In margine alla ricerca della `santità senza Dio` in Albert
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In margine alla ricerca della `santità senza Dio` in Albert
In margine alla ricerca della ‘santità senza Dio’ in Albert Camus,* coincidenze con Tarquínio Antero de Quental** di Salvatore Statello «Insomma, dice Tarrou con semplicità, ciò che m’interessa è di sapere come si diventa santi. Ma lei non crede in Dio – gli fa osservare Rieux. Bene, ma si può essere santi anche senza Dio, è il solo problema concreto che io conosca oggi»1. Niente di più sublime contiene questa dichiarazione di Albert Camus e nello stesso tempo niente di più contrario di quanto afferma il cattolicesimo; la santità, secondo la dottrina della Chiesa, è il grado più alto della perfezione che il credente possa raggiungere, partecipando alla santità di Dio. Presso alcuni popoli si riconosceva la «sanctitas civilis», alla quale corrispondeva l’adesione alla «religio civilis», e questa sanctitas indicava il raggiungimento della saggezza, della conoscenza, della probità morale, *) Albert Camus nacque il 7 novembre 1913 a Mondovì, periferia di Algeri. Figlio di una povera famiglia di 'pieds noirs', poté continuare gli studi grazie all'interessamento del suo maestro delle scuole elementari, Louis Germain. Laureatosi in filosofia, lasciò l'Algeria e si trasferì in Francia. Qui partecipò alla Resistenza. In questo periodo fu ospite presso il convento Saint Jacques, dove venne a contatto con i teologi R.-L. Bruckberger, Y. Congar e M. D. Chenu. All'inizio si dedicò al giornalismo e, successivamente, lavorò presso la casa editrice Gallimard. Nel 1957 fu insignito del Premio Nobel per la letteratura. Morì tragicamente il 4 gennaio 1960, in seguito ad un incidente stradale. Tra le opere lasciateci, oltre a quelle menzionate nelle note successive, si ricordano: L'Etat de Siège, Révolte dans les Asturies, L'Exil et le Royaume, La Mort Heureuse, Le Premier Homme (romanzo incompleto), Noces, Lettres à un Ami Allemand, Actuelles (articoli pubblicati sui giornali, testi di conferenze e di interviste), L'Eté, Réflexion sur la Gouillotine, Discours de Suède (in occasione del conferimento del Nobel), Essais Critiques (brevi saggi critici), Carnets (appunti) e altri testi tuttora in via di pubblicazione. **) Tarquínio Antero de Quental nacque il 18 aprile 1842 a Ponta Delgada (Isole Azzorre). Dopo i primi elementi d'insegnamento impartitigli da A. F. de Castilho (uno dei maggiori poeti del momento), frequentò le scuole alternandosi tra il paese natale e Lisbona. Nel 1856 si trasferì a Coimbra e due anni dopo s'iscrisse alla facoltà di Diritto. Intanto cominciò a scrivere e a pubblicare i primi componimenti poetici, articoli e fondò 'O Académico' (1860), mentre due anni dopo pubblicò O Manifesto dos Estudiantes da Universidade de Coimbra. Nel 1865 pubblicò la silloge Odes Modernas e cominciò ad organizzare la contestazione studentesca, rimasta famosa come la «Questão Coimbrã», e pubblicò il pamphlet: Bom Senso e Bom Gosto. L'anno seguente si trasferì a Parigi, dove conobbe Michelet. Rientrato in Portogallo pubblicò il saggio: Portugal Perante a Revolução de Espanha. Nel 1869 effettuò un viaggio negli Stati Uniti e l'anno successivo, insieme ad altri, fondò 'A República’. Nel 1871 organizzò le 'Conférencias Democráticas do Casino Lisbonense', per le quali preparò il saggio: Causa da Decadência dos Povos Peninsulares nos Últimos Três Séculos. Nel 1872 pubblicò Primaveras Românticas. Ma nel 1874 cominciò ad avvertire i primi disturbi psichici, che lo riportarono a Parigi per sottoporsi alle cure del dottor Charcot. Nel 1871 avevano visto la luce i Sonetos, il capolavoro del poeta. Intanto aderì ai movimenti politici operai e fu persino candidato deputato per il Partito Socialista. Nel 1886 pubblicò i Sonetos Completos, e tre anni dopo il saggio filosofico: Tendências Gerais da Filosofia na Segunda Medade du Seculo XIX. Vinto da un certo scoramento, pose fine alla sua vita l'11 settembre 1891. 1 ) Albert Camus, La Peste, in Théâtre, Récits, Nouvelles, Paris, Gallimard, 1967, p. 1427. Le traduzioni dalle lingue straniere sono nostre. 1 della pietà, ed altre virtù. Sante erano le leggi della Stato, soprattutto presso i Romani. Lo stesso Albert Camus aveva scritto: «Senza averlo mai confessato, tutta la filosofia greca fa del saggio un essere uguale a Dio... tutto l’universo ruota attorno all’uomo»2: una visione antropocentrica del mondo, dunque. Il ‘santo’ era una persona ‘sacra’, cioè inviolabile, ossia ‘separata’ dal resto degli uomini, e in questa ‘separazione’ il ‘santo’ viveva ad un livello morale superiore a quello dei suoi simili, elevandosi ad una somiglianza con divinità. Ma nel popolo cristiano il santo, oltre alle virtù praticate presso i popoli antichi, necessita di una vita vissuta in continuo rapporto con Dio, per mezzo della grazia. Venendo sulla terra, ancora secondo il Cristianesimo, Cristo ha portato agli uomini la ‘salvezza’, facendoli partecipi della vita divina, ossia dello stato di ‘santità divina’, che non è dell’uomo, ma che proviene da Dio, poiché solo lui è il santo, com’è spesso ribadito nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, e com’è stato confermato nel documento del Concilio Vaticano II: Lumen Gentium. Alcuni decenni prima degli studi di Camus, Nietzsche aveva proclamato apertis verbis: «Dio è morto». Nello 'status' di orfani, che tale affermazione comportava per l'uomo, per non perire, non resta che l'autodeterminazione e la creazione di una morale nuova tale da aprire il cammino anche verso una 'santità laica'. Quindi non resta all'uomo che affrontare il proprio destino: «scegliere tra il mondo e Dio»3, tra un Dio morto e un mondo da costruire e da difendere. Da qui la «tragedia dell’uomo senza Dio»4 e il dilemma di Camus, che era cresciuto sì in una famiglia poco praticante, la quale partecipava alla vita religiosa solo per gli aspetti più esteriori e superficiali, come egli stesso accenna nelle sue opere5, ma che si era interessato alle problematiche religiose, avendo preparato la sua tesi di laurea su La Méthaphysique Chrétienne et le Néoplatonisme, e conosceva, quindi, le problematiche cristiane dei primi secoli: tutte le varie correnti dottrinarie della nuova religione, comprese le laceranti eresie, sino all’affermazione del pensiero di S. Agostino e le influenze da questi subite dalla filosofia di Plotino. 