Il ruolo di Eva nel mir antico-russo

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Il ruolo di Eva nel mir antico-russo
Il ruolo di Eva nel mir antico-russo
di Aldo C. MARTURANO, ©2006
Siamo partiti entusiasti dalla conclusione di Marianne Weber che nel 1907 in base alle sue ricerche sulla
storia antico-russa affermava (La Sposa e la Madre nell’evoluzione del Diritto): “L’asservimento della donna è
massimo proprio lì dove la forma generale dell’attività di produzione economica rurale è rappresentata dalla
famiglia allargata: La grande famiglia russa e la zadruga slava!” Volendo verificare questo stato di cose ci
siamo poi accorti che in realtà, quanto tutto ciò vero fosse nei secoli IX-XIV d.C. che a noi interessano, è
difficile dirlo con tanta sicurezza. Nelle Cronache russe e in altri documenti ecclesiastici la posizione della
donna a cui ci si riferisce solitamente è quella dell’élite al potere ed è tutt’altro che passiva e sottomessa. Era
forse diversa nel mondo chiuso del mir?
E partiamo dai reperti archeologici! Questi ci indicano molte cose su come le donne del tempo si ornavano
e si vestivano, ma si riferiscono sempre all’esteriorità… delle donne dell’élite al potere! Ciò vuol dire che, per
quanto la società potesse essere ancora poco differenziata dal punto di vista delle classi sociali, non è facile
capire se degli stessi oggetti della consorte di un nobile potesse disporne anche la moglie dello smierd… e se
fosse possibile acquisirli e che segno distintivo fornissero in pubblico. Ci sono però le byline, che in parte ci
aiutano a penetrare all’indietro nel tempo, più le corrispondenze molto particolari scritte su corteccia di
betulla di Novgorod del XII sec. (berjòsty/бересты) e così, confrontando questo materiale con i resti delle
usanze ancora vive nella cultura e nel folclore di oggi, sebbene restiamo incerti su molti punti (e lo
sottolineeremo di volta in volta), abbiamo recuperato il quadro che segue.
Cominciamo col dire che nel mir dominava il matrimonio esogamico e cioè la scelta della sposa al di fuori
della famiglia locale. Inoltre il numero di spose per marito non era nemmeno limitato: Il maschio che poteva,
ne aveva anche più di una! Tutto ciò avveniva, non tanto per una questione evoluzionistica ignota alla
scienza del tempo, quanto perché con ogni matrimonio si potevano stabilire solide “alleanze” fra clan e clan,
fra villaggio e villaggio, allo scopo di rafforzare e rinsaldare l’appartenenza alla stirpe comune slava che era
l’aspetto più importante del legame. Questo sentimento “della stirpe” si rispecchiava fortemente nella
venerazione religioso-magica del nume Rod che impersonava la sacra tribù originaria di un mondo lontano a
cui tutti pretendevano di appartenere. La donna perciò, come riproduttrice della specie, mescolando il suo
sangue slavo con quello di un’altra comunità slava, legava indissolubilmente la sua persona alla nuova
famiglia del suo compagno, ma non ne inquinava la purezza di stirpe.
Un’illusione chiaramente rituale…
L’allontanamento della donna in modo definitivo dal suo luogo d’origine (benché fosse concesso in casi
particolari che la donna fosse rimandata dai “suoi”, in russo otpravit’ vosvojasi) oltre agli altri ostacoli da
affrontare spiega anche perché nelle cerimonie prematrimoniali che si sono conservate fino ad oggi la
promessa sposa deve rimanere chiusa in casa per qualche giorno in gramaglie quasi che il matrimonio sia
pari alla morte per lei. Molti pregiudizi “in vigore” fino a qualche decennio fa sulla posizione della nuova
sposa nel villaggio che l’accoglieva ancora in tempi sovietici permettevano poi che circolasse il detto: “Ti
batterà un marito tutto capriccioso e una suocera ti piegherà tre volte!” (Budet bit’ tebjà muzh-priverèdnik i
svekròv’ v tri poghìbeli gnut’ – Будет бить тебя муж- привередник и свекровь в три погибели гнуть)
ossia, in altre parole: Rassegnati ad essere sottoposta sia all’autorità di tuo marito che a quella della donna
più anziana della nuova famiglia! Ed ecco due figure femminili che si contrappongono nella stessa famiglia:
una giovane e una vecchia, una che ancora crede di essere libera di innovare e un’altra invece che ha il
compito di piegarla all’ordine dominante che lei stessa ha accettato o addirittura stabilito e rafforzato,
quando si è sposata a suo tempo.
In questa cornice si disegna già un futuro del ruolo abbastanza importante di padrona di casa, purché
rimanga legatissima alle tradizioni…
In più, ricordiamolo!, l’economia dello smierd è basata sullo sfruttamento di un certo appezzamento di
terreno in comune col resto del villaggio ed un aumento di domanda di cibo preannuncia una diminuzione
proporzionale delle razioni fissate fino a quel momento per cui occorre liberarsi appena possibile delle
bocche “in più”! Di qui, possiamo immaginare che una figlia, una volta cresciuta e giunta alle soglie del
menarca (che probabilmente si notava intorno agli 11 anni!), non rappresentando una “mano” valida nei
lavori dei campi, dovesse essere “data via” anche prima che fosse sessualmente matura affinché non
perdesse con l’età la sua potenza generatrice! Per varie cause la menopausa appariva anticipatamente (3235 anni!).
Naturalmente ci sono alcune regole: La più grande si sposa per prima e chi la prenderà in moglie dovrà
pagare un prezzo che copra il costo che la famiglia ha sostenuto fino a quel momento crescendola: il
cosiddetto “veno/вено” in russo (corrispondente all’incirca all’analogo venum degli antichi latini o al qalim dei
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nomadi del Centro Asia!). Solo in caso di infertilità la donna tornerà a casa sua e il veno sarà rimborsato o
sarà offerta in cambio la sorella minore della ripudiata, se è ancora disponibile!
Quando si conoscono i due promessi o quando s’incontrano? Di regola solo al momento dello sposalizio,
sebbene ci siano varie gioiose manifestazioni nel villaggio che permettono ai ragazzi di far conoscenza con le
ragazze! Una curiosa costumanza era quella in cui, se un ragazzo voleva dichiararsi ad una ragazza, le
spruzzava dell’acqua addosso, ma oltre non si andava in pubblico… Fino al matrimonio perciò, i futuri legami
restano un affare trattato dai genitori magari attraverso i servigi di due pronubi (lo svat e la svaha, v. oltre)
incaricati di trovare il “giusto” sposo per lei e di proporre la “giusta” sposa a lui. D’altronde il sentimento
dell’amore, come l’intendiamo noi oggi, trova poco posto in tutto questo discorso e non è considerato un
solido fondamento del nuovo legame famigliare. L’amore e il sesso fantasioso e divertente è roba che si può
provare soltanto in occasioni diverse dal matrimonio!
