Teologia in Dialogo Numero Primo

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Teologia in Dialogo Numero Primo
Teologia in Dialogo
Numero Primo
Gennaio-Giugno 2013
ARTICOLI:
L'ANTICO NEL NUOVO – LA BIBBIA DEI CRISTIANI … p2
autore: Rafael Dreyer
note: intervento all’incontro di formazione per predicatori locali, tenutosi il 15/10/11 a Riesi (CL)
GRAZIA, SALVEZZA E TEOLOGIA DELLA SOSTENIBILITA' COME TEMA DELLA
TEOLOGIA WESLEYANA … p7
autore: Helmut Renders
note: originariamente pubblicato in Teocomunicação v.40 n.2, Porto Allegre, mag.-ago. 2010
IL SIMBOLISMO RELIGIOSO E CULTURALE … p22
autore: Carlo Cardia
note: relazione svolta al convegno “L’esposizione statale dei simboli religiosi negli Stati Uniti e in
Europa”, tenutosi il 22/06/12 a Roma
PUO' LA TEOLOGIA ESSERE SCIENZA? … p37
autore: Erico Hammes
note: originariamente pubblicato in Rivista Trimestrale di Teologia, Set. 2006. Porto Alegre
I SIGNIFICATI DELLA VERITA' TRA FEDE E SCIENZA … p44
autore: Gianpaolo Pegoretti
note: saggio volto a riflettere sulle differenze e sulle relazioni tra:1) il concetto di verità come
adeguamento tra linguaggio ed esperienza, e 2) il concetto di verità come svelamento. L’articolo
discute i differenti atteggiamenti verso i due significati di verità sia da parte della ricerca scientifica,
sia da parte delle comunità di fede. Dalla trattazione emerge un pluralismo veritativo caratterizzato
da possibilità di dialogo tra diversi modi di intendere le verità, dialogo che a sua volta porta ad un
arricchimento reciproco.
SERMONI:
IL MANIFESTO DEL DISCEPOLO … p57
autore: Nino Plano
IL TRIONFO DEL DIRITTO DI DIO … p60
autore: Nino Plano
1
L'ANTICO NEL NUOVO – LA BIBBIA DEI CRISTIANI
Rafael Dreyer
pastore della Chiesa Valdese di Riesi
Abstract: Intendo affrontare qui l’argomento, della relazione del Nuovo Testamento con l’Antico
ricordando gli aspetti maggiori di due questioni fondamentali, riguardanti rispettivamente il come
e il perché si è posta questa relazione. All’inizio premetto qualche osservazione sullo specifico
termine “antico testamento”.
1. I termine “antico testamento” & "nuovo testamento"
Il termine “antico testamento” è coniato dall’apostolo Paolo con l’espressione greca “palaia
diateke” (2 Cor 3,14, intorno all’anno 55), che significa “antica disposizione” (o antico patto). Esso,
poi, per lungo tempo e cioè fino alla fine del II secolo (se si eccettua l’espressione “il primo
testamento” nella Lettera agli Ebrei (9,15)) non apparirà neanche più nel linguaggio cristiano. Con
questo originale costrutto l’apostolo intende esprimere in termini espliciti una vera differenza con
quello che egli riconosce in corrispondenza come “nuovo testamento” o “nuova alleanza” (2 Cor
3,6).
Quanto invece al termine “nuovo testamento”, esso è in qualche modo già tradizionale. Infatti lo si
trova da tempo nella letteratura d’Israele, poiché già il profeta Geremia lo impiega per primo, sia
pure con un significato escatologico (Ger 31,31); inoltre, anche la comunità di Qumran se ne serve
in altro senso per designare semplicemente se stessa (CD 6,19; 8,21; 19,33-34; 20,12). Tuttavia nei
testi giudaici il costrutto “nuovo testamento” non è mai posto in opposizione ad alcun testamento
dichiarato “antico”.
Dunque, il termine “antico testamento” è del tutto inusuale, mentre con “nuovo testamento” si
intendeva esprimere un significato riferito di volta in volta o alla Legge da applicare in modi nuovi
(Geremia), o a una comunità che ne realizza fin d’ora le richiesta (Qumran) o alla originale
mediazione cristologica (nei testi cristiani). L’espressione “antico testamento”, invece, nell’uso
paolino fa riferimento a qualcosa di scritto. Dunque, la valenza di “scrittura” vale in primo luogo
per il patto antico, il quale così viene però anche riconosciuto almeno in parte come normativo.
2. Come avviene il ricorso all’Antico da parte del Nuovo
Gli atteggiamenti del Nuovo Testamento nei confronti del’Antico sono assai diversificati. Se
consideriamo le cose da un punto di vista quantitativo, sorprenderà constatare la differenza esistente
fra i vari scritti neotestamentari. Così, per esempio, la Lettera di Paolo ai Filippesi attesta un unico
magro riporto dall’AT, mentre nell’Apocalisse di Giovanni ne sono stati contati ben 814, e cioè più
che in ogni altro scritto.
Per quanto riguarda la modalità del fatto stesso del ricorso all’Antico, esso varia molto all’interno
del Nuovo:
Vi è l’utilizzo di parole e di un linguaggio, che non fa alcun riferimento esplicito alle scritture e
dunque in superficie appare proprio dell’autore, ma che in ultima analisi trova le sue radici solo
nell’AT: Così avviene molto spesso in tutto il NT. Lo si vede per esempio nelle espressioni
analoghe “giorno del giudizio” (Mt 10,15; 11,22.24; 2 Pt 3,7), “ultimo giorno” (Giov.
6,39.40.44.54), “quel giorno” (Mc 13,32 par; Mt 7,22; 2 Tes 2,10; 2 Tim 4,8), “il giorno dell’ira”
(Rm 2,5), “il giorno del Signore, di Dio, di Cristo” (At 2,20; 1 Cor 1,8; 2 Cor 1,14; Fil 1,6; 1 Tes
5,2.4; 2 Pt 3,10.12; Ap 16,14); esse hanno una sola ascendenza nei profeti d’Israele (Is 10,20; Os
1,5; 2,23; Am 9,11; Sof 1,14-15.18; Zac 12,3-11; 13,1-4; 14,4.6.8.9.13.20).
2
Vi è riferimento cumulativo e perciò generico alle Scritture. Così avviene nella confessione di fede
in 1 Cor 15,3-5: “morì …risuscitò secondo le Scritture”, senza dettagliare alcun passo specifico
come prova. Lo stesso avviene, per esempio, nel colloquio di Gesù con i discepoli di Emmaus in Lc
24,27: “Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture.
Uso e riporto di testi biblici anche ampi, ma senza mai comportare alcuna formula di citazione
esplicita, come se i testi veterotestamentari facessero parte del discorso proprio dello scrittore. Così
avviene sempre nell’Apocalisse e quasi sempre nella Lettera agli Efesini.
Impiego argomentativo di testi esplicitamente citati mediante formule specifiche nel contesto di una
discussione di principio. E’ ciò che avviene soprattutto in Paolo e particolarmente nelle Lettere ai
Galati e ai Romani a proposito del tema della giustificazione per fede; i testi dell’AT citati più di
una volta dall’apostolo sono solo tre: Gen 15,6 (in Rom 4,3.23-24; Gal 3,6); Lev 18,5 (in Rom 10,5;
Gal 3,12); Ab 2,4 (in Rom 1,17; Gal 3,11).
Impiego di testi con citazione esplicita, ma in contesto narrativo. E il caso tipico di Matteo, che
impiega una sua “formula di compimento” (dodici volte: 1,22; 2,15.17.23; 4,14; 8,17; 12,17;
13,14.35; 21,4; 26,56; 27,9; cf. anche 5,17: “Non sono venuto ad abolire, ma a compiere”) per dire
che quanto avviene nella storia di Gesù realizza ciò che ne era stato detto (o predetto) da parte dei
profeti.
Una prima conclusione deducibile da queste constatazioni è che il ricorso all’AT dipende sia dalla
particolare intenzione dell’autore che lo utilizza, sia dal tipo di audience a cui egli si rivolge.
Una considerazione qualitativa che il NT dimostra nei confronti dell’Antico: vorrei nominare
quattro concetti diversi che esprimono altrettanti punti di vista:
1. Tutti gli scrittori den Nuovo concordano nel considerare positivamente l’Antico come
graphè: in quanto Scrittura, esso è comunemente ritenuto normativo (1 Cor 15,3-5).
2. Altrettanto si può dire che gli autori neotestamentari considerano positivamente l’Antico
(almeno) come ephangelìa, “promessa”, dato che per tutti il fatto cristiano non rappresenta
un inizio assoluto ma ha già nell’Antico Testamento i suoi germi (Rom 1,2).
3. Non si può dire altrettanto invece della dimensione storica dell’Antico, cioè che è realmente
avvenuto: il ghenòmenon in esso raccontato; il Nuovo infatti non s’interessa sempre in
modo uguale della successione degli avvenimenti passati. Le genealogie di Gesù che
leggiamo in Mt 1,1-17 e in Lc 3,23-28, oltre a divergere tra di loro, ci danno una
ricostruzione di fatto arbitraria, comandata da preoccupazioni cristologiche.
4. Non tutti infine considerano positivamente l’Antico come nòmos, cioè come depositario di
un principio salvifico legato all’osservanza della Legge là contenuta; in questo senso, infatti,
Paolo è assai critico; ma anche altri scritti, come il quarto vangelo e la lettera agli Ebrei, si
accontentano di leggere nell’Antico una preconizzazione di Cristo ma non un codice di
comportamento per la vita cristiana.
La seconda osservazione riguarda il criterio ermeneutico fondamentale che sta alla base di tutto il
variegato utilizzo dell’Antico da parte del Nuovo: Il punto di partenza degli autori del Nuovo
Testamento non è mai il testo dell’AT, ma è sempre e soltanto la nuova fede cristiana. Si è partiti da
una novità per molti versi inaudita per fondarla poi nell’Antico. Ciò che era primario sul piano
oggettivo della storia della salvezza divenne secondario. Perfino a un testo riportato con fedeltà
all’originale, come quello di Gioele 3,5 in Rom 10,13 (“Chiunque invocherà il nome del Signore
sarà salvato”), prende un senso nuovo, intendendo “il Signore” non più come YHWH ma come il
Cristo risorto. In prima battuta i seguaci di Cristo hanno dovuto misurarsi né più né meno che con
lui soltanto. Gesù era la novità, ed è solo in rapporto con lui che venne coniato il termine “Antico
Testamento”.
3
3. Perché il Nuovo ricorre all’Antico
Motivo culturale
Per i primi cristiani era inevitabile scrivere della loro fede in base alle Scritture d’Israele a motivo
della loro ebraicità. In primo luogo, Gesù fu e resta un ebreo, come ormai è ben acquisito alla
coscienza cristiana. Anche i primi destinatari degli scritti neotestamentari erano di fatto tutti o
almeno in gran parte dei cristiani di provenienza ebraica.
Motivo teologico
Il Nuovo Testamento è talmente impastato di Antico e indivisibilmente legato ad esso che si capisce
perché l’operazione tentata da Marcione fosse finita al fallimento.
Marcione (greco: Μαρκίων; Sinope, 85 c. – Roma, 160) è stato un vescovo e teologo greco antico,
fondatore della dottrina cristiana che prende il nome di Marcionismo, considerata eretica dalla
corrente ortodossa. Fu il primo a costituire un canone di scritti ispirati.
Sebbene spesso incluso nella corrente gnostica, Marcione accolse la dottrina di Paolo di Tarso, che
sottolineava come la salvezza non fosse ottenibile solo attraverso la Legge, e la portò alle sue
estreme conseguenze: secondo Marcione esistevano due divinità, il Dio degli Ebrei, autore della
Legge e dell'Antico Testamento, e il Dio Padre di Gesù Cristo, che aveva mandato il proprio figlio
per salvare gli uomini; solo il secondo era il vero dio da adorare e che portava la salvezza.
Per sostenere le proprie dottrine, Marcione raccolse il primo canone cristiano di cui si ha notizia,
che comprendeva dieci lettere di Paolo e un vangelo (probabilmente il Vangelo secondo Luca),
detto Vangelo di Marcione; allo stesso tempo rigettava completamente la Bibbia ebraica,
considerandola ispirata da un dio inferiore.
L’identità messianica di Gesù, nonostante la sua originalità, non era stata una novità assoluta ma
affondava le sue radici nella storia passata. E’ per natura sua, dunque, che la fede cristiana si
impianta su un terreno preesistente, come leggiamo nella Lettera ai Romani (cap.9-11) a proposito
dell’olivastro innestato sull’olivo buono (11,24). Guardare all’Antico per il Nuovo non significa
guardare soltanto indietro come se si trattasse di volgere lo sguardo da una sponda all’altra di un
fiume di cui si sia superato il corso. Significa invece rendersi conto di far parte della corrente stessa
in movimento. Significa portare già con sé una storia.
4. Chiesa e Israele
La chiesa come il vero Israele?
Quando la chiesa nel secondo secolo resisteva a Marcione aveva capito che con il rifiuto
dell’Antico Testamento avrebbe respinto il proprio fondamento. Ma nonostante questo tanti teologi
ritenevano che la chiesa fosse il vero Israele del Nuovo Patto. Solo la chiesa sarebbe in grado di
comprendere ciò che Dio aveva voluto trasmettere nella Scrittura. Questa veduta rimaneva in vigore
per lungo tempo. Oggi si parla del marcionismo quando il significato e la valdenza dell’Antico
Testamento viene ridotta a una sorta di “preparazione” o “promessa” della realtà che realmente
soltanto Gesù Cristo rappresenta. Ci sono tre modelli di base che caratterizzano il modo di
comprendere il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento:
1. Il modello di sostituzione: Questo modello mette la chiesa al posto di Israele, perché gli
ebrei non accettano Gesù come il loro messia (cf. 1 Tes 2,14-16).
2. Il modello di relativizzazione: Secondo questo modello l’Antico Testamento è il servitore
4
del Nuovo e aveva la funzione di preparare all’ultima rivelazione in Gesù Cristo. Il metodo
tipologico.
3. Il modello di selezione: Secondo questo modello che accentua la coesione tra l’Antico e il
Nuovo, l’Antico Testamento è il seme che produce il fiore del Nuovo T. Perciò il Nuovo
Testamento, e soprattutto la cristologia, è il criterio di ciò che nell’Antico Testamento
pretende di essere rivelazione di Dio.
Tutti i tre modelli hanno dei seguenti deficit: Non corrispondono all’immagine che l’Antico
Testamento ha di sé stesso. Non prendono atto della complessità dell’Antico T. Hanno l’aria del
dispregio verso il AT che prepara il fondamento per l’antisemitismo. Non danno alcun valore all’AT
nella sua natura propria. Non accettano la dignità di una lettura ebraica dell’AT.
Dopo il terrore della shoa si è sviluppato la conoscenza del legame tra un disprezzo teologico degli
ebrei e l’antisemitismo: la riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo (Concilio Vaticano II
“Nostra Aetate”; Comunità di Leuenberg; La chiesa e l’ebraismo. Documenti teologici dal 1986 a
2000).