2 ) A. Camus, Métaphysique chrétienne et Néoplatonisme, in Essais, Paris, Gallimard, 1965, p. 1226. ) A. Camus, Méthaphysique..., o. c., p. 1231. 4 ) Ibidem, p. 1228. 5 ) Cfr. «Mia madre, senza essere atea, non aveva mai pensato alla religione durante la sua vita» (L'Etranger, in Théâtre... p. 1129); e a proposito della nonna, donna che dominava tutta la famiglia, così scrive: «Al di là della sua corona del rosario, del cristo e del san Giuseppe, dietro a queste cose si apriva un profondo vuoto dove lei metteva tutta la sua speranza» (L’Envers et l’Endroit, in Essais, o. c., p. 16). 3 2 Nella sua ricerca filosofica, Camus, rifiutando Dio, ha accolto solo una componente della santità, quella originaria: cioè la morale. Francesco Lazzari ricorda che: «… tra il marzo e l’agosto del 1942 Camus aveva meditato sul problema della santità senza dio. ‘Che cosa è ciò che io medito di più grande di me e che avverto senza poterlo definire? Una specie di difficile cammino verso la santità della negazione – un eroismo senza dio – l’uomo puro infine. Tutte le virtù umane, ivi compresa la solitudine, riguardo a Dio’»6. E la meditazione non si ferma qui. Continua ancora il Lazzari: «… lo stesso Camus sembra essersi posto il problema del significato della santità tra l’ottobre del 1949 e il gennaio 1950. Nei Taccuini, infatti, egli riporta un passo di Maritain che considera la santità come una forma di rivolta: “anche la santità è una rivolta: è rifiutare le cose così come sono. È prendere su di sé le sventure del mondo”» 7. E questa responsabilità di fronte alle «sventure del mondo», Camus, cerca di attribuirla a un colpevole; mutuando un concetto da Epicuro, qualche anno prima, infatti, in Le Mythe de Sisyphe aveva affermato: «… si conosce l'alternativa: o noi non siamo liberi e Dio onnipotente è responsabile del male. O noi siamo liberi e responsabili, ma Dio non è onnipotente»8. E come tutti i grandi scrittori sono figli del proprio tempo e lo interpretano, anche Camus non sfugge alla regola. Consapevole, quindi, di vivere nel periodo di «una storia desacralizzata»9, poiché è venuto a mancare il 'sacro', passa ad una concezione profana e totalmente umana della Storia. Quindi, per lui non resta che l'etica per far fronte alla storia dell’uomo, perché «Dio non può far niente. La giustizia è un affare nostro [cioè degli uomini]»10. Perciò la ‘giustizia’, una delle principali virtù, la si deve intendere come la sintesi della soluzione delle problematiche degli uomini. Qui affondano le radici del suo ‘umanesimo’ proiettato in una dimensione tutta terrestre, in cui l’uomo è artefice solitario nella lotta contro il suo tragico destino. Per questo i suoi personaggi professano un'etica che indica il cammino verso questo tipo di santità. Venendo meno la tensione ascensionale verso l'alto, la metafisica, la santità si orienta orizzontalmente, verso gli uomini. La Peste, romanzo pubblicato nel 1947, è l’opera più significativa di Camus per l’argomento qui trattato. In essa si raggiunge l'espressione più 6 ) Francesco Lazzari, Camus e il cristianesimo, Napoli, Libreria Scientifica, 1965, pp. 43. Ved. A. Camus, Carnets II, Paris, Gallimard, 1964, p. 31. 7 ) Ibidem, p. 77n. Ved. A. Camus, Carnets II, o. c., p. 298. 8 ) A. Camus, Le Mythe de Sisyphe, in Essais, o. c., p. 140. 9 ) A. Camus, L’Homme Révolté, in Essais, o. c., p. 431. 10 ) A. Camus, Les Justes, in Théâtre..., o. c., p. 361. 3 alta della sua visione del male e della lotta per combatterlo. Se nelle prime opere, L’Étranger e Le Malentendu, i personaggi venivano investiti dal Male e lo subivano non avendo i mezzi adeguati per combatterlo, in questo romanzo, dopo le esperienze politiche del Nazifascismo e della Resistenza, con una visione della realtà ancora più tragica, essi affrontano il male per combatterlo e per vincerlo, anche se provvisoriamente. Plotino, su cui Camus, come accennato, aveva preparato la sua tesi, aveva scritto: «Noi non siamo il principio dei nostri mali, come se fossimo cattivi in noi stessi; già prima di noi, invece, esistono questi mali»11. Ma questo 'male' preesistente all’uomo, a causa di una caduta o originato dal proprio agire, come dice Paneloux, il sacerdote personaggio del romanzo («Fratelli, siete nella sventura, fratelli, l’avete meritato... »), va combattuto. Bernard Rieux, il medico che lotta contro l’epidemia, non sta a discettare con teorie ermeneutiche sulla causa della presenza della peste che aveva invaso «una città felice», ma si adopera col suo spirito di abnegazione e con i pochi mezzi a disposizione, per salvare la città. Perché «forse è meglio per Dio non credere in lui e che si lotti con tutta la forza contro la morte, senza alzare gli occhi verso il cielo dove egli tace»12. Da qui la rivolta metafisica che porta l'uomo, secondo Camus, ad ergersi contro la sua condizione 13 e, quindi, a rinunciare a Dio per amore verso le 'creature'. E in Les Justes, la sua opera teatrale più significativa, ci dice: «[S. Demetrio] aveva un appuntamento con Dio in persona nella steppa, e si affrettava allorché incontrò un contadino la cui carretta si era impantanata. Allora san Demetrio l'aiutò. Il fango era spesso e il pantano profondo. Bisognò lottare un’ora. E quando tutto fu finito, san Demetrio corse all’appuntamento. Ma Dio non c’era [...]. E allora ci sono coloro che arriveranno sempre in ritardo all’appuntamento perché ci sono troppe carrette impantanate e troppi fratelli da soccorrere»14. Come si sa dalla tradizione popolare, in casi simili, generalmente è Dio che precede e va incontro agli uomini. Ma Camus, in questo episodio, tratto da Dostoevskij, sovverte il tradizionale insegnamento morale, fermandosi solo all’interpretazione letterale, traendo, così, un significato tutto umano: non è l’uomo che non va all’appuntamento, ma è Dio, un dioimpaziente, che non sa aspettare. Così Dio resta totalmente estraneo e 11 ) Plotino, Enneade, I, 8, 5. Cfr. Pietro Prini, Plotino e la genesi dell’umanesimo interiore, Roma, Abete, 1968, p. 76, in ‘Teoresi’, Anno XXIX, n. 3-4 (Luglio-Agosto 1974), p. 294. 12 ) A. Camus, La Peste, o. c., p.1323. 13 ) Cfr. A. Camus, L'Homme…, o. c., p. 432. 14 ) A. Camus, Les Justes, o. c., p. 362. 