esterne private specializzate; contribuzione studentesca: l’interpretazione tradizionale del dettato costituzionale sul diritto allo studio sembrava comportare l’impossibilità d’imporre tasse agli studenti, mentre ora ciascun Ateneo può stabilire di chiedere loro un contributo. Comunque, sinora le università sembrano piuttosto caute nel percorrere questa via, malgrado il loro cronico sotto‐finanziamento. In Francia una vera autonomia decisamente più libera dalla “tutelle” ministeriale non
sembra prossima. Il sistema di contrattualizzazione creato negli anni ’80 resta un
elemento centrale del sistema e il ruolo di controllo del ministero si mantiene forte,
anche se le università hanno acquisito importanti spazi di autonomia e responsabilità.
In particolare la recente legge LRU (Libertà e responsabilità delle università, detta
anche legge Pécresse, dal nome della ministra che l’ha promossa) dell’agosto 2007
spinge verso un ancora più deciso accrescimento della capacità di governance
autonoma delle università, conferendo loro maggiori competenze, che passano
soprattutto attraverso il potenziamento del ruolo dei presidenti ed un maggior peso
nella gestione del budget. Ma, con qualche eccezione, non poche sono state le
resistenze alla legge dal mondo accademico e da quello studentesco, dovute
principalmente al timore che, con il rafforzamento dei poteri del presidente
27
dell’università, vi sia un rischio di deriva manageriale a detrimento delle
rappresentanze democratiche. Presso l’Université Rennes 2 Haute Bretagne e
l’Université de Reims Champagne Ardenne – URCA, i Président ed il loro staff, in
generale, difendono la legge e rivendicano una maggiore autonomia dal controllo
ministeriale, ma questo a fronte, soprattutto nella prima università, di resistenze
ideologiche da parte di studenti e non contenute frange accademiche, nonché di
un’idea di servizio pubblico legata ad una visione “statalistica” e di tutela sindacale.
E tutto ciò chiaramente rispetto ad un’autonomia il cui punto debole consiste nel fatto
di essere ancora piuttosto relativa.
In Italia, il controllo sui percorsi formativi imposto dalla legge sugli ordinamenti
didattici del 1999 si è accentuato negli ultimi tempi con l’introduzione dei requisiti
necessari per l’attivazione dei corsi di laurea. Si è trattato, infatti, dell’esempio più
significativo di limitazione dell’autonomia degli atenei, caratterizzata dalla
determinazione governativa del numero dei docenti di ruolo imposto come
indispensabile per la creazione (o il mantenimento) dei corsi di laurea. Tale
limitazione, introdotta al fine di ridurre la proliferazione dell’offerta formativa priva
di un congruo numero di docenti incardinati stabilmente nell’università, ha segnalato
peraltro l’inadeguatezza di diversi atenei nella gestione della propria autonomia.
Inoltre, l’incidenza del governo è risultata particolarmente evidente anche nelle
recenti misure relative ai processi di reclutamento del personale docente, da tempo
bloccati in attesa di una trasformazione, che toglierà in larga misura la possibilità alle
università di assumere il personale docente, attraverso concorsi banditi localmente a
favore di un ritorno a sistemi concorsuali centralizzati a livello nazionale. A ciò si
aggiunge la distribuzione di una frazione del finanziamento agli atenei, secondo
modalità di valutazione largamente opinabili e dal sapore maggiormente punitivo
(meno risorse a chi non ha raggiunto livelli di prestazioni non dichiarati in
precedenza) che non di stimolo. Va ricordato al riguardo come in Italia non sia attivo
un reale sistema nazionale di valutazione della didattica e della ricerca, sin qui
lasciata ad iniziative operanti senza conseguenze di sorta, come la valutazione della
28
didattica da parte degli studenti (i cui risultati sono in genere tenuti riservati), o la
valutazione delle attività di ricerca, condotta una tantum da una istituzione di nomina
ministeriale (CIVR) e rimasta senza seguito. Ma l’intento di controllo “punitivo” del
governo nazionale si è evidenziato soprattutto con la riduzione dei finanziamenti
ordinari al complesso degli atenei che di fatto blocca per molte università (specie per
quelle generaliste dove il bilancio dipende per oltre il 75% dal finanziamento
pubblico) ogni possibile politica autonoma.
In Gran Bretagna sono note le procedure di valutazione da parte delle istituzioni
pubbliche specifiche, che incidono sull’ammontare della risorse distribuite dal
governo, mentre tra i limiti all’autonomia è compresa la determinazione del numero
di studenti reclutabili. Ad una visione d’insieme si può sostenere che la dialettica
controllo dello stato/autonomia degli atenei rappresenti ancora oggi un aspetto di
fondo del sistema d’istruzione superiore inglese.
Ora, è comprensibile che possano svilupparsi tensioni tra le strutture di governance (il
Council) e quelle esecutive: sono le stesse che si ritrovano tra governance e
management in ogni organizzazione. Al riguardo va ricordato che le università
britanniche, anche se finanziate in modo spesso massiccio dal governo e
caratterizzate da comportamenti che sovente appaiono da servizio pubblico, sono
tuttavia delle corporazioni indipendenti: sono cioè un’entità autonoma con una
propria dimensione legale e non sono parte del servizio pubblico.
D’altro canto, il controllo dello stato cui è legato il contributo finanziario viene
considerato, nei casi delle migliori università che possono contare su forti legami con
settori diversi dell’economia, più come un freno che come un’opportunità.
Nell’University of Warwick il tema dell’autonomia viene ribadito con molta forza dai
diversi componenti la governance e si manifesta appunto nello sforzo di
contenimento dell’incidenza dei contributi statali sul bilancio di ateneo. Meno
incidenza delle finanza pubblica significa meno dipendenza dalle regole statali nelle
scelte di politica accademica e meno vincoli burocratici. Questo atteggiamento,
presente anche in altri atenei come Bristol, a Warwick, è particolarmente forte,
29
proprio in relazione alla rilevanza che l’aspetto imprenditoriale assume e che richiede
una accentuata flessibilità per relazionarsi con le realtà del mondo esterno.
Per converso, in Spagna sembra emergere un contesto che si potrebbe definire di
nuova autonomia regolata, in cui l’autonomia concessa dai ministeri (a livello
nazionale e regionale) alle singole istituzioni non è ancora così ampia come potrebbe
essere, poiché risulta limitata, per alcuni aspetti sostanziali, dalla tradizione
centralistica del sistema e da forme nuove di centralizzazione.
I corsi di laurea con valore legale del titolo di studio devono essere accreditati, anche
se vi è ampia libertà di offrirne di propri, privi del valore legale. Mentre in
precedenza, infatti, era sufficiente rispondere ai requisiti generali previsti dalla legge
ed alle altre regolamentazioni su lauree e curricoli per vedersi riconosciuti i propri
titoli di studio, con la Ley de Reforma Universitaria -LOU del 2001 e con la Ley de
Reforma de la LOU-LRLOU del 2007, ogni singolo programma deve essere
accreditato al fine di veder riconosciuto il valore legale dei titolo di studio. Il
ministero nazionale ha dunque un ruolo cruciale nella decisione sulla ammissibilità
dei nuovi curricula che, pur proposti dalle singole istituzioni universitarie (i cui
interessi sono tutelati a questo livello anche dalla CRUE – Consejo de Rectores de
Universidades Espanolas), devono rispondere a determinati requisiti previsti a livello
nazionale; un po’ come, nel caso italiano, avviene col decreto delle classi. Inoltre, ci
deve essere anche la specifica autorizzazione del ministero regionale, il cui assenso è
fondamentale, in quanto previsto dalla legge e per la sostanziale ragione che esso
resta il principale finanziatore delle università pubbliche (70-75% del totale)
attraverso diverse e specifiche “formule”. A questo fine i ministeri, quello nazionale e
quelli regionali, trovano nelle rispettive Agenzie per la valutazione della qualità e
l’accreditamento uno strumento centrale di intervento nella vita delle istituzioni: sono
ANECA – Agencia Nacional de Evaluaciòn del la Cualidad y Accreditaciòn, ed
omologhi regionali che accreditano i corsi ed hanno competenza tanto sulla qualità
della didattica che su quella della ricerca. Si può affermare così che valutazione e
30
accreditamento sono un altro strumento che contribuisce a limitare l’autonomia
istituzionale in Spagna, anche se l’uso di indicatori di performance non si estende alla
valutazione di strutture o di interi atenei, salvo che per una parte (es. contratti di
programma) dell’intero ammontare di risorse concesse. In questo quadro, le
limitazioni si estendono anche all’importo delle tasse (che apportano in media il 1520% delle risorse disponibili per le università) che è fissato dai singoli governi
regionali all’interno di un ventaglio stabilito dal Consejo de Coordinaciòn de
Universidades. Anche la missione dell’università resta in larga misura determinata
dai ministeri nazionale e regionali e, del resto, la stessa governance interna delle
istituzioni
universitarie,
pur
essendo
specificamente
regolata
dagli
statuti
autonomistici, non è davvero del tutto autonoma e segue modelli largamente
vincolanti su composizione e natura degli organi unipersonali e collegiali, determinati
dall’autorità ministeriale con leggi sia nazionali che regionali. Occorre aggiungere
però che in alcuni casi, come ad esempio quello dell’elezione del rettore o della scelta
fra elezione o nomina dei direttori di istituto, la legge lascia la specificazione agli
statuti e che questi ultimi hanno ormai ampia libertà di aggiungere organi specifici.