5. Un’ermeneutica dialogica della bibbia
1. Anche se l’Antico T. fa parte della bibbia cristiana, occorre rilevare che le voci singoli dei libri
veterotestamentari hanno il diritto di essere letti indipendentemente dal Nuovo Testamento. L’AT ha
il suo proprio valore.
2. Se vogliamo trovare un filo rosso che va dall’AT al NT lo troviamo non nella cristologia ma nella
teo-logia come il parlare di Dio e con Dio nel suo amore verso il suo popolo allargato e verso il
mondo intero (Ex 34,6). Da questa prospettiva teocentrico possiamo interpretare la bibbia come la
contestualizzazione della Parola di Dio, nell’AT e nel NT.
3. E’ il compito e la meta di ogni lettura biblica, non di negare i contesti diversi, ma di farli
dialogare. Negli ultimi anni è stato sottolineato che le Sacre Scritture d’Israele hanno avuto una
doppia ricezione nel cristianesimo e nell’ebraismo. Queste due realtà storiche possono entrare in un
dialogo. Non esiste una superiorità del cristianesimo sul ebraismo. Un esempio:
Questo dialogo sbocca in tre modelli che mantengono l’elezione di Israele (cf.; Romani 9-11):
1. Il modello di complementarità (cf. Romani 9,4; 11,25-32): Israele e la chiesa si
complimentano a vicenda. A. In modo soteriologico: la solidarietà tra Israele e la chiesa. B.
nell’ambito della Teologia del Patto: la coesistenza di due patti, differenziati ma non
separati. C. Nell’ambito secolare-profetico: la chiesa e Israele come dei partner nel compito
di rendere una testimonianza profetica nel mondo secolare. D. Nel senso escatologico:
interrogandosi reciprocamente sulla vocazione.
2. Il modello di rappresentazione (Rom 9,6-8): Il resto d’Israele rappresenta la parte ebraica
che viene salvata insieme ai cristiani. I pagani diventati cristiani rappresentano la
maggioranza del vero Israele.
3. Il modello di partecipazione (Rom 11,17-24): I cristiani tramite la loro fede in Cristo fanno
parte del’elezione del popolo d’Israele.
L’Atto del Sinodo della Chiesa Evangelica della Renania (11 gen 1980) sul rapporto tra Chiesa e
Israele: tesi: Gesù Cristo, l’ebreo, che come messia d’Israele è pure il salvatore del mondo, lega il
popolo d’Israele con la chiesa. Crediamo nell’elezione d’Israele. La chiesa è stata inclusa nel Patto
di Dio con il suo popolo. Noi cristiani crediamo in Dio d’Abramo insieme con gli ebrei. Insieme
confessiamo: Dio, il Creatore del cielo e della terra; siamo benedetti dalla benedizione d’Aaronne;
aspettiamo un nuovo cielo e una nuova terra (la speranza di 2 Pietro 3,13); siamo chiamati ad agire
per la giustizia e per la pace. Questo significa il rifiuto dell’evangelizzazione degli ebrei.
5
Fonti:
•
•
Romano Penna, “Appunti sul come e perché il Nuovo Testamento si rapporta all’Antico”,
Biblica Vol. 81 (2000).
Erich Zenger, Einleitung in das Alte Testament, Stuttgart 2004.
6
GRAZIA, SALVEZZA E TEOLOGIA DELLA SOSTENIBILITA' COME TEMA DELLA
TEOLOGIA WESLEYANA
Helmut Renders,
Professor da Faculdade de Teologia da Igreja Metodista,
Universidade Metodista de São Paulo.
Abstract: This paper presents and discusses the contributions from Wesleyan theology to the
theological discussion of sustainability. He lists the three spheres of sustainability (economic,
social and environment) with the theological discourse on the economic Trinity, the ecumene and
ecology, proposes to interpret the Earth “Gaia” as a sacrament and exploits a feature of Brazilian
method Wesleyan theology, the inclusion of creation as a fifth element in the so-called quadrilateral
Brazil.
Keywords: Theology of sustainability. Creation. Sacrament. Gaia. Wesleyan quadrilateral Brazil.
Wesleyan theology.
Introdução
Neste breve ensaio, queremos pontuar um tema do futuro da humanidade como tema do futuro da
tradição wesleyana1 na América Latina. Discutiremos a sustentabilidade como assunto da
sobrevivência. Não nos referimos à sobrevivência da criação. Esta sobrevivia à humanidade, tanto
que seríamos absolutamente incompetentes para exterminamo-nos a nós mesmos. Mas, mesmo que
o extermínio da humanidade não seja provável, o aumento do sofrimento até a perda de qualquer
esperança de transformações para o melhor para milhares e milhões de pessoas – e para toda criação
– representa hoje em dia um cenário possível. As nossas decisões em relação ao tema da
sustentabilidade, tomadas hoje, terão seu impacto amanhã e depois de amanhã, para muitas
gerações futuras.
Apesar da grandeza do desafio, trata-se de um primeiro esboço nosso sobre teologia da
sustentabilidade wesleyana. Esta concentração tem diversas razões. Primeiro é nosso ponto de
partida para o desenvolvimento do tema e serve, por causa disso, como uma espécie de um primeiro
levantamento das contribuições já feitas por teólogos/as wesleyanos/as. Segundo, queremos
apresentar estes/as interlocutores/asa um público maior. Terceiro, acreditamos que a tradição
wesleyana, especialmente quando ela integra as suas raízes anglicanas, tem algo a oferecer a este
debate. Quarto, vemos um potencial específico na teologia wesleyana brasileira pela sua integração
da criação no seu método teológico chamado quadrilátero. Quinto, fazemos este discurso numa
universidade comunitária e confessional que estabelece com objetivo maior a promoção do bem
comum, da sua identidade confessional e da sustentabilidade. Ou seja, a relação entre
1 Designamos como teologia wesleyana a teologia daquelas igrejas que se entendem como
herdeiras da práxis e da teologia de John Wesley (1703-1791), sacerdote anglicano e spiritus rector
do movimento metodista. No Brasil atuam, principalmente, a Igreja Metodista, uma igreja
autônoma ou nacional, resultante da missão do metodismo episcopal, a Igreja do Nazareno (uma
igreja do movimento da santificação) e a Igreja Metodista livre, todas do metodismo estadunidense.
Dessas se separaram já no Brasil alguns e formaram igrejas metodistas pentecostais. A principal
delas é a Igreja Metodista Wesleyana (desde 1967).
7
confessionalidade e sustentabilidade precisa ser discutida.
Isso nos leva a um segundo comentário. Os/As teólogos/as wesleyanos/as, em seguida
apresentados/as, jamais estabelecem um discurso isolado, mas, se entendem como uma voz no coral
da teologia cristã, ou como John Wesley disse, um galo no tronco da igreja cristã. E acreditamos
que seja ainda mais: a teologia wesleyana é aberta para apresentar a teologia como um saber em
conversa com os outros saberes presentes no cotidiano, na sociedade, na igreja e na academia. 2 Não
há dúvida de que a dimensão do desafio que o discurso da sustentabilidade representa requer da
teologia o melhor que ela possa oferecer, e um denominacionalismo desinteressado ou um
departamentalismo autossuficiente, certamente, não fariam parte disso.
1 O tema da ecologia, eco-teologia e da sustentabilidade na teologia metodista
1.1 Os pioneiros: Frederick Elder e John Cobb Jr.
O tema da sustentabilidade e assuntos relacionados não são novos na teologia wesleyana. Uma das
primeiras vozes metodistas foi Elder3 e seu livro Crise em Éden: o ser humano e o meio ambiente.
Elder levanta perguntas básicas e questiona as atitudes antropocêntricas da teologia. Já a teologia
ecológica4 de Cobb Jr. (Será que é tarde demais? Uma teologia ecológica)5 é hoje considerada, ao
lado dos textos de Jürgen Moltmann, um clássico da teologia ecológica. 6 Como teólogo de
processo, Cobb parte da ideia da criação como sistema aberto, inacabado, em desenvolvimento. Já
na época, apareceram na discussão as posições do igualitarismo ecológico ou de um papel
específico reservado para o ser humano nos processos da criação contínua e Cobb opta pela
segunda possibilidade. De fato, um igualitarismo ecológico levanta problemas éticos sérios por não
oferecer critérios suficientes. Como se justificaria, por exemplo, a aplicação de penicilina no caso
de uma pneumonia, ou seja, salvar um organismo para combater outro, na base da compreensão que
todos seres são “iguais”?7 Por outro lado, criticaram os representantes do ecoigualitarismo (também
designado como ecologia profunda) o modelo do ser humano como ecônomo [stewardship]
2 Isso é um projeto de longo prazo, vinculado com a autonomia da Igreja Metodista no Brasil.
Concordamos com Clovis Pinto de Castro que a declaração A Atitude da Igreja Metodista do Brasil
perante o mundo e a nação de 1934 (!) pressupõe também “[...] especialmente em nível superior
[...] a parceria Igreja e Escolas na capacitação de pessoas para análises sociais à luz das ciências”
(CASTRO, Clovis Pinto de. “Igreja evangelizando a Escola? Escola educando a Igreja?” In:
Revista de Educação do Cogeime, ano 14, n. 27, p. 76, dez. 2005; quanto à declaração cf. BRASIL,
Igreja Metodista do; RENDERS, Helmut. Um precursor do Plano para a Vida e a Missão da Igreja
Metodista na época da autonomia: a declaração A Atitude da Igreja Metodista do Brasil perante o
Mundo e a Nação de 1934. In: Caminhando (online), vol. 12, n. 2, p. 167-176, 2007).
3 ELDER, Frederick. Crisis in Eden: a religious study of man and environment. Nashville:
Abingdon, 1970.
4 Distinta desta questão existe ainda uma teologia da terra no sentido político do habitat de um
povo que seguia a criação do estado judeu depois da II Guerra Mundial. Muitos conceitos como o
deserto e o mar como espaços demoníacos e a terra cultivada de Canaán como espaço sagrado tem
uma proximidade com temas ecológicos, mas com uma origem muito diferente (cf. SMITH,
Jonathan Z. “Earth and Gods.” In: The Journal of Religion, vol. 49, n. 2, p. 103-127, abr. 1969).
5 COBB Jr., John B. Is it too late? A theology of ecology. Beverly Hills, Cal.: Bruce, 1972.
6 KAUFMAN, Gordon D. “A problem for theology: the concept of nature”. In: Harvard
Theological Review, v. 65, p. 338, 1972 e FRENCH, William C. “Subject-centered and creationcentered paradigms in recent Catholic thought.” In: The Journal of Religion, v. 70, n. 1, p. 61, jan.
1990.
7 FRENCH, William C. “Subject-centered and creation-centered paradigms in recent Catholic
thought.” In: The Journal of Religion, v. 70, n. 1, p. 70, jan. 1990.
8
considerado ainda preso dentro dos parâmetros do antropocentrismo. 89 Ambas perspectivas
merecem, segundo a nossa impressão, consideração e precisam ser integradas num projeto da
sobrevivência de todos/as.
1.2 No início do debate da sustentabilidade propriamente dita: Douglas Meeks
Quando Meeks escreveu A economia existe para o bem da comunidade humana e sua relação para
com Deus e a criação,10 ele ainda não usou o termo sustentabilidade ou seu antecessor
desenvolvimento sustentável como termo integrador. Sua reflexão propõe uma análise criteriosa da
economia a partir das suas bases teológicas, mais precisamente, da compreensão e projeção de
modelos econômicos a partir das respectivas doutrinas de Deus e dos seus idealizadores. Meeks
desenvolve a sua oikos-teologia do nosso habitat ou oikos, distinguindo entre a economia, a
ecumene e o ecossistema.
Comparamos estes três elementos com uma primeira representação gráfica da sustentabilidade da
Universidade de Michigan. A economia corresponde, num primeiro olhar, à esfera econômica; a
ecumene, à esfera social; e o ecossistema, à esfera do habitat como um todo.11 A relação entre as
esferas do econômico, social e a ecoesfera no gráfico superior é vista de forma interdependente e
igualitária.12 Meeks sugere, ao lado das três esferas do econômico, social e do ecoesfera, mais duas
perspectivas essencialmente “teológicas”.
Primeiro, a relação entre a humanidade e a criação ganha seu sentido por meio da relação das duas
para com Deus; de Deus para com as duas; e de Deus por meio das duas. Segundo, Meeks introduz
ainda a igreja como oikonomia theou, ou seja, Heilsanstalt, instituição que está pronta para
promover a salvação.13 Com outras palavras, Meeks descreve a igreja como sacramento ou meio da
graça e destaca a sua responsabilidade para com a economia que rege o planeta a partir da
proclamação da revelação de Deus como Deus trino, relacional, responsável, libertador, sustentador
e solidário. Compreensão que, por sua vez, está próxima à oikonomia theou no sentido clássico da
Trindade econômica (o Deus trino em relação salvífica para com tudo mundo). Nesta perspectiva, a
discussão da sustentabilidade como um todo acontece dentro do quadro oikonomia theou aqui
simbolizado como círculo maior, ou seja, nos poderíamos perguntar como a esfera social,
econômica e ecológica deveriam ser organizadas a partir, por exemplo, da compreensão da
8 NAESS, Arne. “The shallow and the deep, long-range ecology movement: a summary.” In:
Inquiry, v. 16, p. 95-100, primavera 1973.
9 Passos concretos como a aplicação de indicadores de sustentabilidade confere, por exemplo,
HAUGHTON, G. “Environmental justice and the sustainable city”. In: Journal of Planning
Education and Research , v. 18, n. 3, p. 233-243, 1999 ou o mapeamento verde – que “identifica,
promove e relaciona elementos à herança natural e cultural de uma localidade particular” por
FAHY, Frances e Ó CINNÉIDE, Micheál. “Re-constructing the urban landscape through
community mapping: an attractive prospect for sustainability?” In: Area, v. 41, n. 2, p. 168, 2009.
10 MEEKS, M. Douglas. God the economist: the doctrine of god and political economy.
Minneapolis: Fortress Press, 1993, p. 8-9.
11 Alguns autores falam também da política como um quarto elemento dinamizante e regulador,
partindo do pressuposto de que a esfera econômica, social e o meio ambiente não sejam sistemas
“autorreguladores entre si”.
12 Na práxis há mais desdobramentos. Na gestão sustentável de cidades, consideram-se os
seguintes indicadores: futuridade (a equidade intergeracional); justiça social (equidade
intrageracional); responsabilidade além dos limites do município (equidade geográfica); Tratamento
aberto e justo de pessoas (equidade processual [jurídica]); Consideração da biodiversidade
(equidade interespécies) (Cf. HAUGHTON, G. “Environmental justice and the sustainable city”. In:
Journal of Planning Education and Research , v. 18, n. 3, p. 233-243, 1999).
