Le trasformazioni dei modelli di governance nelle università europee1
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Le trasformazioni dei modelli di governance nelle università europee1
Le trasformazioni dei modelli di governance nelle università europee1 (Carlo Barone, Stefano Boffo, Fabio Di Pietro, Roberto Moscati) Pubblicato sulla rivista Inchiesta, n. 3, 2009. aprile 2010 - ISBN 9788822082602 TRASFORMAZIONI DEI SISTEMI UNIVERSITARI E NUOVI MODELLI DI GOVERNO DELLE UNIVERSITA’ (Roberto Moscati) 1. – Mutamenti nelle pubbliche amministrazioni Il tema del governo delle università si viene lentamente introducendo anche nel nostro paese come logica conseguenza dei processi di autonomia degli atenei e del consolidamento del nuovo quadro normativo introdotto dalla riforma degli ordinamenti didattici (altrove in Europa nota come il “Processo di Bologna”). In numerosi altri paesi europei il tema viene da tempo dibattuto e ha prodotto una considerevole letteratura che si articola su alcuni punti di partenza comuni. Innanzitutto, il declino e il cambiamento del ruolo dello Stato nei confronti dei sistemi d’istruzione superiore, e la parallela crescente autonomia delle singole istituzioni. Questo doppio processo esercita naturalmente ricadute sui soggetti operanti nei sistemi formativi, invitati/costretti a modificare i propri ruoli professionali, ma incide altresì sulle forme organizzate delle istituzioni e dunque sul governo degli atenei. Nell’affrontare questa tematica è opportuno inquadrare il settore dell’istruzione superiore nel più ampio ambito della pubblica amministrazione. E questo perché il cambiamento del governo delle istituzioni non è un fenomeno proprio al solo settore dell’istruzione. Se osserviamo infatti le evoluzioni dei sistemi di erogazione dei servizi notiamo una comune riduzione della gestione pubblica a favore del crescente intervento di soggetti privati. Ad un tempo, il diffondersi dei movimenti di capitali e l’incidenza crescente delle organizzazioni internazionali producono il 1 Questo lavoro deriva da un Progetto PRIN dal titolo ‘La riorganizzazione dei sistemi di alta formazione e ricerca nelle "economie della conoscenza" europee’ condotto da tre gruppi di ricerca rispettivamente delle Università di Milano Statale (Marino Regini, coordinatore), Pavia (Michele Rostan, coordinatore), Milano-Bicocca (Roberto Moscati, coordinatore). Quest’ultima équipe aveva come tema d’indagine le trasformazioni delle forme di governo delle università in cinque paesi europei. 1 ridimensionamento dello Stato come fondamento delle economie nazionali e il convincimento che diverse attività ad esso proprie possano (debbano) essere svolte da altre istituzioni, prevalentemente private, in grado di essere maggiormente efficienti. Ne è derivato che le amministrazioni pubbliche hanno perso di centralità in favore del diffondersi di una visione neo-liberista che ha teso a trasferire nel settore pubblico il modello del mercato. Modello che a sua volta si è trasformato introducendo il concetto di flessibilità nell’impresa e quindi privilegiando caratteristiche come la versatilità, l’adattabilità e l’integrazione delle competenze (Bifulco 2008,5). La visione neo-liberista applicata alle amministrazioni pubbliche le ha spinte ad adottare logiche e strumenti propri all’impresa secondo il noto modello del New Public Management (NPM) che si è tradotto – tra l’altro – nell’emergere di strutture di relazione (in sintonia con i principi di flessibilità) atte a fornire coerenze organizzative e a gestire politiche, programmazioni e processi decisionali che si riassumono nel termine di governance.2 2. – Specificità dell’istruzione pubblica La diffusione del NPM ha incontrato diversi gradi di accoglienza in paesi europei non anglosassoni come la Francia o la Germania, sia nel settore dei servizi in generale sia in quello dell’istruzione superiore. Due aspetti centrali, tra loro collegati, di tale processo corrispondono al grado di autonomia delle singole istituzioni e alle nuove forme di governo che si sono venute configurando nelle stesse. Si assume, da un lato, che le istituzioni autonome siano maggiormente in grado di rispondere alle esigenze dei propri contesti sociali ed economici e siano ad un tempo maggiormente adatte a valutare le proprie potenzialità e il proprio modo di funzionare in risposta ai portatori di interessi (gli stakeholders, come ormai vengono universalmente definiti). In questo processo tuttavia il ruolo dello Stato non scompare ma assume forme diverse. Secondo una diffusa interpretazione, l’autonomia delle 2 Numerose definizioni del termine governance convergono nel richiamare i concetti di collaborazione organizzativa attraverso un sistema di regole che favorisca la presa di decisioni nella gestione delle istituzioni. 2 istituzioni è la conseguenza dell’avvento dello Stato valutatore che si trasforma da guardiano in supervisore, paradossalmente ottenendo attraverso la deregolamentazione una più decisa forma di regolazione (Neave 2007;Magalhaes, 2004; Magalhaes e Santiago 2009,10) Questi processi sono riconoscibili in diversi comparti dei pubblici servizi (dalla sanità alla sicurezza) di numerosi paesi europei. Il settore dell’istruzione – di quella superiore in particolare - si inserisce in questo quadro pur con alcune sue peculiarità. Al riguardo l’aspetto della governance assume un ruolo centrale. Al suo interno l’aspetto forse maggiormente significativo dell’influenza del NPM è rappresentato dalla crescente rilevanza degli elementi esterni nei processi decisionali e di governo delle istituzioni accademiche. I cosiddetti “portatori di interessi” nei riguardi delle attività delle istituzioni universitarie (gli stakeholders) entrano a far parte in sempre maggior misura degli organismi decisionali come i Consigli di amministrazione (Boards nei sistemi anglosassoni) e rappresentano una innovazione profonda in un’area da sempre considerata come riservata al personale accademico. Si ripresenta qui l’ambiguità legata alle funzioni sociali dell’università che invita a considerare simili inserimenti come esempi di sviluppo della “democrazia deliberativa”(Ferlie, Musselin, Andresani 2007). Sul reale peso e le effettive aree di influenza dei Boards costituiti da un mix di componenti interne ed esterne all’accademia le valutazioni sono difformi. Appare sempre più evidente, tuttavia, la tendenza a creare una diarchia Rettore-Board a scapito del ruolo di organi prettamente accademici come il Senato, particolarmente in termini di influenza nei processi decisionali. Si ritiene infatti che un tale sistema sia maggiormente efficace e produca risultati migliori nel funzionamento dell’istituzione rispetto a forme più collegiali di governo. Emerge dunque la tendenza a creare infrastrutture manageriali a fianco o in sostituzione delle strutture accademiche. Ne deriva che i processi decisionali propri agli accademici vengono integrati all’interno di percorsi amministrativi dell’organizzazione universitaria, tal ché gli accademici stessi risultano sempre più avere titolo e riconoscimento nella misura in cui fanno 3 parte dei processi decisionali istituzionali e non si limitano alle tradizionali funzioni dell’insegnamento e la ricerca (Bleiklie, Kogan 2007). Si tratta – come si vede – di un passaggio da forme collegiali di governance a forme di razionalismo organizzativo dove prevalgono le logiche manageriali su quelle tradizionali delle professioni (corporazioni) accademiche. Gli effetti di queste forme di governance sulla tradizionale percezione del proprio ruolo professionale del personale accademico non possono essere certamente positivi e si riflettono sul diverso grado di resistenza che simile tendenza (come, del resto, l’introduzione delle più generali logiche del NPM) ha incontrato nei paesi dell’Europa continentale (De Boer,Huisman,Meister-Scheytt 2007). D’altro canto, va sottolineato il ruolo centrale acquisito dal settore dell’istruzione superiore per lo sviluppo dell’economia e della società in Europa all’interno della nascente “Area Europea d’Istruzione Superiore” di cui il Processo di Bologna e la Dichiarazione di Lisbona sono gli esempi formalmente più vistosi. Da qui anche l’importanza peculiare della governance delle istituzioni universitarie e delle sue trasformazioni. 3. – Caratteristiche dell’università in Italia In Italia tuttavia il tema non ha assunto sin ad ora un rilievo particolare. E’ ben vero che vi sono state proposte di trasformazione promosse per lo più dei diversi governi e dalla Conferenza dei rettori (CRUI) o da alcuni tra i pochi studiosi della materia.3 Ma mentre queste esercitazioni sono rimaste nell’ambito di circoli ristretti di studiosi, di recente il governo ha fatto circolare un Disegno di legge di riforma4 che introduce una diarchia rettore-consiglio di amministrazione, modifica la composizione di quest’ultimo in favore di una rilevante presenza di elementi esterni all’università, 3 Vanno ricordate le elaborazioni di un “gruppo consultivo” promosso dal MIUR e coordinato da Massimo Egidi allora rettore dell’Università di Trento, dell’associazione Treelle assieme alle proposte della CRUI nei documenti del 2004 e 2008. Si veda al riguardo Capano 2004;2008 4 Disegno di legge in materia di organizzazione e qualità del sistema universitario, di personale accademico e di diritto allo studio (28 ottobre 2009) 4 unifica le strutture di base della didattica e della ricerca (facoltà e dipartimenti) e sottopone a controlli ministeriali i bilanci degli atenei, mentre appare avviato ad attivare la tanto attesa agenzia nazionale di valutazione (ANVUR). Ora, sembra evidente che il Disegno di legge (soggetto a modifiche e rinvii da alcuni mesi e destinato a probabili correzioni nel dibattito parlamentare) si ispiri al modello inglese che, come si è detto, nasce da un lungo processo di diffusione dell’idea neoliberale introdotta dai governi conservatori guidati dal primo ministro Margaret Thatcher negli anni ‘70. Sarebbe dunque utile ricostruire il lungo processo di radicamento di tale modello, evidenziandone l’articolazione a livello dell’intero sistema d’istruzione superiore e non dimenticandone gli aspetti storicamente specifici. Tuttavia, rimandando ad altra occasione la ricostruzione del processo nella realtà britannica,5 si possono qui segnalare le ragioni delle presumibili difficoltà che un tale progetto verrà ad incontrare nella sua eventuale realizzazione in Italia. Innanzitutto, manca nel nostro sistema universitario una tradizione di apertura al mondo esterno che si traduca in una politica di ateneo rivolta ad esercitare quella che a livello internazionale si definisce la “terza missione” dell’università: quella di fornire appunto risposte alle diverse e crescenti richieste di applicazione della conoscenza allo sviluppo della società. Tale carenza si salda, sebbene si tratti di due problematiche diverse, con la resistenza ad accettare partecipazioni esterne (vissute come intrusioni) alle decisioni politiche degli atenei. Le stesse politiche degli atenei sono in realtà la sommatoria delle attività delle diverse aree disciplinari che non sono sottoposte a strategie complessive istituzionali ma vivono di logiche proprie. Da cui il ruolo attribuito al rettore come coordinatore e mediatore delle diverse esigenze settoriali. Questo meccanismo decisionale forniva buoni risultati in un sistema centralizzato di tipo napoleonico-humboldtiano che ha caratterizzato l’istruzione superiore italiana praticamente a partire dall’unità dello Stato. Modificare queste logiche di funzionamento così ben radicate non è cosa semplice. In parte lo si è visto con l’introduzione della riforma degli ordinamenti didattici che 5 Si vedano tra gli altri i contributi di Becher,Henkel,Kogan 1994; Kogan and Hanney,2000; Reed,2002; Fulton,2002,2003; Taylor,2005; Shattock,2006 5 presupponeva una larga e autonoma partecipazione delle università alla sua realizzazione, specie nella dimensione qualitativa (modifica dei contenuti degli insegnamenti in funzione dei due livelli di formazione e delle prospettive di prosecuzione degli studi al secondo livello ovvero di inserimento nel mercato del lavoro). In realtà, si è assistito al prevalere di quella capacità organizzativa detta di buffering che consente al mondo universitario di attenuare l’impatto dei fenomeni provenienti dall’esterno resistendo al cambiamento con forme di reazione adattiva detta di “conservatorismo dinamico”. E la forza di una tale capacità di resistenza al cambiamento è rappresentata con molta evidenza dalla disponibilità della corporazione accademica a pagare dei prezzi alti pur di non dover cambiare (le recenti vicissitudini legate alle riduzioni delle risorse finanziarie alle università sembrano confermare l’assunto). E tuttavia la storia insegna che non occuparsi dei propri interessi si rivela quasi sempre perdente (Capano,Tognon, 2009). Ma è pur vero che il modello anglosassone di verticalizzazione della leadership e di governance elettiva esercita un fascino particolare anche su diversi sistemi d’istruzione superiore dell’Europa continentale che sono venuti introducendolo – sia pure con una serie di adattamenti - negli ultimi anni, sotto la pressione della crescente competizione tra sistemi nazionali e tra singole istituzioni (si pensi al proliferare delle classifiche nazionali e internazionali degli atenei). E il fascino deriva da una duplice convinzione: (i) che, da un lato, sia ormai inadatto il modello di controllo dello Stato sul sistema formativo basato sul principio della “omogeneità legale” (nell’ambito di una progressiva perdita di legittimità dello Stato centralistico), e (ii) che, dall’altro, la richiesta generalizzata di competenze, ritenuta indispensabile per il successo individuale nel mondo economico, si combini virtuosamente con l’introduzione di regole di quasi-mercato (la competizione tra istituzioni per il miglioramento della qualità dei prodotti). Su questi presupposti il modello anglosassone appare di gran lunga più idoneo di quello a lungo sperimentato nei sistemi dell’Europa continentale.6 6 Sulle differenze di origine dei sistemi d’istruzione superiore si possono vedere,tra gli altri, i contributi di Neave,2002a;2002b;Moscati,2004 6 E’ ancora troppo presto per valutare l’introduzione di questo modello nelle realtà di paesi come l’Austria, la Svezia, la Danimarca o il Giappone, ma resta l’interesse per gli effetti di così profonde modifiche delle forme organizzative e di distribuzione del potere all’interno di sistemi e di mondi accademici storicamente organizzati secondo ben diverse logiche. Si tratta certamente di mutamenti non solo organizzativi ma anche antropologico-culturali che in quanto tali richiedono tempi lunghi di sedimentazione, appunto perché vengono a incidere sull’identità professionale dei soggetti interessati. E sono comunque i soggetti interessati che interpretano le logiche del contesto normativo nel quale operano. Questo dato appare con particolare evidenza nel mondo universitario e dunque nelle diverse interpretazioni delle innovazioni legislative e – per quello che qui più ci riguarda – nella realizzazione delle forme di governance degli atenei. Nel caso italiano si può aggiungere che la dialettica tra Stato autore delle riforme e mondo accademico che deve realizzarle soffre da tempo di una mancanza profonda di comprensione reciproca che si traduce in forme di conflittualità latente che vanno dalle misure legislative punitive alle resistenze passive o alle trasformazioni “cosmetiche,” di pura facciata. Il non cercare una politica univoca che punti a costruire finalità di cambiamento condivise, dentro e fuori l’università, impedisce nei fatti un’evoluzione positiva del sistema (se di sistema si può parlare) d’istruzione superiore nel nostro paese. Come invertire allora questo meccanismo perverso che attraverso la contrapposizione del mondo politico e del mondo accademico frena la gran parte dei possibili effetti positivi dello sviluppo della conoscenza ? Sul versante della politica sarà importante la presa di coscienza reale della rilevanza dell’istruzione superiore (comprendente la ricerca scientifica e l’istruzione nel suo insieme) per la crescita della società. Al di là delle parole lo si dimostrerà innanzitutto con la rilevanza degli investimenti nel settore (come avviene in tutti i paesi sviluppati), ma anche con politiche di sostegno e ammodernamento del sistema che lo collegassero a finalità condivise in uno scenario di sviluppo della società. 