4 impotente dinanzi alle cose della terra. Sono gli uomini che, rimasti senza speranza e senza la credenza in un Dio-Provvidenza, riscattano il mondo e si sacrificano per il suo bene. Ma cosa spinge gli uomini di Camus a dedicarsi e a sacrificarsi per gli altri? Rieux dice che è «la miseria»15, che egli ha conosciuto, a spingerlo verso quest’atto di generosità; mentre Tarrou, l’aspirante alla ‘santità senza Dio’, dice quali sono le forze e i sentimenti che lo spronano ad agire: «la comprensione»16 e «la simpatia»17; virtù queste, che, nel loro significato più intrinseco, vogliono indicare, la prima, la facoltà di comprendere con l’intelletto, innanzitutto, mentre la seconda, la ‘simpatia’, il sentire o patire col cuore insieme ad altri. Ed ecco che, per questa ‘partecipazione’ alla sofferenza altrui, «si può avere vergogna ad essere felice da solo»18. Motivo che convince Rambert, il giornalista straniero, che voleva fuggire da Oran per raggiungere la sua donna in Francia, a restare nella città appestata e lottare anche lui contro il morbo. Come la fede nel Dio di Paneloux porta allo scacco, così, qualche anno prima, la ricerca dell’assoluto o di qualcosa che fosse 'altro' era sfociata nella follia e nel crimine. Caligola, il giovane imperatore, dopo la morte di Drusilla, la sorella-amante, scopre che l’amore è «poca cosa» e che «… questa morte non è niente, [...] essa è soltanto il segno di una verità [...] semplice e chiara, un po’ stupida, ma difficile da scoprire e pesante da portare. [...] Gli uomini muoiono e non sono felici». E poco prima aveva affermato: «… io non sono folle e non sono mai stato così ragionevole. Semplicemente, ho sentito all’improvviso il bisogno dell’impossibile. Le cose, così come sono, non mi sembrano soddisfacenti [...]. È vero. Ma io non lo sapevo prima. Adesso lo so. Questo mondo, così com’è fatto, non è sopportabile. Io ho dunque bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalità, di qualche cosa che sia anche folle, ma che non sia di questo mondo»19. Dopo questo tentativo impossibile di raggiungere qualcosa di trascendente, i personaggi di Camus abbandonano la ricerca di ‘qualche cosa che non sia di questo mondo’ per realizzare la 'città terrestre'. Così anche in Le Malentendu i personaggi aspiravano a qualcosa 'altro', che non rientrava nella prassi della loro vita contingente. Una fuga 15 ) A. Camus, La Peste, o. c., p. 1324. ) Ibidem, p. 1325. 17 ) Ibidem, p. 1427. 18 ) Ibidem, p. 1389. 19 ) A. Camus, Caligula, in Théâtre..., o. c., p. 16/15. 16 5 alienante, dunque, una fuga dalla loro realtà, che non sapevano accettare: è per un'altra patria che ci si era messi in cammino20. Se Le Mythe de Sisyphe si apriva, come sostiene Charles Moeller, con l’affermazione: «… non c’è che un solo problema filosofico veramente serio, il suicidio», Camus nel 1948, continua sempre il Moeller, «…per bocca di Tarrou, sostituisce a questo problema quello della santità nell’ateismo»21. Tarrou è coerente con questo ideale; volontariamente si mette al servizio degli ammalati e alla fine morirà di peste. Egli affronterà la morte con piena coscienza. Accortosi dei primi sintomi del contagio, dirà a Rieux: «… bisognerà dirmi tutto, io ne ho bisogno... non ho voglia di morire ed io lotterò. Ma se la partita è perduta, voglio fare una buona fine». Ma risponde l’amico, «Per diventare santo, bisogna vivere. Lotti»22. E la serenità della ‘buona fine’ di Tarrou, descritta dall'autore, è quella di un ‘santo’, un uomo che è stato «capace di grandi cose... e di morire per un’idea visibile ad occhio nudo»23. Però André Blanchet, criticando questa ‘buona fine’ e la generosità con la quale il personaggio si era dato all’attività di soccorso degli appestati, considera questa morte come una «tensione stoica, attitudine completamente negativa» e si domanda: «Ciò è vivere? è la disperazione allo stato perfetto»24. Mentre Gabriel Marcel ha scritto: «In altri termini, se c’è nell’opera di Camus una falla, una ferita da dove potrebbe penetrare il mistero della grazia, è in queste pagine che bisogna cercarla»25. Paul Viallaneix è andato oltre: «Tarrou non rifiuta, in verità, questo Dio di cui si prende la pena di citare il nome. Egli lo tratta da assente. Egli pensa ad una santità che egli raggiungerebbe senza avere ricevuto l’assicurazione preliminare della sua elezione, senza garanzia, cioè nella gratuità»26, così come avevano ipotizzato alcuni uomini antichi. Tarrou ha tutte le caratteristiche del 'santo'; le più spiccate sono la sua continua ricerca interiore e il suo spirito di solidarietà verso gli altri, cioè la carità; così come anche Rieux, il suo alter ego, che non ha aspirazioni né per la santità né per l’eroismo, cerca «di essere un uomo»27 solidale con 20 ) Cfr. A. Camus, Le Malentendu, in Théâtre, o. c., p. 179. ) Charles Moeller, Littérature du XX siècle et christianisme I, Paris, Castermann, 1963, p. 42. 22 ) A. Camus, La Peste, o. c., p. 1453. 23 ) Ibidem, p. 1351. 24 ) André Blanchet, La Littérature et le spirituel, ‘Le pari d’Albert Camus’, Paris, Aubier, 1961, p. 224. 25 ) Cfr. C. Moeller, o. c., p. 64. 26 ) Paul Viallaneix, L’incroyance passionnée d’A. Camus, in Les critiques de notre temps et Camus, Paris, Garnier, 1970, p. 126. Ved. Anche: «… un perfetto saggio, come Antigono di Soco, poteva sostenere che si doveva esercitare la virtù non per la ricompensa, come lo schiavo, ma essere virtuosi anche senza speranza». Ernest Renan, Vita di Gesù, Roma, Biblioteca Economica Newton, 1994, p. 33. 27 ) A. Camus, La Peste, o. c., p. 1427. 