13 Anstalt [substantivo]; Veranstaltung: evento organizado; anstellen [verbo]: ligar.
9
incondicionalidade da justiça e da universalidade da graça. Dentro da esfera do social, colocamos
ainda a Igreja como instituição, atuando como oikonomia theou ou sacramento, meio e promotora
da graça no mundo. Relacionada com isso está a compreensão do ser humano como oikonomos
theou.14 No metodismo, originalmente, chamavam-se os responsáveis para as doações aos pobres
“ecônomos”; mais tarde e no caso do metodismo brasileiro, até a década de 1960, era essa a
designação de todos/as leigos/as com uma função administrativa, cuidando da economia da casa
eclesiástica. Mais adiante, iremos retomar esta contribuição e refletir mais o papel da igreja na
reforma da sociedade em direção a uma sociedade sustentável, começando consigo mesma e o
efeito de tudo isso sobre ela mesma.
1.3 Theodore Runyon
Runyon parte também da relação entre Deus, o ser humano e o mundo:
Deus nos dá três inter-relações que são fundamentais para a existência humana:
primeiro, a nossa relação com a terra que fornece nossa base material e a fonte que
continua a satisfazer nossas necessidades materiais; segundo a nossa relação como
mordomos da terra que nos liga de uma maneira especial ao Pai, porque temos a
nossa vocação de continuar a responsabilidade perante o criador; em terceiro lugar
definem estas relações com Deus e a criação as nossas relações com nós mesmos e
com todas as outras criaturas. Ganhamos uma identidade corresponsável que
responde tanto ao nosso próprio tempo como às gerações futuras.15
Em Runyon, a terra é a provedora da base material que atende as necessidades materiais humanas, e
os seres humanos são ecônomos da terra – não da humanidade, nem da igreja – em resposta
contínua ao criador. Segundo Runyon, é por meio dessa dupla relação para com Deus e para com a
criação que o ser humano recebe a sua relação para consigo e para com todas as criaturas “irmãs”.
Uma relação cuja identidade novamente é uma relação: a responsabilidade mútua diante da
contemporaneidade e os nossos tempos e futuras gerações. Com isso ele integra a ética de
responsabilidade (diante das futuras gerações) de Jonas. 16 Esta proposta de uma teologia relacional
ele desenvolve como parte da sua compreensão do papel da humanidade no processo da formação
da nova criação, segundo ele, conceito central da teologia wesleyana desde John Wesley. 17
Novamente, transparece uma dupla “referência maior”: a terra e Deus, e como a terra nos relaciona
com o criador, a terra se torna sacramento original, meio da graça.18 Aparecem, novamente, o
ecossistema, a ecumene e a economia – aqui no sentido mais amplo como relacionalidade mútua
que sustenta a vida em todas as suas dimensões do oikos.
Tanto Meeks como Runyon representam uma evolução do próprio pensamento na compreensão do
desenvolvimento sustentável: em vez de atribuir às três esferas da economia, da sociedade e do
ecossistema a mesma importância, chega-se à conclusão de que as relações entre os três deveriam
ser vistas de tal modo que a(s) economia(s) seja(m) subordinada(s) à(s) sociedade(s) e a(s)
sociedade(s) ao ecossistema. Isso corresponde a algumas críticas dos próprios cientistas da
14 Biblicamente, esta metáfora está próxima a ideia do ser humano como jardineiro (Gn 3).
15 RUNYON, Theodore. “The earth as the original sacrament”. In: Theologie für die Praxis, v. 31,
n. 1-2, p, 20, 2006.
16 JONAS, Hans. Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische
Zivilisation. 4. ed. Frankfurt am Main : Insel-Verlag 1983. [1. ed. 1979].
17 Cf. RUNYON, Theodore. A nova criação: teologia de João Wesley hoje. Tradução de Cristina
Paixão Lopes. São Bernardo do Campo: Editeo, 2002
18 RUNYON, Theodore. “The earth as the original sacrament”. In: Theologie für die Praxis, v. 31,
n. 1-2, p. 17-22, 2006.221
10
sustentabilidade e chama-se nested sustainability, o que poderíamos talvez traduzir como
sustentabilidade integrada.
1.4 Do Credo Social “industrial” de 1908 ao Credo “sustentável” de 2007
Não podemos deixar comentada uma releitura importante da tradição wesleyana que se tornou, já
no ano da sua criação, em 1908, uma afirmação social e ecumênica: o Credo Social da Igreja
Metodista, depois com leves mudanças, o Credo Social da Federação das Igrejas Cristãs dos EUA.
Não cabe contar a sua história aqui, somente documentamos que, no centenário da sua existência,
ele ganhouuma perspectiva sustentável. Citamos somente da sua penúltimaparte:
Na esperança sustentada pelo Espírito Santo, comprometemo-nos em promover a paz no mundo e
sermos guardiões da boa criação de Deus, trabalhando para:
• Adoção de estilos de vida mais simples para quem possui o suficiente; onde a graça é
mais importante que a ganância na vida econômica.
• Acesso para todos/as ao ar limpo, água e alimentos saudáveis, através de cuidados
sábios para com a terra e tecnologias responsáveis.
• Uso sustentável dos recursos da terra, promovendo fontes de energia alternativas e
transporte público com convênios engajados em reduzir o aquecimento global e proteger
as populações mais afetadas.
• Comércio global justo e os auxílios que protejam as economias locais, culturas e meios
de subsistência.
• Promoção de paz pela diplomacia multilateral ao invés da força unilateral; a abolição da
tortura e o fortalecimento da Organização das Nações Unidas e o incremento das leis
internacionais.
• Desarmamento nuclear e redirecionamento dos gastos militares para fins mais pacíficos
e produtivos.
• Cooperação e diálogo pela paz e a justiça ambiental entre as religiões do mundo.19
Entretanto, desde 1934, a Igreja Metodista do Brasil contextualizou o Credo Social e a última
revisão aconteceu em 1970. Na época, este Credo Social representava uma marca na história da
teologia pública e ética social, inclusive, na luta contra a ditadura militar; entretanto, quanto ao
tema da sustentabilidade, em grande parte somente numa perspectiva antropocêntrica.20 Uma
releitura, na perspectiva da sustentabilidade, é necessária. Melhor ainda seria um Credo Social
sustentável, assumido por mais do que uma igreja.
2 Excurso: Terra como “gaia” – afirmação teológica e compreensão sistêmica e funcional
A compreensão da terra como sacramento providencia, em nossa opinião, uma feliz forma de
relacionar e, no mesmo momento, de distinguir criador, criação e criatura.
Comparamos este ideal com as duas ou três possíveis alternativas: a divinização, a diabolização ou
a materialização da criação. Parece-nos que a descrição da terra como “gaia”, originalmente
19 NACIONAL COUNCIL OF CHRISTIAN CHURCHES, EUA; RENDERS, Helmut. “Um Credo
Social para o século XXI: a mais recente versão do Credo Social estadunidense como inspiração
para a atualização do Credo Social brasileiro”. Caminhando (online), v. 15, p. 179, mar. 2010. A
tradução do Credo para o portu-guês foi feita por Helmut Renders, Hideíde Torres, James Reaves
Farris e Lóide Barbosa Farris.
20 Cf. RENDERS, Helmut. “75 anos do Credo Social brasileiro: uma investigação da interação
entre igreja e esfera pública”. In: Simpósio, ano 33, n. 49, p. 43-65, nov. 2009.
11
proposta por Lovelock, é teologicamente ambígua.21 Por um lado, concordamos com a visão da
terra como organismo “vivo”, no sentido autorregular e interdependente, um sistema no qual toda
humanidade é integrada e do qual, separado, qualquer ser vivo morreria. Por outro lado, designa-se
por geia, originalmente, a deusa grega da terra. Talvez não seja por acaso que alguns discursos
ecológicos se aproximam de espiritualidades que se dirigem à própria terra como divindade. A
divinização da terra, talvez em busca da criação de um tabu protetor, não nos parece promissor.
Uma outra possibilidade é a descrição da terra como mãe. Esta descrição pode conter traços de
divindade, mas não necessariamente. Assim afirma Reimers: “As atribuições de domínio dos
humanos na criação (Gn 1, 28) devem ser relativadas em favor de uma leitura que destaca a tarefa
de trabalho e cuidado na criação (Gn 2,15), bem como a relação intrínseca entre o ser humano
(adam) com a mãe-terra (adamah)”.22 Segundo o nosso entendimento, o barro, como mãe-terra, é
certamente mais uma percepção dos povos antigos e não necessariamente uma identificação da terra
com uma divindade. Da mesma forma aponta Susin: A terra
[...] é nossa grande mãe comum, pachamama, portanto somos realmente
filhos da Terra, sustentados por seu seio.
Então, nossa relação, mais do que de domínio, é de entrega, de nutrição e
descanso, como a de um filho nos braços de sua mãe. É uma lição cultural
de sustentabilidade: estar junto às demais formas de vida e com a mãe
Terra, mais do que ser agigantando-se em detrimento de outros e da terra.
Crescer não significa passar da infância do estar à autonomia soberana do
ser em detrimento da relação originária de filhos em relação à mãe Terra.
Crescer é acrescentar a responsabilidade filial e adulta por ela.23
Este conceito aproxima-se também ao sentido da própria palavra “natureza”, em latim: nascimento,
parente.24 Já a proposta do autor de superar a redução da unidade de Deus a uma unidade ontológica
21 LOVELOCK, James E.; MARGULIS, Lynn. “Atmospheric homeostasis by and for the
biosphere - The Gaia hypothesis”. In: Tellus , v. 26, n. 1, p. 2-10, 1974. A ideia da interdependência
orgânica da toda biosfera – não a metáfora “gaia”– foi primeiro formulado em 1927 pelo russo
Vladimir Vernadsky (1863-1945).
22 REIMERS, Haraldo. Sustentabilidade e cuidado. Contribuições de textos bíblicos para uma
espiritualidade ecológica In: Ciberteologia - Revista de Teologia & Cultura - Ano III, n. 18, p. 189,
[2009?]. Cf. também RUETHER, Rosemary Radford. “Religious identity and openness to a
pluralistic world: a Christian view.” In: Buddhist-Christian Studies, vol. 25, p. 29-40, 2005.
Para ela a espiritualidade da renovação da natureza judaica é uma ao lado da espiritualidade
profética e da espiritualidade contemplativa, entretanto, ela favorece uma combinação das últimas
duas. Nós, partindo de Søren Aabye Kierkegaard, favorecemos uma combinação entre os três
aspectos da mística, ética e estética (Cf. RENDERS, Helmut. RENDERS, H.. O Plano para a Vida e
a Missão e sua espiritualidade correspondente: um novo olhar numa questão essencial. In:
Caminhando (online), Brasil, v. 12, n. 2, p. 85-104, jan.-jun. 2007).
23 SUSIN, Luiz Carlos. Mãe Terra que nos sustenta e governa: por uma teologia da
sustentabilidade. In: Ciberteologia – Revista de Teologia & Cultura, ano 2, n. 17, p. 45, maio/jun.
2008.
24 KAUFMAN, Gordon D. “A problem for theology: the concept of nature”. In: Harvard
Theological Review, v. 65, p. 340, 1972, lista 10 relevantes compreensões de natureza para a
teologia: “O contraste entre o natural e o artificial; o contraste entre natureza e graça; a alegação de
que certos tipos de comportamento, sejam naturais e, portanto, errados; a alegação de que a
liberdade é a verdadeira natureza do ser humano; a visão da natureza como a totalidade, tudo o que
existe, o universo; a noção de um filho “natural” e a noção de Paulo do “ser humano natural”; as
ciências naturais em oposição às ciências sociais ou comportamentais; a natureza (como a
12
pela introdução de um quarto elemento, ou da própria Mãe Terra, ou a Maria, parece-nos um passo
além dessa relacionalidade que deve caracterizar a teologia contemporânea, partindo de discursos
relacionais e não substanciais. O próprio Susin, depois de uma breve cogitação, volta aos termos
mais clássicos:
Reconhecer que somos sustentados e que somos chamados a sustentar
quem nos sustenta, assimetria e irreciprocidade confiante na experiência
de que desde a Mãe Terra recebemos dons irreciprocamente, é um bom
começo. Alteridade e autonomia, face a face e reciprocidade, maternidade
sustentadora e irrecíproca se reclamam numa dialética tripolar contínua
não só em termos da Divina Trindade, mas de humanidade e, nesta época
da história de Deus e da criação, de toda criaturalidade.25
Estes termos parecem-nos mais adequados, justamente, por garantir a relacionalidade e, no mesmo
momento, alteridade entre criador, criação e criatura. Na direção da relacionalidade, vão também
Andrade e Ferreira que se referem à proposta de Michael Serres de um “contrato natural”:26
O caráter inovador e revolucionário do contrato natural provém da adoção
do princípio da reciprocidade para reger a relação homem e natureza,
representado pelo comportamento de simbiose. Neste sentido, o homem
seria levado a substituir o modelo de comportamento de parasita que
adotou como forma habitual, para assumir um comportamento de simbiose
com a natureza, que significaria restituir a ela aquilo a que tomou de
empréstimo.27
Numa direção parecida, confirma Kaufman: “Não existe um caminho do retorno à natureza para o
ser humano; há somente a esperança de um possível progresso na direção de uma mais profunda e
sensível liberdade”.28 Retornamos a uma das sugestões de Runyon. A proposta da compreensão da
natureza como sacramento distingue-se também da introdução do “sagrado selvagem” – conceito
emprestado de Bastide que ele mesmo avalia como uma “criação pura e não repetição – situa-se no
domínio do imaginário, não no da memória [...]”.29 Não um antropocentrismo nem um antihumanismo – o naturezacentrismo –,mas uma relacionalidade multicêntrica com a responsabilidade
humana para o todo, inclusive o “[...] reconhecimento ético do direito dos seres classificados como
inanimados[...]”30 parece-nos o modelo mais adequado.31
totalidade dos não humanos) em contraste com a história ou cultura; o contraste entre a teologia
natural e a teologia como revelação e a religião natural ou revelada”
25 SUSIN, Luiz Carlos. Mãe Terra que nos sustenta e governa: por uma teologia da
sustentabilidade. In: Ciberteologia - Revista de Teologia & Cultura, ano 2, n. 17, p. 47, maio/jun.
2008.
26 SERRES, M. O contrato natural. Rio de Janeiro: Editora Nova Fronteira, 1991.
27 ANDRADE, Maristela O.; FERREIRA, Rogério dos Santos. “A sacralidade da natureza no
pensamento ecológico: reflexos na gestão das unidades de conservação – UCs1”. In: Gaia Scientia,
v. 1, n. 1, p. 89, 2007.
28 KAUFMAN, Gordon D. “A problem for theology: the concept of nature”. In: Harvard
Theological Review, v. 65, p. 364, 1972.
29 ANDRADE, Maristela O.; FERREIRA, Rogério dos Santos. “A sacralidade da natureza no
pensamento ecológico: reflexos na gestão das unidades de conservação”. In: Gaia Scientia, v. 1, n.
1, p. 85-94, 2007.
30 Ibidem, p. 89.
31 French propõe a releitura da teologia tomista e “[…] a perspective do século XIII da criação da
13
3 O método teológico wesleyano brasileiro: o quadrilátero e a criação
Neste ponto, gostaríamos de fazer referência aos nossos colegas brasileiros dos estudos wesleyanos.