7 Da parte del mondo accademico sarà cruciale la riconsiderazione delle finalità del sistema e del ruolo dei singoli attori al suo interno. Il nodo comune ai due versanti è legato alla necessità di accettare l’idea dell’inevitabilità del cambiamento. Per il mondo politico (per le classi dirigenti del paese) allo scopo di contrastare il processo di marginalizzazione internazionale da tempo in atto. Per il mondo accademico per essere in grado di dimostrare la propria legittimità alla auto-gestione del proprio cambiamento (salvando così in forme nuove la propria autonomia). Appare chiaro dunque come il processo di inversione dell’attuale tendenza debba muovere dalla condivisione dei compiti e delle finalità del sistema d’istruzione superiore. Come risulta da una ormai ricca letteratura internazionale, la direzione da perseguire è quella della combinazione di nuove finalità e nuovi compiti con quelli tradizionali. I nuovi compiti di sostegno all’economia non possono infatti cancellare quelli tradizionali della diffusione della cultura e della conoscenza nel modo più ampio possibile. Occorre dunque muovere dal presupposto che le diverse finalità possono coesistere così come è per la ricerca pura e la ricerca applicata. Il quadro che ne emerge è naturalmente ricco di ambiguità, del resto inevitabili nelle organizzazioni complesse come l’università7. Ma il punto di partenza non può che essere questo. In seguito si tratterà di determinare le priorità attraverso appropriati incentivi nelle direzioni privilegiate. Ed è sulle priorità che si decideranno le funzioni dell’istruzione superiore e dell’università pubblica. In questa logica, l’indagine condotta dal gruppo di ricerca dell’università di MilanoBicocca - che qui si presenta in forma sintetica - si propone di segnalare le peculiarità dei principali sistemi d’istruzione superiore in Europa – con riferimento al caso italiano - e in essi l’esercizio concreto della gestione degli atenei. In una fase di incertezza e di trasformazione delle funzioni dell’istruzione superiore le pressioni per il mutamento delle forme di governo dell’università rivestono un 7 Si veda fra gli altri Bleiklie 1998 8 ruolo cruciale e non per caso sono oggetto dell’intervento legislativo cui si è fatto cenno All’interno di un quadro vieppiù complesso di ripensamento dell’intervento dello Stato, di apertura dell’università alle richieste della società e di mediazione fra esigenza di autonomia e necessità di risorse diversificate, la governance dell’università risente altresì dell’evoluzione storica del potere interno all’accademia: da quello della cattedra a quello delle discipline e a quello dell’istituzione, con commistioni esterne dei diversi portatori di interessi. Da qui l’attualità di questa ricerca. Bibliografia Becher,T., Henkel,M.,Kogan,M. 1994 Graduate Education in Britain,London,Jessica Kingsley Bifulco,l. 2008 Gabbie di vetro. Burocrazia, governance e libertà, Milano, Bruno Mondadori Bleiklie,I. 1998 Justifying the Evaluative State: New Public Management ideals in higher education, in “European Journal of Education”,vol.33 (39,pp.299-316 Bleiklei,I,Kogan,M. 2007 Organization and Governance of Universities, in “Higher Education Policy”,20 (4),pp.477-494 Capano, G. 2004 Un po’ di coraggio per cambiare l’università, in “Il Mulino”,n. 5,pp.888-898 Capano, G. 2008 Il governo degli atenei, in R.Moscati, M.Vaira (a cura di), L’Università di fronte al cambiamento, Bologna, Il Mulino Capano, G., Tognon,G. (a cura di) 2009 La crisi del potere accademico in Italia. Proposte per il governo delle università, Bologna, Il Mulino 9 De Boer,H.,Huisman,J.,Meister-Scheytt,c. 2007 Mysterious guardians and the diminishing state: Supervisors in ‘modern’ university governance, paper presentato al 29th Annual EAIR Forum, Insbruck, 2629 agosto (mimeo) Ferlie,E.,Musselin,C.,Andresani,G. 2007 The ’Steering’ of Higher education Systems: A Public Management Perspective, paper del progetto ESF “Higher education Looking Forward”, Bruxelles Fulton,O. 2002 Higher Education Governance in the UK: Change and Continuity, in A.Amaral, G.A. Jones, B.Karseth (a cura di), Governing Higher Education: National Perspectives on Institutional Governance, Dordrecht, Kluwer Fulton,O. 2003 Managerialism in UK Universities: Unstable Hybridity and the Complication of Implementation, in A.Amaral,V.Lynn Meek, I.M. Larsen (a cura di), The Higher Education Managerial Revolution?, Dordrecht,Kluwer Kogan,M.,Hanney,S. 2000 Reforming Higher Education, London, Jessica Kingsley Magalhăes A.M. 2004 A Identidade do Ensino Superior:politica, conhecimento e educaçăo numa época de transiçăo,Lisbon, Fundaçăo Calouste Gulbenkian Magalhăes,A.M. e Santiago,R. 2009 Public management, new governance models and changing environments in Portuguese higher education, paper presentato alla 22ma Conferenza annuale del CHER, Porto,10-12 settembre (mimeo) Moscati,R. 2004 Università, in Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia del Novecento, supplemento III, Roma Neave,G. 2002a On Stakeholders, Cheshire cats and seers: Changing visions of the University, in The CHEPS inaugural lectures, Enschede,University of Twente Neave,G. 2002 The Stakeholder perspective historically explored, in J. Enders, O. Fulton (a cura di), Higher Education in a Globalising World, Dordrecht, Kluwer 10 Neave,G. 2007 From Guardian to Overseer: Trends in Institutional Autonomy, Governance and Leadership, paper presentato alla Conferenza organizzata dal Conselho Nacional de Eduçăo su “The legal Status of Higher education Institutions-Autonomy, Responsibility and Governance”, Lisbona, Febbraio (mimeo) Peters,G. 2001 The Future of Governing, Lawrence, University of Texas Press Reed,M.I. 2002 New Managerialism, Professional Power and Organisational Governance in UK Universities: A Review and Assessment, in A.Amaral, G.A. Jones, B.Karseth (a cura di), Governing Higher Education: National Perspectives on Institutional Governance, Dordrecht, Kluwer Shattock,M. 2006 United Kingdom, in J.J.F.Foster, P.G. Altbach (a cura di), International Handbook of Higher Education, vol.II, Dordrecht, Springer Taylor,L. 2005 The Legacy of 1981: An Assessment of the Long-term Implications of the reductions in Funding Imposed in 1981 on Institutional Management in UK Higher Education, in A.Gornitzka, M.Kogan,A.Amaral (a cura di), Reform and Change in Higher Education. Analysing Policy Implementation,Dordrecht, Springer 11 LA RICERCA NUOVI MODELLI DI GOVERNO DEGLI ATENEI IN EUROPA (Roberto Moscati) 1. - Introduzione L’indagine ha scelto tre università in ciascun sistema preso in considerazione,8 tra le quali una di tipo tecnico, una generalista storica e di grandi dimensioni e una generalista di dimensioni più contenute e di origini relativamente più recenti. Intendendo esaminare i processi di cambiamento nella governance delle università, la decisione di prendere in esame i singoli atenei invece di concentrarsi sui sistemi nazionali d’istruzione superiore ha tenuto conto sia delle specificità delle diverse situazioni locali (i rapporti tra ateneo e mondo esterno), sia delle dimensioni e peculiarità degli atenei stessi, come della presenza di distinte aree disciplinari, ma in particolare della importanza di chi deve recepire e applicare le spinte al cambiamento. E dunque si è ritenuto cruciale il ruolo del personale docente e tecnicoamministrativo ai diversi livelli, in accordo, da questo punto di vista, con quello che raccomanda Burton Clark che sostiene: “the best to find out how universities change the way they operate is to proceed in research from bottom-up and the inside-out. ‘System’ analysis done top-down cannot do the job. It misses the organic flow of university internal development” [Clark 2004, 2]. Così facendo si è inteso evitare, per quanto possibile, il rischio di assumere come dato di partenza l’esistenza di un trend comune a tutti i sistemi d’istruzione superiore europei destinati inevitabilmente a confluire in un unico modello. Di conseguenza, 8 I sistemi d’istruzione superiore oggetto dell’indagine facevano riferimento a Francia, Germania,Gran Bretagna,Spagna e Italia. Per ciascun sistema d’istruzione superiore è stato elaborato uno specifico rapporto. In particolare, Carlo Barone ha scritto il country report relativo alla Germania, Stefano Boffo quello relativo alla Spagna, Fabio Di Pietro il rapporto sulla Francia, Roberto Moscati il country report sulla Gran Bretagna, mentre il rapporto sul sistema universitario italiano è stato steso congiuntamente da Stefano Boffo e Roberto Moscati. In ciascun paese sono state analizzate in particolare tre università: Université de Reims, Université de Compiègne, Université de Rennes2, (in Francia); Ruprecht Karl Universität-Heidelberg, Freie Universität Berlin, Technische Universität Berlin,(in Germania); Universitad Politecnica de Valencia, Universitad de Siviglia, Universitad de el Pais Vasco,(in Spagna); Coventry University, University of Bristol, University of Warwick, (in Gran Bretagna);Università di Padova, Università di Roma 3, Politecnico di Torino (in Italia). 12 facendo riferimento alle caratteristiche dei sistemi nazionali d’istruzione superiore, si sono esaminati sia le origini storiche sia gli aspetti organizzativi dei singoli atenei a cominciare dall’analisi dei rispettivi statuti. Sono quindi state condotte interviste semi-strutturate ai rappresentanti, nei diversi livelli, del governo delle università, dai rettori (o loro omologhi), ai pro-rettori (o loro omologhi), ai presidi di facoltà, direttori di dipartimento, membri dei consigli di amministrazione (accademici e “laici”), direttori amministrativi, rappresentanti del personale amministrativo e degli studenti coinvolti in processi di gestione, per un totale che si è aggirato attorno alle 15-20 interviste per ateneo. L’ipotesi centrale che si è inteso verificare riguarda la crescita progressiva di una serie di ragioni economiche e socio-politiche in grado di esercitare una crescente pressione sui sistemi d’istruzione superiore (e sulle singole università), volta a modificarne le finalità, il funzionamento e dunque l’organizzazione interna. Ne dovrebbe essere derivato sia il cambiamento o l’aggiornamento delle finalità (mission) delle università, sia la ristrutturazione interna delle stesse. Più in particolare, la pressione ad aprire l’università verso il mondo esterno, al fine di fornire risposte alle crescenti richieste di uso economico e sociale della conoscenza, crea la necessità di entrare in competizione per l’acquisizione delle risorse in una logica di mercato. Il modello di riferimento per tale cambiamento tendenzialmente diventa quello anglosassone che si é strutturato da tempo – sia a livello di sistema, sia a livello di singole istituzioni – secondo una logica competitiva di mercato, con tutta una serie di conseguenze strutturali e organizzative. L’incontro tra questa pressione indotta dalla diffusa interpretazione delle funzioni della conoscenza e dell’istruzione superiore e le tradizioni di funzionamento delle singole università – inserite nei diversi sistemi d’istruzione superiore – rappresenta l’aspetto maggiormente interessante di questo processo, che consiste dunque nella 13 diversa combinazione di logiche e modelli tradizionali con logiche e modelli “di importazione”. All’interno di questa emergente forma ibrida è sembrato cruciale analizzare in particolare le trasformazioni nei meccanismi di governo sia a livello meso (d’istituzione universitaria), sia a livello micro (di articolazione organizzativa di base: facoltà, dipartimento), attraverso i comportamenti, e dunque principalmente le reazioni alla richiesta di cambiamento, dei soggetti interessati (il personale universitario). Le teorie della sociologia dell’organizzazione e della sociologia delle professioni sono dunque apparse le basi naturali dei riferimenti teorici, cui si devono necessariamente aggiungere i riferimenti all’etnometodologia e in particolare a quella componente dell’interazionismo simbolico che sottolinea le dinamiche della “definizione della situazione” [Collins 1988, 332] , qui riferita alle interpretazioni dei processi di mutamento ad opera dei soggetti direttamente coinvolti nelle diverse dimensioni del governo dell’università. 2 L’autonomia delle università Il governo delle università nei sistemi d’istruzione superiore europei è in trasformazione per tutta una serie di fenomeni tra loro correlati. La crescente convinzione della centralità della conoscenza per lo sviluppo economico e sociale ha modificato le finalità dell’istruzione superiore ed ha accresciuto la domanda sociale, spingendo le università ad aprirsi al mondo esterno ed innalzando il livello di autonomia degli atenei. Ad un tempo, la dipendenza del sistema d’istruzione superiore dallo stato si è andata modificando, soprattutto in ragione delle difficoltà per quest’ultimo di coprire i crescenti costi del sistema. Ne è derivato che il finanziatore principale (lo stato) ha sviluppato la richiesta di verificare la produttività dell’istruzione superiore anche laddove l’autonomia del sistema formativo pubblico era più consolidata (Il Regno Unito). Per contro, nei sistemi dove il controllo dello stato era per tradizione 14 stringente e tendente a garantire l’uniformità dell’offerta formativa (sistemi napoleonici), si è attribuita alle singole istituzioni una crescente autonomia di iniziativa, accanto alla quale si è venuta sviluppando una serie di verifiche ex-post delle performances (non la sparizione della presenza dello stato quindi, bensì, come sostiene Christine Musselin, “l’état autrement”) [Musselin 2001, 196]. Le mutate condizioni sociali ed economiche hanno dunque creato i presupposti per una maggiore autonomia degli atenei e li hanno posti in vario modo in competizione per l’acquisizione dei riconoscimenti e l’incremento delle risorse. Autonomia e competizione hanno esercitato inevitabilmente una forte influenza sui valori che caratterizzano l’istruzione superiore e in particolare sui sistemi di governo degli atenei. Per meglio dire, si è venuta sviluppando la necessità di giustificare le trasformazioni dei sistemi d’istruzione superiore e così, ai valori tradizionali di collegialità, collaborazione, libertà individuale dei docenti/ricercatori, come a quelli di autonomia della ricerca e dell’offerta formativa, che caratterizzavano la comunità accademica, si sono venuti sovrapponendo nuovi modelli connotati come positivi (dunque considerati in termini valoriali), quali l’assunzione di responsabilità nel compimento delle proprie attività professionali (accountability) nei confronti dei soggetti coinvolti nelle stesse (gli stakeholders), assieme al passaggio da una gestione amministrativa ad una gestione manageriale delle istituzioni formative e di ricerca, tra loro poste in competizione. In particolare, il processo di diffusione dei nuovi modelli interpretativi circa le finalità dei sistemi d’istruzione superiore e delle istituzioni formative viene presentato come doveroso perché giusto, e giusto (dunque dotato di valore) perché utile alla società. In questa prospettiva la competizione tra università rappresenta la logica del mercato e si applica a diversi livelli: a livello locale (dove peraltro è chiamata