Selezione ed accesso degli studenti sono, a loro volta, solo in parte decisi
autonomamente dalle università: queste ultime fanno infatti le loro proposte, ma la
decisione finale spetta comunque ai ministeri nazionale e regionale.
In tutte le università spagnole analizzate si conferma questo contesto tendenziale di
crescenti limiti all’autonomia da parte dei ministeri competenti, tanto più sotto il
profilo dell’attribuzione di risorse: nel corso dell’indagine di campo si sono registrati
casi di intervento limitativo da parte del governo regionale sui corsi di laurea
proposti, su iniziative per la creazione di nuove università e così via. Questi interventi
sono avvertiti dai responsabili accademici come una limitazione che riduce in
maniera significativa l’autonomia ed il potere discrezionale delle singole istituzioni.
Va tuttavia, infine, sottolineato che ad oggi l’invasività dei ministeri locali e
nazionale non si basa che parzialmente, come invece accade in altri contesti
nazionali, sulla valutazione: le formule per l’attribuzione delle risorse e lo stesso
31
accreditamento sono, il più delle volte, limitate ai singoli corsi di laurea e non
estendono l’uso di indicatori di performance alle strutture o alle istituzioni nel loro
complesso. Per altro verso, strutture nazionali centrali create di recente allo scopo di
indirizzare e, parzialmente, governare il sistema, come il Consejo de Coordinación
Universitaria o come il Consejo de Universidades, non risulta che abbiano un
impatto forte e decisamente percepito nella vita dei tre atenei analizzati.
Tutto questo insieme di materie di competenza ministeriale configura, per alcuni
studiosi, un vero processo di ri-centralizzazione del sistema [Mora 2003].
Le forme di governance che si vengono articolando nelle diverse università risentono
in vario modo anche delle relazioni che intercorrono tra poteri pubblici centrali e
singoli atenei. Così in Francia i contratti quadriennali finiscono con il richiedere
l’elaborazione e presentazione di piani di ateneo, che il Président deve organizzare e
sostenere, acquisendo in tal modo un maggior grado di potere sui rappresentanti dei
settori disciplinari. Inoltre con la legge LRU la durata del mandato del Président,
passando da cinque a quattro anni, favorisce una stretta relazione tra il contratto
quadriennale, che si configura sempre più come programma politico, e l’operato dello
stesso Président nel rappresentare istanze interne d’ateneo e sollecitazioni esterne
(poteri pubblici centrali). Il presidenzialismo nelle università francesi si sostanzia nel
ruolo di crescente rilievo acquisito dal Président e dalla sua équipe cui si affianca di
regola un Consiglio di amministrazione efficiente. Tuttavia in due università sulle tre
oggetto dell’indagine i Consigli di Amministrazione non sono risultati all’altezza del
ruolo. Di fatto, se è sempre evidente l’entusiasmo di Président ed équipe verso una
concezione centralizzatrice della governance, non è altrettanto conseguente la
traduzione delle intenzioni in azioni coerenti: i Consigli di Amministrazione
dell’Université di Rennes 2 e dell’URCA di Reims sono lenti e pletorici, ed il peso
politico della forte presenza sindacale è una delle ragioni di tale lentezza. Nel primo
caso in particolare il CA soffre e, per così dire, fa soffrire, nel senso che costituisce
un freno alle scelte, anche se poi arriva sia pure lentamente a convergere con la linea
32
presidenziale; nel secondo invece risulta decisamente smarcato dall’équipe del
Président ed appare più debole nel resistere alle indicazioni presidenziali. Solo presso
l’Université de Technologie di Compiègne il CA è un facile alleato del Président, ma
allo stesso tempo funge per lo più da vero organo di garanzia e sorveglianza,
efficiente e corretto: l’UTC di Compiègne è di fatto l’unica delle tre università
visitate in cui non si è sentito definire il Consiglio d’Amministrazione una sorta di
“registratore di cassa”, espressione invece utilizzata diverse volte dagli intervistati
delle altre due università, con una chiara connotazione naturalmente negativa.
E nei tre casi si sono presentati tre diversi Président con diverse strategie variamente
orientate in senso consensuale o manageriale o democratico. Ne deriva una
governance che risente molto nettamente della personalità del Président.
Particolarmente interessante appare, in questa prospettiva, il caso della Germania ove
sembra prendere piede il modello dell’università-impresa con rafforzamento delle
funzioni di leadership dei rettori a detrimento degli organi collegiali, al fine di
rendere più rapidi i processi decisionali. Questo modello trae legittimazione, innanzitutto, dalla constatazione delle inefficienze e delle inadeguatezze del modello tradizionale di governance [Kehm, Lanzerdorf 2006]. Anche per questo, benché le sue radici ideologiche non siano certo ambigue agli occhi del corpo accademico, questo modello trova crescenti consensi “bipartisan” dentro le università tedesche e viene promosso da governi federali e statali di vario colore politico, seppure con accentuazioni diverse. Insomma, la legittimazione di una leadership forte e della concorrenza come meccanismo regolatore valido e utile anche al di là della sfera strettamente economica, non è più patrimonio esclusivo di una sola parte politica. Al rettore (che tende sovente ad essere chiamato “presidente”) si affianca una sorta di
giunta esecutiva di ateneo (comprendente rettore, pro-rettori e cancelliere). Il suo
potere è favorito da iniziative esterne come l’Exzellenzinitiative che , un po’ come i
piani quadriennali francesi, costringe alla elaborazione di programmi pluriennali di
ateneo che comprendono scelte di priorità interne. Inoltre, va tenuta presente l’
33
emergente cultura della valutazione e soprattutto della classificazione (il rating e il
ranking) delle università.
La competizione tra gli atenei che ne consegue giustifica una leadership forte, in
grado di rappresentare gli interessi dell’istituzione nei confronti del mondo politico
ed economico. Il caso dell’università di Heidelberg (in una prima tornata rimasta
fuori dalla lista di atenei considerati nella Exzellenzeinitiative per responsabilità
attribuita al rettore e al suo staff) conferma l’incidenza di questi elementi esterni. In
Germania peraltro il rettore ha voce diretta nel reclutamento dei docenti e, con
l’avallo del Senato, fissa regole e criteri per la ripartizione delle risorse alle Facoltà.
Nessuna iniziativa analoga è invece presente ( né appare programmata) nei casi
italiano e spagnolo. In Italia, infatti non si possono paragonare i piani triennali che le
università sono tenute a presentare al ministero dell’Istruzione, l’Università e la
Ricerca Scientifica ai piani quadriennali francesi (né sul piano della concertazione col
ministero né su quello della verifica delle realizzazioni effettive), mentre la ricerca
dell’eccellenza non assume le forme di un piano nazionale ma si identifica con alcune
poche (non raggiungono la decina) istituzioni di riconosciuto prestigio.
2 – Professione Rettore ?
In alcuni sistemi d’istruzione superiore sembra emergere altresì una tendenza alla
creazione (informale) di una carriera politica accademica E’ il caso della Germania dove i Rettori sono persone che quasi sempre sono approdate all’incarico dopo una lunga attività di politica universitaria. Molto spesso tale incarico è stato preceduto da altri ruoli: Preside di Facoltà, membro del Senato accademico, Pro‐
Rettore. Evidentemente, si tratta di docenti interessati a questo tipo di percorso. Senza contare che la posizione di Rettore è d’indubbio prestigio (quanto meno negli Atenei che godono di buona reputazione), trova apprezzabili riconoscimenti economici e può aprire l’accesso ai network politici nazionali ed europei. Al termine del suo mandato, il Rettore può tranquillamente decidere di 34
non tornare a fare il professore, viste le buone opportunità di ottenere altri incarichi direttivi e di prestigio fuori dall’Ateneo (es. nei diversi enti federali e statali che si occupano d’istruzione superiore, negli Universitätsrat di altre università, ecc.). Si vede bene, dunque, come il rafforzamento delle prerogative del Rettore e la creazione di un percorso di carriera professionale costituiscano tendenze emergenti che si rafforzano a vicenda. Il fenomeno è recente ma sembra diffondersi e trova un riferimento in una analoga
tendenza registrata in Gran Bretagna. Anche qui infatti i Vice-Chancellor vengono da
esperienze di ruoli di governo per lo più occupati in altre università. Così alla
Coventry University la Vice-Chancellor è stata prima Pro-Vice-Cancellor e Dean in
una università diversa; alla University of Warwick il Vice-Chancellor era Pro-ViceChancellor alla Oxford University, quello che lo aveva preceduto era stato ViceChancellor all’University of Bath. Il Vice-Chancellor della University of Bristol è
stato direttore di dipartimento e Dean di facoltà in una differente università. La
possibilità di reclutare da altro ateneo i Vice-Chancellor - che vengono nominati e
non eletti - favorisce naturalmente il formarsi di questo tipo di carriera, ma la
crescente necessità di competenze gestionali spinge nella stessa direzione anche altri
sistemi d’istruzione superiore.