Apesar de que Burtner / Chiles e Klaiber / Marquardt – e, de fato, todos/as os/as teólogos/as
“clássicos/as” – tratem da criação como tema da teologia, foi no Brasil que isso se tornou parte do
método principal de fazer teologia wesleyana. Supostamente, a partir do fim da década de 1970,
início da década 1980, falava-se no Brasil de um quinto elemento do quadrilátero 32 wesleyano: ao
lado dos elementos Bíblia, Tradição, Razão e Experiência, contemplava-se também da Criação.
Agora, estranhamente, encontramos poucas especificações do significado disso para o caminhar no
cotidiano. Em geral foi interpretado como teologia ecológica33 ou como uma porta aberta para uma
teologia natural. Gostaria de, então, sugerir implicações adicionais, sempre lembrando que se trata
do sentido mais específico do método da interpretação da narrativa fundadora da Igreja. O que nos
oferece, então, a inclusão da criação na proposta metodológica além das perspectivas já
mencionadas?
•
•
•
Primeiro, com a inclusão da criação, não se pode mais ler a Bíblia de forma
antropocêntrica, centrada somente no ser humano, como se os acentos na experiência
[humana], na tradição [humana] e na razão [humana] pudessem ser os nossos únicos
critérios;
Segundo ajuda superar também uma leitura androcêntrica da Bíblia e abre o caminho
para uma discussão de gênero mais abrangente, porque somos criação de Deus somente
como mulheres e homens em conjunto, crianças e adultos em conjunto e assim por adiante;
Terceiro, a leitura da Bíblia na perspectiva da criação deve ser feita com referência à
corporeidade, não somente à mente [razão]. A coerência ou verdade das interpretações se
mostra nos caminhos da vida.
A busca da mera coerência racional ou lógica com a tradição e sua interpretação dogmática não
representa uma hermenêutica wesleyana em sua plenitude. Nesse aspecto, o acento da criação
acompanha o acento da experiência [humana], mas desdobra este acento à existência de toda a
criação. As experiências, os sofrimentos e as alegrias de toda a criação precisam ser consultados e
contemplados em nossas leituras bíblicas e, na verdade, a própria Bíblia nos lembra disso quando
palmeiras e montes batem palmas etc. Sugerimos, por exemplo, abandonar a tradução da
palavra“soul” por “alma”. Tampouco como SOS significa “salva nossas almas”, o ministério
metodista é salvar almas, é salvar vidas. A proposta metodológica brasileira tem então, segundo a
nossa impressão, um grande potencial para interagir com uma teologia da sustentabi-lidade.
4 Sustentabilidade e eco-teologia
Retornamos ao nosso fio temático central, uma investigação teológica do conceito da
sustentabilidade e sua contribuição para a teologia. Às vezes, relaciona-se o discurso da teologia da
sustentabilidade diretamente à imagem do oikos, da terra-casa. A anglicana Anne M. Clifford, no
seu artigo “Do lamento ecológico para um oikos sustentável”, afirma: “[…] uma teologia cristã
cuminidade dos seres vivos e compara-a com a perspectiva ecológica contemporânea” (FRENCH,
William C. “Subject-centered and creation-centered paradigms in recent Catholic thought.” In: The
Journal of Religion, v. 70, n. 1, p. 71, jan. 1990).
32 O quadrilátero da UMC, depois das modificações de 1988, é de fato um triângulo.
33 SOUZA, José Carlos de. “Criação, nova criação e o método teológico na perspectiva
wesleyana”. In: CASTRO, Clovis Pinto de (org.). Meio ambiente e missão: a responsabilidade
ecológica da Igreja. São Bernardo do Campo, SP: Editora da Umesp/Editeo, 2003, p. 67-88.
14
ecológica da sustentabilidade nos fornece uma ‘visão do mundo’ que estende os domínios da justiça
para toda a criação”.34 Oikos é aqui o habitat, parecido ao conceito de “ecumene”, no sentido
original, terra habitada, e descreve o limite da extensão da ação e preocupação ou responsabilidade
cristã. A proposta da teologia da sustentabilidade, entretanto, quanto à teologia do oikos, ou
ecoteologia, é mais rica.35
Num primeiro momento, o conceito nos desafia a relacionar os diversos aspectos da ecoteologia. 36
Neste texto são relacionadas as três esferas “economia”, “sociedade” e “eco-sistema” com a
“economia”, a “ecumene” e a “ecologia”, na perspectiva teológica, e como aspectos entrelaçados.
Antes, entretanto, fazemos algumas afirmações em relação à oikonomia tou theou, aqui primeiro
interpretada como ação salvífica do Deus trino, em toda criação.
4.1 Ponderações em relação à doutrina de Deus
Deus, segundo a teologia wesleyana, é criativo, inovador, gracioso e tem compaixão. Por isso
afirma-se como atributo maior de Deus o seu amor incondicional que corresponde à graça
universal. O Deus trino é amor em si, mas não mantém este amor para si: ele transborda no ato da
criação e nos atos da salvação com nova criação. Encontros com Deus vivificam, convertem e
capacitam. Eles libertam, justificam, orientam, responsabilizam, solidarizam e santificam. Novos
caminhos são possíveis. A teologia wesleyana afirma a ação antecipadora, sustentadora e
renovadora de Deus em toda a sua criação. Essas convicções se expressam numa forma específica
de compreender a vida do ser humano, a vida no mundo inteiro e a vida além dos parâmetros da
história. Nesta concepção, Cristo, além de ser rei, sacerdote e juiz, também é o grande médico.
Nesta compreensão, o Espírito Santo é o grande facilitador e capacitador da resposta humana à ação
divina. Tudo isso converge para a tradição cristã, para a compreensão da economia de Deus como a
sua ação salvadora, sustentadora, libertadora, a renovadora e transformadora com Pai, Filho e
Espírito Santo. Ela parte da obra renovadora divina e pode ser vista como uma renovação das
condições da vida estabelecidas pelos seres humanos em meio à criação. Diríamos, em diálogo com
Willis Jenkins,37 que o impacto da oikonomia tou theou, nas três esferas, introduz o dever de
estabelecer “ecologias da graça” e, além disso, “economias da graça” e um “ecumenismo da graça”.
Dessa forma, contribuiria para o discurso da sustentabilidade o aspecto da graça divina, do amor
incondicional, da graça universal e da justiça incontestada.
4.2 Ponderações antropológicas
34 CLIFFORD, Anne M. “From ecological lament to sustainable oikos”. In: BERRY, Sam (ed.).
Environmental stewardship critical perspectives - past and present. London / New York: T & T
Clark (Continuum International), 2006, p. 252.
35 Cf. também a importância dada à questão da sustentabilidade nas publicações do Conselho
Mundial das Igrejas a partir da década de noventa (WCC (ed.), Climate Change and the quest for
Sustainable Societies, Geneva: WCC, 1998; WCC (ed), Mobility. Prospects of sustainable mobility.
Geneva: WCC, 1998; WCC (ed.). Sustainable growth - a contradiction in terms? Economy,
ecology and ethics after the earth summit. Geneva: WCC, 1993; sobre o assunto da
sustentabilidade. Um dos editores é o metodista uruguaio Julio de Santa Ana: Sustainability and
Globalization: World Council of Churches. Geneva: WCC Publications, 1998. 146p. E muitas
igrejas criaram comissões permanentes ou se envolvem com a agenda 21).
36 RENDERS, Helmut. A nova criação como tema transversal da teologia wesleyana. Guia de
Estudo do EAD. São Bernardo do Campo, SP: Umesp, 2009, p. 75-78.
37 JENKINS ,Willis (ed.). “Global ethics, Christian theology, and sustainability”. In: Worldviews:
Global Religions, Culture, and Ecology v. 12, n. 2-3, p. 197-217, 2008; JENKINS ,Willis (ed.). The
encyclopedia of sustainability, v. 2 [The Spirit of Sustainability: Religion, Ethics, and Philosophy],
Berkshire Publishers, 2009.
15
O ser humano é visto, na teologia wesleyana, como capaz de responder à ação e à presença divina
na criação. Isso é descrito, às vezes, como “sinergia” (do grego “colaboração”) entre Deus e o ser
humano no caminho da salvação. “Sinergia”, entretanto, jamais é compreendida como uma
colaboração entre Deus e os seres humanos de igual para igual (“sinergismo”). Isso já mostra a
grande apreciação da teologia da aliança na teologia wesleyana: a ideia da aliança entre Deus e o
ser humano não projeta um ser humano meramente passivo e um Deus exclusivamente ativo.
Entretanto, numa aliança, os aliados podem ter papéis muito diferentes. Isso depende da aliança. O
modelo da aliança pode ser também aplicado para descrever a relação entre o ser humano e a
criação. Na teologia do século XIX e XX, distinguem-se diversos modelos:
•
•
•
•
a soberania do histórico sobre a natureza (Hegel);
a soberania humana, mesmo sendo um ano, era considerada parte da natureza (Teilhard de
Chardin);
a soberania humana como algo que vai além da natureza;38
o histórico como parte da natureza (Whitehead).
Em discussão está o motivo transformalista da proposta centrada no sujeito como agente principal
da transformação, a relação entre o homo faber e o homo ecológico. O último tem, no mesmo
momento, uma clara noção de ser dependente e responsável. Esta múltipla relacionalidade poderia
ser descrita por alianças ou contratos (para com Deus e o próximo, a natureza, etc.). O aspecto da
desigualdade da aliança divino-humana – sempre mantida na teologia clássica – pode ser talvez
também relida em relação à discussão da relação entre natureza, cultura e história, propostas
criação-cêntricas e antropocêntricos ou centradas no sujeito.
Neste sentido, favorecemos o discurso do ser humano como ecônomo, no sentido amplo, teológico,
que contém os elementos da graça e da responsabilidade como relacionalidade, não somente como
habilidade (sujeito da história). A renovação do ser humano como imagem de Deus (distinguindo
seu aspecto natural, político e moral) é um processo contínuo e obra da graça renovadora de Deus
(graça preveniente, justificadora e santificadora). Estando em Cristo – ou relacionado a Cristo – o
ser humano é parte da nova criação (Wesley, comentando 1Co 5, 17). Essa tradução, em vez da
descrição do ser humano consciente da sua relação com Deus como “nova criatura”, supera o
antropocentrismo. Ela situa o ser humano num processo maior de renovação da criação, cuja espera
é ser liberto para a “gloriosa liberdade” ou para “a liberdade da glória” dos filhos e das filhas de
Deus (Rm 8, 19-23). O ser humano, nessa perspectiva, não é renovado por/em ou para si mesmo. A
renovação é relacional, ela inicia, acontece e amadurece com ou em Deus e se reflete nas mais
diversas relações com toda a criação. O ser humano como parte renovada da criação torna-se
responsável para com Deus, a criação, o próximo e consigo mesmo.
4.3 Ponderações soterológicas
Dessa forma, os seres humanos renovados não podem viver a sua nova identidade cristã, este dom
de Deus, e ignorar os “gemidos dos necessitados” (Sl 12, 5) ou de “toda a criação” (Rm 8, 19 e 22).
Isso significaria ignorar-se a si mesmo. Faz parte dessa criação toda a humanidade, todo o mundo
animal e todas as plantas. No meio dessa criação, na sua totalidade, nasce o novo, a nova criação,
onde as intuições do Reino de Deus criam novas formas de relacionamentos e novas
responsabilidades. Quanto à humanidade, ela é encarregada de rever as suas construções
econômicas e sociais sobre a reflexão do seu impacto ao ecossistema e à biosfera. À nova criação
38 FRENCH, William C. “Subject-centered and creation-centered paradigms in recent Catholic
thought.” In: The Journal of Religion, v. 70, n. 1, p. 57-58, jan. 1990.
16
correspondem uma nova economia, um ecumenismo renovado e uma postura ecológica inovadora.
Assim como o Deus trino “administra” os cuidados com a sua casa (oikos), a terra e o cosmo, o ser
humano é visto como “ecônomo” (em inglês, steward = servo ou diácono) das graças recebidas por
Deus. Essa nova economia (oikonomia: literalmente, as leis da casa) inclui tanto a economia de
dinheiro e os negócios, como a forma da política aceita ou rejeitada. A economia do Reino de Deus
favorece àqueles(as) que mais necessitam da graça e do sustento integral, questiona e rejeita formas
irresponsáveis, em que o ser humano como sujeito econômico perde de vista tanto o próximo como
a criação e Deus em termos mais amplos.
A ecumene (oikoumene: toda a terra habitada = mundo) somos todos nós, seres humanos. A criação
é o habitat da ecumene. Dizemos que em Deus iniciou-se um processo que leva à nova criação, ao
novo ecossistema, a uma forma não alienada de se relacionar mutuamente. Parte do ecossistema é a
ecumene no sentido mais restrito. Para a teologia wesleyana, fazer parte da ecumene de forma
renovada leva a uma atitude ecumênica como maneira nova de se relacionar com os outros seres
humanos e suas instituições. Esta atitude inovadora procura a aproximação onde se mantém
distância do outro (compare Jesus com os fariseus em relação aos(às) “pecadores(as)”, ou se
promove a segregação ou o apartheid. Em última instância, quando e até quanto possível, procurase estabelecer a unidade onde há divisão. Segundo Wesley, paz não é o silêncio das armas, mas o
amor para com os inimigos. É o esforço da promoção da justiça em habitats desfavoráveis ou até
hostis a isso. Novas relações baseadas na busca da paz e da justiça fazem-nos reler a história de
ódio, orgulho e discriminação, reescrevendo as bases dos nossos relacionamentos para possibilitar
novas histórias. É a atitude da mão estendida, mesmo quando não correspondida de imediato. É o
novo na criação velha. Neste sentido, são muitas igrejas metodistas, como a Igreja Metodista do
Brasil, igrejas criadoras do movimento ecumênico, como movimento de igrejas cristãs. Como todas
as relações, as relações entre igrejas cristãs precisam de contínuos cuidados para que sejam
amadurecidas. Tanto acusações de imperfeição (a outra é considerada ruim demais para se
relacionar com ela) como a desistência da busca do aperfeiçoamento dessas relações (ninguém
desafia ninguém e todos se ausentam de qualquer crítica do outro) interrompem o processo de
renovação ecumênica.
Finalmente, chegamos ao tema da ecologia. Para a teologia wesleyana, a ecologia não é somente
um aspecto da ética. Ela relaciona a vida dos seres humanos e dos outros seres vivos com o estado
da criação não viva (limpeza de água, terra, ar etc.). A consciência ecológica é muito mais uma
consciência de interdependência, de correlação e co-responsabilidade (quanto ao ser humano). A
atuação do ser humano, quando olha somente para o seu umbigo (ou “encurvado em si” = descrição
do pecado segundo Martim Lutero), levou e continua levando a um extermínio de milhares de seres
vivos e a uma devastadora poluição da criação. O ser humano, em vez de ser jardineiro, tornou-se a
ameaça número um da criação e de si mesmo.