a coesistere con il valore simmetrico della cooperazione, sovente al fine di creare sinergie indispensabili al raggiungimento di una massa critica utile alla competizione internazionale: vedi il fenomeno dei PRES – Polo di Ricerca dell’Insegnamento 15 Superiore – in Francia); ma anche a livello nazionale e, appunto, internazionale, nei confronti delle entità e dei soggetti che intendono/devono servirsi dei prodotti del mondo accademico. Ad un tempo è facilitata la competitività tra aree disciplinari e scientifiche all’interno della stessa istituzione, in funzione delle richieste esterne (espresse o anche solo potenziali). Così il reperimento di risorse aggiuntive va interpretato secondo le stesse logiche di mercato, sotto forma di offerta di servizi legati alla conoscenza. L’apertura al mondo esterno, in questa prospettiva, significa dunque maggiore dipendenza da logiche diverse da quelle proprie dell’accademia e soprattutto caratterizzate da un rapporto con il mercato che implica maggiore flessibilità, capacità di adattamento nel proprio funzionamento e minori regole vincolanti rispetto al tradizionale modus operandi degli universitari. Comporta altresì lo sviluppo di nuove qualità nel personale docente, di ricerca e tecnico-amministrativo delle università. La competitività – si dice – richiede rapidità nella presa di decisioni e questo incide sui comportamenti dei singoli, ma soprattutto sui meccanismi decisionali e sulle strutture coinvolte nel processo di elaborazione delle politiche di ateneo. Da qui la crescente centralità dei temi legati al governo delle università e alle caratteristiche riconosciute alla leadership che, a loro volta, appaiono strettamente legate all’immagine che l’università assume nei distinti momenti storici e nelle diverse società. A quest’ultimo riguardo, appare opportuno richiamare qui sinteticamente la tipologia elaborata da Robin Middlehurst [Middlehurst 1995], che propone un collegamento tra il modo di intendere l’università e le connesse specificità della sua leadership, riferendosi fondamentalmente a tre casi: l’università come comunità di professionisti, l’università politico-burocratica e l’università a rete. L’università intesa come comunità di professionisti sottolinea la rilevanza sia della competenza e dell’esperienza (“seniority”) come fonti dell’autorità, sia di alcuni interessi comuni, condivisi principalmente a scopo di autodifesa, autoregolamentazione e sviluppo della professione o della disciplina, ma sopratutto si caratterizza per il valore attribuito all’autonomia dei singoli. In questa prospettiva il 16 leader è visto come rappresentante delle aspirazioni e dei successi della collettività e la leadership è basata sulla negoziazione, la persuasione e il raggiungimento del consenso, mentre l’autorità e la capacità di esercitare una significativa influenza si fondano sulla riconosciuta esperienza e credibilità professionale. In questo senso il leader deve poter simboleggiare i valori del gruppo e da lui ci si aspetta che svolga una intensa attività di consultazione e condivisione delle pratiche di gestione dell’istituzione. L’università caratterizzata dal prevalere delle logiche politico-burocratiche è, per contro, sede di possibili competizioni tra aree disciplinari portatrici di valori e interessi diversi per la varietà di finalità, strategie e referenti esterni, sovente peraltro legati a peculiarità epistemologiche. I conflitti sono dunque potenzialmente derivanti dalle differenze di valori e tesi alla conquista di spazi e di rilevanza interna all’istituzione. La dimensione burocratica tende qui a sottolineare la necessità di ordine, regolazione e controllo, attraverso catene gerarchiche di comando, di definizione attenta di ruoli e responsabilità e di procedure fondate su finalità condivise. L’utilità di una tale organizzazione della complessità, attraverso la formalizzazione dell’articolazione interna, è giustificata sia dalla diversificazione disciplinare sia dalla rilevanza crescente dei rapporti col mondo esterno (con gli sponsor, i clienti, gli stakeholders) nei confronti del quale l’istituzione deve essere affidabile (accountable). Nella dimensione politico-burocratica la leadership deve legittimare le differenze di valori e interessi, operando per raggiungere finalità condivise attraverso mediazioni e compromessi, ma anche, in certi casi, mirare a trarre vantaggio delle differenze, governando secondo il principio del “divide et impera”. Sotto il profilo della gestione burocratica la leadership delle università sovente è spinta ad assumere caratteri manageriali per l’enfasi posta sulla presa delle decisioni e la definizione di sistemi di controllo e coordinamento. Infine, nelle forme più moderne l’università si presenta come un sistema a rete, cioè formato da elementi interagenti collegati ad altri sistemi esterni (le comunità locali, i 17 gruppi internazionali di ricerca, il mondo economico ai diversi livelli) attraverso una rete che coinvolge solo alcuni dei propri elementi (dipartimenti, centri di ricerca, facoltà). In particolare, riferendosi ai nuovi modelli di università, emerge come la leadership tenda a divenire inevitabilmente sempre più diffusa ed a coinvolgere i singoli soggetti ai diversi livelli all’interno dell’istituzione, giustificando in tal modo l’uso dello stesso termine di “governance”. 3 – La governance dell’università in Europa Il termine di ”governance” è stato identificato con la struttura di relazioni che tiene insieme la coerenza organizzativa, e dunque autorizza politiche, programmazioni, decisioni, e altresì fornisce riscontri della loro correttezza, coerenza e convenienza. Per contro, il “management” consiste nel raggiungere le mete prefissate attraverso l’attribuzione di responsabilità e risorse, oltre al monitoraggio della loro efficienza ed efficacia. L’”amministrazione”, a sua volta, può essere intesa come il processo di interpretazione e perseguimento delle finalità dell’organizzazione, in accordo con le politiche e le procedure stabilite [ Gallagher 2001;Meek 2003, 12]. La governance è dunque riferita al contesto nel quale le università operano e, quindi, anche ai processi e alle strutture attraverso e con le quali si raggiungono (o, meglio, si mira a raggiungere) i risultati prestabiliti. Si può dunque sostenere che il concetto di governance incorpori quelli di management, amministrazione e leadership istituzionale. Come ha sostenuto Renate Mayntz, il termine governance comprende dunque un sistema di regole e altresì il modo in cui tale sistema opera. A sua volta il sistema di regole va considerato come un quadro istituzionale secondo il quale gli attori di un particolare campo di politiche orientano le loro attività [Mayntz 2004, cit. in Kehm, Lanzendorf 2006, 15]. Un modello di riferimento molto noto per definire le dimensioni della governance è quello del “triangolo di governo/coordinamento” elaborato da Burton Clark: si tratta 18 di un sistema di regole dirette ai comportamenti degli attori del mondo accademico e variamente influenzato vuoi dal mercato, vuoi dallo stato, vuoi dall’oligarchia accademica. Il triangolo è stato successivamente modificato dallo stesso Clark aggiungendo un quarto angolo, costituito dalla leadership gerarchica e imprenditoriale delle istituzioni accademiche. Si ottiene così un parallelogramma del potere che rappresenta un regime di governance nel quale – nelle diverse circostanze – viene a prevalere una delle quattro componenti [Clark 1983; 1997]. Occorre conseguentemente chiedersi come e perché emergano nuove forme di governance. Innanzitutto, osserviamo come alcune caratteristiche di contesto quali l’alto livello raggiunto dalla spesa pubblica per l’istruzione superiore, assieme alla collocazione relativamente bassa dell’istruzione superiore nell’agenda politica delle priorità dei governi nazionali, abbiano facilitato lo sviluppo dell’autonomia-controllata degli atenei e correlativamente la spinta alle modifiche della governance. Ad un tempo, la globalizzazione e l’internazionalizzazione accelerata dei processi di produzione e distribuzione della conoscenza hanno dato avvio ad una contrapposizione tra diversi attori (uomini politici, intellettuali, accademici, studenti, rappresentanti dell’economia) circa la vera natura del sapere e le sue utilizzazioni. Si sono sviluppate nuove lotte di potere tra diversi gruppi, nel mondo politico e in quello economico, attorno alle funzioni delle strutture formative e produttrici di conoscenza, che hanno visto il crescere delle applicazioni del pensiero neo-liberale rappresentato dalla teoria del “New Public Management”. Secondo questo approccio, l’università va trasformata da istituzione a “legami deboli” (loosely coupled) in organizzazione saldamente strutturata, al fine di potersi collocare efficacemente in dinamiche di mercato, e dunque sopportare logiche competitive e richieste di affidabilità attraverso verifiche. Nello specifico, il cambiamento di fondo ha riguardato i tradizionali modi di interpretare la relazione tra università e società. Si assiste infatti ad una crisi di egemonia dell’università come autonoma sede di creazione e trasmissione di sapere, cui si aggiunge una crisi di legittimazione a seguito delle difficoltà di incontro tra 19 domanda e offerta del prodotto dell’istruzione superiore nel mercato del lavoro (crisi di employability), ma in particolare si manifesta una crisi istituzionale per la peculiarità organizzativa di un’università la cui maggiore autonomia relativa viene attribuita in un contesto di subordinazione a standard di efficienza e di produttività propri al modello manageriale che prende piede nella realtà accademica. Nelle università europee si sono dunque registrati mutamenti nelle forme di governance, che hanno spostato l’equilibrio del potere e dell’autorità in direzione di uno sviluppo di nuove strutture centrali. L’amministrazione centrale viene rinforzata ed acquista un ruolo cruciale. I tradizionali sistemi “bicamerali”(Senato accademico e Consiglio di Amministrazione in Italia) evolvono verso un rafforzamento delle capacità amministrative. Cresce la partecipazione di soggetti esterni portatori di interessi (gli “stakeholders”) negli organi decisionali e parallelamente si accentuano le critiche alla collegialità dei processi decisionali e si propende verso la centralizzazione delle decisioni al più alto livello istituzionale, con conseguente riduzione, in alcuni casi (Francia), delle decisioni a livello disciplinare (dipartimenti). I rettori a volte sono nominati e non più eletti, mentre i presidi e i direttori di dipartimento (i middle managers) sono visti come professionisti dell’amministrazione e dunque possono venir nominati dal rettore. In determinati casi essi vengono a far parte, con alcuni dirigenti amministrativi, di una sorta di giunta informale di consulenza al rettore [Amaral, Jones, Karseth 2002, 287]. Ecco che allora i ruoli deputati al governo delle università si vengono modificando, anche se in realtà non si assiste alla sostituzione completa di un modello ad un altro. Così il ruolo di primus inter pares, tradizionalmente attribuito ai leader nei diversi ruoli (rettore, preside di facoltà, direttore di dipartimento o di corso di laurea), non si può dire sia sparito né abbia perso di legittimità, bensì venga a combinarsi con altri ai quali, peraltro, i leader accademici non sono stati preparati (come le capacità di gestione, di valutazione e di programmazione) [Musselin 2001]. Quanto alla governance si pone il problema della costruzione di una leadership collettiva sufficientemente coesa ma basata su logiche diverse da quelle tradizionali. 20 Infatti, i principi tradizionali di collegialità, coerenti con il ruolo di primus inter pares e destinati a costruire forme di consenso, non si rivelano così adatti alla identificazione di priorità e alla realizzazione delle decisioni prese: si tratta dunque di sviluppare nuove modalità di consenso e forme di cooperazione in un processo decisionale che proviene in genere dal vertice (rettore/président/vice- chancellor/rektor) e che deve trovare corrispondenza a livello dei presidi/direttori e da qui a quello del personale docente. Cresce dunque il ruolo dei dirigenti intermedi, il cosiddetto “middle management”, che devono svolgere più che mai compiti delicati di trasmissione nei due sensi delle istanze e delle decisioni. Ai diversi livelli di responsabilità si sommano dunque ruoli tradizionalmente accademici con ruoli di stampo manageriale, difficilmente combinabili e fonte di disagio sia tra i diretti attori dei ruoli di leadership, sia tra i membri della collettività accademica. I primi si sentono infatti sopraffatti dalle incombenze organizzative difficilmente combinabili con quelle tradizionali della didattica e della ricerca e inoltre non riescono facilmente ad acquisire la capacità di guardare al di fuori dell’università, né di immedesimarsi nelle aspettative esterne. Il personale docente, d’altro canto, non accetta facilmente la nuova concezione della leadership accademica, né la logica della riduzione di parte dell’autonomia individuale in nome di un vantaggio collettivo. Stenta a farsi largo, in sintesi, la concezione dell’appartenenza ad una istituzione e l’adesione alle trasformazioni dei propri ruoli professionali in ragione delle nuove finalità attribuite all’istruzione superiore e in conseguenza alle università. Uno degli aspetti che evidenziano la difficoltà a recepire il processo di transizione è rappresentato dalla scarsa attenzione dedicata allo sviluppo della leadership accademica. L’avversione al concetto di managerialità è probabilmente una delle principali ragioni che spiega il ricorso a stereotipi e luoghi comuni che fanno ritenere la leadership come una dote naturale, oppure un’arte, o una capacità che si acquista con l’esperienza. Simili atteggiamenti automaticamente escludono la necessità di una formazione professionale specifica, con il rischio tuttavia di finire per essere costretti ad adottare modelli applicati in altri contesti. 