Tuttavia c’erano anche riti matrimoniali più sbrigativi di quello sopra descritto, forse più in voga fra le
famiglie nobili, che ci sono stati tramandati. Le Cronache però li marchia come primitivi e da aborrire: Il
matrimonio per ratto dei “selvaggi” Drevljani (gli antenati dei Polesciuki!) delle Paludi del Pripjat’, ad
esempio, o il jus primae noctis esercitato sulle vergini figlie degli smierd seguito dal matrimonio consigliato
dal signore (dopo questa cerimonia) con un suo uomo…
Durante l’anno c’erano però molte feste orgiastiche in cui i giovani provavano la loro potenza e la loro
disposizione a far sesso con le ragazze. Non sempre queste pratiche sfociavano nell’unione dei due partners
e, se la donna risultava casualmente incinta, il figlio era “adottato” da tutta la famiglia di lei, senza
discussioni.
Chiaramente la prostituzione risultava praticamente inutile…
Una volta sposatasi la donna entra nella grande famiglia dell’uomo e, raramente si costituisce un nuovo
focolare che lasci il villaggio avito per fondarne un altro lontano. Una ragione c’è: Se ciò avvenisse,
significherebbe ricostruire tutta una nuova comunità che forse non troverebbe terra e neppure potrebbe
ricevere aiuto da quella di provenienza. Solo con l’introduzione del Cristianesimo le cose cambieranno e noi
ritorneremo più in là sull’argomento.
Dunque la donna deve fare il suo dovere mettendo al mondo molti figli. Per la difesa di questa sua
funzione biologica l’archeologia ci dice che dalla Grecia bizantina arrivarono (col Cristianesimo!) in Terra
Russa i cosiddetti zmeeviki o amuleti serpentiformi che si usavano contro le malattie veneree femminili o che
si pensavano generate dall’utero stesso, sebbene poi questi oggetti, carissimi perché fatti di oro e incisi con
figure, erano destinati alle donne delle classi nobili. L’aborto non era invece accettato proprio perché la
mortalità perinatale era molto alta e perciò i figli erano necessari. Ciò non vuol dire che non si conoscessero
le qualità abortive della Segala Cornuta (sporinjà) che abbiamo già incontrato e c’era sempre una znaharka
che ne conservava gelosamente la “polvere” per quest’uso…
Poi alla donna tocca educare i figli e portarli in buona salute fino alla maggiore età, ma deve anche curare
e assistere il suo uomo… E qui sorgono delle complicazioni.
Ha vissuto nella vecchia e continuerà a vivere anche ora in promiscuità, nella nuova grande famiglia. Lo
spazio esiguo a disposizione nell’izbà e i costumi del tempo permettevano infatti molte relazioni fra i sessi
che oggi condanneremmo per semplici ragioni culturali o religiose come omosessuali o contro natura. Al
suocero ad esempio competeva il diritto di dormire con la nuora, se il marito di questa era via per lungo
tempo, oppure di dormire con la propria figlia, se era necessario per avere altra prole. Con tale situazione la
donna (certamente insieme alle altre) oltre alla protezione dell’infanzia si trovava a doversi prendere cura
non solo del suo uomo, ma anche del suocero, dello zio del marito, del nonno… com’è ancora oggi!
La donna perciò, quale oggetto sessuale, passava da un “proprietario” o “tutore” (il padre, il fratello
maggiore o chi per loro) ad un altro, mentre quale forza lavoro si vedeva assegnato un ulteriore ruolo di
serva e d’infermiera.
Una specie di infermeria casalinga dove il malato veniva curato meglio e lontano dagli altri componenti
della famiglia per non contagiarli può essere considerata la famosa banja russa a cui abbiamo accennato
come parte integrante dell’izbà. Nella banja ci si curava, si partoriva o semplicemente ci si rinvigoriva…
Ritorneremo su questa costruzione particolare più avanti, per ora ci basti dire che era considerata un luogo
di purificazione e perciò sacro e non vi era permessa alcuna attività dopo il calar del sole! In questo piccolo
ambiente abitava il cosiddetto Bannik, un essere magico immaginato come un orribile vecchietto proprio
perché sicuramente scaturito da uno di quegli spiriti maligni che, accumulati nel corpo, era venuto fuori col
sudore dai corpi nudi. C’era un tipo di gadanie (v. oltre) curioso che le ragazze facevano di notte presso la
banja sfruttando i poteri del Bannik. Una per una le giovani aprivano la porta della banja, si alzavano le vesti
sul di dietro e ponevano il proprio deretano nudo rivolto verso l’interno, mentre il resto del corpo rimaneva al
di fuori. Ognuna di loro aspettava poi di sentire il tocco della mano del Bannik che annunciava che tipo di
fidanzato avrebbero incontrato!
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Abbiamo detto che nella banja si partoriva. Non appena la donna incinta sentiva le prime doglie, occorreva
subito prepararla. Qui dentro, dopo il parto, il neonato veniva pulito e fasciato, senza perderlo mai di vista
poiché c’era il pericolo che il Bannik gli facesse qualche brutto scherzo, come si diceva fosse accaduto al
principe Vseslav di Polozk nell’XI sec. al quale il Bannik aveva regalato una grossa voglia sulla fronte
costringendolo ad indossare un cappello per tutta la vita per nasconderla! Anche il padre del nascituro
partecipava al parto! Anzi, gridava a più non posso affinché qualsiasi forza malefica fosse attratta verso di lui
invece che verso la partoriente! Poi il neonato era portato in giro intorno alla banja per ben sette volte
affinché la Dea dell’Alba (Zarjà) lo accogliesse e lo proteggesse dalle malattie infantili. Contemporaneamente
si pronunciava uno scongiuro “Alba-albuccia, alba di prima mattina, allontana da questo bimbo ogni
malattia!” Il significato di questo rito, d’altronde sicuramente molto più complicato, risale alla mitologia
antico-slava che vedeva il cielo (fra l’altro) come un grande soffitto con dei fori (le stelle) attraverso i quali il
Creatore guarda le sue creature. Al momento di ogni nascita si apriva un nuovo foro (nasceva una stella) e il
neonato restava sotto lo sguardo del cielo fino alla morte.
Se la madre moriva o il bimbo non ce la faceva a vivere, nel generale cordoglio il dolore maggiore restava
per la madre, perché quanto al nuovo nato, non avendo ancora dato niente di sé, se ne poteva generare un
altro. Né c’era il problema dell’orfano perché nella famiglia allargata il bimbo trovava sempre una “nuova”
madre.
Nell’izbà calda era previsto un posto speciale per il bambino: un travone trasversale da una parete all’altra
al centro del soffitto chiamato matiza/матица (piccola madre!). A questo si appendeva la culla (di solito
regalata dai vicini) tutta dipinta di verde. Il colore naturalmente era simbolico, e questo sistema impediva
che il bimbo mentre dormiva potesse essere molestato da animaletti o insetti pericolosi o, soprattutto, dalla
maliziosa Kikimora (v. oltre)! La nutrizione era soprattutto attraverso il latte materno o di una balia (una
vicina o una delle madri della grande famiglia ancora in fase di allattamento), se la madre non ne aveva
abbastanza, e poi con i primi denti si passava alle solite pappe.