4.4 Ponderações eclesiológicas
Na tradição wesleyana, a nova criação e a reforma da nação são relacionadas com a reforma da
própria igreja. Meeks, por exemplo, desafia os/as teólogos/as a não desistirem da Igreja. Segundo
ele, a teologia wesleyana trabalha com a compreensão da igreja, com um espaço privilegiado para a
antecipação do Reino de Deus. A graça, porém, como graça preveniente, iria sempre além dos
limites da própria igreja. Segundo a nossa compreensão, faz parte da mesma tradição a resistência
contra a tentação de idolatrar a igreja e colocá-la num pedestal para não entendê-la e a seus
representantes, suas estruturas ou programas, assim, em última instância, como inquestionável (e
assim irresponsável no sentido original da palavra).
Assim parece-nos importante, para o momento das Igrejas Metodistas da América Latina, que os/as
teólogos/as se dediquem mais às suas igrejas, explorando o seu papel, numa teologia sustentável. A
igreja é, de certo modo, prova ou antiprova da sustentabilidade da nossa teologia, das nossas ideias,
17
das nossas utopias, não como sentido em si, mas como meio da graça com sentido além de si.
A reforma da igreja, numa perspectiva da teologia sustentável, relaciona a oikonomia theou tanto
com a economia eclesiástica no sentido da administração dos meios da graça (forma aberta ou
fechada da Santa Ceia), como no sentido do seu uso dos recursos financeiros (teologia de décimo
“legalista” ou “evangélica), ou recursos humanos (relações autoritárias ou fraternais). Aqui entra
também a questão da “democratização da igreja” no sentido da mútua responsabilidade (e quanto a
IM a sua compreensão da conexidade), visando ao todo sem negar o particular e sempre vendo o
conjunto, o contexto maior. Isso nos lembra da ambiguidade do termo “sustentabilidade”. Depende
da preferência para um olhar mais econômico ou mais ecológico. Segundo a nossa intuição, a
economia não deveria ser algo como semiautonomia em relação ao social ou ao ecológico que nos
leva a uma compreensão da sustentabilidade integrada. Para as instituições metodistas, vale o que
dissemos a respeito da Igreja: sustentabilidade precisa ser vista na perspectiva maior e além da
questão da garantia do autossustento. O uso racional e biodegradável de todos recursos necessários
para a manutenção e expansão tanto das instituições eclesiásticas e educacionais, entretanto,
continua sendo assunto central.
A reforma da igreja, numa perspectiva da teologia sustentável, na perspectiva da oikonomia theou,
não se limita às fronteiras da família, da igreja local, da confissão, da religião. Ela pensa no
horizonte da humanidade. O amor para com a humanidade é um tema contínuo em Wesley e sua
compreensão da santidade.39 Sua crítica da mística solitária e sua proposta da mística do seguimento
ou imitação de Cristo, sua visão do mundo como a sua paróquia, tudo converge nesta direção. Nesta
visão tem seu lugar o ecumenismo no sentido mais religioso, seja na sua forma eclesiástica
(microecumenismo ou na relação entre igrejas cristãs) ou mais ampla (macroecumenismo ou a
relação entre as religiões).
Mas, a reforma da igreja, numa perspectiva da teologia sustentável e da oikonomia theou, precisa
avançar ainda mais. A humanidade como referência principal ainda continua sendo o pesadelo da
criação. A criação, ainda abaixo do universalismo humano fechado, geme à espera da ação dos
filhos e das filhas de Deus, ou seja, seres humanos orientados pela lógica e prática da oikonomia
theou. Isso é, orientados pela graça, pelo compromisso (obras), pelo interesse no verdadeiro
funcionamento e entrelaçamento das coisas (educação), das consequências reais do nosso silêncio e
das nossas ações (ética).
Considerações intermediárias
A teologia wesleyana, pela sua herança anglicana, nunca perdeu plenamente o contato com o tema
da criação, mas foi nas décadas de 1970 e de 1980 que Cobb, Runyon e Meeks retomaram a
conversa e investigaram o seu potencial. A teologia wesleyana brasileira oferece, com a introdução
do elemento da criação no método teológico do quadrilátero, um próximo passo adiante pela sua
vinculação sem exceção entre a teologia, a ecologia e a antropologia.
Quanto à Igreja, parece-nos importante lembrar o papel dela, tanto para dentro de si como para fora
de si mesma, como espaço sustentável, reinado por justiça, em relação à sustentabilidade ecológica,
ecumênica e econômica. Indicamos que o aspecto da sustentabilidade envolve o aspecto da
viabilidade econômica, não como critério único, nem como critério máximo, mas como indicador
de possíveis limitações do discurso ecológico wesleyano, tanto nas suas igrejas como nas suas
instituições de ensino. Insistimos, mesmo assim, na percepção de que pode se tornar caro e
insustentável no prazo médio ou até no curto prazo.
Na conceituação da terra como gaia, solicita-se certa sensibilidade. A transição de conceitos de uma
área do saber para a outra, às vezes, traz consigo efeitos colaterais indesejáveis. Fizemos uma
incursão maior em relação à descrição da terra como geia, favorecendo uma descrição como
39 Cf. RENDERS, Helmut. Andar como Cristo andou: a salvação social em John Wesley. São
Bernardo do Campo, SP: Editeo, 2010, p. 257-258.
18
sacramento e alertando que uma teologia da divinização não é adequada para nossa compreensão da
sustentabilidade na base de uma teologia relacional. Abre-se aqui um amplo campo para futuras
pesquisas em relação à descrição da terra como “mãe”, tema profundamente enraizado nas culturas
andinas ou no paneinteismo de Jürgen Moltmann, ao debate entre a analogia entis e a analogia
fides, etc. Entendemos que a interpretação das três esferas da economia, do social e do meio
ambiente, sua vez deveria ser lida na perspectiva da primazia da graça.
Finalmente, faz parte dessas reflexões mais teológico-sistemáticas o amplo tema da ética. O ser
humano como ecônomo, a Igreja como parte da economia do Deus trino precisam reencontrar seu
lugar na criação, superar antropocentrismos e androcentrismos e construir-se como Igreja
sustentável e promotora da sustentabilidade maior. Isso requer uma revisão da sua existência
ecumênica, não somente no sentido confessional, nem somente cristão, mas como parte das
religiões de toda humanidade como voz profética, com coração aberto, mente aberta e porta aberta.
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21
IL SIMBOLISMO RELIGIOSO E CULTURALE
Carlo Cardia,
ordinario di Diritto ecclesiastico nell’Università di Roma Tre,
Dipartimento di Storia e Teoria generale del Diritto
Relazione svolta al Convegno sul tema: “State-sponsored religious displays in the United States
and Europe”, organizzato da: “Center for Law and Religion della School of Law” della St. John’s
University di New York e dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università LUMSA (Roma, 22
giugno 2012).
SOMMARIO. 1. Semantica delle controversie sui simboli religiosi. Linguaggio di guerra ed
esclusivismo. 2. Linguaggio plurale dei diritti umani che legittima ogni simbologia religiosa. 3.
Coerenze e incoerenze. Religione, cultura, deserto delle identità. 4. Pluralità e differenze nella
visione globale e positiva dei simboli. 5. Simbologia religiosa e multiculturalità. Conclusioni.
1 - Semantica delle controversie sui simboli religiosi Linguaggio di guerra ed esclusivismo
L’esame semantico delle controversie sui simboli religiosi rivela che il linguaggio usato dalle due
scuole di pensiero, quella negativa e repulsiva, l’altra inclusiva e accogliente, riflette la propria
ascendenza culturale: da un lato, la mentalità propria di Westfalia e delle divisioni religiose
d’Europa, dall’altro la cultura dei diritti umani favorevole al pluralismo e al dialogo tra religioni. I
due orientamenti utilizzano termini e lessico opposti, uno riflette sofferenza, opposizione, chiede il
nascondimento della fede, l’altro propone accettazione delle differenze, sintesi, anche compromessi.
Riguardate nell’ottica di Westfalia, alcune motivazioni dell’opposizione al simbolo religioso, che
hanno riempito le dispute sul crocifisso, partono da un presupposto: la religione viene dal principe,
tende ad imporsi in quanto esclusivista, anche la proposizione dei suoi simboli è atto imperativo.
Chi nutre questi timori, rifiuta i simboli religiosi, si sente ferito nella propria libertà, quasi estraneo
all’ambiente, desidera emigrare (idealmente) dal contesto in cui vive: la simbologia religiosa riflette
comunque una volontà egemonica. Queste convinzioni generano una terminologia guerriera,
conflittuale, spesso insanabili antinomie. Alcuni Autori(1) muovono dal presupposto che “i simboli
religiosi nella scuola pubblica generano due tipi di conflitti. Il primo tipo è quello che si sviluppa in
relazione all’estensione del diritto da parte degli appartenenti alle minoranze religiose di esibire i
simboli del proprio credo nello spazio pubblico”; il secondo “investe l’esposizione da parte dello
Stato dei simboli della confessione di maggiorana e la qualificazione religiosa e/o identitarioculturale del loro significato”(2). Susanna Mancini, pur ritenendo il conflitto sostanzialmente
unitario, afferma che alla base sta “l’uso della religione come linguaggio pubblico delle politiche di
identità”, spesso al fine di promuovere ed esaltare un’identità collettiva “immutabile, fuori del
tempo e della storia”(3). Quindi, un qualcosa di statico che si impone ad una società libera e
dinamica: di qui, le teorie sull’uso della simbologia religiosa da parte delle moderne democrazie, le
quali tornerebbero indietro rispetto alla tradizione pluralista, adotterebbero i simboli per rafforzare
la propria identità e reagire per istinto alla paura della globalizzazione.
Altri Autori distinguono i simboli religiosi, sempre aggressivi, da quelli civili, positivi e pacifici,
perché in una democrazia pluralista, i simboli ufficiali, come la bandiera, non “rappresentano una
verità assoluta, ma piuttosto testimoniano l’esistenza di un idem sentire di res publica, un senso di
appartenenza ad un comune mondo di valori”(4). Ma questi simboli aggreganti non sono più
sufficienti “a calmare le angosce identitarie che la globalizzazione produce nelle società
occidentali”(5). Ciò provoca una crescente domanda di “rafforzamento della coesione sociale e di
una forte identità collettiva” che meglio si esprime nella simbologia religiosa, con la sua immediata
22
capacità di evocare verità assolute, e la sua carica identitaria. Resta prevalente l’impostazione che
associa simboli e potere in una interdipendenza e sinergia ineliminabili, perché “nella tradizione
(…) occidentale, il potere ha bisogno di simboli”, e “le strutture di potere delle collettività
organizzate hanno sempre imposto – e continuano ancor oggi ad imporre – l’ostensione di simboli
diretti a rappresentare i valori cui ognuna di esse ha scelto di riferirsi nella sua storia
istituzionale”(6).
Rapportata a questa ottica ideologica, la scelta francese di escludere anche l’uso personale di segni
religiosi negli spazi pubblici, scuole, collegi, licei pubblici, spazi connessi(7) presenta una indubbia
coerenza: per emarginare ogni manifestazione di confessionalità, occorre “rejeter le droit à la
différence”(8), impedire che “gli alunni manifestino vistosamente (“ostensiblement”)
un’appartenenza religiosa”, “evitare eventuali contestazioni sulla natura propriamente religiosa o
confessionale di un determinato segno”(9). Così, la privatizzazione della religione, tipica della
tradizione illuminista, subisce ulteriori restrizioni: anche una scelta personale che evochi
l’appartenenza confessionale è ritenuta pericolosa. A questa concezione è ispirato il Rapporto
presentato in Francia nel dicembre 2003 da Bernard Stasi, presidente della Commissione di
riflessione sull’applicazione del principio di laicità nella Repubblica, quando afferma che “la difesa
della libertà di coscienza individuale contro ogni forma di proselitismo viene oggi ad integrare le
nozioni di separazione e di neutralità”, e “gli alunni devono, in un clima di serenità, potersi istruire
e sviluppare per acquisire l’autonomia di giudizio. Lo Stato deve impedire che il loro spirito sia
turbato dalla violenza e dai furori della società: senza essere una camera sterile, la scuola non può
diventare la camera di risonanza delle passioni del mondo, pena il rischio di venir meno alla sua
missione educativa”(10). Quindi, “ridimensionare l’espressione pubblica delle specificità
confessionali e porre dei limiti all’affermazione della propria identità permette l’incontro di tutti
nello spazio pubblico”(11). Le scelte operate dalla Francia si ispirano ad una idea di “laicità
militante”, o laicité de combat, che riflette “un’ideologia laicista, areligiosa o antireligiosa, che
nega alla religione qualsiasi spazio nella sfera pubblica, assumendo verso di esso un atteggiamento
ostile”(12).
Sin qui, il linguaggio guerriero e conflittuale è tutto sommato moderato, anche se giunge a rigorose
conseguenze, ma diventa estremo negli Autori ispirati dall’assoluto ideologico(13). Per Lombardi
Vallauri è scontata “l’estrema pericolosità dei simboli (…) che fungono facilmente da catalizzatori
di aggressività”, perché “come gli slogan, (essi) esprimono e generano un livello intellettuale e
relazionale primitivo dello sviluppo umano, quello delle semicieche fissazioni e appartenenze”(14).
I simboli evocano guerra e violenze, infatti “chi professi un’etica della nonviolenza, della pace, dei
diritti fondamentali, della unity of mankind, non può non vedere nei più aggressivi e potenti simboli
identitari – quelli di religione, di nazione/Stato, di classe sociale, di partito politico – avversari da
abbattere, simulacri da abbandonare: l’etica del simbolico identitario-aggressivo è necessariamente
iconoclasta, anche se la stessa iconoclastia può essere (forse non può non essere?) altamente
simbolica”(15). Sulla stessa scia, per Edoardo Dieni “si può egualmente dire che i simboli sono
cattivi perché semplificano in modo adialettico, arazionale, adialogico il sistema della fides.
Sarebbero (…) una pericolosa strategia seguita dagli uomini per dispensarsi dal pensare (…) per la
loro forza emotiva essi possono dare luogo infatti a “campi mentali” che bloccano il pieno sviluppo
della ragione discorsiva e con essa della persona umana, e soprattutto catalizzano l’aggressività,
mobilitano contro. Le guerre si fanno, come è noto, dietro i simboli. L’indirizzo di politica del
diritto da seguire sarebbe allora quello di una pedagogia antisimbolica, o quanto meno intesa a
raffinare, ridurre, diluire i simboli”(16).