21 4 – Fasi e caratteristiche del cambiamento Allo stato dei fatti ci si può tuttavia domandare se la rivoluzione manageriale stia davvero occupando le strutture di governance dell’università o se invece il managerialismo sia solo uno strumento politico di tipo retorico, utile ad incoraggiare l’adattamento alle nuove condizioni di funzionamento delle istituzioni accademiche. In effetti, il managerialismo non convince come unico paradigma per la gestione delle istituzioni pubbliche e il modello tradizionale trova ancora applicazioni in particolare nel settore dell’istruzione superiore, dove non si riscontrano forme di management puro e dove l’autogoverno accademico e la regolamentazione statale mantengono un peso considerevole. Non va inoltre trascurata tutta una serie di effetti negativi, in parte prodotti o quanto meno incentivati dall’applicazione delle nuove forme di governance e di management. Si assiste infatti alla progressiva trasformazione degli accademici in lavoratori della conoscenza con la crescente “proletarizzazione” della professione. Il declino del “dominio dei Dons” sembra coincidere con il declino dell’autonomia istituzionale delle università (attraverso il crescente controllo dello stato sotto forma di valutazione) [Halsey 1992]. E tuttavia va ricordato come la crisi della collegialità accademica, in quanto guida della vita universitaria, si sia manifestata prima dello svilupparsi delle teorie neo-manageriali. Piuttosto sembra che il Nuovo Management Pubblico spinga le università verso una situazione caratterizzata da “scarsa fiducia e forte controllo”, che appare la conseguenza della nuova autonomia regolata. La tradizionale fiducia su cui si fondava la dinamica sociale nell’università viene, infatti, progressivamente sostituita dalla verificabilità dell’affidabilità (accountability). Ne deriva che il crescente controllo burocratico e manageriale proprio delle logiche di mercato rappresenta, di fatto, una messa in dubbio della probità morale del corpo accademico. E tuttavia, secondo molte evidenze, le organizzazioni efficienti si fondano sulla fiducia. Ci si 22 può domandare, in conseguenza, quali siano le condizioni istituzionali che favoriscono la fiducia o la sfiducia. La domanda si collega al problema della coerenza tra organizzazione centrale delle istituzioni accademiche (approccio manageriale, struttura gerarchica del potere) e funzionamento concreto delle strutture di base, della didattica come della ricerca. Se le logiche e i valori accademici sopravvivono, le pratiche collegiali sono o no indispensabili per la sopravvivenza delle istituzioni universitarie? In caso di risposta affermativa va forse aperta una riflessione su possibili forme ibride di organizzazione accademica [Amaral, Jones, Karseth, cit., 294]. Va detto che nell’attuale situazione di incertezza sul piano della identificazione dei processi e dei livelli decisionali, molti accademici avversano il funzionamento degli organismi collettivi (“troppe riunioni senza presa di decisioni”) e se sono coinvolti in forme di “capitalismo accademico” (nel senso che i loro interessi professionali si rivolgono per lo più al di fuori della vita dell’ateneo) appaiono favorevoli alla concentrazione del potere a livello centrale [Amaral, Fulton, Larsen 2003, 277]. Sia pure di fronte a una serie di segnali a volte tra loro contraddittori e tenendo ben presente le specificità dei sistemi nazionali d’istruzione superiore, sembra possibile tuttavia identificare alcune tendenze comuni, o quanto meno simili, nelle diverse realtà istituzionali. Non si è imposta, innanzitutto, una sola definizione di governance, anche se una serie di innovazioni si sono diffuse e stanno diffondendosi: i controlli e le forme di incentivo/sanzione sono aumentati; l’autonomia operativa delle singole istituzioni è cresciuta, ma anche le regole stabilite dai governi, e si è moltiplicata la ricerca di legittimazione attraverso il meccanismo di accountability. In ogni caso la regolamentazione statale ha ancora un suo rilievo, specie nell’Europa continentale. Al riguardo va ricordato, all’interno di una diversa origine storica del sistema d’istruzione superiore continentale europeo rispetto a quello anglosassone, come l’università sia sempre stata, nel primo, un’istituzione statale e come sia dunque stato cruciale il ruolo regolatore dello stato nei suoi riguardi. Da qui anche i dubbi circa le 23 logiche di mercato e i processi di privatizzazione dei settori pubblici presenti nei paesi europei. Si è dunque indebolito l’autogoverno accademico, ma non si prevede una sua sparizione. Circa il suo impatto molto sembra dipendere dal tipo di leadership attuata da chi occupa posizioni di comando. Sempre più frequentemente, del resto, vengono a configurarsi situazioni nelle quali i leader accademici appaiono spinti a svolgere ruoli di intermediari fra valori accademici e domande esterne [Kehm, Lanzendorf, cit., 207]. Resta aperta la verifica del grado di realizzazione delle tendenze generali – qui sommariamente indicate – nei diversi atenei collocati all’interno degli specifici sistemi d’istruzione superiore europei presi in esame dalla ricerca. Bibliografia Amaral,A.,Fulton,O.,Larsen,I.M. 2003 A Managerial Revolution?, in A.Amaral, V.L.Meek, I.M.Larsen (eds.), The Higher Education Managerial Revolution?,Dordrecht, Kluwer Academic Publishers,pp.275-295 Amaral,A.,Jones G.A.,Karseth,B. 2002 Governing Higher Education: Comparing National Perspectives, in A.Amaral, G.A.Jones, B.Karseth (eds.),Governing Higher Education: National Perspectives on Institutional Governance, Dordrecht, Kluwer Academic Publishers Clark,B.R. 1983 The Higher Education System. Academic Organization in Cross-National Perspective, Berkeley, The University of California Press Clark,B.R. 1997 The Entrepreneurial University: Demand and Response, paper presentato al 19mo EAIR Forum, University of Warwick Clark,B.R. 24 2004 Sustaining Change in Universities. Continuities in case studies and concepts, Maidenhead, SRHE-Open University Press Collins,R. 1988 Theoretical Sociology, Orlando, Harcourt Brace Jovanovich (trad. It. Teorie Sociologiche, Bologna,Il Mulino, 1992) Gallagher,M. 2001 Modern università governance. A national perspective, paper presentato al convegno”The Idea of a University:Enterprise or Academy?”,Camberra, The Australian Institute and Manning Clark House Halsey,A.H. 1992 Decline of Donnish Dominion. The British Academic Professions in the Twentieth Century, Oxford, Clarendon Press Kehm,B.M., Lanzendorf, U. (eds.) 2006 Reforming University Governance. Changing Conditions for research in Four European Countries, Bonn,Lemmens Mayntz,R. 2004 Governance Theory als fortentwickelte Steuerungstheorie?, MPIfG Working Paper 04/1, Köln,MPIfG Meek, V.L. 2003 Introduction, in A.Amaral, V.L.Meek, I.M.Larsen (eds.), The Higher Education Managerial Revolution?, Dordrecht,Kluwer Academic Publishers,pp.1-29 Middlehurst,R. 1995 Changing Leadership in Universities, in T.Schuller (ed.), The Changing University?,Buckingham, SRHE-Open University Press, pp.75-92 Musselin,C. 2001 La longue marche des universités françaises, Paris, PUF 25 L’AUTONOMIA ISTITUZIONALE E LA PROFESSIONALITA’ DELLA GESTIONE (Carlo Barone) 1. Gradi di autonomia L’esame dei casi studiati suggerisce di introdurre una distinzione di fondo costituita dal grado di autonomia di cui godono gli atenei nei diversi sistemi d’istruzione superiore, un aspetto che consente di mettere in luce gli elementi, che sono apparsi influenzare il caratterizzarsi delle forme di governance nelle diverse realtà, ancorché occorra subito aggiungere che si tratta dovunque di una autonomia variamente limitata. In Germania una serie di leggi federali e statali ha notevolmente aumentato i margini di autonomia degli atenei, ma le burocrazie dei Länder tendono a mantenere un certo grado di controllo diretto. I Länder decentrano molto “a parole”, ma poi cercano di trattenere un margine d’interferenza sull’operato degli Atenei9. Inoltre, le dinamiche di coalizione politica, o anche solo le convinzioni dei singoli Ministri dell’Istruzione di ciascun Land, possono spingere in avanti, oppure al contrario rallentare, le tendenze al decentramento. Tuttavia, nel complesso, la trasformazione in corso appare di vasta portata e in particolare si manifesta in alcuni comparti: introduzione di budget globali, con la possibilità per gli Atenei e le Facoltà non solo di gestire più flessibilmente le diverse voci di spesa, ma anche di spostare risorse da un anno all’altro, accantonando fondi (es. per progetti di ricerca molto onerosi) secondo una logica di investimento di medio periodo, che prima non era neppure concepibile; reclutamento del personale, con controlli diretti da parte del Land che risultano indeboliti e la definizione degli organici che viene ormai considerata, in generale, una questione interna degli Atenei. Non mancano alcune interferenze da parte 9 Peraltro non si deve pensare che tali intromissioni siano sempre male accette da parte dei Rettori. Talvolta costoro possono usarle come uno scudo protettivo, specialmente quando sono chiamati a prendere decisioni impopolari (“devo tagliare questa Facoltà perché è il Ministro che me lo chiede”). 26 dei Ministeri dell’istruzione: ad esempio, questi ricevono la documentazione delle procedure concorsuali e possono invalidarne o sovvertirne gli esiti (non solo per vizi formali). Oppure, può capitare che il Land non solo tagli i fondi a un Ateneo ma informalmente indichi pure quali aree di ricerca, o addirittura quali cattedre, preferirebbe che venissero tagliate; definizione dell’offerta formativa: agli Atenei spetta ora un potere effettivo più ampio nella decisione di aprire nuovi corsi di laurea, di avviare scuole di dottorato o altre iniziative didattiche. Anche in questo caso, il Land mantiene un potere di controllo preventivo, ma solo di rado se ne avvale per bloccare tali iniziative. Peraltro, accanto a questi controlli, si sta affermando, sebbene lentamente e parzialmente, un sistema di accreditamento dei corsi basato su agenzie esterne private specializzate; contribuzione studentesca: l’interpretazione tradizionale del dettato costituzionale sul diritto allo studio sembrava comportare l’impossibilità d’imporre tasse agli studenti, mentre ora ciascun Ateneo può stabilire di chiedere loro un contributo. Comunque, sinora le università sembrano piuttosto caute nel percorrere questa via, malgrado il loro cronico sotto‐finanziamento. In Francia una vera autonomia decisamente più libera dalla “tutelle” ministeriale non sembra prossima. Il sistema di contrattualizzazione creato negli anni ’80 resta un elemento centrale del sistema e il ruolo di controllo del ministero si mantiene forte, anche se le università hanno acquisito importanti spazi di autonomia e responsabilità. In particolare la recente legge LRU (Libertà e responsabilità delle università, detta anche legge Pécresse, dal nome della ministra che l’ha promossa) dell’agosto 2007 spinge verso un ancora più deciso accrescimento della capacità di governance autonoma delle università, conferendo loro maggiori competenze, che passano soprattutto attraverso il potenziamento del ruolo dei presidenti ed un maggior peso nella gestione del budget. Ma, con qualche eccezione, non poche sono state le resistenze alla legge dal mondo accademico e da quello studentesco, dovute principalmente al timore che, con il rafforzamento dei poteri del presidente 27 dell’università, vi sia un rischio di deriva manageriale a detrimento delle rappresentanze democratiche. Presso l’Université Rennes 2 Haute Bretagne e l’Université de Reims Champagne Ardenne – URCA, i Président ed il loro staff, in generale, difendono la legge e rivendicano una maggiore autonomia dal controllo ministeriale, ma questo a fronte, soprattutto nella prima università, di resistenze ideologiche da parte di studenti e non contenute frange accademiche, nonché di un’idea di servizio pubblico legata ad una visione “statalistica” e di tutela sindacale. E tutto ciò chiaramente rispetto ad un’autonomia il cui punto debole consiste nel fatto di essere ancora piuttosto relativa. In Italia, il controllo sui percorsi formativi imposto dalla legge sugli ordinamenti didattici del 1999 si è accentuato negli ultimi tempi con l’introduzione dei requisiti necessari per l’attivazione dei corsi di laurea. Si è trattato, infatti, dell’esempio più significativo di limitazione dell’autonomia degli atenei, caratterizzata dalla determinazione governativa del numero dei docenti di ruolo imposto come indispensabile per la creazione (o il mantenimento) dei corsi di laurea. Tale limitazione, introdotta al fine di ridurre la proliferazione dell’offerta formativa priva di un congruo numero di docenti incardinati stabilmente nell’università, ha segnalato peraltro l’inadeguatezza di diversi atenei nella gestione della propria autonomia. Inoltre, l’incidenza del governo è risultata particolarmente evidente anche nelle recenti misure relative ai processi di reclutamento del personale docente, da tempo bloccati in attesa di una trasformazione, che toglierà in larga misura la possibilità alle università di assumere il personale docente, attraverso concorsi banditi localmente a favore di un ritorno a sistemi concorsuali centralizzati a livello nazionale. A ciò si aggiunge la distribuzione di una frazione del finanziamento agli atenei, secondo modalità di valutazione largamente opinabili e dal sapore maggiormente punitivo (meno risorse a chi non ha raggiunto livelli di prestazioni non dichiarati in precedenza) che non di stimolo. Va ricordato al riguardo come in Italia non sia attivo un reale sistema nazionale di valutazione della didattica e della ricerca, sin qui lasciata ad iniziative operanti senza conseguenze di sorta, come la valutazione della 28 didattica da parte degli studenti (i cui risultati sono in genere tenuti riservati), o la valutazione delle attività di ricerca, condotta una tantum da una istituzione di nomina ministeriale (CIVR) e rimasta senza seguito. Ma l’intento di controllo “punitivo” del governo nazionale si è evidenziato soprattutto con la riduzione dei finanziamenti ordinari al complesso degli atenei che di fatto blocca per molte università (specie per quelle generaliste dove il bilancio dipende per oltre il 75% dal finanziamento pubblico) ogni possibile politica autonoma. In Gran Bretagna sono note le procedure di valutazione da parte delle istituzioni pubbliche specifiche, che incidono sull’ammontare della risorse distribuite dal governo, mentre tra i limiti all’autonomia è compresa la determinazione del numero di studenti reclutabili. Ad una visione d’insieme si può sostenere che la dialettica controllo dello stato/autonomia degli atenei rappresenti ancora oggi un aspetto di fondo del sistema d’istruzione superiore inglese. Ora, è comprensibile che possano svilupparsi tensioni tra le strutture di governance (il Council) e quelle esecutive: sono le stesse che si ritrovano tra governance e management in ogni organizzazione. Al riguardo va ricordato che le università britanniche, anche se finanziate in modo spesso massiccio dal governo e caratterizzate da comportamenti che sovente appaiono da servizio pubblico, sono tuttavia delle corporazioni indipendenti: sono cioè un’entità autonoma con una propria dimensione legale e non sono parte del servizio pubblico. D’altro canto, il controllo dello stato cui è legato il contributo finanziario viene considerato, nei casi delle migliori università che possono contare su forti legami con settori diversi dell’economia, più come un freno che come un’opportunità. Nell’University of Warwick il tema dell’autonomia viene ribadito con molta forza dai diversi componenti la governance e si manifesta appunto nello sforzo di contenimento dell’incidenza dei contributi statali sul bilancio di ateneo. Meno incidenza delle finanza pubblica significa meno dipendenza dalle regole statali nelle scelte di politica accademica e meno vincoli burocratici. Questo atteggiamento, presente anche in altri atenei come Bristol, a Warwick, è particolarmente forte, 29 proprio in relazione alla rilevanza che l’aspetto imprenditoriale assume e che richiede una accentuata flessibilità per relazionarsi con le realtà del mondo esterno. Per converso, in Spagna sembra emergere un contesto che si potrebbe definire di nuova autonomia regolata, in cui l’autonomia concessa dai ministeri (a livello nazionale e regionale) alle singole istituzioni non è ancora così ampia come potrebbe essere, poiché risulta limitata, per alcuni aspetti sostanziali, dalla tradizione centralistica del sistema e da forme nuove di centralizzazione. I corsi di laurea con valore legale del titolo di studio devono essere accreditati, anche se vi è ampia libertà di offrirne di propri, privi del valore legale. Mentre in precedenza, infatti, era sufficiente rispondere ai requisiti generali previsti dalla legge ed alle altre regolamentazioni su lauree e curricoli per vedersi riconosciuti i propri titoli di studio, con la Ley de Reforma Universitaria -LOU del 2001 e con la Ley de Reforma de la LOU-LRLOU del 2007, ogni singolo programma deve essere accreditato al fine di veder riconosciuto il valore legale dei titolo di studio. Il ministero nazionale ha dunque un ruolo cruciale nella decisione sulla ammissibilità dei nuovi curricula che, pur proposti dalle singole istituzioni universitarie (i cui interessi sono tutelati a questo livello anche dalla CRUE – Consejo de Rectores de Universidades Espanolas), devono rispondere a determinati requisiti previsti a livello nazionale; un po’ come, nel caso italiano, avviene col decreto delle classi. Inoltre, ci deve essere anche la specifica autorizzazione del ministero