Del resto, si sono visti casi analoghi anche in Italia limitatamente nelle università
private, dove i rettori sono eletti con modalità ristrette o nominati da gruppi di
“garanti”. E sempre più si avverte la necessità di formare con corsi ad hoc il
personale che assume ruoli di responsabilità gestionale: alla Coventry University, ad
esempio, sono ormai consolidati i corsi di aggiornamento per i direttori di
dipartimento.
Non risultano invece evidenze relative alla nascita di autonome e separate carriere
politiche accademiche in Spagna, Italia e Francia. Resta comunque sempre vero che
solo una specifica minoranza di accademici, forniti per lo più di esperienza come
presidi di facoltà o direttori di dipartimento o, meglio, pro-rettori, accedono alla
35
massima carica istituzionale. Al riguardo si può affermare che in tutti e tre questi
paesi, con l’estensione della domanda sociale di servizi universitari, con l’aumento di
vincoli finanziari e col moltiplicarsi delle attività di valutazione e con la conseguente
crescita della competitività fra atenei, si manifesta uno iato palese fra il ruolo sempre
più manageriale richiesto dalla “professione” di rettore e le competenze acquisite nel
corso della carriera accademica. Quale sia la soluzione che si prospetta per colmare
tale iato non è ancora dato vedere, anche se i provvedimenti di riforma della
governance universitaria, in discussione o appena approvati nei tre paesi, sembrano
comunque indicare una consapevolezza dell’esigenza di rimodellare la figura del
rettore secondo contorni di natura più decisamente manageriale.
Bibliografia
Kehm,B.M., Lanzendorf, U. (eds.)
2006 Reforming University Governance. Changing Conditions for research in Four
European Countries, Bonn,Lemmens
Mora, J.G (2003) “La mejora de la eficacia de la ensenanza superior en el nuevo
contexto europeo”, Papeles de Economia espanola, 95
36
37
DINAMICHE INTERNE E RAPPORTI COL MONDO ESTERNO DELLA
GOVERNANCE MODERNA (Fabio Di Pietro)
1 - L’organizzazione dei rapporti centro-periferia nelle istituzioni universitarie
Appare ben comprensibile come le responsabilità di governo di una università
autonoma che viene spinta ad accettare regole di mercato, con in particolare la
crescente competizione tra atenei per la conquista di risorse aggiuntive a quelle
“governative”, siano ovunque avvertite come cruciali e agiscano per un
miglioramento del grado di efficienza dei processi decisionali. Per le stesse ragioni si
richiede una strategia dell’ateneo nei riguardi del mondo esterno secondo un
programma fatto di relazioni con partner di varia natura e di piani di sviluppo
pluriennale. Appare chiara la necessità di un sistema di governance adeguato a tali
compiti. Ad un tempo, le articolazioni tradizionali delle istituzioni universitarie in
aree scientifico-disciplinari, con logiche e procedure differenti, assieme alle tradizioni
di procedimenti democratici e tendenzialmente egualitari, rendono problematica ogni
forma di governance che si ispiri, anche alla lontana, alle prassi aziendali e ai sistemi
manageriali. Le soluzioni che nei diversi atenei vengono sperimentate per
contemperare le diverse esigenze, al fine di ottenere risultati positivi senza
raggiungere livelli troppo accesi di conflittualità, sono abbastanza simili in contesti
tra loro diversi. Da un lato il rettore/presidente viene affiancato da un comitato di
direzione o bureau del Président (in Francia), da una Junta de Gobierno ed equipo
rectoral (Spagna) o Praesidium che in Germania è costituito da pochi membri (prorettori; direttore generale/amministrativo) e che si riunisce di frequente al fine di
mettere a punto la politica dell’ateneo e seguirne la realizzazione.
In Francia il bureau del Président costituisce il gruppo, l’équipe di direzione, intorno
al quale si va costituendo un vero e proprio organo intermedio tra potere esecutivo e
legislativo, quasi strutture “ buffer” tra presidente e consigli centrali. Nell’Université
di Rennes 2, dopo la sua elezione, il Président ha proposto al CA un bureau composto
38
da 3 Vice-Président generali e 5 Vice-Président incaricati di specifiche aree di
pertinenza quali ad esempio relazioni internazionali, risorse tecnologiche ed altre, a
cui si aggiungono il Vice-Président degli studenti, 4 incaricati di missione, il
segretario generale, il capo dei servizi contabili ed il capo del gabinetto e
responsabile di presidenza.
Un caso a parte è invece quello delle Università tecnologiche come l’UTC di
Compiègne, in cui il Président, che qui si chiama Directeur, presiede un comitato di
direzione (direttorio) composto da direttori di dipartimento (detti operazionali) e dai
cosiddetti direttori funzionali. Questi ultimi hanno un ruolo strategico e solo in parte
comparabile con quello assunto dai Vice-Président nel bureau di presidenza di altre
università, in cui essi costituiscono di frequente il nucleo più ristretto dello staff
presidenziale. I direttori funzionali sono tutti “contrattuali”, vale a dire soggetti
reclutati direttamente dal Directeur dell’Università, secondo specifica procedura, a
differenza del restante personale accademico, reclutato secondo la procedura
nazionale di norma. In questo modo i direttori funzionali diventano a tutti gli effetti
uomini di fiducia del Directeur, più interessati ad una carriera manageriale che
accademica tradizionale.
Quanto all’Inghilterra, un buon esempio è rappresentato dall’University of Warwick
dove il “Senate Steering Committee” è costituito dal Vice-Chancellor, il DeputyVice-Chancellor, i cinque Pro-Vice-Chancellor, i presidi dei quattro consigli di
facoltà, il preside della Graduate School e il presidente della Student Union. Il
Committee si riunisce ogni lunedì con la partecipazione anche del Registrar (Direttore
amministrativo) ed è di fatto l’organo che prende le decisioni (e le propone agli
organismi collegiali), ma che anche segue la realizzazione delle decisioni prese,
dunque l’insieme della vita dell’ateneo.
Ma naturalmente la governance non si esaurisce a questo livello. Infatti, il livello di
base si articola nelle diverse aree scientifiche e dunque nelle facoltà e dipartimenti
che fanno capo alle sedi di presentazione delle diverse istanze, in primo luogo il
Senato Accademico e il Consiglio di Amministrazione.
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La logica complessiva è non infrequentemente caratterizzata da una fitta rete di
consultazioni e raccolta di opinioni prima di arrivare (o meglio, di ritornare) al
livello centrale più alto che prende la decisione finale e procede alla realizzazione
dell’iniziativa decisa.