Dalla demonizzazione del simbolo derivano conseguenze sul terreno giuridico. La sentenza della
Corte di Strasburgo del 3 novembre 2009 sulla questione del Crocifisso si presenta anch’essa
coerente con la cultura della divisione e contrapposizione. La Corte afferma che “nell’esposizione
del crocifisso (nelle aule scolastiche) è il segno che lo Stato si schiera dalla parte della religione
cattolica”; “nei paesi in cui la stragrande maggioranza della popolazione aderisce ad una precisa
23
religione, la manifestazione dei riti e dei simboli di questa religione, senza restrizione di luogo e di
forma, può costituire una pressione sugli studenti che non praticano tale religione o su quelli che
aderiscono ad un'altra religione”. La pressione è così forte che gli studenti sembrano quasi messi
all’angolo, feriti nelle libertà di pensiero e religione: “la scolarizzazione dei bambini rappresenta un
settore particolarmente sensibile poiché, in questo caso, il potere vincolante dello Stato è imposto a
degli alunni cui manca ancora (secondo il livello di maturità del bambino) la capacità critica che
permette di prendere distanza rispetto al messaggio derivante da una scelta preferenziale espressa
dallo Stato in materia religiosa”. Infine, la presenza del Crocifisso è interpretata come “un segno
religioso ed essi si sentiranno educati in un ambiente scolastico contrassegnato da una data
religione. Ciò che può essere incoraggiante per alcuni studenti religiosi, può essere emotivamente
perturbante per studenti di altre religioni o per coloro che non professano nessuna religione”.
2 - Linguaggio plurale dei diritti umani che legittima ogni simbologia religiosa
Cambiano il clima, il linguaggio, la terminologia, quando si rifiuta la contrapposizione e il conflitto:
in questo caso, la religione, e la sua simbologia, sono interpretate alla luce delle Carte internazionali
sui diritti umani, della nostra Carta costituzionale, dei documenti che le principali Confessioni
hanno sottoscritto negli ultimi decenni. Il diritto di libertà religiosa assume valore universale, lo
Stato laico non è più diffidente verso la religione e le Chiese, ma è loro amico, chiede e offre
collaborazione, è prodigo di riconoscimenti di diritti e prerogative. La terminologia e la mentalità
guerriera scompaiono, sostituite dalla volontà di incontro e di dialogo, le differenze anziché
dividere uniscono e arricchiscono. Nei simboli religiosi sfuma la volontà egemonica, emergono le
distinzioni che arricchiscono e i contenuti che uniscono.
Anche nelle controversie sul crocifisso, chi lo difende sceglie un altro linguaggio, nel quale
l’unione prevale sulla divisione, l’universalità sul particolarismo, e il simbolo unifica in modo
trasversale tradizioni culturali diverse. Claudio Magris ritiene che “quella figura rappresenta per
alcuni ciò che rappresentava per Dostoevskij, il figlio di Dio morto per gli uomini; (…). Per altri,
per molti, potenzialmente per tutti, esso rappresenta ciò che rappresentava per Tolstoj o per Gandhi,
che non credevano alla sua divinità ma lo consideravano un simbolo, un volto universale
dell’umanità, della sofferenza, e della carità che riscatta”. E aggiunge: “un analogo discorso,
naturalmente, vale per altri volti universali della condizione umana, ad esempio Buddha, il cui
discorso di Benares parla anche a chi non professa la sua dottrina ed è radicato nella tradizione di
altre civiltà come il cristianesimo nella nostra”(17). Natalia Ginzburg a sua volta sostiene che “il
crocifisso fa parte della storia del mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è figlio di Dio. Per i non
cattolici, può essere semplicemente l’immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è
morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo, cancella l’idea di Dio ma conserva
l’idea del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il
prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri della scuole non c’è l’immagine. E’ vero, ma
il crocifisso li rappresenta tutti. Come mai li rappresenta tutti? Perché prima di Cristo nessuno
aveva detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e
non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza
dobbiamo stabilire la solidarietà fra gli uomini”(18).
In altre riflessioni si sottolinea il carattere culturale del simbolo religioso, e ancora il valore
universale del crocifisso, dal momento che “se c’è un segno che caratterizza la cultura europea in
tutte le sue dimensioni questa è la croce. Si tratta di un simbolo dominante per tutti gli aspetti del
sapere, perché tutti gli aspetti della nostra cultura si fondano su quella forma peculiare che è il
cristianesimo”; il crocifisso “è un simbolo che parla di una sofferenza. Una sofferenza che sa
accogliere in sé tutte le sofferenze e in qualche modo redimerle. Il credente lo penserà in un modo,
lo storico delle religioni in un altro. Ma non cambia. Quello è un segno di straordinaria accoglienza,
di straordinaria donazione di sé”(19). Umberto Eco, infine, intreccia la comparazione dei simboli
con l’esigenza di una integrazione che accetti le differenze, e ne promuove il rispetto: “così come la
24
mezzaluna (simbolo musulmano) appare nelle bandiere dell’Algeria, della Libia, delle Maldive,
della Malaysia, della Mauritania, del Pakistan, di Singapore, della Turchia e della Tunisia (…),
croci e strutture cruciformi si trovano sulle bandiere di paesi laicissimi come la Svezia, la Norvegia,
la Svizzera, la Nuova Zelanda, Malta, l’Olanda, la Grecia, la Norvegia, la Finlandia, la Danimarca
l’Australia, la Gran Bretagna e via dicendo”. Aggiunge che “la croce è un fatto di antropologia
culturale, il suo profilo è radicato nella sensibilità comune. (…) L’integrazione di un’Europa sempre
più affollata di extracomunitari deve avvenire sulla base di una reciproca tolleranza. L’educazione
dei ragazzi nelle scuole del futuro non deve basarsi sull’occultamento delle diversità ma su tecniche
pedagogiche che inducano a capire e ad accettare le diversità”(20). Queste opinioni sono alimentate
da una filigrana di indicazioni normative, e giurisprudenziali, che nell’epoca dei diritti umani
adottano il linguaggio dell’accoglienza, la lettura positiva dei simboli. Lo Statuto del Consiglio
d’Europa, approvato a Londra il 5 maggio 1949, afferma nella parte introduttiva che “i Governi
(sono) irremovibilmente legata ai valori spirituali e morali, che sono patrimonio comune dei loro
popoli e la vera fonte dei principi di libertà personale, libertà politica e preminenza del diritto, dai
quali dipende ogni vera democrazia”. La Carta Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
(CEDU) del 1950 dichiara che i Governi firmatari, membri del Consiglio d’Europa, sono “risoluti,
in quanto governi di Stati europei animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di
tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e preminenza di diritto”. La giurisprudenza che,
in Europa e altrove, legittima la presenza di simboli religiosi negli spazi pubblici oscilla tra la
lettura culturale del simbolo e il suo rapporto con la tradizione di un determinato ordinamento. La
Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato che “sarebbe ironico se l’inclusione del presepe nel
contesto di una fiera che è parte di una celebrazione di un evento riconosciuto nel mondo
occidentale da venti secoli, e dal popolo, dall’Esecutivo, dal Congresso, e dalle Corti di questo
paese da due secoli, “contaminasse” l’esibizione al punto di porla in conflitto con la Establishment
Clause. Proibire l’uso di questo simbolo passivo mentre nei luoghi pubblici si cantano gli inni
natalizi e… il Congresso e il legislativo statale aprono le sessioni pubbliche recitando le preghiere,
sarebbe una reazione esagerata e contraria alla storia della Nazione e alle decisioni di questa
Corte”(21). In Italia, il Consiglio di Stato nel 1988 ha respinto la tesi del valore confessionista della
presenza del crocifisso, perché essa è legittimata attualmente dal significato storico-culturale, non
esclusivamente religioso, della croce che “rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura
cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendente da una specifica
confessione religiosa”(22). In Spagna, il Tribunale supremo ha dichiarato che l’immagine della
Vergine Maria (nell’accezione di Virgo Sapientiae/Virgen de la Sapiencia) nello stemma
dell’Università di Valencia è coerente colprincipio di aconfessionalità dello Stato perché “el citado
Escudo y Emblema tradicional e histórico de la Univeresidad de Valencia conteniendo la imagen
mariana forma parte no sólo del acervo común tradicional histórico, cultural y espiritual, de diche
Universidad, independientemente de su significación religiosa que en su momento puede tener, sino
también, del acervo común expresado de uno de los pueblos de España come es el Valenciano”(23).
Ancora in Italia, la Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, approvata il 23 aprile
2007 con Decreto del Ministro dell’Interno, prevede al punto 25 che “movendo dalla propria
tradizione religiosa e culturale, l’Italia rispetta i simboli, e i segni, di tutte le religioni. Nessuno può
ritenersi offeso dai segni e dai simboli di religioni diverse dalla sua. Come stabilito dalle Carte
internazionali, è giusto educare i giovani a rispettare le convinzioni degli altri, senza vedere in esse
fattori di divisione degli esseri umani”. Questo principio è ribadito dalla Relazione che ha
accompagnato la Carta dei valori, perché “il segno, o il simbolo religioso, non è, non può essere
mai uno strumento di offesa per chi ha un’altra fede. Esso costituisce un mezzo che esprime le
diversità e può arricchire gli altri interlocutori. Se non si afferma questo principio le società
multiculturali sono destinate a vivere in un continuo stato di fibrillazione facile a sfociare in veri
conflitti interconfessionali, e rischiano così di ricadere nel passato. Per entrare nel merito, se in un
Paese i segni o i simboli della religione tradizionale sono collocati in edifici pubblici non si può
25
chiedere di toglierli per motivi di multiculturalità perché essi esprimono, secondo le leggi di
quell’ordinamento, una identità o una radice storica che meritano rispetto e considerazione”(24).
La radice storica di questo cambiamento sta nelle Carte internazionali sui diritti umani del secolo
XX, che intendono saldare i conti con i guasti del totalitarismo e superare le antiche divisioni
europee di tipo religioso. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 riconosce il
diritto di libertà religiosa in una dimensione individuale e collettiva, stempera la concezione
privatistica di matrice ottocentesca, perché esso “include la libertà di cambiare di religione o di
credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la
propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei
riti” (art. 18). Per l’articolo 26, inoltre, l’istruzione “deve promuovere la comprensione, la
tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi”. Le Carte e le Convenzioni
sui diritti umani sviluppano la nuova dimensione della libertà religiosa, ed il loro linguaggio
cambia, si fa propositivo, intreccia l’identità con lo scambio, esclude il conflitto, tende a superare i
contrasti. Gli articoli 5 e 20 della Convenzione quadro per la tutela delle minoranze nazionali,
parlano della identità religiosa, linguistica e culturale delle minoranze nazionali, e dei diritti della
maggioranza. Per l’articolo 5 occorre “promuovere condizioni tali da consentire alle persone che
appartengono a minoranze nazionali di conservare e sviluppare la loro cultura e di preservare gli
elementi essenziali della loro identità quali la religione, la lingua, le tradizioni ed il patrimonio
culturale”; per l’articolo 20, “le persone appartenenti ad una minoranza nazionale rispettano la
legislazione nazionale ed i diritti altrui, in particolare quelli delle persone appartenenti alla
maggioranza o ad altre minorità nazionali”. Maggioranza e minoranze convivono nel reciproco
riconoscimento dei diritti, a cominciare da quello che garantisce le rispettive identità religiose e
culturali. La Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo del 1989 enuncia due principi
fondamentali riguardanti l’educazione dei ragazzi. Per la lettera c) del punto 1, gli Stati convengono
che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità quella di “preparare il fanciullo ad assumere
le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di
tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e
religiosi, con le persone di origine autoctona”. Più specificamente, la lettera b) dello stesso articolo
della Convenzione sui diritti del fanciullo prevede tra le finalità dell’educazione del bambino quella
di inculcare il “rispetto dei valori nazionali del Paese nel quale vive, del Paese di cui può essere
originario e delle civiltà diverse dalla sua”. In queste parole si scorge movimento, pluralismo, spinta
verso l’altro, la fine di paure e diffidenze, la volontà e la curiosità di conoscere gli altri, di farsi
conoscere. Ne deriva una prospettiva aperta a una pluralità di simboli, ad una circolarità delle
identità e delle appartenenze di ciascuno nella vita associativa che non disturba, ma arricchisce, non
ferisce ma favorisce la reciproca conoscenza.
3 - Coerenze e incoerenze. Religione, cultura, deserto delle identità
Sembra esservi coerenza tra una certa idea di laicità, lineare e geometrica, e la cancellazione dei
simboli religiosi negli spazi pubblici, e questa coerenza viene riconosciuta all’ordinamento francese
che ha applicato il criterio della cancellazione ai simboli di tutte le fedi. Ma si tratta di un segmento
di coerenza in un sistema di incoerenza, perché il nascondimento è imposto soltanto ad una
simbologia salvando le altre, lasciando intendere che queste altre sono buone, pacifiche, non
discriminano, non turbano le coscienze. In realtà, nella guerra dei simboli tutti hanno qualcosa da
perdere, alcuni più di altri, si crea discriminazione soltanto alla religione(25). Si è accennato alla
presenza di simboli nelle bandiere nazionali, cui si possono aggiungere i vessilli regionali, i
gonfaloni comunali, e quant’altro di analogo esista nella vita collettiva. Siamo di fronte ad una
simbologia – presente in spazi pubblici, in cerimonie solenni con partecipazione obbligata e
spontanea - che chiede e ottiene onori e omaggi da autorità, cittadini, spettatori occasionali.
Anch’essa può evocare, divisioni, lacerazioni civili, dissensi, e dovrebbe essere cancellata per il
coacervo di sentimenti contrari che suscita, per il rifiuto di alcuni di sentirsi integrati in una identità
26
che respingono. Eppure nessuno la contesta.
Resta celebre la cerimonia di insediamento del Re d’Inghilterra, celebrata l’ultima volta il 2 giugno
1953 per la Regina Elisabetta II, intessuta di una religiosità che evoca diversi aspetti della storia
britannica. Dal 1066 la cerimonia ha luogo nell’abbazia di Westminster, e viene officiata
dall’Arcivescovo di Canterbury. Nelle varie fasi della cerimonia si colloca il giuramento che, per
Elisabetta II, è stato il seguente: “Manterrai tu, quanto è più nel tuo potere, le Leggi di Dio e la vera
professione del Vangelo? Manterrai tu, quanto è più nel tuo potere, nel Regno Unito la Religione
Protestante Riformata stabilita dalla legge? Manterrai e proteggerai tu inviolabilmente la Chiesa
d’Inghilterra, e la dottrina, il culto, la disciplina, e il governo della stessa come stabilito dalla legge
in Inghilterra? E preserverai tu a favore dei Vescovi e del Clero d’Inghilterra, e delle Chiese nel loro
impegno, tutti quei diritti e privilegi, come per legge o per appartenenza a loro o a ciascuno di
Loro?”. In aggiunta il monarca giura di preservare il governo della Chiesa presbiteriana come parte
della Chiesa scozzese, e questa porzione di giuramento viene fatto prima dell’incoronazione.
Concluso il giuramento, è presentata al Sovrano una Bibbia, ed un ecclesiastico pronuncia le parole:
“Ecco la saggezza. Questa è la legge Regale. Questi sono gli Oracoli di Dio vivente”. Dopo la
presentazione della Bibbia, viene celebrata la Santa Comunione, e il sovrano si siede sul trono del
Re Edoardo, dentro il quale è inserita la “Stone of Scone”, nota anche come Pietra del Destino (del
peso di 152 chilogrammi) alla quale la leggenda attribuisce origini bibliche (sarebbe stata usata da
Giacobbe come cuscino). Infine, si procede all’incoronazione vera e propria che prevede la
consegna dello scettro con la croce, della spada e del globo anch’esso con la croce(26). La
cerimonia inglese è una delle più solenni tra quelle che si svolgono nel mondo in occasione
dell’insediamento di chi dirige lo Stato, e certamente sarà snellita, ma è stata richiamata per un
preciso motivo: essa è emblematica del rilievo che la religione ha nelle tradizioni e nelle cerimonie
pubbliche di molti Stati. Alla luce della laicità esclusivista, il rito contrasterebbe con la libertà
religiosa e di coscienza di quanti in Gran Bretagna non sono anglicani.