regionale, il cui assenso è fondamentale, in quanto previsto dalla legge e per la sostanziale ragione che esso resta il principale finanziatore delle università pubbliche (70-75% del totale) attraverso diverse e specifiche “formule”. A questo fine i ministeri, quello nazionale e quelli regionali, trovano nelle rispettive Agenzie per la valutazione della qualità e l’accreditamento uno strumento centrale di intervento nella vita delle istituzioni: sono ANECA – Agencia Nacional de Evaluaciòn del la Cualidad y Accreditaciòn, ed omologhi regionali che accreditano i corsi ed hanno competenza tanto sulla qualità della didattica che su quella della ricerca. Si può affermare così che valutazione e 30 accreditamento sono un altro strumento che contribuisce a limitare l’autonomia istituzionale in Spagna, anche se l’uso di indicatori di performance non si estende alla valutazione di strutture o di interi atenei, salvo che per una parte (es. contratti di programma) dell’intero ammontare di risorse concesse. In questo quadro, le limitazioni si estendono anche all’importo delle tasse (che apportano in media il 1520% delle risorse disponibili per le università) che è fissato dai singoli governi regionali all’interno di un ventaglio stabilito dal Consejo de Coordinaciòn de Universidades. Anche la missione dell’università resta in larga misura determinata dai ministeri nazionale e regionali e, del resto, la stessa governance interna delle istituzioni universitarie, pur essendo specificamente regolata dagli statuti autonomistici, non è davvero del tutto autonoma e segue modelli largamente vincolanti su composizione e natura degli organi unipersonali e collegiali, determinati dall’autorità ministeriale con leggi sia nazionali che regionali. Occorre aggiungere però che in alcuni casi, come ad esempio quello dell’elezione del rettore o della scelta fra elezione o nomina dei direttori di istituto, la legge lascia la specificazione agli statuti e che questi ultimi hanno ormai ampia libertà di aggiungere organi specifici. Selezione ed accesso degli studenti sono, a loro volta, solo in parte decisi autonomamente dalle università: queste ultime fanno infatti le loro proposte, ma la decisione finale spetta comunque ai ministeri nazionale e regionale. In tutte le università spagnole analizzate si conferma questo contesto tendenziale di crescenti limiti all’autonomia da parte dei ministeri competenti, tanto più sotto il profilo dell’attribuzione di risorse: nel corso dell’indagine di campo si sono registrati casi di intervento limitativo da parte del governo regionale sui corsi di laurea proposti, su iniziative per la creazione di nuove università e così via. Questi interventi sono avvertiti dai responsabili accademici come una limitazione che riduce in maniera significativa l’autonomia ed il potere discrezionale delle singole istituzioni. Va tuttavia, infine, sottolineato che ad oggi l’invasività dei ministeri locali e nazionale non si basa che parzialmente, come invece accade in altri contesti nazionali, sulla valutazione: le formule per l’attribuzione delle risorse e lo stesso 31 accreditamento sono, il più delle volte, limitate ai singoli corsi di laurea e non estendono l’uso di indicatori di performance alle strutture o alle istituzioni nel loro complesso. Per altro verso, strutture nazionali centrali create di recente allo scopo di indirizzare e, parzialmente, governare il sistema, come il Consejo de Coordinación Universitaria o come il Consejo de Universidades, non risulta che abbiano un impatto forte e decisamente percepito nella vita dei tre atenei analizzati. Tutto questo insieme di materie di competenza ministeriale configura, per alcuni studiosi, un vero processo di ri-centralizzazione del sistema [Mora 2003]. Le forme di governance che si vengono articolando nelle diverse università risentono in vario modo anche delle relazioni che intercorrono tra poteri pubblici centrali e singoli atenei. Così in Francia i contratti quadriennali finiscono con il richiedere l’elaborazione e presentazione di piani di ateneo, che il Président deve organizzare e sostenere, acquisendo in tal modo un maggior grado di potere sui rappresentanti dei settori disciplinari. Inoltre con la legge LRU la durata del mandato del Président, passando da cinque a quattro anni, favorisce una stretta relazione tra il contratto quadriennale, che si configura sempre più come programma politico, e l’operato dello stesso Président nel rappresentare istanze interne d’ateneo e sollecitazioni esterne (poteri pubblici centrali). Il presidenzialismo nelle università francesi si sostanzia nel ruolo di crescente rilievo acquisito dal Président e dalla sua équipe cui si affianca di regola un Consiglio di amministrazione efficiente. Tuttavia in due università sulle tre oggetto dell’indagine i Consigli di Amministrazione non sono risultati all’altezza del ruolo. Di fatto, se è sempre evidente l’entusiasmo di Président ed équipe verso una concezione centralizzatrice della governance, non è altrettanto conseguente la traduzione delle intenzioni in azioni coerenti: i Consigli di Amministrazione dell’Université di Rennes 2 e dell’URCA di Reims sono lenti e pletorici, ed il peso politico della forte presenza sindacale è una delle ragioni di tale lentezza. Nel primo caso in particolare il CA soffre e, per così dire, fa soffrire, nel senso che costituisce un freno alle scelte, anche se poi arriva sia pure lentamente a convergere con la linea 32 presidenziale; nel secondo invece risulta decisamente smarcato dall’équipe del Président ed appare più debole nel resistere alle indicazioni presidenziali. Solo presso l’Université de Technologie di Compiègne il CA è un facile alleato del Président, ma allo stesso tempo funge per lo più da vero organo di garanzia e sorveglianza, efficiente e corretto: l’UTC di Compiègne è di fatto l’unica delle tre università visitate in cui non si è sentito definire il Consiglio d’Amministrazione una sorta di “registratore di cassa”, espressione invece utilizzata diverse volte dagli intervistati delle altre due università, con una chiara connotazione naturalmente negativa. E nei tre casi si sono presentati tre diversi Président con diverse strategie variamente orientate in senso consensuale o manageriale o democratico. Ne deriva una governance che risente molto nettamente della personalità del Président. Particolarmente interessante appare, in questa prospettiva, il caso della Germania ove sembra prendere piede il modello dell’università-impresa con rafforzamento delle funzioni di leadership dei rettori a detrimento degli organi collegiali, al fine di rendere più rapidi i processi decisionali. Questo modello trae legittimazione, innanzitutto, dalla constatazione delle inefficienze e delle inadeguatezze del modello tradizionale di governance [Kehm, Lanzerdorf 2006]. Anche per questo, benché le sue radici ideologiche non siano certo ambigue agli occhi del corpo accademico, questo modello trova crescenti consensi “bipartisan” dentro le università tedesche e viene promosso da governi federali e statali di vario colore politico, seppure con accentuazioni diverse. Insomma, la legittimazione di una leadership forte e della concorrenza come meccanismo regolatore valido e utile anche al di là della sfera strettamente economica, non è più patrimonio esclusivo di una sola parte politica. Al rettore (che tende sovente ad essere chiamato “presidente”) si affianca una sorta di giunta esecutiva di ateneo (comprendente rettore, pro-rettori e cancelliere). Il suo potere è favorito da iniziative esterne come l’Exzellenzinitiative che , un po’ come i piani quadriennali francesi, costringe alla elaborazione di programmi pluriennali di ateneo che comprendono scelte di priorità interne. Inoltre, va tenuta presente l’ 33 emergente cultura della valutazione e soprattutto della classificazione (il rating e il ranking) delle università. La competizione tra gli atenei che ne consegue giustifica una leadership forte, in grado di rappresentare gli interessi dell’istituzione nei confronti del mondo politico ed economico. Il caso dell’università di Heidelberg (in una prima tornata rimasta fuori dalla lista di atenei considerati nella Exzellenzeinitiative per responsabilità attribuita al rettore e al suo staff) conferma l’incidenza di questi elementi esterni. In Germania peraltro il rettore ha voce diretta nel reclutamento dei docenti e, con l’avallo del Senato, fissa regole e criteri per la ripartizione delle risorse alle Facoltà. Nessuna iniziativa analoga è invece presente ( né appare programmata) nei casi italiano e spagnolo. In Italia, infatti non si possono paragonare i piani triennali che le università sono tenute a presentare al ministero dell’Istruzione, l’Università e la Ricerca Scientifica ai piani quadriennali francesi (né sul piano della concertazione col ministero né su quello della verifica delle realizzazioni effettive), mentre la ricerca dell’eccellenza non assume le forme di un piano nazionale ma si identifica con alcune poche (non raggiungono la decina) istituzioni di riconosciuto prestigio. 2 – Professione Rettore ? In alcuni sistemi d’istruzione superiore sembra emergere altresì una tendenza alla creazione (informale) di una carriera politica accademica E’ il caso della Germania dove i Rettori sono persone che quasi sempre sono approdate all’incarico dopo una lunga attività di politica universitaria. Molto spesso tale incarico è stato preceduto da altri ruoli: Preside di Facoltà, membro del Senato accademico, Pro‐ Rettore. Evidentemente, si tratta di docenti interessati a questo tipo di percorso. Senza contare che la posizione di Rettore è d’indubbio prestigio (quanto meno negli Atenei che godono di buona reputazione), trova apprezzabili riconoscimenti economici e può aprire l’accesso ai network politici nazionali ed europei. Al termine del suo mandato, il Rettore può tranquillamente decidere di 34 non tornare a fare il professore, viste le buone opportunità di ottenere altri incarichi direttivi e di prestigio fuori dall’Ateneo (es. nei diversi enti federali e statali che si occupano d’istruzione superiore, negli Universitätsrat di altre università, ecc.). Si vede bene, dunque, come il rafforzamento delle prerogative del Rettore e la creazione di un percorso di carriera professionale costituiscano tendenze emergenti che si rafforzano a vicenda. Il fenomeno è recente ma sembra diffondersi e trova un riferimento in una analoga tendenza registrata in Gran Bretagna. Anche qui infatti i Vice-Chancellor vengono da esperienze di ruoli di governo per lo più occupati in altre università. Così alla Coventry University la Vice-Chancellor è stata prima Pro-Vice-Cancellor e Dean in una università diversa; alla University of Warwick il Vice-Chancellor era Pro-ViceChancellor alla Oxford University, quello che lo aveva preceduto era stato ViceChancellor all’University of Bath. Il Vice-Chancellor della University of Bristol è stato direttore di dipartimento e Dean di facoltà in una differente università. La possibilità di reclutare da altro ateneo i Vice-Chancellor - che vengono nominati e non eletti - favorisce naturalmente il formarsi di questo tipo di carriera, ma la crescente necessità di competenze gestionali spinge nella stessa direzione anche altri sistemi d’istruzione superiore. Del resto, si sono visti casi analoghi anche in Italia limitatamente nelle università private, dove i rettori sono eletti con modalità ristrette o nominati da gruppi di “garanti”. E sempre più si avverte la necessità di formare con corsi ad hoc il personale che assume ruoli di responsabilità gestionale: alla Coventry University, ad esempio, sono ormai consolidati i corsi di aggiornamento per i direttori di dipartimento. Non risultano invece evidenze relative alla nascita di autonome e separate carriere politiche accademiche in Spagna, Italia e Francia. Resta comunque sempre vero che solo una specifica minoranza di accademici, forniti per lo più di esperienza come presidi di facoltà o direttori di dipartimento o, meglio, pro-rettori, accedono alla 35 massima carica istituzionale. Al riguardo si può affermare che in tutti e tre questi paesi, con l’estensione della domanda sociale di servizi universitari, con l’aumento di vincoli finanziari e col moltiplicarsi delle attività di valutazione e con la conseguente crescita della competitività fra atenei, si manifesta uno iato palese fra il ruolo sempre più manageriale richiesto dalla “professione” di rettore e le competenze acquisite nel corso della carriera accademica. Quale sia la soluzione che si prospetta per colmare tale iato non è ancora dato vedere, anche se i provvedimenti di riforma della governance universitaria, in discussione o appena approvati nei tre paesi, sembrano comunque indicare una consapevolezza dell’esigenza di rimodellare la figura del rettore secondo contorni di natura più decisamente manageriale. Bibliografia Kehm,B.M., Lanzendorf, U. (eds.) 2006 Reforming University Governance. Changing Conditions for research in Four European Countries, Bonn,Lemmens Mora, J.G (2003) “La mejora de la eficacia de la ensenanza superior en el nuevo contexto europeo”, Papeles de Economia espanola, 95 36 37 DINAMICHE INTERNE E RAPPORTI COL MONDO ESTERNO DELLA GOVERNANCE MODERNA (Fabio Di Pietro) 1 - L’organizzazione dei rapporti centro-periferia nelle istituzioni universitarie Appare ben comprensibile come le responsabilità di governo di una università autonoma che viene spinta ad accettare regole di mercato, con in particolare la crescente competizione tra atenei per la conquista di risorse aggiuntive a quelle “governative”, siano ovunque avvertite come cruciali e agiscano per un miglioramento del grado di efficienza dei processi decisionali. Per le stesse ragioni si richiede una strategia dell’ateneo nei riguardi del mondo esterno secondo un programma fatto di relazioni con partner di varia natura e di piani di sviluppo pluriennale. Appare chiara la necessità di un sistema di governance adeguato a tali compiti. Ad un tempo, le articolazioni tradizionali delle istituzioni universitarie in aree scientifico-disciplinari, con logiche e procedure differenti, assieme alle tradizioni di procedimenti democratici e tendenzialmente egualitari, rendono problematica ogni forma di governance che si ispiri, anche alla lontana, alle prassi aziendali e ai sistemi manageriali. Le soluzioni che nei diversi atenei vengono sperimentate per contemperare le diverse esigenze, al fine di ottenere risultati positivi senza raggiungere livelli troppo accesi di conflittualità, sono abbastanza simili in contesti tra loro diversi. Da un lato il rettore/presidente viene affiancato da un comitato di direzione o bureau del Président (in Francia), da una Junta de Gobierno ed equipo rectoral (Spagna) o Praesidium che in Germania è costituito da pochi membri (prorettori; direttore generale/amministrativo) e che si riunisce di frequente al fine di mettere a punto la politica dell’ateneo e seguirne la realizzazione. In Francia il bureau del Président costituisce il gruppo, l’équipe di direzione, intorno al quale si va costituendo un vero e proprio organo intermedio tra potere esecutivo e legislativo, quasi strutture “ buffer” tra presidente e consigli centrali. Nell’Université di Rennes 2, dopo la sua elezione, il Président ha proposto al CA un bureau composto 38 da 3 Vice-Président generali e 5 Vice-Président incaricati di specifiche aree di pertinenza quali ad esempio relazioni internazionali, risorse tecnologiche ed altre, a cui si aggiungono il Vice-Président degli studenti, 4 incaricati di missione, il segretario generale, il capo dei servizi contabili ed il capo del gabinetto e responsabile di presidenza. Un caso a parte è invece quello delle Università tecnologiche come l’UTC di Compiègne, in cui il Président, che qui si chiama Directeur, presiede un comitato di direzione (direttorio) composto da direttori di dipartimento (detti operazionali) e dai cosiddetti direttori funzionali. Questi ultimi hanno un ruolo strategico e solo in parte comparabile con quello assunto dai Vice-Président nel bureau di presidenza di altre università, in cui essi costituiscono di frequente il nucleo più ristretto dello staff presidenziale. I direttori funzionali sono tutti “contrattuali”, vale a dire soggetti reclutati direttamente dal Directeur dell’Università, secondo specifica procedura, a differenza del restante personale accademico, reclutato secondo la procedura nazionale di norma. In questo modo i direttori funzionali diventano a tutti gli effetti uomini di fiducia del Directeur, più interessati ad una carriera manageriale che accademica tradizionale. Quanto all’Inghilterra, un buon esempio è rappresentato dall’University of Warwick dove il “Senate Steering Committee” è costituito dal Vice-Chancellor, il DeputyVice-Chancellor, i cinque Pro-Vice-Chancellor, i presidi dei quattro consigli di facoltà, il preside della Graduate School e il presidente della Student Union. Il Committee si riunisce ogni lunedì con la partecipazione anche del Registrar (Direttore amministrativo) ed è di fatto l’organo che prende le decisioni (e le propone agli organismi collegiali), ma che anche segue la realizzazione delle decisioni prese, dunque l’insieme della vita dell’ateneo. Ma naturalmente la governance non si esaurisce a questo livello. Infatti, il livello di base si articola nelle diverse aree scientifiche e dunque nelle facoltà e dipartimenti che fanno capo alle sedi di presentazione delle diverse istanze, in primo luogo il Senato Accademico e il Consiglio di Amministrazione. 