Allo stesso modo funzionano le facoltà ed è questa una delle ragioni per cui i deans
hanno acquistato un ruolo maggiore e più grandi responsabilità. Oggi il potere dei
deans è cresciuto perché le facoltà sono diventate più importanti ed è a questo livello
che si provvede ad esempio a bilanciare le esigenze e l’andamento dei dipartimenti
che fanno capo alle diverse facoltà. Fra gli aspetti di novità c’è anche uno sforzo a
livello centrale di rispettare le diverse strategie dei deans nella gestione delle facoltà
ma altresì di metterli in contatto fra loro allo scopo di rinforzare lo spirito di
appartenenza all’università
Anche nel caso della Spagna il rettore può contare su un proprio gruppo di fiduciari:
esistono così una equipo rectoral, formata da un certo numero di prorettori scelti dal
rettore per compiti specifici, ed un Secretario General, a sua volta nominato dal
rettore, che insieme ai prorettori ed al Gerente ( nominato dal governo) formano la
Junta de Gobierno. Anche in questo caso appare chiara una spinta al prevalere del
governo centrale del rettore rispetto agli organi rappresentativi ed in particolare al
Consejo de Gobierno, specie nelle università generaliste. Ma questo aspetto di
centralismo interno si sviluppa, sempre nel caso delle università generaliste, anche e
soprattutto nel rapporto fra organi centrali e periferici degli atenei. Ciascuna struttura
didattica o di ricerca replica a livello periferico gli organismi presenti a livello
centrale, con un decano o direttore eletto, con elezione diretta o da parte di una Junta,
a sua volta eletta (fa eccezione soltanto il caso degli istituti nella Politecnica di
Valencia, il cui responsabile è nominato dal rettore). Quello che si evidenzia è un uso
di tipo egualitaristico da parte del gruppo rettorale del trattamento ( in termini di
risorse e di rappresentanza negli organi centrali) riservato a strutture didattiche o di
ricerca di peso diverso e tra dipartimenti e strutture didattiche: si tratta palesemente di
una pratica, più forte, diffusa e palese nelle università generaliste, che di fatto appare
40
strumentale ad un disegno di centralismo consensuale volto ad accentuare il potere
del gruppo dirigente a scapito delle decisioni collegiali, pur mantenendo un certo
livello di consultazione di tutte le istanze periferiche. Mettendo tutte le strutture
periferiche della didattica e della ricerca sullo stesso piano, si svuota di fatto il ruolo
delle articolazioni più attive e portatrici di identità più consolidate, che avrebbero
maggiori ragioni per chiedere di condividere le scelte strategiche. Tuttavia occorre
sottolineare che questa modalità produce spesso situazioni di rallentamento, quando
non di stallo e che finisce per disperdere quella nettezza e quella rapidità che sono
tratti essenziali dell’efficacia della presa delle decisioni. Nella Politecnica de
Valencia, invece, questo carattere di centralismo consensuale è ben più limitato,
poiché confligge con strutture molto forti e tendenzialmente autonome (con propri
rapporti- anche finanziari- con il tessuto produttivo ed istituzionale esterno) che sono
bensì consapevoli della propria forza, ma al tempo stesso persuase della necessità di
un governo efficace e non paralizzato da veti incrociati prodotti da egoismi
disciplinari o di facoltà.
In generale, le strutture didattiche delle università spagnole ( scuole e facoltà)
faticano ad avere un peso nei confronti del rettorato ed il processo decisionale è di
tipo top-down, salvo nei casi in cui abbiano un’identità forte ed un altrettanto forte
“mercato” nella formazione ed eventualmente nella vendita di servizi tecnologici: è
quest’ultimo il caso della Politecnica de Valencia. Nel caso dei dipartimenti, si assiste
ad un loro evidente ridimensionamento e si verifica operante, anche nelle tre
università considerate, la previsione della LOU del 2001 che ha teso a svuotarne
progressivamente il ruolo. Particolarmente chiaro appare questo aspetto nella
università tecnica, ove si osserva una moltiplicazione degli istituti o centros, (nuove
strutture di aggregazione dei ricercatori, con una accentuata apertura verso l’esterno,
il cui direttore, secondo lo statuto dell’università, viene nominato dal rettore e non –
come nelle altre università esaminate- eletto dai docenti) e dei gruppi di ricerca in
seno ai dipartimenti, che ne portano a compimento l’effettivo e profondo
ridimensionamento funzionale.
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Nelle due università generaliste spagnole i gruppi appaiono avere il medesimo
effetto, ma la creazione di istituti di ricerca è molto più limitato e per conseguenza
più ambiguo e contraddittorio risulta, infine, lo svuotamento di attribuzioni dei
dipartimenti. In conclusione, pur con importanti differenze fra università generaliste
ed università tecnica, le strutture di ricerca e di servizio di tutti e tre gli atenei
spagnoli considerati sembrano godere di una relativa maggiore autonomia, che nel
caso della Politecnica di Valencia assume persino i contorni di un’impresa autonoma:
in questi casi, appare piuttosto chiaro che il processo decisionale è spesso dal basso
verso l’alto.
Una situazione per alcuni versi simile si registra anche in Italia, ove si ritrova una
dialettica centro-periferia all’interno degli atenei analizzati che, per le università
generaliste, appare largamente improntata ad aspetti di centralismo, a volte anche di
tipo consensuale, come ad esempio nel caso dell’ateneo di Roma 3, che propone
l’immagine di un ateneo guidato “con mano forte” nella sua dialettica interna, che
resta comunque ampia e tocca tutte le istanze che compongono l’università, in modo
che non si arrivi a contrapposizioni laceranti e ad irrigidimenti definitivi. E questo sia
per l’attento lavoro preparatorio che viene effettuato, sia anche per la specifica
tecnica di direzione dell’assemblea negli organi collegiali. Così il rettore, che peraltro
può contare su un tasso di consenso molto elevato (che si basa sull’attenta cura
dell’informazione offerta), esercita il più delle volte una forza propositiva trainante.
E’ invece diverso il caso del Politecnico di Torino, ove le grandi scelte strategiche
sono decise dal rettore ( e dal suo gruppo, che gode di amplissima autonomia sugli
specifici terreni delegati) solo dopo un’attenta informazione ed una consultazione
puntuale delle istanze di maggior peso a livello periferico, mentre queste ultime, che
godono a loro volta di ampia autonomia, tendono ad avere un alto livello di
identificazione con l’istituzione e a far prevalere un atteggiamento universalistico.
Elevata, e forse comparabile al caso spagnolo, appare dunque nel Politecnico di
Torino il livello di autonomia delle diverse strutture ( centri, parchi scientifici ecc.)
che hanno per missione il rapporto con il mondo esterno, il trasferimento delle
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tecnologie ed il passaggio dalla innovazione alla ingegnerizzazione: anche in questo
caso a prevalere è una logica di impresa e, da parte del rettore e del suo gruppo,
appare estremamente limitato, se non nullo, il livello di interferenza sulle scelte.
Nell’Università di Padova sembra svilupparsi una situazione intermedia: lo Statuto
approvato di recente ha creato la ”Consulta dei direttori dei dottorati di ricerca”e la
“Consulta dei direttori delle scuole di Specializzazione di Area Medica” che si
aggiungono alle “Commissioni Scientifiche di Area”, la”Commissione Scientifica di
Ateneo”, la “Commissione -Didattica di Ateneo” e il Consiglio degli studenti”,entità
già contenute nello statuto precedente. Emerge dunque la tendenza a moltiplicare le
strutture collegiali destinate alla aggregazione degli interessi settoriali e alla
traduzione ai livelli maggiori delle istanze di base.
D’altro canto, lo Statuto dell’Ateneo sottolinea l’autonomia gestionale delle Facoltà
[taglio]e dei Dipartimenti. Particolarmente significativa appare l’attribuzione
statutaria al Dipartimento del compito di concorrere all’organizzazione delle attività
di insegnamento dell’Ateneo e di avanzare proposte alle Facoltà circa l’istituzione,
destinazione e modalità di copertura dei posti di professore e ricercatore e, altresì, di
organizzare Corsi di formazione e aggiornamento del personale tecnicoamministrativo.
Nel caso patavino, si può dunque sostenere che tra le intenzioni del rettore e dei suoi
più stretti collaboratori ci sia stata quella di decentrare il più possibile l’apparato
centrale sia dal punto di vista amministrativo sia per quello che riguarda i centri
decisionali. Questo ha comportato un proliferazione di centri decisionali o di
consultazione: ad esempio prima di ogni riunione del Senato si riuniscono il collegio
dei presidi e la consulta dei direttori di dipartimento; e tuttavia sembra evidente
l’intenzione di coinvolgere nel processo di presa delle decisioni il maggior numero
possibile dei diretti interessati. Ci si può peraltro domandare se all’interno di questo
sistema di delega diffusa le decisioni siano davvero sempre compartecipate.
In diversi contesti la tendenza a fornire occasioni di rappresentazione delle proprie
esigenze produce un allargamento del numero dei membri dei Senati Accademici o
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comunque degli organismi di rappresentanza delle diverse componenti scientifico
disciplinari. Specialmente nelle università generaliste si evidenzia la necessità di
suddividere i lavori in commissioni. A ciò si aggiungono organismi di consultazione
che – come si è appena visto nel caso dell’Università di Padova - mirano a coordinare
di presidi di facoltà e i direttori di dipartimento nel tentativo di omogeneizzare le loro
strategie operative e conseguentemente le richieste nei riguardi degli organismi
centrali di ateneo.
Ne risulta quindi un ruolo cruciale dei presidi di facoltà e dei direttori di
dipartimento: ruolo soggetto a diverse pressioni. Da un lato, le esigenze di
governance e di espressione di una politica di ateneo tendono a limitarne l’impatto
nei momenti finali del processo decisionale. Dall’altro, i rettori hanno sovente
bisogno di avere nei presidi dei sostenitori delle loro politiche.