La maggiore età in senso legale qui si raggiungeva in pratica verso gli otto-nove anni.
L’entrata in questo nuovo stato del ragazzo o della ragazza era celebrata con un rito molto importante. Per
il piccolo maschio era il solenne primo taglio dei capelli (postrìg/постриг solo qualche ciocca perché nei
capelli c’era tutta la forza dell’uomo!) che gli permetteva di passare da bimbo a otrok/отрок (adolescente) e
ad avere il proprio posto nell’assemblea del villaggio e, soprattutto, di ricevere la parte di campo per
sostentarsi (volgarmente chiamato con lo stesso nome del pane ossia zhito) imparando da subito a
coltivarlo! I capelli, accuratamente raccolti dalla madre commossa, erano però immediatamente bruciati
affinché nessuno spirito malefico potesse usarli per qualche malevolo incantesimo.
Anche per la donna c’era il primo taglio dei capelli: una semplice spuntatina della lunga treccia! Questa
andava sciolta comunque solo all’epoca del matrimonio! Comunque sia, la sua entrata nella maggiore età era
segnata dall’inizio dell’apprendimento a tessere sul telaio.
Ritorniamo un istante al problema delle bocche da nutrire presenti in famiglia.
Perché non si limitava il numero delle nascite ricorrendo al vecchio metodo di allungare il periodo di
allattamento? Evidentemente la preoccupazione era che la donna doveva essere fertile, purché non
esageratamente! Così quando c’era una bocca in più l’antica società medievale aveva previsto delle soluzioni
sia affidando (dietro pagamento!) il bimbo in più prima del postrig a chi lo richiedesse in un’altra comunità
sia addirittura vendendolo come schiavo in terre lontane. Era questo un costume non prettamente slavoorientale, ma diffuso in tutta l’Europa (e mai scomparso neppure ai giorni nostri, benché mascherato dietro
altre etichette e malgrado tutte le leggi protettive dell’infanzia delle nazioni cosiddette avanzate!). D’altronde
non era forse più giusto che il bimbo abbandonando la famiglia evitasse maggiori stenti a lui stesso e a tutti i
suoi? Perlomeno nell’altra comunità avrebbe potuto star meglio e costruirsi una vita diversa e migliore.
Naturalmente lo stesso avveniva per le donne! Insomma dobbiamo immaginarci un amor filiale molto diverso
da quello di oggi, senza inutili pregiudizi o atteggiamenti falsamente scandalizzati.
I frutti del seno femminile d’altronde, a parte l’orgoglio di averli creati nel proprio grembo, secondo il
modo di vedere del tempo garantivano alla madre una nuova posizione sociale all’interno della grande
famiglia slava e le assegnavano, ora in “modo naturale”, la gestione e l’economia della casa. La donna però,
dai molti indizi contenuti nelle byline e nella letteratura ecclesiastica del XIV-XV sec., viveva (per quanto
possibile) separata dall’uomo ed aveva nell’ambiente dell’izbà un proprio angolo riservato. Qui, dietro una
tenda che faceva da parete separatrice, essa conservava un proprio patrimonio di oggetti particolari,
intoccabile dal marito e da chiunque altro…
Quali erano allora i suoi compiti in casa? Certamente la preparazione, la conservazione e la trasformazione
delle derrate alimentari!
I reperti archeologici sono insufficienti per darci un’idea più precisa degli arnesi e del vasellame da cucina
usato nei secoli X-XIII d.C., ma presumendo che questo armamentario (utvar’/утварь) non sia cambiato
molto nelle sue funzioni, e neppure nel suo aspetto e pochissimo nel materiale usato per fabbricarlo,
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possiamo ricostruire la vita della nostra massaia alle prese con un grosso pentolone di coccio
(gorsciòk/горшок) avente tre gambe sul fondo, sempre di coccio, oppure poggiato su un costosissimo
treppiedi di ferro (taganka/таганка). In questa pentola, probabilmente di origini antichissime visto che un
pentolone del genere ha tipizzato la cultura preistorica mitteleuropea, la nostra preparava la kascia/каша
come ancora si fa nei villaggi più remoti in Ucraina o in Bielorussia. C’era anche una padella
(skovorodà/сковорода) di coccio senza manico dove sciogliere il grasso di oca per friggere. Nè mancava
certamente un arnese molto importante per lavorare attraverso la bocca della pec’ka: una specie di
forchettone-pala di legno (latòk/латок) che serve ad introdurre e a tirar fuori le pentole e le padelle o per
mettere il pane e le focacce a cuocere sotto la cenere e poi estrarle fuori pronte, più o meno come la pala di
un moderno pizzaiolo nostrano! Un grosso mestolo più altri cucchiaioni e cucchiai più piccoli, rigorosamente
tutti di legno, completavano il corredo.
Oltre ad una bella madia per poterci lavorare la farina mescolata con l’acqua salata del pozzo per le varie
paste e pastelle ci sono secchi e tinozze (kadki/кадки). Di questi ultimi se ne sono trovati molti,
specialmente negli scavi di Novgorod eseguiti nella seconda metà del XX sec. da Janin e Arzihovskii. Molti di
questi recipienti avevano delle misure costanti e ciò indica non solo l’attenzione con la quale erano fabbricati,
ma anche l’esistenza di una standardizzazione e, nel caso specifico, di una produzione in serie. Bicchieri
scavati nel legno o barattoli di scorza intrecciata, cestini e scodelle, anche questi facevano parte della
batteria da cucina della nostra cuoca. Una cosa strana dei bicchieri e delle scodelle è che essi erano a fondo
convesso e non a fondo piatto e dovevano perciò essere trattenuti dalle mani per non farne rovesciare il
contenuto! Un coltello o una piccola accetta con relativa pietra da affilare non mancava…
E i piatti? Non esistevano! Abbiamo notizia dell’uso del pane… come piatto in cui mangiare! In realtà l’uso
è di per sé antico, ma se è ben provato per la tavola del re polacco Ladislao Jagellone ancora nel XIV sec.,
non sappiamo con sicurezza se ciò fosse un costume abituale nell’izbà russa o a tavola del Velikii Knjaz di
Kiev. D’altronde il vocabolo russo tarelka/тарелка per piatto di coccio è parola tedesca (tedesco Teller a sua
volta dal francese tallier ossia piatto dove si taglia la carne) e dunque importata dall’ovest, per cui
sicuramente il piatto e il suo uso a tavola come lo immaginiamo oggi fu introdotto molto più tardi (XVI sec.).
La nostra massaia ad ogni modo non si limitava a preparare il cibo partendo dalle derrate che le
provenivano dai campi, ma aveva anche il compito di cercare in giro spezie, di coltivare nell’orto aromi e
insalate, alberi da frutta e radici succulente per arricchire e variare la dieta giornaliera, sebbene dalle note
dei visitatori tedeschi del XVI sec. nelle Terre Russe il cibo russo risulti un po’ scipito quanto a spezie.