39 La logica complessiva è non infrequentemente caratterizzata da una fitta rete di consultazioni e raccolta di opinioni prima di arrivare (o meglio, di ritornare) al livello centrale più alto che prende la decisione finale e procede alla realizzazione dell’iniziativa decisa. Allo stesso modo funzionano le facoltà ed è questa una delle ragioni per cui i deans hanno acquistato un ruolo maggiore e più grandi responsabilità. Oggi il potere dei deans è cresciuto perché le facoltà sono diventate più importanti ed è a questo livello che si provvede ad esempio a bilanciare le esigenze e l’andamento dei dipartimenti che fanno capo alle diverse facoltà. Fra gli aspetti di novità c’è anche uno sforzo a livello centrale di rispettare le diverse strategie dei deans nella gestione delle facoltà ma altresì di metterli in contatto fra loro allo scopo di rinforzare lo spirito di appartenenza all’università Anche nel caso della Spagna il rettore può contare su un proprio gruppo di fiduciari: esistono così una equipo rectoral, formata da un certo numero di prorettori scelti dal rettore per compiti specifici, ed un Secretario General, a sua volta nominato dal rettore, che insieme ai prorettori ed al Gerente ( nominato dal governo) formano la Junta de Gobierno. Anche in questo caso appare chiara una spinta al prevalere del governo centrale del rettore rispetto agli organi rappresentativi ed in particolare al Consejo de Gobierno, specie nelle università generaliste. Ma questo aspetto di centralismo interno si sviluppa, sempre nel caso delle università generaliste, anche e soprattutto nel rapporto fra organi centrali e periferici degli atenei. Ciascuna struttura didattica o di ricerca replica a livello periferico gli organismi presenti a livello centrale, con un decano o direttore eletto, con elezione diretta o da parte di una Junta, a sua volta eletta (fa eccezione soltanto il caso degli istituti nella Politecnica di Valencia, il cui responsabile è nominato dal rettore). Quello che si evidenzia è un uso di tipo egualitaristico da parte del gruppo rettorale del trattamento ( in termini di risorse e di rappresentanza negli organi centrali) riservato a strutture didattiche o di ricerca di peso diverso e tra dipartimenti e strutture didattiche: si tratta palesemente di una pratica, più forte, diffusa e palese nelle università generaliste, che di fatto appare 40 strumentale ad un disegno di centralismo consensuale volto ad accentuare il potere del gruppo dirigente a scapito delle decisioni collegiali, pur mantenendo un certo livello di consultazione di tutte le istanze periferiche. Mettendo tutte le strutture periferiche della didattica e della ricerca sullo stesso piano, si svuota di fatto il ruolo delle articolazioni più attive e portatrici di identità più consolidate, che avrebbero maggiori ragioni per chiedere di condividere le scelte strategiche. Tuttavia occorre sottolineare che questa modalità produce spesso situazioni di rallentamento, quando non di stallo e che finisce per disperdere quella nettezza e quella rapidità che sono tratti essenziali dell’efficacia della presa delle decisioni. Nella Politecnica de Valencia, invece, questo carattere di centralismo consensuale è ben più limitato, poiché confligge con strutture molto forti e tendenzialmente autonome (con propri rapporti- anche finanziari- con il tessuto produttivo ed istituzionale esterno) che sono bensì consapevoli della propria forza, ma al tempo stesso persuase della necessità di un governo efficace e non paralizzato da veti incrociati prodotti da egoismi disciplinari o di facoltà. In generale, le strutture didattiche delle università spagnole ( scuole e facoltà) faticano ad avere un peso nei confronti del rettorato ed il processo decisionale è di tipo top-down, salvo nei casi in cui abbiano un’identità forte ed un altrettanto forte “mercato” nella formazione ed eventualmente nella vendita di servizi tecnologici: è quest’ultimo il caso della Politecnica de Valencia. Nel caso dei dipartimenti, si assiste ad un loro evidente ridimensionamento e si verifica operante, anche nelle tre università considerate, la previsione della LOU del 2001 che ha teso a svuotarne progressivamente il ruolo. Particolarmente chiaro appare questo aspetto nella università tecnica, ove si osserva una moltiplicazione degli istituti o centros, (nuove strutture di aggregazione dei ricercatori, con una accentuata apertura verso l’esterno, il cui direttore, secondo lo statuto dell’università, viene nominato dal rettore e non – come nelle altre università esaminate- eletto dai docenti) e dei gruppi di ricerca in seno ai dipartimenti, che ne portano a compimento l’effettivo e profondo ridimensionamento funzionale. 41 Nelle due università generaliste spagnole i gruppi appaiono avere il medesimo effetto, ma la creazione di istituti di ricerca è molto più limitato e per conseguenza più ambiguo e contraddittorio risulta, infine, lo svuotamento di attribuzioni dei dipartimenti. In conclusione, pur con importanti differenze fra università generaliste ed università tecnica, le strutture di ricerca e di servizio di tutti e tre gli atenei spagnoli considerati sembrano godere di una relativa maggiore autonomia, che nel caso della Politecnica di Valencia assume persino i contorni di un’impresa autonoma: in questi casi, appare piuttosto chiaro che il processo decisionale è spesso dal basso verso l’alto. Una situazione per alcuni versi simile si registra anche in Italia, ove si ritrova una dialettica centro-periferia all’interno degli atenei analizzati che, per le università generaliste, appare largamente improntata ad aspetti di centralismo, a volte anche di tipo consensuale, come ad esempio nel caso dell’ateneo di Roma 3, che propone l’immagine di un ateneo guidato “con mano forte” nella sua dialettica interna, che resta comunque ampia e tocca tutte le istanze che compongono l’università, in modo che non si arrivi a contrapposizioni laceranti e ad irrigidimenti definitivi. E questo sia per l’attento lavoro preparatorio che viene effettuato, sia anche per la specifica tecnica di direzione dell’assemblea negli organi collegiali. Così il rettore, che peraltro può contare su un tasso di consenso molto elevato (che si basa sull’attenta cura dell’informazione offerta), esercita il più delle volte una forza propositiva trainante. E’ invece diverso il caso del Politecnico di Torino, ove le grandi scelte strategiche sono decise dal rettore ( e dal suo gruppo, che gode di amplissima autonomia sugli specifici terreni delegati) solo dopo un’attenta informazione ed una consultazione puntuale delle istanze di maggior peso a livello periferico, mentre queste ultime, che godono a loro volta di ampia autonomia, tendono ad avere un alto livello di identificazione con l’istituzione e a far prevalere un atteggiamento universalistico. Elevata, e forse comparabile al caso spagnolo, appare dunque nel Politecnico di Torino il livello di autonomia delle diverse strutture ( centri, parchi scientifici ecc.) che hanno per missione il rapporto con il mondo esterno, il trasferimento delle 42 tecnologie ed il passaggio dalla innovazione alla ingegnerizzazione: anche in questo caso a prevalere è una logica di impresa e, da parte del rettore e del suo gruppo, appare estremamente limitato, se non nullo, il livello di interferenza sulle scelte. Nell’Università di Padova sembra svilupparsi una situazione intermedia: lo Statuto approvato di recente ha creato la ”Consulta dei direttori dei dottorati di ricerca”e la “Consulta dei direttori delle scuole di Specializzazione di Area Medica” che si aggiungono alle “Commissioni Scientifiche di Area”, la”Commissione Scientifica di Ateneo”, la “Commissione -Didattica di Ateneo” e il Consiglio degli studenti”,entità già contenute nello statuto precedente. Emerge dunque la tendenza a moltiplicare le strutture collegiali destinate alla aggregazione degli interessi settoriali e alla traduzione ai livelli maggiori delle istanze di base. D’altro canto, lo Statuto dell’Ateneo sottolinea l’autonomia gestionale delle Facoltà [taglio]e dei Dipartimenti. Particolarmente significativa appare l’attribuzione statutaria al Dipartimento del compito di concorrere all’organizzazione delle attività di insegnamento dell’Ateneo e di avanzare proposte alle Facoltà circa l’istituzione, destinazione e modalità di copertura dei posti di professore e ricercatore e, altresì, di organizzare Corsi di formazione e aggiornamento del personale tecnicoamministrativo. Nel caso patavino, si può dunque sostenere che tra le intenzioni del rettore e dei suoi più stretti collaboratori ci sia stata quella di decentrare il più possibile l’apparato centrale sia dal punto di vista amministrativo sia per quello che riguarda i centri decisionali. Questo ha comportato un proliferazione di centri decisionali o di consultazione: ad esempio prima di ogni riunione del Senato si riuniscono il collegio dei presidi e la consulta dei direttori di dipartimento; e tuttavia sembra evidente l’intenzione di coinvolgere nel processo di presa delle decisioni il maggior numero possibile dei diretti interessati. Ci si può peraltro domandare se all’interno di questo sistema di delega diffusa le decisioni siano davvero sempre compartecipate. In diversi contesti la tendenza a fornire occasioni di rappresentazione delle proprie esigenze produce un allargamento del numero dei membri dei Senati Accademici o 43 comunque degli organismi di rappresentanza delle diverse componenti scientifico disciplinari. Specialmente nelle università generaliste si evidenzia la necessità di suddividere i lavori in commissioni. A ciò si aggiungono organismi di consultazione che – come si è appena visto nel caso dell’Università di Padova - mirano a coordinare di presidi di facoltà e i direttori di dipartimento nel tentativo di omogeneizzare le loro strategie operative e conseguentemente le richieste nei riguardi degli organismi centrali di ateneo. Ne risulta quindi un ruolo cruciale dei presidi di facoltà e dei direttori di dipartimento: ruolo soggetto a diverse pressioni. Da un lato, le esigenze di governance e di espressione di una politica di ateneo tendono a limitarne l’impatto nei momenti finali del processo decisionale. Dall’altro, i rettori hanno sovente bisogno di avere nei presidi dei sostenitori delle loro politiche. In Germania i presidi sembrano conoscere un rafforzamento piuttosto modesto delle loro prerogative. Sono chiamati a prendere più iniziative rispetto al passato, ad esempio quelle di promozione esterna della facoltà o di negoziazione con i Rettori. Non hanno, però, praticamente alcuna leva per far valere i propri indirizzi, per imporre una strategia ai colleghi, soprattutto perché i loro margini di controllo sulle risorse umane e organizzative di facoltà sono scarsissimi. Non hanno il bastone per piegare i colleghi alle proprie decisioni, ma neppure le carote per convincerli con le buone. Rimane loro, quindi, un ruolo di mediazione. Se alcuni Presidi “di buona volontà” si avvalgono delle crescenti possibilità d’iniziativa che spettano loro e si adoperano per costruire questo consenso, ma la gran parte si limita all’ordinaria amministrazione, cercando di perdere meno tempo possibile. Non stupisce quindi che nella stessa situazione tedesca il ruolo non sia molto ambito, prevalentemente per la difficoltà di esercitarlo a fronte delle pressioni provenienti dai colleghi rappresentati e della indipendenza acquisita dai dipartimenti. Questi ultimi, dal canto loro, godono ovunque della rilevanza crescente della ricerca all’interno dell’università. Ne deriva una maggiore autonomia dei dipartimenti ma 44 anche, in alcuni casi, la loro difficoltà interna a coordinare i diversi gruppi di ricerca che tendono a loro volta ad autonomizzarsi. Nel complesso la posizione del middle management appare contraddittoria e in fase di revisione dei propri ruoli. Collocato in posizione intermedia tra corpo docente e direzione dell’ateneo deve associarsi a quest’ultima nelle politiche complessive e deve altresì farsi tramite e difendere le richieste del proprio settore, ma ad un tempo giustificare ai propri rappresentati le decisioni non sempre favorevoli assunte dal vertice. Problema ben evidenziato in Francia, soprattutto nei due atenei generalisti (Rennes 2 e URCA di Reims), dove la forza del middle management è molto correlata alla capacità dei soggetti di staccarsi, almeno relativamente, da logiche prettamente di facoltà e dal peso, per la verità sempre meno efficace in diversi contesti, di alcuni potenti decani (mandarinati), per abbracciare la visione complessiva dell’ateneo. Ma il ruolo dei presidi di facoltà (i cosiddetti direttori di UFR – Unité de Formation et Recherche) in questa dinamica è ambiguo: essi partecipano alle riunioni del bureau, ma come invitati e non come membri formali. Presso l’Université di Reims Champagne-Ardenne, pluridisciplinare ed estesa al livello regionale, è interessante notare come, a fronte di una situazione di resistenza soprattutto da parte delle facoltà scientifiche, e di una relazione negoziale permanente del middle management (direttori di facoltà) con la presidenza, si è realizzata una linea presidenzialista, che ha razionalizzato la ricerca intorno a 5 poli ed allo stesso tempo ha costituito la figura del responsabile di polo, espressione di un middle management sui generis. In sostanza, la politica di ricerca, definita dal Consiglio Scientifico, è messa in opera, sotto l’autorità del Président, dai Vice-Président, che s’appoggiano a loro volta su 5 responsabili, incaricati di missione dal Président con la funzione di rappresentare i grandi poli tematici intorno ai quali si articola l’attività di ricerca. Il sistema dei poli risulta così assolutamente centrale nella governance di questa università, al fine di garantire un controllo ed uno sviluppo strategico della ricerca che rispondano ad un disegno complessivo d’ateneo piuttosto che a logiche ed 45 interessi eccessivamente legati alle UFR. Da qui una posizione oggettivamente scomoda dei responsabili dei poli, tra politica centrale e presidenziale da una parte e dall’altra singole unità di ricerca che tentano di scavalcare i passaggi gerarchici e di gestire autonomamente i rapporti con i soggetti esterni. In Spagna il middle management si conferma sostanzialmente espressione della propria base elettiva: in tutte le università prese in esame non appare verificata l’ipotesi di una crescita del ruolo manageriale e di un distacco tendenziale dalla propria base accademica. In media, decani e direttori appaiono scarsamente dotati di capacità gestionali e nei casi in cui questo avviene appare piuttosto il risultato di una cultura della struttura e di una pressione dal basso che non l’effetto di una richiesta dal centro rettorale. Del resto, nonostante il centro rettorale faccia formalmente mostra di tenere in gran conto il loro parere, in realtà il loro peso nelle scelte strategiche dell’ateneo è ben modesto. Tutti i casi analizzati sembrano confermare un forte attaccamento del decano o direttore alla propria base accademica di facoltà, escuela, istituto o dipartimento, le diversità semmai articolandosi a partire dalla identità e dalla dimensione della struttura di riferimento: quando l’identità è forte e la rilevanza, in termini di ricerca o formazione o servizi, è cospicua, il direttore o decano tende sostanzialmente ad ignorare il centro rettorale; quando la struttura è debole, sembra piuttosto che il decano o direttore finisca per essere ignorato dal centro di governo rettorale. Per contro, nelle università italiane il ripensamento circa i ruoli del middle management tarda a svilupparsi dal momento che il tema della governance resta legato alla dialettica rettore-senato accademico-consiglio di amministrazione. E’ pur vero che il senato non è più costituito dai soli presidi di facoltà ma resta che al rettore compete ancora largamente il ruolo di mediatore tra gli interessi disciplinari rapresentati dalle facoltà (e in misura minore dai dipartimenti). Le ipotesi di riforma in discussione prevedono un aumento dei poteri di iniziativa e decisionali, con l’accrescimento parallelo dei poteri del direttore amministrativo (o direttore generale) ma del ruolo dei presidi di facoltà e dei direttori di dipartimento non si parla 46 esplicitamente, il nodo cruciale essendo piuttosto quello della presenza o meno dei membri “laici”nei consigli di amministrazione. 