In Germania i presidi sembrano conoscere un rafforzamento piuttosto modesto delle loro prerogative. Sono chiamati a prendere più iniziative rispetto al passato, ad esempio quelle di promozione esterna della facoltà o di negoziazione con i Rettori. Non hanno, però, praticamente alcuna leva per far valere i propri indirizzi, per imporre una strategia ai colleghi, soprattutto perché i loro margini di controllo sulle risorse umane e organizzative di facoltà sono scarsissimi. Non hanno il bastone per piegare i colleghi alle proprie decisioni, ma neppure le carote per convincerli con le buone. Rimane loro, quindi, un ruolo di mediazione. Se alcuni Presidi “di buona volontà” si avvalgono delle crescenti possibilità d’iniziativa che spettano loro e si adoperano per costruire questo consenso, ma la gran parte si limita all’ordinaria amministrazione, cercando di perdere meno tempo possibile.
Non stupisce quindi che nella stessa situazione tedesca il ruolo non sia molto
ambito, prevalentemente per la difficoltà di esercitarlo a fronte delle pressioni
provenienti dai colleghi rappresentati e della indipendenza acquisita dai dipartimenti.
Questi ultimi, dal canto loro, godono ovunque della rilevanza crescente della ricerca
all’interno dell’università. Ne deriva una maggiore autonomia dei dipartimenti ma
44
anche, in alcuni casi, la loro difficoltà interna a coordinare i diversi gruppi di ricerca
che tendono a loro volta ad autonomizzarsi.
Nel complesso la posizione del middle management appare contraddittoria e in fase
di revisione dei propri ruoli. Collocato in posizione intermedia tra corpo docente e
direzione dell’ateneo deve associarsi a quest’ultima nelle politiche complessive e
deve altresì farsi tramite e difendere le richieste del proprio settore, ma ad un tempo
giustificare ai propri rappresentati le decisioni non sempre favorevoli assunte dal
vertice.
Problema ben evidenziato in Francia, soprattutto nei due atenei generalisti (Rennes 2
e URCA di Reims), dove la forza del middle management è molto correlata alla
capacità dei soggetti di staccarsi, almeno relativamente, da logiche prettamente di
facoltà e dal peso, per la verità sempre meno efficace in diversi contesti, di alcuni
potenti decani (mandarinati), per abbracciare la visione complessiva dell’ateneo. Ma
il ruolo dei presidi di facoltà (i cosiddetti direttori di UFR – Unité de Formation et
Recherche) in questa dinamica è ambiguo: essi partecipano alle riunioni del bureau,
ma come invitati e non come membri formali.
Presso l’Université di Reims Champagne-Ardenne, pluridisciplinare ed estesa al
livello regionale, è interessante notare come, a fronte di una situazione di resistenza
soprattutto da parte delle facoltà scientifiche, e di una relazione negoziale permanente
del middle management (direttori di facoltà) con la presidenza, si è realizzata una
linea presidenzialista, che ha razionalizzato la ricerca intorno a 5 poli ed allo stesso
tempo ha costituito la figura del responsabile di polo, espressione di un middle
management sui generis. In sostanza, la politica di ricerca, definita dal Consiglio
Scientifico, è messa in opera, sotto l’autorità del Président, dai Vice-Président, che
s’appoggiano a loro volta su 5 responsabili, incaricati di missione dal Président con la
funzione di rappresentare i grandi poli tematici intorno ai quali si articola l’attività di
ricerca. Il sistema dei poli risulta così assolutamente centrale nella governance di
questa università, al fine di garantire un controllo ed uno sviluppo strategico della
ricerca che rispondano ad un disegno complessivo d’ateneo piuttosto che a logiche ed
45
interessi eccessivamente legati alle UFR. Da qui una posizione oggettivamente
scomoda dei responsabili dei poli, tra politica centrale e presidenziale da una parte e
dall’altra singole unità di ricerca che tentano di scavalcare i passaggi gerarchici e di
gestire autonomamente i rapporti con i soggetti esterni.
In Spagna il middle management si conferma sostanzialmente espressione della
propria base elettiva: in tutte le università prese in esame non appare verificata
l’ipotesi di una crescita del ruolo manageriale e di un distacco tendenziale dalla
propria base accademica. In media, decani e direttori appaiono scarsamente dotati di
capacità gestionali e nei casi in cui questo avviene appare piuttosto il risultato di una
cultura della struttura e di una pressione dal basso che non l’effetto di una richiesta
dal centro rettorale. Del resto, nonostante il centro rettorale faccia formalmente
mostra di tenere in gran conto il loro parere, in realtà il loro peso nelle scelte
strategiche dell’ateneo è ben modesto. Tutti i casi analizzati sembrano confermare un
forte attaccamento del decano o direttore alla propria base accademica di facoltà,
escuela, istituto o dipartimento, le diversità semmai articolandosi a partire dalla
identità e dalla dimensione della struttura di riferimento: quando l’identità è forte e la
rilevanza, in termini di ricerca o formazione o servizi, è cospicua, il direttore o
decano tende sostanzialmente ad ignorare il centro rettorale; quando la struttura è
debole, sembra piuttosto che il decano o direttore finisca per essere ignorato dal
centro di governo rettorale.
Per contro, nelle università italiane il ripensamento circa i ruoli del middle
management tarda a svilupparsi dal momento che il tema della governance resta
legato alla dialettica rettore-senato accademico-consiglio di amministrazione. E’ pur
vero che il senato non è più costituito dai soli presidi di facoltà ma resta che al rettore
compete ancora largamente il ruolo di mediatore tra gli interessi disciplinari
rapresentati dalle facoltà (e in misura minore dai dipartimenti). Le ipotesi di riforma
in discussione prevedono un aumento dei poteri di iniziativa e decisionali, con
l’accrescimento parallelo dei poteri del direttore amministrativo (o direttore generale)
ma del ruolo dei presidi di facoltà e dei direttori di dipartimento non si parla
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esplicitamente, il nodo cruciale essendo piuttosto quello della presenza o meno dei
membri “laici”nei consigli di amministrazione.
2 - Gli organi collegiali e il rapporto con gli stakeholders
Nel processo di trasformazione della governance universitaria un elemento di
profonda criticità risiede nel ruolo assunto in alcuni casi dai membri laici nel CdA o
in altre strutture gestionali di nuova creazione.
Il modello di riferimento in questi casi è quello inglese, dove gli organi di
consulenza, indirizzo e sostegno esterno sono cruciali per la governance delle
università. Così il Council (a maggioranza “laica”) dell’University of Warwick ha
specifiche responsabilità nel campo finanziario, oltre a rappresentare l’università sul
piano legale e a valutarne i programmi strategici, a nominare il Vice-Chancellor (ed
eventualmente revocarlo), a nominare il Registrar e garantire il corretto
funzionamento delle iniziative dell’ateneo, ma altresì a fornire indirettamente un
canale di collegamento ad alto livello tra Università e mondo economico (locale,
nazionale e internazionale) grazie alle cariche sociali occupate dai suoi membri.
Analoghe considerazioni si possono fare per il Board of Governors della Coventry
University (almeno la metà dei suoi membri devono essere non-accademici), e per il
Council dell’University of Bristol (composto da 26 membri di cui solo 6 accademici).
In Spagna sono le Comunità autonome a regolare la composizione del Consejo Social
(che ha compiti di supervisione strategica in materia economico-finanziaria) e il
numero dei suoi membri non-accademici che rappresentano comunque la
maggioranza (34 su 40).
Nel sistema iberico peraltro si può addirittura affermare che negli anni vi sia stato un
progressivo regresso rispetto alla sensibilità anticipatrice espressa riguardo
all’esigenza della presenza di “membri laici” già dalla LRU-Ley de Reforma
Universitaria del 1983 con l’obbligo della istituzione presso ogni ateneo di un
apposito Consejo Social con ampie funzioni consultive e con specifici poteri
47
deliberativi in materia di bilancio. La LOU del 2001 recepisce infatti la diffusa
consapevolezza del mancato funzionamento di questi organi, riducendone largamente
le funzioni e relegandoli ad un ruolo consultivo ed opzionale e la Ley de Reforma
della LRU del 2007 non sembra imboccare in merito una direzione capace di
consentire una rivitalizzazione di queste strutture. Questa paralisi del Consejo Social
si evidenzia in tutte e tre le università spagnole esaminate. Emerge una enorme
difficoltà di presenza e di voice degli stakeholders nelle sedi ufficialmente previste a
tale scopo: il Consejo Social appare un organismo in palese declino e non sono alle
viste nuove strutture cui delegare compiti analoghi di raccordo complessivo fra
università e società. Ma qui si evidenzia ancora una volta una forte differenza fra le
due università generaliste e l’università tecnica: quest’ ultima ha creato una varietà di
istituti, centri, parchi tecnologici e strutture che, pur avendo ciascuna un compito
definito e non paragonabile a quello complessivo che si prevedeva originariamente
per il CS nella LRU, sommate tutte assieme sembrano perfettamente in grado di
rendere vivo ed operante il dialogo con la società. Anzi, si può affermare che nell’
università tecnica il Consejo Social non funziona perché in definitiva non ce ne è
bisogno, non serve una struttura come questa per rispondere alle domande della
società. Diverso è il caso delle università generaliste, ove il declino -o, sarebbe
meglio dire, il mancato decollo- del Consejo Social non trova che sostituti parziali e
temporanei. Così, anche il dialogo università – società risulta essere, a sua volta,
parziale e temporaneo e, più in generale, molto frammentato e dunque i rischi di
separatezza fra domanda ed offerta di alta formazione, come fra ricerca e servizi,
sono assai elevati e non trovano soluzione, allo stato, in strutture interne agli atenei.