21 6 i vinti, facendo il proprio mestiere di medico. E Tarrou gli fa osservare che proprio questa missione vissuta così coerentemente, ha il peso e la consistenza di un ideale di santità. Infatti, gli dice: «… noi cerchiamo la stessa cosa»28. E Camus, a proposito della santità e dell’eroismo, idee che lo interessavano particolarmente, aveva appuntato: «L’eroismo e la santità sono virtù secondarie. Dopo aver fatto prova di coraggio»29. Poco tempo dopo, ritorna di nuovo all’argomento: «L’eroismo e la santità sono virtù secondarie. Ma bisogna averle provate»30. Ed egli, in questi suoi personaggi, ci presenta degli eroi e dei santi senza Dio, che operano solo per amore verso gli uomini sofferenti. Dopo la pubblicazione de La Peste, la critica definì Camus come un santo laico e lo identificò frettolosamente con Tarrou. «In realtà Camus non è né Tarrou, né Rieux, né Rambert... È possibile però riconoscere alcuni aspetti della sua personalità nella congiunzione Tarrou-Rieux: Tarrou rappresenta l’incarnazione delle sue ansie di totale salvezza per l’uomo, di scoperta d’una finalità e di un valore trascendente; Rieux corregge questo slancio generoso con la sua ‘onestà’, che si propone di compiere al meglio possibile i doveri di ogni giorno»31. André Maurois puntualizza: «… nel dialogo del medico e Tarrou, si indovina un dialogo di Camus con Camus. Tarrou, che è un intellettuale, prova un confuso desiderio di agire da santo – senza la fede; Rieux, uomo del popolo per nascita, prova questa fraternità oscura dei poveri che si aiutano reciprocamente con le azioni, non con le parole. In Camus, ragazzo di Belcourt, coesistono Tarrou e Rieux, il desiderio di essere un santo senza Dio e la volontà di fare il proprio dovere quotidiano»32. Così si può dire anche di Rambert: egli, dopo aver tentato di abbandonare Oran, la città appestata, alla fine, piuttosto che ‘essere felice da solo’, ma perseguitato forse da un sentimento di vergogna, preferisce restare, poiché ‘questa storia’, ormai, riguarda anche lui33: la solidarietà umana è superiore agli affetti personali. Alle virtù di questi personaggi di una certa levatura intellettuale, si associano quelle di Grand. Il nome di quest'uomo ha qualcosa di ambiguo e d’ironico. Grande lo è fisicamente, ma non certamente nella riuscita della sua vita. Mediocre impiegato comunale, 28 ) Idem. ) A. Camus, Carnets II, o. c., pp. 123/124. 30 ) Ibidem, p. 128. 31 ) François Livi, Camus, Firenze, Il Castoro, 1971, p. 70. 32 ) André Maurois, De Proust à Camus, Paris, Perrin, 1963, p. 335. 33 Cfr. A. Camus, La Peste, o. c., p. 1389. 29 7 abbandonato dalla moglie, viveva nel ricordo di questa. Al momento della epidemia si offre volontario per soccorre gli appestati. «Il narratore crede che Grand era il rappresentante reale di questa virtù ... Egli aveva detto sì senza esitazione, con la buona volontà che gli era propria. Egli aveva chiesto di rendersi utile nelle piccole cose... egli poteva dare il proprio tempo»34. A tale proposito fa notare la King: «Grand è un eroe perché agisce per buoni sentimenti; [...] perché sente che gli uomini devono aiutarsi l’un l’altro [...]. Egli combatte la peste ma non è dominato dal suo potere disumanizzante. [...] Grand è, ironicamente, il personaggio più ammirabile del romanzo» 35. Ma i personaggi engagés di Camus, non sono impegnati solo, come nel caso dell'epidemia, contro un male che può contagiare tutti, ma anche contro il male sociale, ossia politico, e sono, quindi, alla ricerca della giustizia. Anche questa ricerca avviene con spirito di totale dedizione. Per questo motivo, in Les Justes, Dora, il personaggio femminile dell'opera, dice: «Noi non siamo di questo mondo, noi siamo dei giusti» 36. E proprio per questo forte senso della giustizia, come già annunciato, scelgono di morire, quasi da martiri, «affinché il crimine non trionfi»37. Qui il linguaggio riecheggia quello biblico. Questi 'giusti'38 sono dei rivoluzionari russi, che agiscono per liberare il loro paese dalla tirannia. Ancora una volta c’è la scelta per le ‘cose’ della terra, per la giustizia. Ma tale scelta può sembrare un’antitesi: questi uomini, rinunciando proprio a ‘questo mondo’ scelgono di salvare il mondo: un’ascesi per la salvezza di ‘questo mondo’, sapendo di dover morire per esso. Ed è sempre Dora a farsi interprete dell'ideale del gruppo, facendo proprie le parole di Isaia: «Noi abbiamo preso su di noi il dolore del mondo» 39. E quest'ascesi, senza la grazia, necessita della dedizione assoluta. Per questo motivo Stepan, altro personaggio della pièce, fissa i limiti: «Per noi che non crediamo in Dio, è necessaria tutta la giustizia o è la disperazione»40. Perciò la Carazzolo vede questi personaggi «… su un piano di totale dedizione di sé che si suole chiamare santità»41. 34 ) Ibidem, p. 1328. ) Adele King, Che cosa ha veramente detto Camus, Roma, Ubaldini Editore, 1970, p. 76. 36 ) A. Camus, Les Justes, o. c., p. 353. 37 ) Ibidem, p. 341. 38 ) È bene ricordare come già lo stesso titolo dell'opera sia denso di significato: dice la Bibbia a proposito del 'giusto': «[egli] è colui che poteva peccare, ma non peccò; poteva fare il male ma non lo fece» (Ecclesiatico, XXXI, 10) 39 ) A. Camus, Les Justes, o. c., p. 384. 40 ) Ibidem, p. 355. 41 ) Maria Carazzolo, L’etica di A. Camus, in Humanitas V, 1950, p. 1202. 35 8 A concludere l’opera c’è il sacrificio di Kaliayev, che assume un significato redentivo, anche se nulla di specificamente religioso c’è nel suo gesto. L’unica connotazione cristiana è il segno di croce che egli fa prima di partire per la propria esecuzione capitale. Per questo gesto i suoi compagni lo definiscono «anima religiosa». Il Lazzari ha commentato: «… con una duplice rinuncia alla speranza divina e a quella umana42, Kaliayev risolve l’amore nel sacrificio, ma questo diviene infine una nuova felicità, la gioia della innocenza riconquistata»43. L’ultimo personaggio che avrebbe potuto interpretare questo tipo di ‘santità’ è Clamence, il protagonista, o l’io narrante, de La Chute44. La sua esperienza conosce un’evoluzione, o meglio un'involuzione, rispetto agli altri personaggi sin qui conosciuti: egli passa da una vita di santità, tutta esteriore, a un cinismo sconcertante. Dice di se stesso: «Si sarebbe potuto credere che la giustizia dormisse con me tutte le sere. [...] L’avidità che nella nostra società ha il posto dell’ambizione, mi ha sempre fatto ridere. Io miravo più in alto. [...] Per esempio, adoravo aiutare i ciechi ad attraversare la strada. [...] Persino nei dettagli della vita, io avevo bisogno di essere al di sopra...»45. Ma questa vita da 'santo' non poteva durare a lungo, perché artificiosa. Così anche questa 'santità apparente', come già la ricerca di 'qualcosa che non sia di questo mondo', si risolve in uno scacco. Ed una sera, infatti, sul ‘Pont des Arts’ Clamence scopre che l’uomo ha «due facce», e da quel momento comincia ad analizzare spietatamente questo suo secondo Io: «… una faccia doppia, un meraviglioso Giano. [...] Bisogna riconoscerlo. [...] Ho sempre crepato di vanità. [...] Quando mi occupavo degli altri, [...] non mi ricordavo che di me stesso»46. Conseguentemente Clamence rinuncia a questa sua vita, mettendo a nudo, con la confessione, le pieghe più recondite del suo Io. In La Chute si ha un salto di qualità; dalla fase della 'solidarietà' si passa a quella della 'solitudine': l'uomo da solidaire diventa solitaire, come l'autore aveva sperimentato dopo la pubblicazione de L'Homme Révolté e della conseguente rottura dell'amicizia con Jean-Paul Sartre. Forse una risposta 42 ) Si ricorda che Kaliayev, l’assassino del Granduca di Russia, rinuncia alla grazia di aver salva la vita, offertagli proprio dalla Granduchessa. 