2 - Gli organi collegiali e il rapporto con gli stakeholders Nel processo di trasformazione della governance universitaria un elemento di profonda criticità risiede nel ruolo assunto in alcuni casi dai membri laici nel CdA o in altre strutture gestionali di nuova creazione. Il modello di riferimento in questi casi è quello inglese, dove gli organi di consulenza, indirizzo e sostegno esterno sono cruciali per la governance delle università. Così il Council (a maggioranza “laica”) dell’University of Warwick ha specifiche responsabilità nel campo finanziario, oltre a rappresentare l’università sul piano legale e a valutarne i programmi strategici, a nominare il Vice-Chancellor (ed eventualmente revocarlo), a nominare il Registrar e garantire il corretto funzionamento delle iniziative dell’ateneo, ma altresì a fornire indirettamente un canale di collegamento ad alto livello tra Università e mondo economico (locale, nazionale e internazionale) grazie alle cariche sociali occupate dai suoi membri. Analoghe considerazioni si possono fare per il Board of Governors della Coventry University (almeno la metà dei suoi membri devono essere non-accademici), e per il Council dell’University of Bristol (composto da 26 membri di cui solo 6 accademici). In Spagna sono le Comunità autonome a regolare la composizione del Consejo Social (che ha compiti di supervisione strategica in materia economico-finanziaria) e il numero dei suoi membri non-accademici che rappresentano comunque la maggioranza (34 su 40). Nel sistema iberico peraltro si può addirittura affermare che negli anni vi sia stato un progressivo regresso rispetto alla sensibilità anticipatrice espressa riguardo all’esigenza della presenza di “membri laici” già dalla LRU-Ley de Reforma Universitaria del 1983 con l’obbligo della istituzione presso ogni ateneo di un apposito Consejo Social con ampie funzioni consultive e con specifici poteri 47 deliberativi in materia di bilancio. La LOU del 2001 recepisce infatti la diffusa consapevolezza del mancato funzionamento di questi organi, riducendone largamente le funzioni e relegandoli ad un ruolo consultivo ed opzionale e la Ley de Reforma della LRU del 2007 non sembra imboccare in merito una direzione capace di consentire una rivitalizzazione di queste strutture. Questa paralisi del Consejo Social si evidenzia in tutte e tre le università spagnole esaminate. Emerge una enorme difficoltà di presenza e di voice degli stakeholders nelle sedi ufficialmente previste a tale scopo: il Consejo Social appare un organismo in palese declino e non sono alle viste nuove strutture cui delegare compiti analoghi di raccordo complessivo fra università e società. Ma qui si evidenzia ancora una volta una forte differenza fra le due università generaliste e l’università tecnica: quest’ ultima ha creato una varietà di istituti, centri, parchi tecnologici e strutture che, pur avendo ciascuna un compito definito e non paragonabile a quello complessivo che si prevedeva originariamente per il CS nella LRU, sommate tutte assieme sembrano perfettamente in grado di rendere vivo ed operante il dialogo con la società. Anzi, si può affermare che nell’ università tecnica il Consejo Social non funziona perché in definitiva non ce ne è bisogno, non serve una struttura come questa per rispondere alle domande della società. Diverso è il caso delle università generaliste, ove il declino -o, sarebbe meglio dire, il mancato decollo- del Consejo Social non trova che sostituti parziali e temporanei. Così, anche il dialogo università – società risulta essere, a sua volta, parziale e temporaneo e, più in generale, molto frammentato e dunque i rischi di separatezza fra domanda ed offerta di alta formazione, come fra ricerca e servizi, sono assai elevati e non trovano soluzione, allo stato, in strutture interne agli atenei. Nelle due università generaliste una funzione parzialmente vicaria del Consejo Social viene svolta dalle Fondazioni, che operano come strutture laterali degli atenei per intrattenere rapporti col mercato in condizioni meno vincolate di quelle concesse dal regime giuridico cui sono sottoposte le università (le legge della Comunitat Valenciana impedisce la creazione di fondazioni, ma la PV ha trovato, come detto, ben altre e più efficaci soluzioni nella costruzione di una vasta rete di istituti e centri): 48 tuttavia, quanto emerge dall’indagine di campo sembra mettere in evidenza di queste strutture più il ruolo di strumento per l’elusione delle rigide norme pubblicistiche che vincolano le università che non quello di facilitare i rapporti con l’esterno. Nel sistema francese la nuova legge riduce il numero complessivo dei membri del CA ed aumenta l’incidenza percentuale dei membri laici rispetto alla rappresentanza interna: il consiglio d’amministrazione passa da un numero che oscillava da 30 a 60 membri (ma per lo più attestato su quest’ultimo valore) a un numero che va dai 20 ad un massimo di 30 componenti; inoltre accresce i propri poteri: può creare direttamente UFR, definire principi generali di ripartizione dei compiti di servizio del personale e proporre nomine dopo avviso del comitato di selezione. Tuttavia, il ruolo delle personalità esterne, almeno nella fase precedente alle trasformazioni del CA apportate della nuova legge, sembra ben poco rilevante sia nell’Université di Rennes 2 che presso l’URCA di Reims: si tratta di una funzione piuttosto limitata e poco determinante, anche perché scarsamente esercitata, sia per la frequente diserzione alle riunioni dei consigli, sia per la qualità, spesso dubbia, degli eventuali interventi. Ben diversa invece la situazione all’UTC di Compiègne: i membri laici sono personalità esterne autorevoli e molto presenti, peraltro decisive nella governance dell’università nella sede del CA, che è per l’appunto presieduto da una di esse (viene dai vertici della casa automobilistica Renault) e non dal Directeur / Presidente. Per contro, il modello inglese non trova, al momento, particolari consensi soprattutto in Germania e in Italia. Nei due sistemi le resistenze alla partecipazione dei rappresentanti della società alla vita e ai processi decisionali dell’università si conferma molto solida al di là degli aspetti formali. In Germania gli Universitätsrat non sembrano aver dato un buon risultato. Questo organo, introdotto dai Länder allo scopo di controllare l’operato dei rettori e dei cancellieri e composto da membri sia accademici che esterni nelle tre università analizzate (ma teoricamente anche da soli membri “laici”), non ha nei fatti funzionato con efficacia, vuoi per lo scarso interesse a parteciparvi dimostrato dai membri 49 esterni, sovente peraltro non dotati della necessarie competenze per svolgere un ruolo effettivo di controllo, vuoi per il meccanismo di nomina degli stessi che è messo in atto dal rettore, cioè da chi dovrebbe essere controllato. A ciò va aggiunta la resistenza di tipo culturale assai diffusa nel mondo accademico tedesco nei riguardi dei membri laici, ritenuti non in grado di comprendere le logiche accademiche. Solo ad Heidelberg il precedente Universitätsrat, presieduto da un intraprendente imprenditore, aveva realmente tentato di “cambiare le cose”, e dunque di incidere davvero sulla gestione dell’Ateneo. Questo aveva prodotto momenti di forte tensione, specialmente da parte del Senato. Anche in altri Atenei tedeschi, secondo alcuni intervistati, gli scontri col Senato non sono mancati, sino a giungere talora alla paralisi decisionale (è il caso di un’università dove l’Universitätsrat pretendeva di avere l’ultima parola sulla nomina del Rettore successivo, prerogativa non riconosciutagli dal Senato accademico). Ad Heidelberg, quando il mandato del precedente, combattivo Rat è scaduto, il Rettore ha optato per nomine più avvedute, scegliendo membri esterni più accomodanti: la situazione è rapidamente cambiata, le tensioni sono diminuite e quest’organo ha assunto la funzione simbolica che riveste tuttora. Interrogati sulla situazione passata, gli intervistati dei due atenei berlinesi riportano invece un esito paradossale: le capacità reali di controllo di quest’organo erano maggiori anni addietro, quando nel vecchio assetto centralistico esso funzionava come rappresentante diretto del Land. I suoi membri erano per questo nominati direttamente dal Ministro (del Land) e comprendevano politici, sindacalisti, funzionari del Ministero: persone competenti e decise a controllare a fondo l’operato degli Atenei. Analogamente nelle università italiane i membri “laici” dei CdA hanno per lo più rivelato sia lo scarso interesse sia la modesta competenza nei riguardi delle problematiche universitarie. Anche qui come nelle università tedesche i loro ruoli sono apparsi per lo più di tipo onorifico. Nella maggior parte dei casi le figure rappresentative delle istituzioni pubbliche o private invitate a far parte del Consiglio 50 si sono fatte sostituire da propri sottoposti che hanno svolto ruoli di scarsa o nessuna rilevanza nei processi decisionali di competenza, del resto con generale soddisfazione da parte dei rappresentanti il mondo accademico. E’ di qualche interesse rilevare come in alcune situazioni italiane i rettori abbiano pensato di escludere i “laici” dai CdA e di creare un comitato di consulenza esterno costituito interamente o prevalentemente da rappresentanti del mondo economico e politico-sociale locale. E’ il caso dell’Università di Padova dove è in via di costituzione una “Consulta del territorio”. Dal canto suo, l’Università di Roma Tre ha deciso di non inserire membri laici nel proprio CdA ma di servirsi, caso per caso, di consulenze esterne su temi specifici, ritenendo inefficace il contributo di stabili membri laici. Quanto ai membri “laici” nel CdA del Politecnico di Torino, sebbene in alcuni pochi casi specifici, dove riescono a mettere in gioco competenze particolari, siano abbastanza attivi, nei restanti casi se ne registra il silenzio o l’assenza. Il CdA si riunisce una volta ogni mese, mese e mezzo e le commissioni lo precedono, ma con qualche maggiore intensità ( in media, due commissioni per ogni sessione di CdA). E’ tuttavia piuttosto raro che vi sia la presenza degli esterni in questi lavori di commissione e così finisce che, anche quando intervengono nelle discussioni plenarie, il loro apporto finisca per cadere un po’ nel vuoto, avendo mancato tutto il lavoro preparatorio delle commissioni. D’altra parte, è logico pensare che, trattandosi di soggetti prevalentemente impegnati in altri campi – e per di più campi che richiedono spesso molto lavoro e presenza - non sia semplice richiedere anche una prestazione intensa nella veste di membri del CdA, con l’effetto che la presenza di stakeholders esterni nell’organo competente in materia economico-finanziaria appare alquanto deludente. 51 Articolo D LIVELLI DI AUTONOMIA E STRUTTURE DI GOVERNO DEGLI ATENEI (Stefano Boffo) 1 – Tra decisionismo e condivisione Un interrogativo che, al termine di quanto sin qui analizzato, può essere utile porsi in termini riassuntivi riguarda la prevalenza di una struttura verticale ovvero orizzontale di presa della decisione nella articolazione della governance delle università qui considerate. Da un lato, il rafforzamento dei ruoli monocratici a scapito degli organi collegiali (del rettore nei riguardi del Senato, in particolare) appare evidente negli atenei appartenenti ai diversi sistemi dell’Europa continentale inclusi nella ricerca. Si diffondono gli organismi di consulenza del rettore sotto forma di giunte esecutive ispirate al modello inglese e rappresentanti una parte della governance di un ateneo autonomo che si pone in competizione con altre istituzioni secondo logiche di mercato. L’evoluzione avviene sia in via formale (nelle università francesi o spagnole o tedesche) sia in via informale (le italiane). Ma se il riferimento è quello del modello inglese, alla sua realizzazione manca in tutti questi paesi un ruolo effettivo dei rappresentanti degli interessi esterni, che non svolgono una reale funzione nel Consigli di amministrazione. D’altro canto, la realtà delle pratiche di governo è costituita da una mediazione tra le logiche di governance manageriale e quelle tradizionali della compartecipazione alle politiche istituzionali attraverso la moltiplicazione delle occasioni di incontro, confronto, coordinamento, a livello intermedio e di base che coinvolgono i diversi attori del mondo accademico e che servono a mettere in comune le esigenze e i progetti politici delle diverse aree allo scopo di raggiungere una progressiva riduzione delle differenze interne. Il meccanismo, nelle università dell’Europa continentale, non sembra ancora funzionare nella forma circolare in atto negli atenei inglesi, dove le proposte di politica istituzionale, se nascono dalla “cupola”di vertice vengono poi 52 proposte ai livelli inferiori perché vengano esaminate, discusse e rimandate al vertice che poi decide senza poter essere criticato per eccesso di autoritarismo: un’accusa che i rettori intendono in particolare evitare. Tuttavia, anche negli atenei continentali il procedimento di presa delle decisioni con responsabilità finale dei vertici sembra venire sempre più accettato dal mondo accademico. Per contro, una modalità che suscita qualche critica riguarda le procedure di raggiungimento delle decisioni (segnalate diffusamente nelle interviste al personale docente delle diverse università) che risultano spesso molto informali e dunque tali da ridurre il rilievo effettivo degli organi collegiali (Senato e CdA), dove sembra ci si limiti frequentemente a ratificare quanto deciso “nei corridoi”. Emerge nel complesso una combinazione di elementi