Di una pianta commestibile in qualsiasi caso niente veniva gettato via, come invece avviene oggi dove
molti rifiuti urbani sono parti vegetali che una volta erano tranquillamente consumate con gusto o, al limite,
lasciate ai maiali.
Durante la buona stagione quindi possiamo vedere la nostra donna vagare per la foresta a raccogliere le
bacche e i frutti selvatici che in seguito si preoccuperà di pulire, tagliare in pezzi più piccoli e far seccare
sulla pec’ka dopo averli sparpagliati su un graticcio di legno, per poterli gustare meglio d’inverno. Raccoglie
naturalmente i funghi che, seccati, sono infilati in una lunghissima collana e appesi nell’angolo bello dell’izbà
o alla matiza.
Quel che non si mangia oggi, si mette da parte per domani o per la stagione fredda giacchè la nostra
madre di famiglia sa conservare il cibo con grande arte. Già il freddo intenso durante il lungo inverno le
viene incontro facendo da conservante efficace e, a questo scopo, oltre all’izbà fredda si può scavare la
cantina sotto l’izbà.
Alcune piante succulente ipogee come carota, rapa (talvolta anche cipolla e aglio) e simili potevano essere
addirittura lasciate nella terra fredda sotto la neve dove si erano sviluppate per estrarle al momento del
consumo. La Rapa (Brassica rapa in russo surèpiza/сурепица) era una di queste. Popolarissima, era usata
come oggi la patata ed anzi fu proprio l’introduzione della patata che nel 1600 relegò la rapa al rango di
pianta da animali, sebbene la donna russa sapesse quanto bene questa pianta facesse ai suoi bimbi
preservandoli dal rachitismo e dalla carie!
Il conservante principe per i cibi restava tuttavia il sale e la salamoia era la soluzione ideale per preservare
moltissimi alimenti. L’estrazione del sale avveniva in vari modi, sia dalle fonti salate di cui abbiamo notizia
esistere sulle rive meridionali del lago Ilmen sia dagli acquitrini bielorussi (zona di Moghiljòv) o delle Paludi
del Pripjat’, ma anche da posti vicini alla foce dei grandi fiumi che sboccavano nel Mar Nero: Il Dnepr, il Bug,
il Dnestr e persino nel Mare d’Azov. Da queste parti c’era un’antichissima tradizione risalente ai greci del
Ponto Eussino sull’estrazione del sal marino per concentrazione in soluzione acquosa tramite bollitura o
evaporazione ed essiccazione al sole. Comunque sia, il sale non appariva come il nostro, puro Cloruro di
Sodio cristallino e biancastro, ma risultava spesso una mescolanza di Cloruri e di Nitrati, ed era migliore
poiché agiva sia da conservante sia da “arrossante” per la carne.
Piccole quantità di sale la donna però le sapeva estrarre dall’acqua del pozzo senza ricorrere all’acquisto e
ne teneva gran conto, giacché il sale era in ogni caso un prodotto costoso! Il rito del benvenuto all’ospite
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nella casa russa ne denuncia la grande importanza poiché il sale viene offerto insieme al pane
(hlebosolje/хлебосолье)…
Un alimento che andava conservato col sale perché abbondante, ma soggetto a rapido deterioramento,
era il pesce. Se la pesca era un’occupazione prettamente maschile ed era offensivo e inimmaginabile che
una donna potesse andare a pesca, mettere il pesce sotto sale era un invece lavoro tutto da donna…
I fiumi e i laghi della Pianura Russa erano (e in parte lo sono ancora) abitati da pesci di grossa mole come
il Salmone o lo Storione, pesci questi i cui individui di grande età (5-6 anni) raggiungono proporzioni quasi
gigantesche. Lo storione, ad esempio, tipico del Mar Nero e del Mar Caspio (Acipenser huso in russo
osjòtr/осетр), può raggiungere il 9 m di lunghezza e i 1400 kg di peso! Nel 1995 ad esempio, a prova che
questi grossi pesci erano ancora catturabili nel Medioevo (ma ancora oggi se ne pescano di queste taglie!),
ricordiamo che l’Università di Mosca ritrovò in scavi presso il Cremlino lo scheletro di un individuo beluga di
ben 3 m di lunghezza e del peso (dedotto) di oltre 100 kg! Questi pesci catturati, liberati delle interiora e ben
lavati erano posti in tranci o a volta interi sotto sale per un certo tempo. Penetrando nelle carni il sale le
privava dell’acqua e impediva che marcissero. I pezzi così preparati poi potevano essere tenuti in riserva per
l’inverno successivo. Quelli più piccoli invece venivano posti in una salamoia molto densa. Si potevano anche
seccare al vento e al sole, se erano stati catturati d’estate…
Il Mar Baltico in particolare forniva il pesce più famoso del Medioevo: l’Aringa. Le Aringhe sono distinte in
quelle del Mare del Nord che sono più grandi e quelle del Baltico, appunto più piccole e più sottili, ma, a
detta degli intenditori, le più saporite. La distinzione fra le due specie è chiaramente espressa dai popoli
rivieraschi nelle proprie lingue e così i russi parlano di salàka/салака (anche salàga e salakùsc’ka, Clupea
sprattus sp.) se è l’Aringa baltica e di seljòdka/селeдка (o anche seld’) se invece è quella atlantica . Ad onor
del vero aggiungiamo che l’atlantica in particolare ebbe maggior diffusione nel XIII sec. quando l’Hansa
tedesca cominciò a commerciarne in grande quantità anche nelle Terre Russe. Prima di quest’epoca infatti
era poco conosciuta nei villaggi dell’entroterra russo…
Col sale e la salamoia si conservavano le carni dei porci (o dei piccoli animali) e questa operazione di solito
era eseguita alla fine dell’estate, dopo la mietitura. Quando il maiale era macellato, le parti grasse con tutta
la pelle venivano salate e appese da qualche parte nella cantina. Siccome il lardo costituiva un’offerta molto
importante per gli dèi ed un piatto molto popolare, la donna ricorreva ad alcune formule e scongiuri che
dovevano preservarlo dai vermi o dagli insetti (in uso addirittura ancora oggi).
Scongiuro contro le vespe (o contro il Mangialardo, Dermestes lardarius) che possono rovinare
il prezioso lardo di porco
Vespa, (dea-) madre di tutte le vespe, tu non sei mia madre e i tuoi figli sono le tue vespine e i miei sono i
miei bambini e voi (o vespe!) non mi siete figli (ossia parenti). Porto con me l’erba santa, la secco nella
fredda foresta d’abeti, la brucio nella radura verde. O vespette, volate verso quel fumo. O (dea-)vespa,
vola verso la foresta. La parola è: serratura, la lingua è: chiave (cioè, uscite e chiuderò la casa e non
ritornerete mai più)!
La carne però poteva essere conservata al gelo nella cantina sotto l’izbà (podval, pogreb, podklet) dopo
averla pulita e dissanguata e avvolta in stracci puliti, all’inizio dell’inverno naturalmente!