43 ) F. Lazzari, o. c., p. 63. 44 ) Romanzo pubblicato nel 1956. L’edizione a cui faremo riferimento si trova in A. Camus, Théâtre..., o. c. Anche il titolo di quest’opera, come già Les Justes, richiama la Bibbia e alcune correnti di pensiero che ammettono la ‘caduta’ dell’uomo. 45 ) A. Camus, La Chute, o. c., pp. 1484/1487. 46 ) Ibidem, pp. 1499/1501. 9 a questa contraddizione si sarebbe potuta trovare in Le Premier Homme, se la vita dell'autore non fosse stata spezzata prematuramente. L’unico personaggio che nelle opere di Camus poteva raggiungere la ‘santità’, secondo i canoni cattolici era il gesuita Paneloux. Ma Camus di proposito lo ha creato tale che non potesse realizzare pienamente la sua missione sacerdotale e raggiungere lo stato di santità perché è già in crisi e per questo si rifugia nel dogma. Dice ancora Lazzari: «Il personaggio di Paneloux è abbozzato nei Taccuini (aprile 1941): ‘un giovane prete perde la fede davanti al pus nero sprigionato dalle piaghe. Porta via i suoi oli... Bisogna che tutto si paghi’. In un altro passo, precedente (aprile 1940), si parla invece di un prete che era felice del suo stato, ma che perde la fede dopo aver assistito agli ultimi istanti di un condannato a morte»47. Così si sostiene, da un lato, la ricerca della ‘santità senza Dio’ e, dall’altro, la desacralizzazione, se così si può dire, della persona sacra. Paneloux, erede di una tradizione cristiana, davanti alla morte dell’innocente non sa resistere, non perde la fede ma si rifugia passivamente nell'accettazione del castigo divino: il «credo quia absurdum est» agostiniano. Alla fine la morte del prete, a causa della peste, è quella di un disperato che non ha niente a che vedere con la ‘buona fine’ di Tarrou. Ed è proprio nell’uomo di fede che non c’è la santità, anche se questi fa spesso riferimento a Dio, ma a un dio impotente. Apparentemente sembra potersi concludere che anche questa ricerca di ‘santità senza Dio’, con La Chute, approdi ad uno scacco. Ma si deve convenire che in Camus essa è una pura tensione etica in una prospettiva totalmente umana ed esistenziale: cercare «di essere un uomo», senza sovrastrutture trascendentali. Così l’autore resta fedele ad un principio espresso nella sua prima opera giovanile, nella quale, parafrasando e sovvertendo il Vangelo, seguendo la lezione dei Greci, aveva scritto: «Tutto il mio regno è di questo mondo»48. **************************** Se Camus era nato e cresciuto in una famiglia povera e poco sensibile ai problemi religiosi, al contrario Antero de Quental era nato in una famiglia benestante, colta e molto religiosa, tanto che tra gli antenati si 47 48 ) F. Lazzari, o. c., p. 46 e p. 14. ) A. Camus, L'Envers …, o. c., p. 49; cfr. Métaphysique…o. c., p. 1225 . 10 annoveravano un venerabile e un docente universitario49, ed egli stesso durante l'adolescenza aveva pensato di abbracciare la vita religiosa. La fama di Antero è soprattutto legata alla sua produzione poetica, che raggiungesse la massima perfezione artistica nei 109 Sonetos. Queste composizioni, com'egli stesso scrisse nel 1887 a Wilhelm Storck, traduttore dell'opera in lingua tedesca, in filigrana si devono leggere come un'autobiografia spirituale. In molte di esse si evidenziano, in un continuo crescendo, sia il suo sviluppo intellettuale sia la sua adesione alle varie scuole di pensiero. Ma la poesia di Antero, oltre che una sincera confessione50, è una poesia trascendentale51 e persino rivoluzionaria, come afferma Hernâni Cidade52, che ne spiega il motivo: «… ad Antero non interessava lasciare alla posterità la storia della sua evoluzione spirituale, ma le idee che egli riteneva di maggiore benefica formazione collettiva» 53. Dunque, un messaggio all'umanità, una poesia didattica. L'anno precedente alla lettera a Storck, il suo amico Oliveira Martins aveva curato la pubblicazione de Os Sonetos Completos, dando ad essi anche una sistemazione definitiva. Il cui ordine progressivo, secondo alcuni, non corrisponde a quello cronologico della composizione. Lungo tutta l'opera si nota la costante tensione di una ricerca religiosa, spesso ascetica (forse anche grazie alla saudade, sentimento che caratterizza il popolo lusitano), di una ricerca metafisica, di scontro e di negazione della divinità. In una lettera del 1872, proprio a Martins aveva confidato, oltre ai suoi dolori e al suo taedium vitae: «Penso come Proudhon, come Michelet, come gli attivi [ma] sento, immagino e sono come l'autore dell'Imitatio Christi...»54. E il pensiero del poeta oscilla sempre nell'antitesi tra questi due estremi: da un lato l'impegno civile e l'appartenenza ai movimenti operai e rivoluzionari55, dall'altro la tendenza all'ascesi, sebbene «egli stesso riconosceva che, benché pensasse come un 'attivo', il suo 49 ) L'oratoriano padre Bartolomeo de Quental (1626/1698) e il dottor Filipe de Quental, zio paterno. ) Cfr. Leonel Ribeiro dos Santos, Antero de Quental, uma visão moral do mundo, Lisboa, Temas Portugueses, 2002, p. 25. 51 ) Ibidem, p. 21. 52 ) Hernâni Cidade, Antero de Quental, Lisboa, Editorial Presença, 1998, p. 28. 53 ) Ibidem. pp. 34/35. 54 ) Cfr. Ibidem, p. 29. 55 ) Il suo spirito irrequieto lo aveva portato spesso al pensiero di arruolarsi tra i volontari di Garibaldi, di cui nutriva tanta ammirazione, facendo l’ideale della sua vita quanto dice il verso petrarchesco: «... ch'un bel morir tutta la vita honora». A proposito della sua stima per il Condottiero nizzardo viene sempre ricordato questo episodio: il 2 ottobre 1862 il principe Umberto di Savoia, che accompagnava la sorella Maria Pia che andava sposa al principe ereditario del Portogallo, visitando l'Università di Coimbra, Antero lo salutò pubblicamente come l'amico di Garibaldi e non come l'erede al trono d'Italia. Cfr. António José Saraiva - Óscar Lopes, História da Literatura Portuguesa, Porto, Porto Editora, LDA, 5a Edição, p. 858. 