Si possono fare altri esempi, ricordando che in Israele “sull’architrave di tutte le scuole ebraiche,
come in tutte le istituzioni statali, è fissata la Mezuzà, come segno religioso ebraico, ed inoltre c’è
la bandiera come segno civile israeliano, su tutte le strutture statali, ebraiche ed arabe”(27). Inoltre,
molti Capi di Stato giurano sulla Bibbia, o davanti ad una Bibbia, una croce, o altro simbolo
religioso: è il caso dei Sovrani dell’Europa del Nord, del Capo del governo spagnolo, del Presidente
degli Stati Uniti, del Primo Ministro del Canada, del Governatore Generale dell’Australia. In altri
casi la religione svolge un ruolo più penetrante, come nel giuramento del Primo Ministro di Grecia,
amministrato dal Patriarca della Chiesa ortodossa, del Presidente israeliano che giura sulle
Scritture, dell’Imperatore del Giappone che si insedia unitamente ad una cerimonia religiosa
scintoista, e di altri governanti di Paesi musulmani che giurano sul Corano, e via di seguito. Spesso
le cerimonie hanno lunga durata, e la religione si presenta in tutta la sua solennità di fronte alla
Nazione e ai singoli cittadini, anche di quelli che sono di altra religione, o non ne hanno alcuna.
In effetti, soltanto l’abbandono della logica di guerra, e l’apertura alla logica dell’accoglienza, può
far superare le divisioni e accomunare tutti nell’accettazione di una storia condivisa, sia pure con
differenti valutazioni. C’è imbarazzo nei pochi Autori che hanno sfiorato il tema. Per Susanna
Mancini il raffronto con le bandiere nazionali “non sta in piedi, perché manca qualunque simmetria
tra l’affissione del crocifisso nelle scuole pubbliche e la riproduzione della croce su di una bandiera
nazionale”. Confrontando Finlandia e Italia aggiunge: “come la Finlandia, che, raggiunta
l’indipendenza, ha autonomamente scelto la bandiera azzurra nelle scuole pubbliche a rappresentare
l’unità nazionale, non espone nelle scuole pubbliche il blasone che rappresenta la chiesa
evangelico-luterana finlandese, così l’Italia, che si è dotata del tricolore, non dovrebbe esporre il
crocifisso”(28). Il ragionamento non ha alcun senso, perché il simbolo della croce è posto sulla
bandiera nazionale, che in qualche modo è simbolo solenne e generale, onorato nella società e nelle
istituzioni pubbliche, e perché il crocifisso non è il blasone della Chiesa cattolica ma rappresenta la
più gran parte del cristianesimo a livello mondiale. Infine, l’Autrice trascura altri simboli che
27
proprio nei Paesi protestanti del Nord-Europa vengono esibiti e onorati a livello pubblico e
istituzionale.
La logica di guerra è costretta poi ad operare chirurgicamente in modo arbitrario, scindere ogni
rapporto tra religione e cultura, negare che il simbolo religioso abbia contenuti culturali, ignorare
che l’esclusione dagli spazi pubblici dovrebbe riguardare anche una certa simbologia culturale che
non è meno pressante nei confronti dei cittadini, degli utenti di determinati servizi, degli studenti e
dei docenti di scuole e università di un Paese o di un’area geografica(29). Le scuole sono spesso
intitolate ad una personalità della cultura o della storia, un grande pensatore, un pioniere di imprese
memorabili, e gli alunni e le famiglie potrebbero non condividere la memoria di chi ispira la
“denominazione” della scuola, o è presente nella scuola in effigie, e potrebbero chiedere una
titolazione neutra, o la rimozione dell’effigie. In coerenza con l’esclusione del crocifisso dalle
scuole, nessun istituto scolastico o universitario potrebbe essere intitolato a San Paolo, Voltaire,
Rousseau, Lutero, Giovanni XXIII, e via di seguito: ciascun cittadino, famiglia, gruppo sociale,
potrebbe legittimamente dolersi di una presenza indubbiamente sponsorizzata dalle autorità
pubbliche, e da quelle scolastiche, tale da attenuare o ferire la libertà di pensiero e di ricerca che
dovrebbe essere massima in ambiente scolastico. D’altra parte, anche negli uffici e altri spazi
pubblici di ciascun Paese sono posti simboli storici o politici (effigi del monarca, presidente della
Repubblica, di personalità della cultura fondatori di scuole di pensiero) che potrebbero, nell’ottica
del rigorismo laicista, suscitare reazioni emotive di diverso genere, contrastando con convinzioni
politiche, culturali, storiche, particolarmente sentite dai singoli individui. Per evitare un così vasto
fronte di obiezioni si vuole separare la religione dalla cultura, ignorando che le religioni sono alla
base delle grandi tradizioni culturali, filosofiche, dell’umanità, le alimentano tuttora in un mutuo
scambio di concetti, riflessioni, approfondimenti. Se non è possibile cancellare il valore religioso
del simbolo, non si può neanche ignorare il suo valore culturale e di espressione della tradizione di
un popolo. Ciò perché la tradizione non si vergogna della religione e la religione non può
vergognarsi della tradizione. La tradizione accoglie entrambe in un contesto di valutazione critica
che arricchisce tutti.
Infine, nella società multiculturale la logica di guerra dovrebbe sbarrare la strada ad ogni
espressione identitaria tradizionale, o a quelle nuove che si vanno affermando nella scuola, nei
luoghi di lavoro, in spazi pubblici fino ad oggi ritenuti immuni da manifestazioni e presenze
religiose. La pratica islamica di pregare secondo i tempi coranici in qualsiasi luogo ci si trovi, la
tradizione italiana di celebrare o ricordare il Natale, o altre feste cristiane, nella scuola, che si va
arricchendo con cerimonie analoghe per feste di altre religioni, anche al fine di far socializzare i
ragazzi di diversa nazionalità; la tendenza oggi prevalente ad accettare i simboli di ogni religione,
ebraica, cristiana, islamica, dei Sikh, e via di seguito, nelle scuole e in altri ambienti sociali; la
tendenza a prevedere nei contratti di lavoro o negli accordi d’impresa spazi di tempo e di luogo per
esigenze religiose (preghiera, festività): tutto ciò dovrebbe essere cancellato in un’ottica iconoclasta
che produrrebbe solo un deserto identitario deprimente, anche difficile da realizzare. E’ la
preoccupazione di Louis-Léon Christians che chiede se “la desimbolizzazione della legge, oltre i
rischi di diluizione del legale sociale già evocati, non determina un effetto deleterio su ogni
processo simbolico, compresi quelli all’interno delle comunità che ne erano portatrici? Cosa
sarebbero questi individui privati di ogni capacità di espressione simbolizzante? Il divieto di
indossare il foulard esteso alle imprese private, o la volontà un tempo espressa da certi legislatori di
applicare le leggi antidiscriminatorie alla “totalità della vita sociale” lasciano intravedere che la
colonizzazione giuridica del mondo, dopo essersi a lungo estesa come un vettore di simbolizzazione
pubblica, potrebbe invertirsi e diventare uno strumento di desimbolizzazione sociale …”(30).
4 - Pluralità e differenze nella visione globale e positiva dei simboli
Tutto cambia in un’ottica di accettazione delle differenze, e il cambiamento è già in atto dal punto
di vista normativo. Oggi è impossibile parlare di un solo simbolo (la croce o il velo, la Kippa o il
28
turbante e pugnale dei Sikh) che escluda gli altri, quando nella scuola, in altri spazi sociali o
pubblici, la circolarità della simbologia religiosa è pressoché totale. Tutto cambia anche dal punto
di vista psicologico, perché la moltiplicazione dei simboli provoca la fine della paura di una
religione per l’altra, degli scettici verso la religione, dei credenti per chi non è religioso, fa nascere
un’amicizia a livello delle persone, che è destinata a conquistare spazio nel mondo della cultura e
del diritto. Lo Stato laico sociale, affermatosi in Europa nel XX secolo, ha universalizzato lo spirito
americano del favor religionis, l’ha intrecciato con la pratica pattizia europea. Lo Stato riconosce il
ruolo pubblico delle Chiese, prevede gli effetti civili per il matrimonio confessionale, inserisce
l’insegnamento religioso nei programmi delle scuole pubbliche per chi lo desideri, disciplina forme
dirette e indirette di finanziamento delle Chiese e delle loro attività, garantisce l’assistenza religiosa
nelle strutture obbliganti, dialoga infine con le confessioni e concorda con esse parti della
legislazione ecclesiastica nazionale. Cadono i tabù legati alla diffidenza dello Stato verso la
religione, finisce la cultura di Westfalia, si inaugura l’amicizia tra tutte le fedi e le opinioni. Nel
nuovo orizzonte di Welfare State di impronta laica, strutture sociali e pubbliche si colorano di
presenze e simboli religiosi che si moltiplicano, in breve tempo realizzano una accoglienza serena
(in qualche misura, indifferente) da parte dei cittadini, degli utenti dei servizi.
L’Italia è, in questo senso, un paese esemplare avendo anticipato l’indirizzo pluralista, in particolare
nell’ambiente scolastico, dove esiste l’insegnamento della religione cattolica per gli studenti che lo
desiderino; ma la normativa non si limita a quella concordataria riformata nel 1984, perché
l’articolo 23 del regio decreto del 28 febbraio 1930, n. 289, tuttora vigente, che detta norme per
l’attuazione della legge sui culti ammessi, prevede che “quando il numero degli scolari lo giustifichi
e quando per fondati motivi non possa essere adibito il tempio, i padri di famiglia professanti un
culto diverso dalla religione cattolica possono ottenere che sia messo a loro disposizione qualche
locale scolastico per l’insegnamento religioso dei loro figli”. Questo pluralismo, embrionale e
limitato, si è ampliato nel periodo costituzionale con la stipulazione delle Intese ex articolo 8 Cost.,
nelle quali sono recepite le richieste di diverse confessioni. L’Intesa con le Chiese rappresentate
dalla Tavola Valdese del 1984 prevede che la Repubblica italiana assicura “alle chiese rappresentate
dalla Tavola valdese il diritto di rispondere ad eventuali richieste provenienti dagli alunni, dalle loro
famiglie o dagli organi scolastici, in ordine allo studio del fatto religioso e delle sue implicazioni”.
Norme sostanzialmente identiche (con leggeri varianti) si rinvengono nelle Leggi di approvazione
dell’Intesa con le Chiese cristiane avventiste del 7° giorno 516/1988, le Assemblee di Dio in Italia
(pentecostali), 517/1988, dell’Intesa con L’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia (UCEBI),
116/1995, dell’Intesa con la Chiesa Evangelica Luterana in Italia (CELI). E norme analoghe sono
previste in altre sei Intese, definite in sede di Presidenza del Consiglio, ma non ancora tradotte in
legge, con la Congregazione dei Testimoni di Geova, la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia ed
Esarcato per l’Europa Meridionale (art. 6), l’Unione Buddhista Italiana, l’Unione Induista
Italiana, la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (mormoni), la Chiesa Apostolica in
Italia. Infine, la Legge 8 marzo 1989, n. 101, che approva l’Intesa con l’Unione delle Comunità
ebraiche italiane, afferma che la Repubblica assicura “agli incaricati designati dall’Unione o dalle
Comunità il diritto di rispondere ad eventuali richieste provenienti dagli alunni, dalle loro famiglie
o dagli organi scolastici in ordine allo studio dell’ebraismo”. Si può osservare che, mentre le altre
confessioni hanno chiesto l’intervento dei loro rappresentanti nella scuola in funzione dello studio
del fatto religioso, l’Unione delle comunità ebraiche lo prevede direttamente per lo studio
dell’ebraismo(31).
Per parte sua, la Carta dei valori della cittadinanza e dell’immigrazione del 2007 afferma al n. 12:
“anche per favorire la condivisione degli stessi valori, la scuola prevede programmi per la
conoscenza della storia, della cultura, e dei principi delle tradizioni italiana ed europea. Per un
insegnamento adeguato al pluralismo della società è altresì essenziale, in una prospettiva
interculturale, promuovere la conoscenza della cultura e della religione di appartenenza dei ragazzi
e delle loro famiglie”. Inoltre, per l’articolo 13, “la scuola promuove la conoscenza e l’integrazione
29
tra tutti i ragazzi, il superamento dei pregiudizi, la crescita comune dei giovani evitando divisioni e
discriminazioni. L’insegnamento è impartito nel rispetto delle opinioni religiose o ideali della
famiglia e, a determinata condizioni, prevede corsi di insegnamento religioso scelti volontariamente
dagli alunni o dai loro genitori”. Ed ancora, per il n. 15 della Carta “ogni tipo di insegnamento,
comunque impartito a livello pubblico o privato, deve rispettare le convinzioni di ciascuno e
tendere a unire gli uomini anziché a dividerli”. Anche in virtù di questa normativa, la scuola
italiana si è aperta a una pluralità di presenze religiose, che elimina ogni monismo e possibilità di
condizionamento dei bambini e dei ragazzi; i quali sono abituati da tempo ad avere amici di
confessioni diverse, a parlare con insegnanti cattolici e rappresentanti religiosi avventisti, luterani,
induisti, ebrei, altri ancora, che esibiscono propri segni e caratteri, con attività e presenze religiose
le più diverse, non patiscono alcuna sofferenza per alcun simbolo, cristiano o di altra confessione.
In un orizzonte così ampiamente pluralista, il simbolo religioso assume diverso significato. Perde
quegli effetti deprimenti e discriminatori che la mentalità westfaliana dava per scontati, non è più
fonte di divisione ma di originalità che si colloca vicino ad altre originalità, di specificità che attira,
incuriosisce; esso avvicina i giovani, li abitua a convivere in un contesto nel quale le opinioni
religiose sono diverse ma non nemiche, nessuna presenza religiosa offende le altre.