Nelle due università generaliste una funzione parzialmente vicaria del Consejo Social
viene svolta dalle Fondazioni, che operano come strutture laterali degli atenei per
intrattenere rapporti col mercato in condizioni meno vincolate di quelle concesse dal
regime giuridico cui sono sottoposte le università (le legge della Comunitat
Valenciana impedisce la creazione di fondazioni, ma la PV ha trovato, come detto,
ben altre e più efficaci soluzioni nella costruzione di una vasta rete di istituti e centri):
48
tuttavia, quanto emerge dall’indagine di campo sembra mettere in evidenza di queste
strutture più il ruolo di strumento per l’elusione delle rigide norme pubblicistiche che
vincolano le università che non quello di facilitare i rapporti con l’esterno.
Nel sistema francese la nuova legge riduce il numero complessivo dei membri del CA
ed aumenta l’incidenza percentuale dei membri laici rispetto alla rappresentanza
interna: il consiglio d’amministrazione passa da un numero che oscillava da 30 a 60
membri (ma per lo più attestato su quest’ultimo valore) a un numero che va dai 20 ad
un massimo di 30 componenti; inoltre accresce i propri poteri: può creare
direttamente UFR, definire principi generali di ripartizione dei compiti di servizio del
personale e proporre nomine dopo avviso del comitato di selezione.
Tuttavia, il ruolo delle personalità esterne, almeno nella fase precedente alle
trasformazioni del CA apportate della nuova legge, sembra ben poco rilevante sia
nell’Université di Rennes 2 che presso l’URCA di Reims: si tratta di una funzione
piuttosto limitata e poco determinante, anche perché scarsamente esercitata, sia per la
frequente diserzione alle riunioni dei consigli, sia per la qualità, spesso dubbia, degli
eventuali interventi. Ben diversa invece la situazione all’UTC di Compiègne: i
membri laici sono personalità esterne autorevoli e molto presenti, peraltro decisive
nella governance dell’università nella sede del CA, che è per l’appunto presieduto da
una di esse (viene dai vertici della casa automobilistica Renault) e non dal Directeur /
Presidente.
Per contro, il modello inglese non trova, al momento, particolari consensi soprattutto
in Germania e in Italia. Nei due sistemi le resistenze alla partecipazione dei
rappresentanti della società alla vita e ai processi decisionali dell’università si
conferma molto solida al di là degli aspetti formali.
In Germania gli Universitätsrat non sembrano aver dato un buon risultato. Questo
organo, introdotto dai Länder allo scopo di controllare l’operato dei rettori e dei
cancellieri e composto da membri sia accademici che esterni nelle tre università
analizzate (ma teoricamente anche da soli membri “laici”), non ha nei fatti funzionato
con efficacia, vuoi per lo scarso interesse a parteciparvi dimostrato dai membri
49
esterni, sovente peraltro non dotati della necessarie competenze per svolgere un ruolo
effettivo di controllo, vuoi per il meccanismo di nomina degli stessi che è messo in
atto dal rettore, cioè da chi dovrebbe essere controllato. A ciò va aggiunta la
resistenza di tipo culturale assai diffusa nel mondo accademico tedesco nei riguardi
dei membri laici, ritenuti non in grado di comprendere le logiche accademiche.
Solo ad Heidelberg il precedente Universitätsrat, presieduto da un intraprendente imprenditore, aveva realmente tentato di “cambiare le cose”, e dunque di incidere davvero sulla gestione dell’Ateneo. Questo aveva prodotto momenti di forte tensione, specialmente da parte del Senato. Anche in altri Atenei tedeschi, secondo alcuni intervistati, gli scontri col Senato non sono mancati, sino a giungere talora alla paralisi decisionale (è il caso di un’università dove l’Universitätsrat pretendeva di avere l’ultima parola sulla nomina del Rettore successivo, prerogativa non riconosciutagli dal Senato accademico). Ad Heidelberg, quando il mandato del precedente, combattivo Rat è scaduto, il Rettore ha optato per nomine più avvedute, scegliendo membri esterni più accomodanti: la situazione è rapidamente cambiata, le tensioni sono diminuite e quest’organo ha assunto la funzione simbolica che riveste tuttora. Interrogati sulla situazione passata, gli intervistati dei due atenei berlinesi riportano invece un esito paradossale: le capacità reali di controllo di quest’organo erano maggiori anni addietro, quando nel vecchio assetto centralistico esso funzionava come rappresentante diretto del Land. I suoi membri erano per questo nominati direttamente dal Ministro (del Land) e comprendevano politici, sindacalisti, funzionari del Ministero: persone competenti e decise a controllare a fondo l’operato degli Atenei.
Analogamente nelle università italiane i membri “laici” dei CdA hanno per lo più
rivelato sia lo scarso interesse sia la modesta competenza nei riguardi delle
problematiche universitarie. Anche qui come nelle università tedesche i loro ruoli
sono apparsi per lo più di tipo onorifico. Nella maggior parte dei casi le figure
rappresentative delle istituzioni pubbliche o private invitate a far parte del Consiglio
50
si sono fatte sostituire da propri sottoposti che hanno svolto ruoli di scarsa o nessuna
rilevanza nei processi decisionali di competenza, del resto con generale soddisfazione
da parte dei rappresentanti il mondo accademico. E’ di qualche interesse rilevare
come in alcune situazioni italiane i rettori abbiano pensato di escludere i “laici” dai
CdA e di creare un comitato di consulenza esterno costituito interamente o
prevalentemente da rappresentanti del mondo economico e politico-sociale locale. E’
il caso dell’Università di Padova dove è in via di costituzione una “Consulta del
territorio”. Dal canto suo, l’Università di Roma Tre ha deciso di non inserire membri
laici nel proprio CdA ma di servirsi, caso per caso, di consulenze esterne su temi
specifici, ritenendo inefficace il contributo di stabili membri laici.
Quanto ai membri “laici” nel CdA del Politecnico di Torino, sebbene in alcuni pochi
casi specifici, dove riescono a mettere in gioco competenze particolari, siano
abbastanza attivi, nei restanti casi se ne registra il silenzio o l’assenza. Il CdA si
riunisce una volta ogni mese, mese e mezzo e le commissioni lo precedono, ma con
qualche maggiore intensità ( in media, due commissioni per ogni sessione di CdA).
E’ tuttavia piuttosto raro che vi sia la presenza degli esterni in questi lavori di
commissione e così finisce che, anche quando intervengono nelle discussioni
plenarie, il loro apporto finisca per cadere un po’ nel vuoto, avendo mancato tutto il
lavoro preparatorio delle commissioni. D’altra parte, è logico pensare che, trattandosi
di soggetti prevalentemente impegnati in altri campi – e per di più campi che
richiedono spesso molto lavoro e presenza - non sia semplice richiedere anche una
prestazione intensa nella veste di membri del CdA, con l’effetto che la presenza di
stakeholders esterni nell’organo competente in materia economico-finanziaria appare
alquanto deludente.
51
Articolo D
LIVELLI DI AUTONOMIA E STRUTTURE DI GOVERNO DEGLI ATENEI
(Stefano Boffo)
1 – Tra decisionismo e condivisione
Un interrogativo che, al termine di quanto sin qui analizzato, può essere utile porsi in
termini riassuntivi riguarda la prevalenza di una struttura verticale ovvero orizzontale
di presa della decisione nella articolazione della governance delle università qui
considerate.
Da un lato, il rafforzamento dei ruoli monocratici a scapito degli organi collegiali (del
rettore nei riguardi del Senato, in particolare) appare evidente negli atenei
appartenenti ai diversi sistemi dell’Europa continentale inclusi nella ricerca. Si
diffondono gli organismi di consulenza del rettore sotto forma di giunte esecutive
ispirate al modello inglese e rappresentanti una parte della governance di un ateneo
autonomo che si pone in competizione con altre istituzioni secondo logiche di
mercato. L’evoluzione avviene sia in via formale (nelle università francesi o spagnole
o tedesche) sia in via informale (le italiane). Ma se il riferimento è quello del modello
inglese, alla sua realizzazione manca in tutti questi paesi un ruolo effettivo dei
rappresentanti degli interessi esterni, che non svolgono una reale funzione nel
Consigli di amministrazione.