50 11 temperamento (e la sua salute) facevano di lui un contemplativo» 56. A tale proposito Cidade, citando Mariano Machado, ci dice che Antero, oltre che per questa «natura contemplativa», non si era dedicato all'azione, come l'avrebbe richiesto l'ideologia socialista, anche per «un certo scetticismo che dominava il suo spirito e forse le esigenze del suo temperamento di fidalgo»57. Entrando nel merito dell'analisi dei Sonetos, bisogna subito sottolineare che, se da Proudhon il nostro poeta attinge le idee politiche, è da Michelet che prende soprattutto quelle religiose, come vedremo in seguito. La raccolta dei sonetti, infatti, si apre con il componimento: Ignoto Deo58, dove Antero esprime così la sua angoscia: «Per il mondo cerco un Dio clemente, / Ma gli trovo solo l'altare… vecchio e spoglio...», per continuare, che questo simulacro divino è per lui: «Pura essenza delle lacrime che verso / E sogno dei miei sogni! [e gli chiede subito dopo] Se sei verità, / Svelati!, visione, almeno in cielo!». E l'Ignoto Dio, il cui altare a Paolo di Tarso59 ha dato l'occasione di rivelare agli Ateniesi la buona novella, resta, invece, muto alla richiesta del poeta, così come muto è stato nell’opera di Camus, quando durante la peste gli si chiede il miracolo di guarire il figlio del giudice Othon60. Questo silenzio di Dio porta entrambi gli autori alla rivolta. Camus scrive che non s'inginocchierà mai sotto un cielo dove i bambini sono torturati61, mentre Antero col suo sarcasmo arriva ad una imprecazione ingiuriosa: «O Dio grande, o Dio forte, o Dio terribile, / Non sei che una vana banalità!»62. Sembra concludere questa costante 'disputa' con la divinità in maniera circolare, tornando, alla fine, al punto di partenza, col riconoscere quell'Ignoto Dio. Almeno così è nell'ordine dato alla raccolta dei sonetti compilata da Oliveira Martins, che come si è accennato, a parere di qualcuno, pare che sia stata una forzatura dell'amico63. Infatti chiude la silloge il sonetto Na mão de Deus: «Nella mano di Dio, nella sua mano destra, / Riposò finalmente il mio cuore. / Dal palazzo incantato dell'Illusione / Scesi la stretta scala lentamente […] Deposi, dell'Ideale e della Passione, / La forma transitoria ed imperfetta. 56 ) Fernando Catroga, Antero de Quental, Editorial Notícias, Lisboa, 2001, p. 245. ) Cfr. H. Cidade, o. c., p. 31. 58 ) A. de Quental, Poesia Completa 1842-1891, Lisboa, Publicaçôes Dom Quixote, 2001, p. 217. 59 ) Acta Apostolorum, XVII, 23. 60 ) A. Camus, La Peste, o. c., p. 1396. 61 ) Cfr. Ibidem, p. 1397. 62 ) A. de Quental, Poesia..., o. c., p. 276. 63 ) Georges Le Gentil – Robert Bréchon, Storia della letteratura portoghese, Editori Laterza, Bari, 1997, p. 108: «... il sonetto Na mão de Deus non avrebbe dovuto occupare, alla fine della raccolta, il posto assegnatogli da Oliveira Martins. A torto vi riconosceremmo la prova di un ritorno al cattolicesimo. Antero ha potuto esitare a lungo tra la negazione e l'affermazione, ma il suo credo finale non era di carattere religioso, bensì metafisico». 57 12 […] Dormi il tuo sonno, libero cuore, / Dormi nella mano di Dio Eternamente!»64. Ma se per Camus la morte era lo scandalo supremo, per Antero (come per i neoplatonici e molti asceti) era una costante aspirazione, poiché, avendo cercato vanamente Dio, la Morte, a cui Antero dedica diversi componimenti, è la «manifestazione fisica di una necessità metafisica» perché essa è «l'unico essere assoluto»65, che libera dal «giogo della divina tirannia»66. E le fa dire: «Ferisco ma salvo... Prostro e distruggo, / Ma consolo... Sovverto, ma riscatto... / Ed, essendo la Morte, sono la libertà»67. Perché, sulla condizione umana, al contrario di Camus, Antero «consulta» le antiche generazioni chiedendo se valeva la pena esser nato, e da esse si sente rispondere: «No, non valeva la pena»68. Perché per l'uomo, come per il poeta lusitano «sempre il peggior male è l'esser nato»69, come già avevano detto alcuni antichi poeti e, tra i quali qualche decennio prima del poeta portoghese, anche Leopardi. E l'idea della 'morte' come necessità, mutuata da Proudhon, viene da lui potenziata dal pensiero buddista e da quello degli Stoici, facendo direttamente riferimento a Seneca e a Cicerone, per cui «tota philosophorum vita commentatio mortis est» 70. Forse questo sentimento, a seguito di altre tristi vicende della sua vita, può spiegare il suo suicidio. Il nichilismo viene superato dal poeta, in alcuni periodi della sua vita, seguendo le dottrine stoiche, quelle di Plotino e quelle del buddismo: il Nirvana. Ad un amico, nel 1884, scrive: «La Realtà è pura apparenza e solo esiste veramente come simbolo e veicolo della vita morale. [...] La nostra vita, [...] è solo la vita della nostra anima, [...] quest'anima ha la sua sfera nella regione dell'impersonale; il suo mondo è quello dell'abnegazione, della purezza, della pazienza, della gioia; nella rinuncia dell'individuo naturale e di tutto quanto lo limita, opprime e ottenebra consiste la misteriosa individualità»71. Una visione della realtà materiale come allegoria di un mondo spirituale, com’era stata vista da alcuni filosofi greci e greco-giudaici, se non ché anche dai primi cristiani. Ad un altro amico, Fernando Léal, a proposito del pessimismo scrive: «È bene e persino necessario passare attraverso il Pessimismo, ma non si deve 64 ) A. de Quental, Poesia..., o. c., p. 313. ) F. Catroga, o. c., p. 86. 66 ) A. de Quental, Poesia..., o. c., p. 284. 67 ) Ibidem, p. 278. 68 ) Ibidem, p. 292. 69 ) Ibidem, p. 228. Cfr. lo stesso concetto in Teogonide, Bacchilide, Sofocle (Edipo a Colono) ed in altri. 70 ) L. Ribeiro dos Santos, o. c., p. 98. 71 ) Cfr. H. Cidade, o. c., pp. 38/39. 