Come si prepara la carne salata (soljanina)
(da una ricetta di E. Molohovez, 1861, riadattata da ACM)
Fatto in pezzi abbastanza grossi l’animale appena macellato, lo si terge accuratamente dal sangue mentre
la carne è ancora calda poiché il sangue guasterebbe rapidamente la carne stessa. Togliere le ossa più
grosse e poi strofinare con una miscela salina tutte le superfici in vista. Il sale deve essere seccato nella
pec’ka affinché assorba meglio acqua e si attacchi bene alla carne. La miscela salina è fatta con sale
marino, salnitro, e con le spezie a disposizione. Si faccia questa operazione di strofinamento col sale con
forza e con pazienza. Dopodiché si lascia raffreddare la carne così preparata e la si sistema in piccoli tini di
legno di quercia previamente puliti e disinfettati con cenere umida. I pezzi più grossi si porranno nel centro
e quelli più piccoli tutt’intorno. Il fondo del barile sarà stato già preparato con sale e spezie prima di
introdurre la carne. Comprimere ora il tutto senza troppa forza pigiando con un pestello in modo da non
lasciare spazi vuoti. Spargete ancora sale e spezie della miscela sopra detta e riempite fino all’orlo ogni
tino. Chiudete con apposito coperchio di legno e sigillate con argilla molto densa che lascerete asciugare e
seccare nell’izbà calda per due o tre giorni. Ogni giorno avrete l’accortezza di rivoltare ogni tino.
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Finalmente i tini vanno posti nella ghiacciaia e lasciati lì per almeno tre settimane, avendo cura di
capovolgerli ogni settimana.
Né le incombenze femminili finivano qui.
Abbiamo detto che la donna aveva il compito di curare le ferite, i malati, assistere i vecchi inabili e curare
gli animali. Ora la donna, avendo una lunga esperienza ereditata da sua madre che l’aveva appresa prima di
lei dalla propria, sapeva maneggiare pozioni, infusi e impiastri di erbe e sostanze varie che lei soltanto
conosceva ed aveva anche imparato tutta una serie di scongiuri che andavano pronunciati nei momenti
opportuni oltre alle preghiere particolari indirizzate agli dèi (e in tempi cristiani, ai santi) che potevano
aiutare a scacciare lo spirito della malattia. Queste pratiche le procuravano talvolta una funzione alquanto
ambigua poiché l’insuccesso della cura o la morte del malato la trasferivano subito fra le streghe malefiche
(ved’my). Ci voleva una grande accortezza ad evitare accuse di omicidio o la vendetta di sangue e a chi si
affidava a lei per una cura estrema riceveva sempre pochissime speranze di guarigione in modo tale che, se
fosse morto, la donna non ne avrebbe avuto colpa..
Acquistare però la nomea di “sapiente” era pure un onore, molto difficile da conseguire per le donne
giovani. Le donne più vecchie invece che avevano ormai passato i 40 anni (la cosiddetta mezz’età biologica)
cominciavano ad apparire agli occhi della gente quasi delle persone immortali e le loro cure o consigli erano
accettati di buon grado e considerati indispensabili in molti casi. Si pensava che se una morte o una non
guarigione seguiva ad un trattamento prescritto da una di queste donne, la responsabilità ricadeva su colui
che non aveva rispettato puntigliosamente tutti gli obblighi imposti con precisione: Un solo errore rituale,
infatti, e la cura perdeva la sua efficacia! E su questi punti ritorneremo più avanti quando parleremo dei cicli
mensili della donna pari a quelli della Luna. Qui diremo a questo proposito soltanto che, in conseguenza dei
cicli mestruali, la donna era strettamente collegata a questo nume celeste padrone del tempo (il tempo si
contava con i mesi lunari!) e della notte.
Una dea protettrice della donna era Mokoscià o Mokosc’ il cui nome suggerisce, per la somiglianza con
l’aggettivo mokryi/мокрый ossia bagnato, un’origine di questa come dea delle acque. In realtà però il nome
è legato col suo etimo alla tessitura e perciò Mokoscià era importante per questa sua facoltà e le donne
stavano attente a non provocare la sua ira e a tenersela buona con offerte continue ogni giorno di fiori ed
erbe particolari pestate e cotte in suo onore. Addirittura si diceva che Mokoscià apparisse nelle izbe e filasse
di notte mentre tutti dormivano, se si sentiva appagata dalla venerazione mostratale! Guai a dimenticare del
capecchio (kudel’⁄кудель) in giro, se ne sarebbe offesa! A lei era dedicato il quinto giorno della settimana
per cui il venerdì la donna interrompeva il suo lavoro invernale più importante: la tessitura! Non fermarsi in
questo giorno sarebbe stato un sacrilegio tanto grande che avrebbe spinto Mokoscià, durante notte, a
imbrogliare talmente la trama del telaio da dover ricominciare il lavoro iniziato tutto daccapo! In suo onore
alla sera del giovedì la padrona di casa preparava un karavài con una coppetta piena di sale su un tavolino
nell’angolo bello dell’izbà e attendeva che la dea venisse a mangiarne. Con il Cristianesimo Mokoscià fu
relegata fra gli spiriti impuri e diabolici e la sua festa fu sostituita da quella della santa Parasceve, celebrata
logicamente anch’essa di venerdì con la preparazione della Tavola di Parasceve nel quale al pane e al sale fu
aggiunto anche del miele!
Il paleografo V. A. Ciudinov ha ritrovato il nome di Mokoscià su moltissimi sassi morenici (valuny) che si
trovano sparsi nella Pianura Russa deducendone una venerazione molto più diffusa di quello che si può
pensare. Secondo lui è la dea maggiore del pantheon slavo e presiede alla consacrazione dei bambini al dio
Rod dopo il postrig. Secondo lo stesso ricercatore, non solo a Perun, ma anche a Mokoscià era abbinata la
quercia come albero sacro. Aggiungiamo che è l’unica dea femminile del pantheon vladimiriano e la sua
venerazione era un obbligo esclusivo delle donne. Nel nord russo Mokoscià la si immaginava con una grande
testa con capelli scompigliati e dita lunghissime per poter tessere meglio senza doversi alzare dal telaio.
La tessitura era un’occupazione importante, come abbiamo detto, e perciò alla donna toccava, oltre a
tenere in ordine l’orto, anche la coltivazione del lino e della canapa…
Intorno a queste piante femminili, al lino (Linum usitatissimum in russo ljon/лен) e alla canapa (Cannabis
sativa in russo konopljà/конопля), si sono raccolte moltissime leggende. Queste piante erano quasi come
delle figlie che andavano trattate con delicatezza e attenzione.
C’era un giorno particolare della primavera in cui il lino andava seminato, né prima né dopo! Così come
c’era un giorno in cui esso doveva poi essere raccolto ossia prima che cadesse la prima pioggia d’autunno. Il
lino era usato esclusivamente per tessere la biancheria della donna e quella dei suoi per tutti i momenti della
vitae a questo scopo le bimbe già verso i 6-7 anni cominciavano a curare le piante di lino aiutando la loro
mamma sul campo!!