D’altro canto, la realtà delle pratiche di governo è costituita da una mediazione tra le
logiche di governance manageriale e quelle tradizionali della compartecipazione alle
politiche istituzionali attraverso la moltiplicazione delle occasioni di incontro,
confronto, coordinamento, a livello intermedio e di base che coinvolgono i diversi
attori del mondo accademico e che servono a mettere in comune le esigenze e i
progetti politici delle diverse aree allo scopo di raggiungere una progressiva riduzione
delle differenze interne. Il meccanismo, nelle università dell’Europa continentale, non
sembra ancora funzionare nella forma circolare in atto negli atenei inglesi, dove le
proposte di politica istituzionale, se nascono dalla “cupola”di vertice vengono poi
52
proposte ai livelli inferiori perché vengano esaminate, discusse e rimandate al vertice
che poi decide senza poter essere criticato per eccesso di autoritarismo: un’accusa che
i rettori intendono in particolare evitare. Tuttavia, anche negli atenei continentali il
procedimento di presa delle decisioni con responsabilità finale dei vertici sembra
venire sempre più accettato dal mondo accademico. Per contro, una modalità che
suscita qualche critica riguarda le procedure di raggiungimento delle decisioni
(segnalate diffusamente nelle interviste al personale docente delle diverse università)
che risultano spesso molto informali e dunque tali da ridurre il rilievo effettivo degli
organi collegiali (Senato e CdA), dove sembra ci si limiti frequentemente a ratificare
quanto deciso “nei corridoi”.
Emerge nel complesso una combinazione di elementi di decisionismo di vertice
(verticalizzazione) e di condivisione delle problematiche a livello di base
(orizzontalizzazione). Questi elementi si combinano in proporzioni diverse in
relazione ad alcuni aspetti organizzativi, come l’elezione o la nomina di alcune figure
della governance, ovvero a seconda dell’articolazione delle componenti interne alle
università (numerosità delle aree disciplinari), o ancora in relazione alla prevalenza
delle discipline orientate o meno al mondo esterno e quindi della ricerca applicata,
come è il caso delle università tecniche incontrate nella ricerca.
Il caso spagnolo sembra illustrare questa situazione in un modo peculiare: il rettore ed
il suo gruppo dimostrano di aver acquisito un ruolo di maggior peso rispetto al
passato ed in tal senso si deve presumere che gli effetti del rafforzamento del potere
del rettore voluto dalle due leggi di riforma universitaria promulgate in questa prima
decade del nuovo millennio ( LOU del 2001 ed Ley de Reforma dellaLOU del 2007)
si siano fatti sentire attraverso tendenze, più o meno marcate, al rafforzamento del
ruolo dell’organo monocratico. Un ruolo che si accresce anche attraverso il dialogo
intessuto con il Consejo de Gobierno ( il supremo organo di governo collegiale
dell’università, che dovrebbe stabilirne le linee strategico-programmatiche): organo
che in sé autonomamente non risulta particolarmente attivo, ma viene attivato proprio
dal rapporto con il rettore e la sua équipe, che cercano in questa relazione una fonte di
53
legittimazione ulteriore, di rafforzamento del proprio potere e di facilitazione della
propria azione. In tutte e tre le istituzioni universitarie spagnole analizzate, questo
gruppo centrale sembra muoversi dentro due binari, non contradditori, costituiti dalla
volontà di affermare le proprie volontà e di decidere all’interno di un elevato livello
di ricerca del consenso, secondo le linee di quello che si può definire decisionismo
consensuale. Una buona illustrazione di questo punto è costituita dal Piano strategico
che ogni ateneo ha redatto su impulso del rettore: esso viene infatti costruito con il
contributo di molti settori dell’università, ma anche rispecchiando il programma
elettorale del rettorato: così, esso è uno strumento di captazione del consenso ma, una
volta redatto, è anche una barriera che si frappone al libero e casuale dispiegarsi delle
richieste degli accademici. La strutturazione in commissioni del Consejo de Gobierno
sembra favorire perfettamente un disegno che potremmo definire appunto di
centralismo consensuale. Con essa infatti il rettore può affermare la volontà sua e del
gruppo che si struttura attorno a lui, potendo “cucinare” le questioni più scottanti in
un iter, lungo a piacere, fatto di discussioni nella Junta e successivamente nelle
diverse articolazioni organizzative del Consejo (sempre presiedute dal rettore stesso o
da un membro della sua equipo, così da imporre ordini del giorno, apertura e
aggiornamenti di sedute, ordini degli interventi e così via, indirizzando la
discussione). Talché quest’ultimo si trova a decidere di soluzioni su cui si sono già
abbondantemente espresse ( per lo più,come detto, risultando “pilotate” dal rettore e
dal suo gruppo) diverse istanze e che risulta difficile smentire.
2. – Il governo delle università tecniche
Un caso di particolare interesse è quello delle università tecniche. Infatti i processi
decisionali della Technische Universität Berlin, dell’Université de Compiègne, come
della Universitad Politecnica di Valencia o del Politecnico di Torino sono apparsi
maggiormente efficienti e “operativi” delle consorelle università nei rispettivi sistemi
d’istruzione superiore. Si può anzi affermare che l’indagine di campo sembra far
emergere alcune caratteristiche che convergono nel delineare, se non un modello di
54
governance omogeneo e specifico delle università tecniche, quanto meno molti forti
elementi di similitudine che concorrono a caratterizzare una specifica tipologia di
governance se non altro per differenza rispetto alle università generaliste. Il primo
elemento attiene alla diversa – e ben più profonda- identità istituzionale diffusa fra gli
accademici delle università tecniche, che esprimono una propensione assai maggiore,
rispetto ai colleghi delle generaliste, ad identificarsi con la propria istituzione
universitaria piuttosto che disperdersi nei recinti disciplinari di appartenenza. Un
secondo elemento ha natura, per così dire, oggettiva e si riferisce alla composizione
del budget di un’università tecnica, che nei casi esaminati risulta dipendere molto
meno, rispetto a quello di un ateneo generalista, dalla contribuzione statale o
regionale. E’ chiaro come questo tipo di composizione del budget consenta molta più
agilità di movimento ed autonomia in relazione alle tendenze centralistiche dei
ministeri.
Al medesimo tempo, questa ridotta dipendenza dalla contribuzione pubblica
testimonia anche dell’esistenza di una trama di relazioni con i soggetti esterni (gli
stakeholders appartenenti al tessuto produttivo ed istituzionale) ben più fitta di quanto
non avvenga nelle università generaliste. In tal modo, anche quando non vi siano
formali presenze di questi ultimi dentro agli organismi di governance dell’ateneo,
viene garantito, in forme più elastiche e certamente più attive, un rapporto costante
con la domanda esterna che mette l’ateneo al riparo dai rischi di ridursi ad una “torre
d’avorio”, come invece accade, almeno in parte, fra le università generaliste. Non è
dunque per un caso che poi questi atenei tecnici si dimostrino capaci di produrre una
larga varietà di strutture in qualche modo coinvolte nei rapporti col mondo esterno e
gestite per lo più in fortissima autonomia rispetto alla stessa governance centrale
dell’istituzione, tanto da assumere spesso i caratteri di una impresa autonoma: istituti,
fondazioni, parchi scientifici, strutture di spin-off, centri di trasferimento tecnologico,
organismi di seed e venture capital. E, assieme a ciò, in tutte le università tecniche si
evidenzia anche una significativa autonomia delle strutture periferiche ( facoltà,
dipartimenti, istituti), più accentuata nel caso della ricerca, ma comunque chiara
55
anche per le strutture didattiche: in ambedue i casi, queste strutture hanno comunque
un ruolo “pesante” ed un potere maggiore in rapporto alla governance centrale
dell’istituzione, che difficilmente può quindi seguire ruoli autocratici del rettore e
derive centralistiche o comunque eccessivamente irrispettose del lavoro collegiale nel
rapporto centro-periferia. Tuttavia ciò non produce affatto, come accade in alcune
università generaliste quando il peso delle strutture periferiche è forte, una
governance paralizzata da un irrisolto rapporto con le strutture periferiche né rettori
incapaci di prendere e far implementare decisioni. Al contrario, da situazioni come
quelle sopra delineate risulta un governo più efficace dell’istituzione, proprio perché
il forte valore dell’identità istituzionale fa premio su tutti i particolarismi disciplinari,
consapevoli comunque che la loro voce ed il loro interesse non possono soverchiare
quelli dell’istituzione nel suo complesso e saranno comunque tenute in debito conto.