65 13 restare a lungo in esso. Il Pessimismo non è un punto di arrivo, ma un cammino. È la sintesi della negazione nella sfera della natura, la luce implacabile caduta sul marchio delle illusioni delle cause naturali. Ma al di là della natura, o se vuoi, nascosto, riposto nel più intimo [di essa], c'è il mondo morale, che è il vero mondo, al quale l'armonia, la libertà e l'ottimismo sono tanto inerenti, come dall'altra parte c'è la lotta cieca, la fatalità e il pessimismo... Là in fondo al tuo cuore c'è una voce umile, ma che nulla fa tacere, per protestare, per dire che c'è qualcosa perché si esiste e perché vale la pena di esistere...»72. Queste parole, per la loro chiarezza non necessitano di alcun commento per appalesarci lo stato d'animo del poeta; esse ci dicono che Antero, nel suo tortuoso cammino, sembra aver ritrovato un ideale per cui «vale la pena di esistere». Ma il suo atteggiamento è sempre dolorosamente e romanticamente teso verso un Infinito che non riesce a cogliere, e pertanto egli vive in contraddizione continua, se «valeva la pena esser nato» o se «vale la pena di esistere». Antero, come Camus, pare che non speri in un'altra vita ultraterrena; tutto si consuma e si esaurisce qui, sulla Terra dove «... la vita scorre lentamente: / … aspettando sempre il futuro: / [Ma] il futuro [è] un'ombra menzognera»73. La formazione del suo pensiero percorre quasi tutto il secolo XIX a partire da Kant, Hegel, Feuerbach, Schiller, Herder, Schopenhauer, Kierkegaard, Hartmann, Marx, Darwin, soffermandosi soprattutto sugli autori francesi. Avendo bevuto anche lui alla «coppa» dei Fiori del Male baudeleriana, come il poeta maledetto, anche lui risente di tutto il male di vivere. Però il suo modello è stato Victor Hugo74 per quanto riguarda la tecnica poetica, in special modo La Légende des Siècles; mentre per hanno influenzato il pensiero filosofico, come già detto, soprattutto Proudhon e Michelet. Per Michelet, il nuovo «Dio dell'Umanità è lo stesso Uomo75; il suo Ideale: la religione della Vita. L'uomo è un dio che si ignora. Nel trascendente di tale dottrina, Antero avrebbe sentito la gioia mistica che la fede cristiana, ormai perduta, non gli poteva più dare, Michelet umanizzava la religione, faceva di essa un'ascensione, non verso un Dio fatto uomo, ma verso un Uomo fatto Dio»76. E la Trinità di questa nuova religione è: Giustizia, 72 ) Idem. ) A. de Quental, Poesia..., o. c., p. 225. 74 ) Oliveira Martins, scrivendo la prefazione all'edizione dei Sonetti da lui curata, ha detto che la poesia di Antero «è scultorea e ieratica, e per questo fantastica. È esclusivamente psicologica e dantesca...». Cfr. A. de Quental, Poesia..., o. c., p. 195. 75 ) In qualche modo Michelet fa proprio il concetto di Giambattista Vico, per cui «l'uomo è il grande creatore di se stesso». Cfr. H. Cidade, o. c., p. 73. 76 ) Ibidem, p. 63. 73 14 Ragione e Libertà. Quest'ultima, come si legge ancora nella lettera a Storck, «La libertà […] non è una parola vana: essa è possibile e si realizza nella santità77. Per il santo, il mondo cessò di essere un carcere: al contrario, egli è il signore del mondo, poiché è il suo supremo interprete. È solo per lui che l'universo sa perché esiste: solo egli realizza il fine dell'universo»78. E questa «santità» si realizza nella retta coscienza degli uomini perbene, poiché è possibile, come aveva già fatto Filone, raggiungere l’idea «di un’alta santità morale»79. E la missione o l'apostolato del poeta è rivoluzionaria, perché la moderna poesia dev'essere «la voce della rivoluzione»; pertanto, egli, il poeta, è «vate, profeta e sacerdote della nuova umanità»80. Come si vede, vi è un rovesciamento del concetto di 'mistica'. Il mistico non deve stare fuori dal mondo (ex-stare), ma restare (re-stare) per trasformarlo. Tutta la sua poesia, o meglio, tutta la sua filosofia è una visione «morale del mondo» poiché, facendo propria l’idea di Proudhon, «il mondo sarà liberato e salvato solo dalla morale»81, poiché «Dio – come diceva lo stesso filosofo francese – è ipocrisia e menzogna; ... è tirannia e miseria; ... è il Male»82. In questo contesto si può dire che La Bibbia dell'Umanità di Michelet è il nuovo vangelo di Antero: anche il Cristo viene spogliato di tutti i suoi connotati soprannaturali, e per lui rimane soltanto il Gesù storico proposto da Renan. E a tale proposito egli vede in Gesù il primo eletto tra gli antenati plebei rivoluzionari: «Per questo noi, la Plebe, ... / Ricorderemo, ... / Che tra i nostri antenati vi fu Cristo»83. Avendo detto allo stesso Cristo, poco prima: «Non si perse invano il tuo sangue generoso, / Né soffristi invano, chiunque tu fossi, / Vecchio plebeo.../... / Dal sangue maledetto e ignominioso / Armato sorse un esercito invincibile... /... / Un popolo in te comincia, l'uomo nuovo: / Da te data questa tragica stirpe» 84. L'amore per Gesù lo porta ad identificare il suo destino con quello di 77 ) Antero de Quental nella sua prosa fa riferimento «all'uomo impassibile degli Stoici e alla santità di Marco Aurelio», cfr. H. Cidade, p. 35. 78 ) Cfr. Antero de Quental, Tendências gerais da filosofia na segunda medade do século XIX, Lisboa, Editorial Presença, 1999, p. 17. Passo tratto da Leonel Ribeiro dos Santos nell'introduzione. 79 ) Ved. E. Renan, o. c., p. 47. 80 ) Cfr. L. Ribeiro dos Santos, o. c., p. 43. Ma la Rivoluzione auspicata da Antero «non è guerra, ma pace: non vuol dire sfrenatezza, ma ordine, vero ordine per la vera libertà», e questa «vera libertà» è quella portata dal «Cristianesimo [che] fu la [vera] Rivoluzione del mondo antico». A. de Quental, Causas da decadência dos povos peninsulares, Lisboa, Ulmeiro, 2001, pp. 68/69. 81 ) Cfr. H. Cidade, o. c., p. 55. 82 ) Pierre-Joseph Proudhon, Système des contradictions économiques, t. I, p. 360; in Pierre Macherey, Le quasihégélisme de Proudhon (3), p. 2, in: http://philolarge.hypotheses.org/951/print/. 83 ) A. de Quental, Poesia..., o. c., p. 265. 84 ) Idem. 15 Cristo; e guardando una sua immagine in una cappella solitaria, intrattiene con lui un muto colloquio: «Entrambi vinti, vittime del Fato, / Ci guardavamo muti ...»85. Come già per l'impegno sociale, in questo caso anche per l'angoscia esistenziale, il suo modello resta il Cristo. Avendo abbandonato l'idea di un essere trascendente, ed avendo umanizzato la figura di Gesù86, si vota al progresso dell'Umanità e, sotto l'influenza del filosofo francese, apre con la prima composizione, pensando agli albori dell'Umanità, un gruppo di otto sonetti dal titolo emblematico: L'Idea87. La conclusione del sonetto che porta questo titolo: «... Dio spense con la mano la sua luce / Ed agli uomini nascose la sua faccia», fa pensare ad uno stato di smarrimento ontologico del poeta. Così è anche per un altro sonetto, Il Convertito: «Tra i figli d'un secolo maledetto / Presi anch'io posto all'empia mensa, / Dove, sotto il piacere, geme la tristezza / Di un'ansia impotente d'infinito. /.../ Sola, in preda a tedio e prostrazione, / Rompendo gli argini al represso pianto, / Si rivolse a Dio l'anima triste! /.../ E trovai pace nell'inerzia e nell'oblio... / Mi manca solo di sapere se esiste Dio!»88. Ma l'Ignoto Deo, anche se invocato disperatamente dal poeta, continua a non rispondere o a fuggire: «Cercò chi non lo volle; e a me che lo chiamo, / Deve fuggirmi, come ad ingrato figlio? / O Dio, padre mio e mio rifugio! Io spero!... io credo!» 