Occorreva seminare con molta cura in modo che ogni seme desse una pianta vigorosa sana e alta e per
questo i semi andavano distanziati perché una pianta non soffocasse l’altra nella fila. Finalmente la pianta
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spuntava e cominciava a crescere, ma, strano a dirsi, veniva spesso infastidita dalle piante concorrenti e
così, un giorno più libero di altri un gruppo di donne e di bambine si recavano sulla “striscia seminata a lino”
per sradicare, senza disturbare le radici della carissima pianta, tutte le “erbacce”. Non era cosa facile poiché
le “erbacce” erano molto simili al lino stesso ed occorreva tanta esperienza per distinguerle… Un altro
nemico del lino erano le afidi o pulci (blohy/блохы) che appena comparivano occorreva immediatamente
distruggere. Come? Con la cenere tiepida della pec’ka!
Verso la fine della crescita, dopo circa 90 giorni quando s’avvicinava la piena estate, le donne tremavano
se durante la notte sentivano tuonare: La pioggia poteva far imputridire le preziose pianticelle! Al contrario
quando il sole era troppo intenso, il lino poteva diventare troppo secco! Il lino inoltre fiorisce per un sol
giorno e il suo fiore blu intenso si apre per farsi fecondare per poi dare i preziosi semi (due per frutto!).
Finalmente è pronto per essere tirato fuori dal terreno e messo in tanti mazzi! Le donne sanno distinguere
bene le piante più basse che serviranno per la produzione dei semi e quindi dell’olio dal quelle buone per
ricavare la fibra tessile (chiamato il lungo: dolgunec/долгунец). Si preparava una treggia tirata da un
cavallino dove i mazzi erano adagiati con cura e trasportati fino all’izbà fredda. Dopo qualche giorno gli steli
erano secchi, erano battuti e lasciavano cadere i loro semi. Fra questi si dovevano scegliere i migliori per la
prossima semina, mentre quelli ricavati dalle piante più basse si usavano sia per l’olio sia per tisane e
cataplasmi oppure, perché no?, da mettere sul pane per ingentilirne il sapore.
Gli steli del “lungo” erano poi immersi nell’acqua e restavano a macerare per circa due settimane per
isolare le fibre dal gambo legnoso. Bisognava stare attenti perché non marcissero e quindi tutto andava fatto
in acqua corrente, possibilmente in un angolo del fiume o del canale vicino appositamente preparato.
Quando le fibre erano ormai visibilmente separate dal gambo, si tiravano fuori dall’acqua e gli steli erano
battuti con energia uno per uno con assi di legno.
Si pettinavano con una specie di pettine fitto (myka/мыка). Si sceglievano le fibre più belle e queste, filate
con fuso e conocchia e avvolte in gomitoli, passavano sul telaio di casa. Dai teli ottenuti si confezionavano le
varie camicione e gonne per gli uomini e per le donne. Alcune erano messe da parte in una cassapanca
apposita per portarle via con sé quando si sposava o per le figlie…
La stessa procedura si seguiva con la Canapa che aveva più o meno lo stesso ciclo annuale del lino
sebbene la pianta preferisse la vicinanza della palude per crescere bene e richiedesse una cura un po’
diversa. Infatti la Canapa è dioica e ha piante maschio (pòskon’/посконь) separate dalle piante femmina. Si
pensava che se gli uccelli avessero volato sulla canapa in stormi, allora sì!, che la pianta sarebbe cresciuta
bene. Anzi! Per invitare gli uccelli, si spargeva una manciata di semi di canapa e questi accorrevano. Poi la
pianta cresce alta e vigorosa e, mentre le larghe foglie vengono raccolte per poter esser consumate come
insalata o per zuppe, la fibra viene usata per filare e per tessere panni più rozzi del lino. Dalle sue bacche
inoltre si preparava un kisel’/кисель, una gelatina vegetale con effetti psicotropi speciali.
Dai semi di canapa si estraeva l’olio per schiacciamento così come da quelli di lino ed entrambi erano
considerati ottimi linimenti e balsami per la pelle.
Talvolta i semi di lino o quelli di canapa erano “sacrificati” ed insaporivano il pane. E sì! Il pane è il cibo
vitale, l’abbiamo ripetuto varie volte, e dunque anche impastare e cuocere questo alimento e scegliere
qualche ingrediente speciale per renderlo più gustoso è un lavoro importantissimo ed esclusivo delle donne…
purché lo facciano quando non hanno il mestruo!
Addirittura era normale che alcune izbe si mettessero insieme per fare il pane per tutta una settimana in
una sola pec’ka comune… appositamente costruita! Occorreva prima di tutto saper preparare la pasta acida
(o pasta madre) per lievitare (opàra/опара e dezhà/дежа) e c’era sempre una massaia che sapeva farla
meglio di altre. Siccome la pasta acida (o pasta madre) serve anche per fare la braga (la birra slava) e
l’idromele (mjod), la preparazione deve essere eseguita con molta attenzione. Si parte meglio da farina o di
segala o di frumento, si fa un impasto molto morbido che poi, messo dentro una scodella
(kvasciònka/квашонка), si ricopre con una teletta in modo da impedire che gli insetti vi penetrino. Ecco!
Occorre ora lasciarla all’aria per qualche giorno e quando la si vedrà diventare un po’ più liquida e fare delle
bollicine in superficie vorrà dire che è pronta. Non è però sempre buona poiché a volte è talmente amara
che bisogna gettarla via. Come mai? Evidentemente chi l’ha preparata deve aver commesso qualcosa di
brutto o era impura perché mestruata.
C’era anche un metodo più antico molto più primitivo per fare la pasta acida (o pasta madre): Ai vecchi e
ai ragazzi erano consegnati dei chicchi di orzo o di miglio e questi dovevano masticarli e farne un bolo che
poi sputavano in una scodella. Questo bolo messo al caldo fermentava… Quest’ultimo è il metodo più
primitivo che ancor oggi usano molti popoli, se non hanno il lievito di birra da comperare al supermercato!
Preparare la pasta acida (o pasta madre), dezhà, con la protezione dalla Luna (Mesjac)
(ricetta tratta da I. P. Saharov, 1980, e rielaborata da ACM)
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Preparare l’impasto con la neve dell’inverno, nel retro dell’izbà. Scegliere una notte dal cielo terso e
attendere che la Luna sia apparsa e poi mormorare: Luna, o mia Luna! D’oro sono i tuoi cornini.
Guarda attraverso la finestra perché adesso vengo ad offrirti la dezhà e tu soffiaci su!
Dopodiché il contenitore con la pasta acida (dezhnik) si mette vicino alla piccola finestra, l’unica più bassa
(la gattaiola!), e si attende che la Luna lo illumini. E’ importante preparare questa prima dezhà in perfetta
solitudine e in segreto quando tutti dormono. Questo è molto importante per qualsiasi strjapùha (ossia
colei che conosce le ricette segrete) all’opera.
La braga e i vari mjod erano le bevande più popolari dell’antica Rus’ ed erano perciò preparate con molto
affetto affinché non venisse fuori una poltiglia imbevibile. Di solito la fermentazione poteva essere o
interrotta anzitempo o portata avanti ulteriormente a seconda della gradazione alcolica desiderata nella
bevanda finale.