Va segnalato, d’altro canto, come si tratti in molti casi di atenei costituiti da poche
aree disciplinari fra loro abbastanza omogenee e con una prevalenza del peso delle
scienze dure applicate. Questo dato ovviamente aiuta l’elaborazione di reali politiche
di ateneo e la loro concreta realizzazione.
3 – Governare l’università nel cambiamento
Nel complesso, si può considerare il tema della governance delle università
all’interno del più ampio processo di evoluzione dei sistemi d’istruzione superiore
che in Europa ha come punto cruciale la trasformazione delle relazioni tra stato e
atenei, rappresentata in particolare dalle nuove forme di autonomia e di verifica delle
prestazioni.
L’autonomia ha cambiato forma, specie nei sistemi centralistici di origine
napoleonica, e spinge alla ricerca di risorse aggiuntive con la conseguente
competizione fra atenei che a sua volta crea una situazione di mercato in varia misura
condizionata (stimolata e limitata) dall’intervento dello stato. Questa nuova
situazione è presente da più tempo in Gran Bretagna, dove è stata metabolizzata
meglio (sebbene non senza problemi) anche in virtù della tradizione di autonomia
56
delle università inglesi, tal ché la difficoltà è consistita nella riduzione del potere di
autogestione accademica in favore dell’intervento (finanziario-valutativo) dello stato.
Nei sistemi d’istruzione superiore dell’Europa continentale questo nuovo tipo di
autonomia è più recente e le conseguenze che ne sono derivate hanno incontrato
maggiori resistenze. Gli esempi di simili difficoltà di adeguamento sono molteplici
nei vari sistemi, così come diverse risultano le reazioni del personale accademico,
anche all’interno del medesimo sistema, a seconda degli atenei.
Come caso esemplare di particolare rilevanza si possono al riguardo segnalare gli
ostacoli certamente non trascurabili che tale modello (oggi identificato come di
origine anglosassone) incontra in particolare in Spagna come in Italia. Nei due paesi,
infatti, il passaggio all’autonomia istituzionale non riesce ancora ad essere
accompagnato da un’affermazione delle tendenze pur ormai presenti in altri sistemi
europei dove esiste da tempo, o si è affermato nell’ultimo decennio, un modello
largamente autonomistico: sono ancora insufficienti, infatti, sia una crescita effettiva
della competitività fra istituzioni sia la diversificazione delle fonti di finanziamento,
mentre ancora inadeguati risultano il livello di responsabilità sociale dell’istituzione
ed anche la forza e l’influenza della domanda di istruzione, ricerca e servizi
universitari [Mora ,Vidal 1998; Mora 2003]. Si oppone all’affermarsi di queste
tendenze una ragione che, fa parte del bagaglio tradizionale delle università spagnole
[Garcia-Garrido 1992] ed italiane [Moscati 2004], e che può essere riassunta nella
mancanza di una tradizione di appartenenza e servizio alla comunità istituzionale,
attraverso cui il personale accademico cessi di considerarsi unicamente come parte di
una disciplina o di un corpo di pubblici funzionari per vedersi anche come parte di
un’istituzione che si rivolge alla propria comunità. Questo aspetto è, in Spagna come
in Italia, aggravato dalla mancanza di una politica dell’istruzione superiore a livello
regionale, che ha reso ancora più difficile l’identificazione con la propria istituzione e
con la propria comunità di riferimento [Mora 2006]. Tutto ciò serve forse anche a
spiegare perché l’analisi di campo effettuata non ha potuto evidenziare né in Spagna
né in Italia, salvo che per le università tecniche, visibili politiche istituzionali capaci
57
di caratterizzare autonomamente l’ateneo, tanto nel contesto interno quanto nella sua
attività nei confronti del tessuto economico e sociale di riferimento.
La combinazione fra questi aspetti sembra evidenziare, soprattutto negli atenei
generalisti italiani e spagnoli, una sostanziale mancanza di capacità di dare impulso a
quella positiva riforma della governance istituzionale che pure la condizione di
autonomia di cui godono potrebbe consentire e che sarebbe una fondamentale
condizione per una loro vera trasformazione. Anzi, la mancanza di una iniziativa in
quella direzione finisce per influenzare l’efficacia delle trasformazioni realizzate in
altri settori: anche nel campo dove maggiori sono le novità operate negli ultimi anni,
quello della riforma dei curricoli e della revisione dei corsi di laurea, c’è infatti da
dubitare che si possa arrivare ad una soluzione capace di farne dispiegare appieno
tutti gli effetti potenziali, senza por mano anche ai problemi di governance, sin qui
trascurati .
Da quanto segnalato si può osservare come anche la governance delle università si
sviluppi secondo varie modalità a seconda delle caratteristiche del sistema di
appartenenza, dei gradi di libertà di cui godono gli atenei, del tipo di controllo
esercitato dallo stato e delle interpretazioni delle nuove situazioni fornite dagli attori
in esse coinvolti.
Così, caso per caso, esistono o meno politiche ben definite di ateneo, e si sviluppano
modi di esercitare il governo a seconda delle dinamiche che si mettono in atto tra
rettore e organi collegiali. Entrano in gioco le personalità dei soggetti, la loro
interpretazione dei rispettivi ruoli professionali e il grado di condivisione delle
finalità dell’istituzione di appartenenza (come si è visto nelle differenze tra università
generaliste e università tecniche).
La ricerca ha cercato di evidenziare i processi di cambiamento in atto mirando a far
emergere, come si è detto, le differenze – a livello di ateneo - tra il sistema
anglosassone e quelli dell’Europa continentale. Due degli aspetti di novità emersi,
rappresentati dai ruoli effettivi dei membri non accademici nei Consigli di
amministrazione e dalla possibile nascita di una carriera “politica” dei capi d’istituto
58
(rettori ed equivalenti, eletti o nominati), appaiono particolarmente delicati ed oggetto
di forti resistenze da parte degli accademici.
L’analisi delle forme di governance a livello di ateneo ha comportato la
considerazione sia del livello istituzionale (l’organizzazione dell’università) sia del
livello soggettivo (la realizzazione fattuale della vita dell’università). Ha consentito
dunque di verificare gli effetti dell’impatto della dimensione normativa (le regole
scritte dei sistemi d’istruzione superiore), sulle forme organizzate delle singole
istituzioni universitarie, a loro volta frutto dell’interpretazione delle situazioni da
parte degli attori nei diversi ruoli, di responsabilità e governo dell’istituzione o di
semplici membri della collettività accademica.
Da questo intreccio emerge, ancora una volta, come i sistemi restino legati alle
interpretazioni (le “definizioni della situazione”) dei soggetti che li realizzano. Nello
specifico, nonostante i nuovi vincoli, nel mondo accademico appare contare sempre
molto la libertà d’insegnamento e di ricerca. L’elemento d’incertezza risiede semmai
nella condivisione delle finalità dell’istruzione superiore. Ma è noto come la
realizzazione delle riforme nei sistemi d’istruzione superiore siano rese complicate e
incerte dalla quantità di attori operanti in larga autonomia e dal carattere diffuso
dell’autorità all’interno delle strutture [Cherych,Sabatier 1986]. Ne deriva che
l’evoluzione dei processi qui presi in considerazione non può (potrà) che essere
caratterizzata da una combinazione di traguardi solo in parte raggiunti o del tutto
mancati, come di effetti inaspettati e di sviluppi non preventivati. Da qui la dinamica
spesso non coerente e non lineare delle diverse forme di organizzazione accademica e
di governance delle università che complessivamente emerge dalla ricerca.
Bibliografia
Cerych, L.,Sabatier,P.
1986 Great Expectations and Mixed performances. The implementation of higher
education reforms in Europe, Trentham, Trentham Books
59
Garcia-Garrido, J.L. (1992) “Spain”, in: Clark, B. e Neave, G. (eds.) Enciclopedia of
Higher Education, Oxford, Pergamon Press
Mora, J.G (2003) “La mejora de la eficacia de la ensenanza superior en el vnuevo
contexto europeo”, Papeles de Economia espanola, 95
Mora, J. G. (2006) “Spain”, in Forest, J.F. e Altbach, P.( eds) International
Handbook of Higher –Education, Amsterdam, Springer
Mora, J.G. e Vidal, J. (1998) “Introducing Quality Assurance in Spanish Education”,
in Gaiher, J. (ed.) Quality Assurance In Higher Education: New directions in
Institutional Research, San Francisco, Jossey Bass
Moscati,R.
2004 Università, in Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia del Novecento,
supplemento III, Roma, pp.558-571
60

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