di decisionismo di vertice (verticalizzazione) e di condivisione delle problematiche a livello di base (orizzontalizzazione). Questi elementi si combinano in proporzioni diverse in relazione ad alcuni aspetti organizzativi, come l’elezione o la nomina di alcune figure della governance, ovvero a seconda dell’articolazione delle componenti interne alle università (numerosità delle aree disciplinari), o ancora in relazione alla prevalenza delle discipline orientate o meno al mondo esterno e quindi della ricerca applicata, come è il caso delle università tecniche incontrate nella ricerca. Il caso spagnolo sembra illustrare questa situazione in un modo peculiare: il rettore ed il suo gruppo dimostrano di aver acquisito un ruolo di maggior peso rispetto al passato ed in tal senso si deve presumere che gli effetti del rafforzamento del potere del rettore voluto dalle due leggi di riforma universitaria promulgate in questa prima decade del nuovo millennio ( LOU del 2001 ed Ley de Reforma dellaLOU del 2007) si siano fatti sentire attraverso tendenze, più o meno marcate, al rafforzamento del ruolo dell’organo monocratico. Un ruolo che si accresce anche attraverso il dialogo intessuto con il Consejo de Gobierno ( il supremo organo di governo collegiale dell’università, che dovrebbe stabilirne le linee strategico-programmatiche): organo che in sé autonomamente non risulta particolarmente attivo, ma viene attivato proprio dal rapporto con il rettore e la sua équipe, che cercano in questa relazione una fonte di 53 legittimazione ulteriore, di rafforzamento del proprio potere e di facilitazione della propria azione. In tutte e tre le istituzioni universitarie spagnole analizzate, questo gruppo centrale sembra muoversi dentro due binari, non contradditori, costituiti dalla volontà di affermare le proprie volontà e di decidere all’interno di un elevato livello di ricerca del consenso, secondo le linee di quello che si può definire decisionismo consensuale. Una buona illustrazione di questo punto è costituita dal Piano strategico che ogni ateneo ha redatto su impulso del rettore: esso viene infatti costruito con il contributo di molti settori dell’università, ma anche rispecchiando il programma elettorale del rettorato: così, esso è uno strumento di captazione del consenso ma, una volta redatto, è anche una barriera che si frappone al libero e casuale dispiegarsi delle richieste degli accademici. La strutturazione in commissioni del Consejo de Gobierno sembra favorire perfettamente un disegno che potremmo definire appunto di centralismo consensuale. Con essa infatti il rettore può affermare la volontà sua e del gruppo che si struttura attorno a lui, potendo “cucinare” le questioni più scottanti in un iter, lungo a piacere, fatto di discussioni nella Junta e successivamente nelle diverse articolazioni organizzative del Consejo (sempre presiedute dal rettore stesso o da un membro della sua equipo, così da imporre ordini del giorno, apertura e aggiornamenti di sedute, ordini degli interventi e così via, indirizzando la discussione). Talché quest’ultimo si trova a decidere di soluzioni su cui si sono già abbondantemente espresse ( per lo più,come detto, risultando “pilotate” dal rettore e dal suo gruppo) diverse istanze e che risulta difficile smentire. 2. – Il governo delle università tecniche Un caso di particolare interesse è quello delle università tecniche. Infatti i processi decisionali della Technische Universität Berlin, dell’Université de Compiègne, come della Universitad Politecnica di Valencia o del Politecnico di Torino sono apparsi maggiormente efficienti e “operativi” delle consorelle università nei rispettivi sistemi d’istruzione superiore. Si può anzi affermare che l’indagine di campo sembra far emergere alcune caratteristiche che convergono nel delineare, se non un modello di 54 governance omogeneo e specifico delle università tecniche, quanto meno molti forti elementi di similitudine che concorrono a caratterizzare una specifica tipologia di governance se non altro per differenza rispetto alle università generaliste. Il primo elemento attiene alla diversa – e ben più profonda- identità istituzionale diffusa fra gli accademici delle università tecniche, che esprimono una propensione assai maggiore, rispetto ai colleghi delle generaliste, ad identificarsi con la propria istituzione universitaria piuttosto che disperdersi nei recinti disciplinari di appartenenza. Un secondo elemento ha natura, per così dire, oggettiva e si riferisce alla composizione del budget di un’università tecnica, che nei casi esaminati risulta dipendere molto meno, rispetto a quello di un ateneo generalista, dalla contribuzione statale o regionale. E’ chiaro come questo tipo di composizione del budget consenta molta più agilità di movimento ed autonomia in relazione alle tendenze centralistiche dei ministeri. Al medesimo tempo, questa ridotta dipendenza dalla contribuzione pubblica testimonia anche dell’esistenza di una trama di relazioni con i soggetti esterni (gli stakeholders appartenenti al tessuto produttivo ed istituzionale) ben più fitta di quanto non avvenga nelle università generaliste. In tal modo, anche quando non vi siano formali presenze di questi ultimi dentro agli organismi di governance dell’ateneo, viene garantito, in forme più elastiche e certamente più attive, un rapporto costante con la domanda esterna che mette l’ateneo al riparo dai rischi di ridursi ad una “torre d’avorio”, come invece accade, almeno in parte, fra le università generaliste. Non è dunque per un caso che poi questi atenei tecnici si dimostrino capaci di produrre una larga varietà di strutture in qualche modo coinvolte nei rapporti col mondo esterno e gestite per lo più in fortissima autonomia rispetto alla stessa governance centrale dell’istituzione, tanto da assumere spesso i caratteri di una impresa autonoma: istituti, fondazioni, parchi scientifici, strutture di spin-off, centri di trasferimento tecnologico, organismi di seed e venture capital. E, assieme a ciò, in tutte le università tecniche si evidenzia anche una significativa autonomia delle strutture periferiche ( facoltà, dipartimenti, istituti), più accentuata nel caso della ricerca, ma comunque chiara 55 anche per le strutture didattiche: in ambedue i casi, queste strutture hanno comunque un ruolo “pesante” ed un potere maggiore in rapporto alla governance centrale dell’istituzione, che difficilmente può quindi seguire ruoli autocratici del rettore e derive centralistiche o comunque eccessivamente irrispettose del lavoro collegiale nel rapporto centro-periferia. Tuttavia ciò non produce affatto, come accade in alcune università generaliste quando il peso delle strutture periferiche è forte, una governance paralizzata da un irrisolto rapporto con le strutture periferiche né rettori incapaci di prendere e far implementare decisioni. Al contrario, da situazioni come quelle sopra delineate risulta un governo più efficace dell’istituzione, proprio perché il forte valore dell’identità istituzionale fa premio su tutti i particolarismi disciplinari, consapevoli comunque che la loro voce ed il loro interesse non possono soverchiare quelli dell’istituzione nel suo complesso e saranno comunque tenute in debito conto. Va segnalato, d’altro canto, come si tratti in molti casi di atenei costituiti da poche aree disciplinari fra loro abbastanza omogenee e con una prevalenza del peso delle scienze dure applicate. Questo dato ovviamente aiuta l’elaborazione di reali politiche di ateneo e la loro concreta realizzazione. 3 – Governare l’università nel cambiamento Nel complesso, si può considerare il tema della governance delle università all’interno del più ampio processo di evoluzione dei sistemi d’istruzione superiore che in Europa ha come punto cruciale la trasformazione delle relazioni tra stato e atenei, rappresentata in particolare dalle nuove forme di autonomia e di verifica delle prestazioni. L’autonomia ha cambiato forma, specie nei sistemi centralistici di origine napoleonica, e spinge alla ricerca di risorse aggiuntive con la conseguente competizione fra atenei che a sua volta crea una situazione di mercato in varia misura condizionata (stimolata e limitata) dall’intervento dello stato. Questa nuova situazione è presente da più tempo in Gran Bretagna, dove è stata metabolizzata meglio (sebbene non senza problemi) anche in virtù della tradizione di autonomia 56 delle università inglesi, tal ché la difficoltà è consistita nella riduzione del potere di autogestione accademica in favore dell’intervento (finanziario-valutativo) dello stato. Nei sistemi d’istruzione superiore dell’Europa continentale questo nuovo tipo di autonomia è più recente e le conseguenze che ne sono derivate hanno incontrato maggiori resistenze. Gli esempi di simili difficoltà di adeguamento sono molteplici nei vari sistemi, così come diverse risultano le reazioni del personale accademico, anche all’interno del medesimo sistema, a seconda degli atenei. Come caso esemplare di particolare rilevanza si possono al riguardo segnalare gli ostacoli certamente non trascurabili che tale modello (oggi identificato come di origine anglosassone) incontra in particolare in Spagna come in Italia. Nei due paesi, infatti, il passaggio all’autonomia istituzionale non riesce ancora ad essere accompagnato da un’affermazione delle tendenze pur ormai presenti in altri sistemi europei dove esiste da tempo, o si è affermato nell’ultimo decennio, un modello largamente autonomistico: sono ancora insufficienti, infatti, sia una crescita effettiva della competitività fra istituzioni sia la diversificazione delle fonti di finanziamento, mentre ancora inadeguati risultano il livello di responsabilità sociale dell’istituzione ed anche la forza e l’influenza della domanda di istruzione, ricerca e servizi universitari [Mora ,Vidal 1998; Mora 2003]. Si oppone all’affermarsi di queste tendenze una ragione che, fa parte del bagaglio tradizionale delle università spagnole [Garcia-Garrido 1992] ed italiane [Moscati 2004], e che può essere riassunta nella mancanza di una tradizione di appartenenza e servizio alla comunità istituzionale, attraverso cui il personale accademico cessi di considerarsi unicamente come parte di una disciplina o di un corpo di pubblici funzionari per vedersi anche come parte di un’istituzione che si rivolge alla propria comunità. Questo aspetto è, in Spagna come in Italia, aggravato dalla mancanza di una politica dell’istruzione superiore a livello regionale, che ha reso ancora più difficile l’identificazione con la propria istituzione e con la propria comunità di riferimento [Mora 2006]. Tutto ciò serve forse anche a spiegare perché l’analisi di campo effettuata non ha potuto evidenziare né in Spagna né in Italia, salvo che per le università tecniche, visibili politiche istituzionali capaci 57 di caratterizzare autonomamente l’ateneo, tanto nel contesto interno quanto nella sua attività nei confronti del tessuto economico e sociale di riferimento. La combinazione fra questi aspetti sembra evidenziare, soprattutto negli atenei generalisti italiani e spagnoli, una sostanziale mancanza di capacità di dare impulso a quella positiva riforma della governance istituzionale che pure la condizione di autonomia di cui godono potrebbe consentire e che sarebbe una fondamentale condizione per una loro vera trasformazione. Anzi, la mancanza di una iniziativa in quella direzione finisce per influenzare l’efficacia delle trasformazioni realizzate in altri settori: anche nel campo dove maggiori sono le novità operate negli ultimi anni, quello della riforma dei curricoli e della revisione dei corsi di laurea, c’è infatti da dubitare che si possa arrivare ad una soluzione capace di farne dispiegare appieno tutti gli effetti potenziali, senza por mano anche ai problemi di governance, sin qui trascurati . Da quanto segnalato si può osservare come anche la governance delle università si sviluppi secondo varie modalità a seconda delle caratteristiche del sistema di appartenenza, dei gradi di libertà di cui godono gli atenei, del tipo di controllo esercitato dallo stato e delle interpretazioni delle nuove situazioni fornite dagli attori in esse coinvolti. Così, caso per caso, esistono o meno politiche ben definite di ateneo, e si sviluppano modi di esercitare il governo a seconda delle dinamiche che si mettono in atto tra rettore e organi collegiali. Entrano in gioco le personalità dei soggetti, la loro interpretazione dei rispettivi ruoli professionali e il grado di condivisione delle finalità dell’istituzione di appartenenza (come si è visto nelle differenze tra università generaliste e università tecniche). La ricerca ha cercato di evidenziare i processi di cambiamento in atto mirando a far emergere, come si è detto, le differenze – a livello di ateneo - tra il sistema anglosassone e quelli dell’Europa continentale. Due degli aspetti di novità emersi, rappresentati dai ruoli effettivi dei membri non accademici nei Consigli di amministrazione e dalla possibile nascita di una carriera “politica” dei capi d’istituto 58 (rettori ed equivalenti, eletti o nominati), appaiono particolarmente delicati ed oggetto di forti resistenze da parte degli accademici. L’analisi delle forme di governance a livello di ateneo ha comportato la considerazione sia del livello istituzionale (l’organizzazione dell’università) sia del livello soggettivo (la realizzazione fattuale della vita dell’università). Ha consentito dunque di verificare gli effetti dell’impatto della dimensione normativa (le regole scritte dei sistemi d’istruzione superiore), sulle forme organizzate delle singole istituzioni universitarie, a loro volta frutto dell’interpretazione delle situazioni da parte degli attori nei diversi ruoli, di responsabilità e governo dell’istituzione o di semplici membri della collettività accademica. Da questo intreccio emerge, ancora una volta, come i sistemi restino legati alle interpretazioni (le “definizioni della situazione”) dei soggetti che li realizzano. Nello specifico, nonostante i nuovi vincoli, nel mondo accademico appare contare sempre molto la libertà d’insegnamento e di ricerca. L’elemento d’incertezza risiede semmai nella condivisione delle finalità dell’istruzione superiore. Ma è noto come la realizzazione delle riforme nei sistemi d’istruzione superiore siano rese complicate e incerte dalla quantità di attori operanti in larga autonomia e dal carattere diffuso dell’autorità all’interno delle strutture [Cherych,Sabatier 1986]. Ne deriva che l’evoluzione dei processi qui presi in considerazione non può (potrà) che essere caratterizzata da una combinazione di traguardi solo in parte raggiunti o del tutto mancati, come di effetti inaspettati e di sviluppi non preventivati. Da qui la dinamica spesso non coerente e non lineare delle diverse forme di organizzazione accademica e di governance delle università che complessivamente emerge dalla ricerca. Bibliografia Cerych, L.,Sabatier,P. 1986 Great Expectations and Mixed performances. The implementation of higher education reforms in Europe, Trentham, Trentham Books 59 Garcia-Garrido, J.L. (1992) “Spain”, in: Clark, B. e Neave, G. (eds.) Enciclopedia of Higher Education, Oxford, Pergamon Press Mora, J.G (2003) “La mejora de la eficacia de la ensenanza superior en el vnuevo contexto europeo”, Papeles de Economia espanola, 95 Mora, J. G. (2006) “Spain”, in Forest, J.F. e Altbach, P.( eds) International Handbook of Higher –Education, Amsterdam, Springer Mora, J.G. e Vidal, J. (1998) “Introducing Quality Assurance in Spanish Education”, in Gaiher, J. (ed.) Quality Assurance In Higher Education: New directions in Institutional Research, San Francisco, Jossey Bass Moscati,R. 2004 Università, in Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia del Novecento, supplemento III, Roma, pp.558-571 60
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