Ad esempio, nei conventi del resto d’Europa dove pure si preparavano queste bevande prevaleva la birra
più alcolica e il mjod più forte, per cui non abbiamo esitazione a pensare che anche qui nelle Terre Russe si
sapesse fare questo tipo “più forte” di bevande fermentate così popolari nel nord visto che si partiva da una
materia prima tipicamente slava: il miele!
Ricetta per preparare l’idromele (mjod) classico da M. Deńbinska
(op. cit. riadattata da ACM)
Portare una certa quantità di acqua all’ebollizione e versarla bollente su una miscela di spezie
(erbe aromatiche come finocchio, chiodi di garofano etc.) posta sul fondo di un barilotto (possibilmente di
legno di quercia). Chiudere e lasciar raffreddare. Riaprire e filtrare il liquido. Mescolare tre parti d’acqua
con una parte di miele mentre il liquido è ancora tiepido e limpido e cercare poi un ragazzo appena pubere
(questa è una precauzione magica!) che per cinque ore deve agitarla e rimestarla piano finché il miele non
si è ben sciolto. Il barilotto scoperchiato è lasciato a sé per quaranta giorni e quaranta notti lasciandolo
fermentare dopo avervi aggiunto la pasta acida per far il pane (o il lievito di birra). In questo caso il liquido
non va posto al freddo, ma al caldo per lasciare agire i Saccharomycetes sp. (i fermenti). Il liquido
schiumerà man mano che si forma alcol e anidride carbonica. Liberare dalla schiuma e filtrare e la bevanda
è pronta. Questa bevanda può esser fatta invecchiare anche ulteriormente per mesi o per qualche anno e
il sapore sarà sempre una nuova e gradita sorpresa.
Naturalmente bisognerà preparare il mjod per berlo fresco anche d’estate!
Si poteva far la birra anche dal pane raffermo, invece che dai cereali, e questa birra particolare era la più
amata da gustare mescolata con foglie di menta quando si usciva dalla banja. Era chiamata kvas e il suo
etimo probabilmente risale al norreno (la lingua dei Variaghi) hvas ossia acido.
Tutto questo faceva la donna usando tutta una serie di arnesi e recipienti.
Per la tessitura di lino canapa e lana, ad esempio, usava un telaio, fusi e conocchie, arcolai e scardassi.
Per far la farina aveva il proprio mulino “da casa” di pietra (molto faticoso da usare!).
Il mulino di casa
(da R. Malinova & J. Malina, Un Salto nel Passato, Moskvà 1988, testo adattato da ACM)
Consiste di 2 mole di pietra coniche, una concava che gira (begùn) sull’altra convessa che invece è ferma
(lezhàk). Le misure ideali per ottenere un buon risultato qualitativo e quantitativo di macinazione a mano
sono con un lezhàk intorno al 100 cm di diametro. Dagli esperimenti fatti con gli auspici dell’Università di
Leningrado (oggi San Pietroburgo), si trovò che con chicchi di segale ben secchi (e quindi mezzo abbrustoliti
nella pec’ka, una volta tirati fuori dal protiven’) in un’ora di lavoro ruotando il begùn coi due manici sul
lezhàk con giri alternativamente verso sinistra e verso destra, si riusciva ad ottenere (nel fondo del lezhàk)
1 kg di farina già pronta (senza setacciatura) per essere impastata!
Per sbiancare e togliere le macchie ai tessuti la donna usava la cenere in un grande truogolo di legno dove
i panni da pulire venivano impilati e poi pressati con sassi di fiume e su di essi si lasciava colare il liquido
bollente del ranno di cenere.
Per lavare i vestiti al fiume invece si usavano dei matterelli speciali per battere la stoffa sui sassi lisci della
riva.
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E che dire della tinteggiatura delle stoffe? Si trovavano molte piante tintorie nella foresta di cui si usavano
a volte le bacche a volte la corteccia e a volte le radici o le foglie…
Tutti gli arnesi necessari a queste attività erano sempre a disposizione in buon ordine riposti nei vari spazi
dell’izbà.
Quando era possibile l’izbà era divisa in modo che si ricavasse persino un angolo vicino alla pec’ka dove
trovava posto un letto. Attenzione però! Non serviva per dormire, ma per far quasi da monumento alla
ricchezza della casa, poiché sotto quelle coperte erano custodite tutte le cose più preziose e perciò: Quanto
più alto il letto, tanto più ricca era la casa!
La donna in casa però non è mai sola. Un ospite permanente e molto riverito, benché temuto e rispettato,
è il Domovòi! Questo spirito benevolo ma molto permaloso, la protegge e abita (talvolta insieme alla sua
donna) sotto il fondo della pec’ka, dove, oltre ai ceppi di legno, è stato ricavato uno spazio per lui. La sera
della sua festa – cade a metà febbraio – la donna russa gli lasciava da mangiare qualcosa davanti alla
pec’ka.
In realtà il Domovòi è la personificazione del fuoco che arde nella casa con tutte le sue connotazioni di
protezione della vita della donna e della sua famiglia e solo successivamente fu separato dal suo regno
all’interno della pec’ka, quale personificazione “secondaria” rispetto a Svarozhic’ e “abbassato” nel luogo
dove oggi ancora abita in ogni casa russa. Lasciamo la parola a A.A. Korinfskii, grande amante delle “cose
russe” del XIX secolo, per spiegarci meglio chi sia questo lare domestico.
“Il Domovòi nella sua figura è il più antico e onorato personaggio della famiglia dello smierd alla quale
appartiene per linea diretta quale antenato. E’ lui che ha acceso per la prima volta il fuoco nella pec’ka e che
ha raccolto sotto un unico tetto i membri di quella famiglia. Il Domovòi di solito ha un suo abito ufficiale che
è sempre pronto a cedere all’anziano della famiglia quando ce n’è bisogno. Sta attento a qualsiasi piccolezza,
senza posa si dà da fare e si preoccupa affinché tutto sia in ordine e pronto all’uso: Qui aiuta chi deve
recarsi al lavoro, lì compensa i suoi insuccessi. Il suo sguardo amorevole è una dote che non può mancare
nell’economia di tutti i membri della famiglia perché, ad esempio, a lui non piacciono le spese inutili e fa
sapere quando non è d’accordo.”
Vi capita di non trovare più un oggetto che avevate messo in un certo posto, di scivolare, o di inciampare
su un asse sconnesso e altri piccoli guai di casa? Ebbene ciò è dovuto al Domovòi che voi avete offeso
magari senza saperlo! Talvolta per ragioni incomprensbili il Domovòi tormenta gli animali della stalla i quali
di notte si sentono scalpitare e far rumore. In questo caso la donna (è suo compito preciso!) ricorre al Rito
della Convinzione con formule apposite per rabbonirlo!