89. E questo rincorrersi con la divinità segna sempre uno scacco a sfavore di Antero, che «allo spettro familiare che va» sempre al suo fianco, senza che nemmeno potesse «vedergli il volto», da «incosciente» osa chiedergli: «chi sei»? Ma anche lo «spettro» ha qualcosa di cui lamentarsi contro gli uomini: «I tuoi fratelli (rispose), gli uomini vani, / Da più di diecimila anni mi chiamano Dio… / Ma io per me non so come mi chiamo...»90. Anzi, quasi irritato perché il poeta gli chiede perché «ci hai evocato» in questo mondo di dolore? gli risponde: «Uomini! perché mi avete creato?»91. Quindi, non è più un dio che ha creato il mondo e gli uomini, ma sono gli ‘uomini vani’, come hanno affermato alcuni antichi e Michelet, che hanno 85 ) Ibidem, p. 246. ) Si ricorda che alla persona del Cristo dedica diversi sonetti. 87 ) «Poiché gli antichi dèi e gli antichi / Sogni divini quest'aere dissolvono, / E la luce dell'altare della Fede, in Tempio / O Dolmen, la spensero venti nemici; / Poiché i pascoli del Sinai, coperto di nuvole, / Aridi si consumano per mancanza d'acqua, / E i profeti d'un tempo dormono tutti / Dimenticati, in terra senza ricovero; / Poiché il cielo si richiuse, e più non scende / Dalla scala di Giacobbe, né da quella di Gesù!, / Un solo angelo che ascolti la nostra prece; / È perché il giglio della Fede più non rinasce: / Dio spense con la mano la sua luce / Ed agli uomini nascose la sua faccia!» A. de Quental, Poesia..., o. c., p. 259. 88 ) Ibidem, p. 288. 89 ) Ibidem, p. 222. 90 ) Ibidem, p. 279. 91 ) Ibidem, p. 291. 86 16 creato le divinità. E come si può notare dall'uso dei due verbi, 'evocare' e 'creare', l'uomo precede la divinità che viene creata, mentre l'uomo è stato evocato 'chiamato' sulla terra. Ed è per questo motivo, secondo il poeta, che Dio non può rispondere alla sua domanda, perché non è un «quid», ossia un essere senza attributi, al di là di ogni determinazione o realtà trascendente, inaccessibile dall’intelletto umano, perciò non sa chi è, e per conseguenza non sa come si chiama, così come aveva scritto Giovanni Scoto Eriugena nella sua Divina Ignorantia: «Deus itaque nescit se, quid est, quia non est quid». Se la paura portò gli uomini a crearsi delle divinità (Primus in orbe deos fecit timor)92, quindi anche il «cristianesimo è una religione creata dagli uomini, sebbene con caratteristiche proprie»93. Venendo meno la fede in un essere trascendente, egli, tormentato dalla febbre dell'ideale che lo consumava94, dice: «Mi rivolsi a leggere molto i filosofi. [...] Lessi ancora di più i moralisti e i mistici antichi e moderni [...] e i libri del Buddismo. Trovai che il misticismo, essendo l'ultimo stadio dell'evoluzione psicologica, deve rispondere non ad essere la coscienza umana una stravaganza in mezzo all'Universo, ma ad essere l'essenza più profonda delle cose»95. Seguendo le dottrine di queste scuole, soprattutto quelle stoiche, Antero «trova, non solo un principio direttivo per la vita, ma anche il sostegno morale, la fonte dell'energia e lo scudo contro le avversità, infine la pace interiore e persino la possibile felicità. [...] Allo Stoicismo il poeta associa l'ideale di santità, lasciando nelle sue lettere le tracce che alimenteranno la leggenda del 'santo Antero'»96. E proprio lo slancio continuo verso questo ideale di «santità laica» lo porta a teorizzarla anche nel suo saggio filosofico. Infatti a conclusione dell'opera, scrive: «La coscienza del giusto è l'unico tempio dell'unico Dio; e, in questo tempio, la rinuncia all'egoismo è l'unico culto. Se questo culto cessasse un solo istante, [...] immediatamente tutta la vita morale si sopprimerebbe [...]. Il mondo morale vive solo per questa rinuncia. Essa rende intrepido il cuore degli eroi, costante la volontà dei giusti, pietosa l'anima dei santi. [...] Essa vince la morte, perché fa comprendere il significato dell'esito finale e apprezzare il suo valore. Se poi solo la perfetta virtù, la rinuncia all'egoismo, determina la libertà, e se la libertà è la segreta aspirazione 92 ) Concetto attribuito a Stazio o a Lucrezio o a Petronio. ) L. Ribeiro dos Santos, o. c., p.132. 94 ) Cfr. A. de Quental, Poesia..., o. c., p. 240. 95 ) Cfr. L. Ribeiro dos Santos, o. c., p.100. 96 ) Ibidem, p. 101. 93 17 delle cose e il fine ultimo dell'universo, concludiamo che la santità è il fine di ogni evoluzione e che l'universo non esiste né si muove se non per arrivare a questo supremo risultato. Il dramma dell'essere si conclude nella liberazione finale per il bene»97. E questo bene finale assume per il poeta un valore ontologico ed antropologico, che trova il suo giusto posto nella coscienza dell'uomo, conciliando, quindi, etica e prassi. Il suo amico e compagno delle battaglie giovanili, José Maria Eça de Queirós, lo aveva definito un «genio che era un santo». Mentre Oliveira Martins ha scritto: «Quest'uomo, fondamentalmente buono, se fosse vissuto nel secolo VI o nel secolo XIII, sarebbe stato uno dei compagni di San Benedetto o di San Francesco di Assisi»98. Per concludere, si può concordare con François Mauriac, per il quale Camus è una «anima naturaliter religiosa», e H. Cidade per il quale Antero è «un'anima religiosa assetata d'infinito»99. Si può affermare, inoltre, che gli Autori di cui abbiamo parlato hanno in comune quest'ansia di «santità», consistente in una ineccepibile coerenza morale, che attinge la sua forza dalla coscienza umana. Con le dovute diversità, entrambi tendono ad una «santità» che implica un sentimento di «solidarietà» verso gli altri, ma comporta anche il rischio di un isolamento, per cui entrambi soffrono la «solitudine» che è proprio di chi si sente «esule» tra i consimili. Da qui l'amore e il recupero del mondo classico, nonché una visione dell'esistenza umana, che per Antero è «dramma», per Camus è «tragedia», per esprimere l'eterna lotta dell'uomo, come dicevano i tragici greci, tra l'accettazione della «giusta misura» e la «dismisura», ossia la hybris. Riposto 7 novembre 2013 97 ) A. de Quental, Tendências gerais … o. c., p. 119. ) Cfr. F. Catroga, o. c., p.249. 99 ) H. Cidade, o. c., p. 111. 98 18