Il Domovòi in caso di cambio di casa segue la padrona e per far ciò deve essere alloggiato con tutte le
attenzioni sul latòk e con cura trasferito nella nuova izbà! Ancor oggi nelle campagne russe si può vedere la
donna più anziana con il latòk in mano tenuto orizzontalmente che si reca quasi in processione nella nuova
abitazione insieme al suo Domovòi!
Un altro inquilino amico della donna è il gatto. Un proverbio russo infatti dice: Non c’è izbà senza gatto, né
cortile senza cane! Senza il gatto come fare a liberarsi dei topolini frugivori? Per questo motivo nei rituali del
mir quando s’inaugura la nuova izbà si lascia che sia il gatto il primo essere vivente ad entrare e a decidere
se tutto va bene perché questo dolce carnivoro porta anche fortuna (quello di “terzo pelo” specialmente!)
con la sua presenza! E poi il gatto sa quando arriva il bello e il cattivo tempo e persino quando c’è un ospite
che si avvicina poiché in questo caso si liscia e si “lava”! Il suo posto preferito? Quando non vaga nell’izbà
fredda alla ricerca dei topi o nel giardino, è sempre sul cosiddetto tetto della pec’ka a sonnecchiare, ma
sempre vigile. Dunque un guardiano sicuro e tranquillo per la padrona di casa…
A parte le occupazioni “domestiche” la donna conservava molti dei diritti pari a quelli dell’uomo, almeno
quanto alle decisioni politiche, poiché sappiamo che partecipava alla Vece con pieno diritto di voto. Inoltre,
siccome la donna giungeva più frequentemente dell’uomo ad età venerande, ciò la portava a diventare non
solo una persona di riferimento per tutta la comunità (una cosiddetta znaharka), ma non era neppure
escluso che riuscisse a diventare una capo-clan pari ad un ciur!
Un triste obbligo della donna, specialmente per quelle dell’élite al potere, rimase invece per molto tempo
quello di morire bruciata accanto a suo marito… non avendo il diritto di sopravvivergli! La prima di cui
abbiamo notizia che interrompesse questo macabro rito, fu Olga di Kiev che avendo un bimbo piccolino
ancora da accudire, riuscì a farsene dispensare, ma dovette prendere su di sé il compito di vendicare la
morte del marito ucciso dai Drevljani… E qui si innestava una curiosa abitudine slava. Se una ragazza moriva
prima di essersi sposata, la si dava in moglie ad un ragazzo del vicinato subito mentre era ancora in corso il
rito funebre e costui era considerato suo vedovo. Al contrario, se un ragazzo moriva prima di essersi
sposato, si trovava una ragazza disposta a sposare il morto e a tenere il lutto per lui prima di risposarsi! Era
disdicevole infatti per ragazzi e ragazze da marito morire senza consorte!
Un’abitudine abbastanza razionale, ma crudele in un certo senso (ma coinvolgeva entrambi i sessi), era il
ritiro nella foresta delle vedove anziane sconsolate e ormai inutili economicamente alla comunità. Si pensava
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che in quell’ambiente magico esse non morissero, ma si trasformassero in animali o in alberi e perciò una
timorosa riverenza particolare era dovuta loro, se queste vecchie persone si incontravano presso i crocicchi
dei sentieri. Da questo scaturiva anche il timore e la venerazione dovuti a tutti gli esseri invisibili che
sembravano venir fuori dalla selva perché alla fine… erano dei parenti (in russo navi) trapassati!
Il ruolo femminile più o meno come l’abbiamo descritto sopra si mantenne per secoli quasi senza
mutamenti benché la Chiesa e il Cristianesimo tentassero di demonizzare la donna in tutti i modi. Nelle
Cronache Russe si dice chiaramente che i cristiani (e i monaci in particolare) vivono secondo la legge scritta
(del Vangelo) e “loro” (i pagani nei villaggi) secondo i loro costumi diabolici intrisi di sesso selvaggio e di cibi
proibiti, di depravazione dei costumi di famiglia etc. etc. e tutto… per colpa della donna! Solo verso il XIII
sec. sotto il giogo tataro, la donna cominciò a dover subire la segregazione dal mondo maschile e
l’esclusione parziale dal suo ruolo decisionale e politico nella comunità.
Riallacciandoci perciò alla donna come essere magicamente riproduttore ecco che al sovrapporsi della
mitologia cristiana su quella pagana, nel mir la figura della Madonna prevalse su quella di qualsiasi altro
personaggio santo femminile e a lei furono dedicate molte chiese della Rus’ di Kiev. E’ la figura della
Madonna che così comincia a dominare tutte le feste e le celebrazioni russe. Al 15 agosto si festeggia
addirittura la sua dipartita da questo mondo salendo al cielo mentre dorme in un sonno che sta fra la morte
e l’oblio totale (Uspenie in russo). E’ l’ultima festa dell’estate secondo la tradizione cristiana e annuncia
l’inverno che però, per la divisione dell’anno greco-bizantina, deve esser preceduto dall’autunno. Così l’8
settembre ecco riapparire un’altra festa della Madonna: la sua nascita! E non è finita! Evidentemente
mascherando un antico rito pagano dedicato alla Madre Umida Terra in questo giorno la Madonna aiutava
nella prima mattinata le donne a richiamare il bestiame dai pascoli e che proprio ora era trasferito nel hlev
ossia nella stalla (logicamente non si dimenticava di offrire qualcosa anche allo spirito della stalla, al Hlevnik,
affinché continuasse il suo servizio di protezione delle bestie). Siccome questa era un’occupazione
prettamente femminile, ecco che le donne si recavano tutte insieme presso le rive di un lago o di un fiume o
di altra corrente d’acqua per festeggiare questo evento. Portavano con sé molti pani fatti con farina d’avena
e si celebrava l’incontro con la Madonna d’Autunno (Matusc’ka Osenina) con una specie di picnic sulle rive. I
pani d’avena non venivano consumati, ma, benedetti a rito compiuto, venivano spezzati con le mani e dati
da mangiare agli animali rinchiusi ormai nel hlev.
C’era anche la festa del Rinnovo del Fuoco (Kupala) che sapientemente la Chiesa consacrò alla Madonna,
quando la popolarità del culto della Vergine fu abbastanza consolidata, proprio al posto della festa pagana di
Kupala. Una festa particolare tutta russa diventò invece quella del Manto della Vergine. Questa celebrazione
aveva origine da una leggenda importata da Costantinopoli in cui si raccontava che nel 911 d.C. l’apparizione
del manto (in russo pokrov) della Vergine nel cielo aveva sbalordito tutti, cristiani e infedeli musulmani
presenti in armi contro la città. L’attacco era stato così sventato, i nemici erano stati respinti e Costantinopoli
era stata salvata! Anche in questo caso moltissime icone e chiese sono dedicate a questo scialle della
Madonna e non solo! E nella Rus’ di Kiev la Festa del Manto della Vergine del 1° ottobre divenne la più
popolare e la più solenne delle feste “femminili”. Anzi! Lo scialle con su ricamati motivi di fiori (specialmente
rose) acquistò una dignità nuova per la contadina che considerava questo capo di vestiario il più importante
da mettere in mostra nelle feste e nelle solennità maggiori!
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