Il rapporto tra presenza di un simbolo religioso e strutturazione pluralista della scuola è posto alla
base della sentenza della Grande Chambre del 2011: “gli effetti dell’accresciuta visibilità che la
presenza del crocifisso attribuisce al cristianesimo meritano di essere ulteriormente relativizzati in
relazione ai seguenti elementi. Da una parte questa presenza non è associata ad un insegnamento
obbligatorio del cristianesimo. Dall’altra, secondo le indicazioni del Governo, l’Italia apre
ugualmente lo spazio scolastico ad altre religioni. Il Governo indica in particolare che il velo
islamico indossato dalle studentesse e altri simboli e abbigliamento con significato religioso non
sono proibiti; sono previste delle regole per conciliare agevolmente la frequenza scolastica e le
pratiche religiose di minoranza; l’inizio e la fine del ramadan sono “spesso festeggiati” nelle scuole
e un insegnamento religioso facoltativo può essere attivato nelle scuole per “ogni confessione
riconosciuta”. D’altra parte, nulla indica che le autorità scolastiche che si dimostrino intolleranti
rispetto agli alunni che professano altre religioni, a quelli non credenti o aventi convinzioni
filosofiche che non si rifanno ad alcuna religione. In più, i ricorrenti non sostengono che la presenza
del crocifisso nelle aule ha incitato a sviluppare insegnamenti aventi carattere di proselitismo, né
reputano che il secondo e il terzo di essi si siano trovati di fronte ad insegnanti che, nell’esercizio
delle loro funzioni, avrebbero in modo tendenzioso insistito sulla presenza del crocifisso”.
5 - Multiculturalità e simboli religiosi. Conclusioni
La multiculturalità ha un effetto moltiplicatore sulla questione che stiamo trattando: accentua i
rischi della guerra ai simboli, che diverrebbe guerra di tutti contro tutti, moltiplica la forza
dell’accoglienza, che renderebbe la società casa comune di tutte le fedi e dei loro segni. André
Glucksmann ha rilevato che “l’Europa ha esportato le proprie fedi fino alla metà del ventesimo
secolo. Poi a quel punto si ferma”(32), e oggi sono le altre religioni che entrano in Europa, la quale
diviene terra di approdo per popoli ed etnie diverse. Il fenomeno migratorio sta infatti mischiando
le carte della storia e dell’evoluzione, facendo coesistere il passato con il presente e il futuro,
soprattutto mischia le fedi, le religioni, i diversi simboli, con modalità fino ad oggi sconosciute.
Nella multiculturalità muta anche il concetto di simbolo, perché questo emerge non soltanto da un
segno, un’immagine, una raffigurazione, ma anche da atti e comportamenti di singoli e di
collettività nella sfera sociale e pubblica, provocando stupore in chi era affezionato alla concezione
privata della religione.
Una società che si ispiri ancora a Westfalia, e al modello negazionista francese, deve dire no a tutte
le religioni del mondo, alla loro simbologia, alle loro specificità. All’opposto, la società che
accogliente è investita nelle sue pieghe dalla multiculturalità, e finisce col recepire, accettare,
disciplinare, comportamenti, simboli e presenze religiose che prima non esistevano. La preghiera
30
musulmana recitata in orari determinati, ovunque il fedele si trovi (scuola, posto di lavoro, perfino
pubblica via), è accettata, disciplinata. Il velo islamico può essere indossato dovunque, utilizzato
anche per la documentazione anagrafica. L’astensione dal cibo nel ramadan, e le pratiche
alimentari, sono favorite sul luogo di lavoro, a scuola, in pubbliche istituzioni. I fedeli di altre
religioni sono tenuti ad atti o comportamenti che hanno rilievo sociali, o portano in pubblico i loro
simboli: la Kippa o Yarmulke degli ebrei(33), il turbante e il tradizionale “pugnale” dei Sikh, vesti
particolari per alcune religioni orientali, prescrizioni alimentari diversificate. Per Rita Benigni “le
previsioni di una riduzione dell’orario durante il ramadan, agevolazioni per il pellegrinaggio alla
Mecca per il compimento delle preghiere giornaliere”, sono favorite dal “pieno dispiegarsi di una
tutela positiva del fattore religioso, nel rapporto laburistico”(34), nella scuola e in altri spazi sociali,
anche con specifica normativa legislativa o contrattualistica. In Spagna, l’Accordo di cooperazione
con la Comunità islamica di Spagna, riconosce la facoltà dei musulmani di chiedere l’interruzione
del lavoro il venerdì, tra le tredici e trenta e le diciassette e trenta, la conclusone della giornata
lavorativa un’ora prima del tramonto durante il ramadan”(35). Convenzioni analoghe si
rinvengono in Italia. Le piattaforme per il CCNL, soprattutto nel settore agricolo, prevedono il
negoziato per la ricezione di particolari esigenze religiose, per il venerdì o il ramadan dei
musulmani. Questa previsione generale ha trovato attuazione in alcune province(36), esperienze
analoghe si diffondono in imprese del nord, con attenzione alle pause di preghiera e alle
prescrizioni alimentari dei lavoratori musulmani. In un contratto collettivo dei metalmeccanici
sottoscritto nel 2003, in provincia di Bologna, si introducono ferie e permessi per partecipare alle
festività islamiche, e nel 1999, in un accordo aziendale, “nel settore metalmeccanico, l’azienda
consente ai lavoratori non comunitari di usufruire del prolungamento di un’ora della pausa mensa,
per partecipare alla preghiera del venerdì, da recuperare obbligatoriamente a fine giornata”(37).
Spicca il caso dello stabilimento industriale di Castelgrande di Castelfranco di Treviso, che
permette ai dipendenti di fede islamica di realizzare una piccola moschea nei locali aziendali, per
consentire la preghiera nelle forme previste dal Corano(38). Sono simboli anche questi, che
punteggiano di religiosità ambienti nei quali sono impegnati giovani, donne, lavoratori.
Un richiamo specifico merita la questione del turbante dei Sikh e del loro pugnale rituale (kirpan),
nei confronti dei quali si è manifestata la tradizionale accoglienza italiana, sia pure senza
determinazioni conclusive. Il Kirpan, in effetti, costituisce il simbolo della lotta tra il bene e il male,
e deve essere sempre “indossato” dai fedeli, anche se, essendo tecnicamente un arma, può
provocare allarmi e soprattutto in ambienti giovanili potrebbe dar vita ad incidenti magari
involontari. La giurisprudenza si è espressa per l’ammissibilità del Kirpan dal momento che questo
non può “essere qualificato come arma bianca in considerazione sia delle modeste dimensioni dello
stesso (come visto sopra lunghezza della lama di cm e lunghezza complessiva di 18 cm) sia
dell’assenza di filo nella lama (come apprezzabile dalle stesse fotografie in atti)”, e perché “pare
ragionevole sostenere che l’indagato S.B. avesse un giustificato motivo di portare con sé il proprio
coltello “kirpan”, motivo dato dalla professione di un culto religioso”(39). Nell’ottica
dell’accoglienza anche un timore pere sé legittimo si stempera e cessa di esistere.
La questione della multiculturalità permette di trarre alcune conclusioni, osservando che
probabilmente essa aiuterà l’Europa e l’Occidente a guarire dalle paure del passato, lenire le ferite
di antiche guerre tra esclusivismi e diffidenze di Stato e Chiesa. La globalizzazione, e la
multiculturalità, aiuteranno i nostri ordinamenti ad evitare nuove fibrillazioni e conflitti
confessionali, favoriranno una pratica della tolleranza senza più confini di tradizione, cultura,
religione. Cedere al negazionismo di fronte alla multiculturalità vorrebbe dire fare la guerra ad ogni
simbolo comunque si presenti (ministri del culto nelle strutture pubbliche, preghiere, festività
religiose nella scuola, nella comunità di lavoro, o di altro tipo, prescrizioni alimentari, ecc.)
portando un po’ tutti a protestare contro lo Stato antireligioso. Diversa l’impostazione se si agisce in
un’ottica di laicità positiva che permette presenze e circolazione di simboli, festività, aperta a tutte
le confessioni religiose, e tradizioni culturali presenti nel tessuto sociale. D’altra parte Antonio
31
Chizzoniti ha rilevato che i livelli di presenza della simbologia sono antichi e numerosi nelle società
occidentali, e con riferimento all’Italia segnala che “le disposizioni che, a vario livello, consentono
l’utilizzo della simbologia religiosa in luoghi pubblici o durante funzioni pubbliche, sono molte di
più di quelle di cui si dibatte oggi relativamente all’esposizione del crocifisso”(40). Infatti, “non c’è
Comune d’Italia che non abbia il Santo Protettore e conseguentemente la sua festa e/o sagra
correlata”, soprattutto molte amministrazioni comunali ritengono “opportuno intervenire
espressamente sul tema con apposite disposizioni” che regolano la festa patronale, cui si dà
rilevanza civile, stanziano fondi per una molteplicità di ragioni (festeggiamenti, iniziative culturali,
ecc.)(41). Esempio emblematico di questa tendenza è la Legge 22.II. 2005 n. 6 della Regione
Puglia, intitolata Riconoscimento della festa del Santo Patrono quale manifestazione d’interesse
regionale”, con la quale la festa in onore del Patrono è riconosciuta come “manifestazione di
elevato interesse regionale (…) occasione per coltivare la memoria della sua storia, per attingere
alla tradizione di civiltà che nelle comunità locali ha trovato radicamento, per consegnare alle future
generazioni il patrimonio di valori civili e spirituali che rappresentano la sua originale identità” (art.
1). Per tale motivo, la Regione “a sostegno della salvaguardia delle caratteristiche e delle tradizioni
culturali proprie della festa in onore del Santo Patrono, promuove autonome e specifiche iniziative
condotte dagli enti locali e dai comitati delle feste patronali” (art. 3), e decreta che i detti Comitati
potranno accedere a fondi regionali nel limite del 10 per cento della quota eventualmente assegnata
ad ogni singolo Comune (art. 4). Osserva quindi che “non pare possibile azzerare quelle quote di
vita religiosa che, senza scomodare le analisi socio-politiche e la questione della mutazione del
sacro in “espressioni storico-culturali”, rientrano negli interessi spirituali delle comunità, e che
purché non sviluppate con intento discriminatorio – principio pluralista – possono e di fatto sono
tenuti nella dovuta considerazione dalle amministrazioni pubbliche”(42).
Le rilevazioni di Chizzoniti mostrano il passaggio qualitativo dal privilegio al pluralismo. La
chiusura dell’ordinamento e la preferenzialità per una sola simbologia porta alla pressione sociale e
al privilegio, l’apertura ad altri simboli provoca accoglienza e pluralismo(43): il simbolo cambia
natura, non è più diabolikon, ma riflette una identità plurima e rasserenante. Di qui, una ulteriore,
decisiva, conseguenza per la quale l’apertura al pluralismo simbolico suggerisce una flessibilità
normativa che rifletta la variegata molteplicità sociale. Si può esporre un simbolo negli spazi
pubblici (scuole e uffici pubblici) e insieme autorizzare in determinate circostanze la presenza, e
l’attivazione, di altri simboli e pratiche religiose: spazi per preghiere da parte di credenti di diversi
culti, socializzazione di festività di diverse religiose tra i giovani, o memoria di ricorrenze solenni a
carattere religioso o culturale. In un’ottica dinamica si può pensare alla possibilità di aggiungere
nello spazio pubblico un altro simbolo quando lo richieda la maggioranza dei ragazzi, delle
famiglie, o degli utenti di un determinato spazio pubblico, in un clima di generale riconoscimento
del significato positivo dei simboli, e via di seguito. Su tutto, però, prevale la differenza tra la laicità
diffidente verso la religione e la laicità positiva e accogliente, come segnala Paolo Cavana quando
osserva che “alla spinta all’uniformità tipica dello Stato nazionale, cui mirava, nell’ambito del
processo di secolarizzazione delle società europee, anche il principio di laicità-neutralità dello
spazio pubblico, si sostituisce il “diritto alla differenza”, che suppone invece forme di
riconoscimento pubblico delle differenti identità culturali, religiose o etniche, coesistenti all’interno
dello stesso territorio”. In questo modo “al tradizionale confronto tra l’aspetto positivo e quello
negativo della libertà religiosa, tipico di società culturalmente omogenee e risolto nelle democrazie
liberali con il primato assegnato alla libertà di coscienza, tende ad affiancarsi la logica del
“riconoscimento”, che induce a riconsiderare la valenza identitaria dei simboli o segni religiosi
come strumenti di esercizio della libertà di espressione, individuale e collettiva e di partecipazione
dell’individuo alla vita della comunità”(44). Con riferimento alla multiculturalità(45), una
concezione bellicosa del simbolo religioso induce a considerazioni catastrofiche, perché “si direbbe
che la paradossalità sia inscritta nello stesso meccanismo del simbolo, che, come spiega
l’etimologia, “unisce” e “mette insieme” (syn-ballo) coloro che in esso e tramite esso si
32
riconoscono, eppure allo stesso tempo “divide” e “separa” (dia-ballo) coloro che in quel simbolo
non si riconoscono, sortendo così un effetto diabolico, per cui esibire un simbolo in una società
multiculturale può significare per gli uni (la maggioranza) voler rafforzare il patto sociale, per gli
altri (la minoranza) volersi esentare dal patto sociale e fare secessione”(46). Ma proprio questo
conferma che il simbolo per sé è neutro, e i suoi effetti sono positivi o negativi a seconda di come
viene usato, o come lo si avverte psicologicamente, secondo una logica antagonista, o un’altra di
accoglienza ed empatia.
Note e bibliografia
1. S. MANCINI, Il potere dei simboli, i simboli del potere. Laicità e religione alla prova del
pluralismo, Cedam, Padova, 2008, p. 9.
2. S. MANCINI, Il potere dei simboli, cit., p. 9.
3. S. MANCINI, Il potere dei simboli, cit., p. 9.
4. A. MORELLI, A. PORCIELLO, Verità, potere e simboli religiosi, Comunicazione al
Convegno annuale dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti su Problemi della laicità
agli inizi del secolo XXI (Napoli, 26-27 ottobre 2007).
5. S. FERRARI, Individual Religious Freedom and National Security in Europe After
September 11, in Brigham Young University Law Review, 2004, p. 357.
6. V. PACILLO, Diritto, potere e simbolo religioso nella tradizione giuridica occidentale, in
AA.VV., Simboli e comportamenti religiosi nella società globale, a cura di M. Parisi, ESI,
Napoli, 2006, p. 192. Aggiunge Pacillo che “per svolgere appieno la loro funzione, i simboli
del potere hanno bisogno del diritto. Perché il simbolo del potere possa trasmettere il suo
messaggio al maggior numero di consociati, la sua ostensione deve essere comandata da atti
imperativi che ne impongano la presenza su documenti, in locali pubblici, ovvero in
cerimonie ufficiali” (p. 194).
7. Il divieto vale anche per le attività destinate a svolgersi fuori dei locali dell’istituto (gite
scolastiche, corsi di educazione fisica), al punto che di recente il Tribunale di Montreuil ha
riconosciuto legittimo il divieto di portare il velo riferito alla madre che accompagnava il
figlio in attività scolastiche esterne, con la motivazione che in queste circostanze i genitori
possono essere considerati come “funzionari di fatto”. Sulle scelte francesi, in generale, cfr.
P. CAVANA, I segni della discordia. Laicità e simboli religiosi in Francia, Giappichelli,
Torino, 2004, p. 110 ss.
8. P. CAVANA, I segni della discordia, cit., p. 105.
9. P. CAVANA, I segni della discordia, cit., pp. 107,108.
10. P. CAVANA, I segni della discordia, cit., p. 177.
11. P. CAVANA, I segni della discordia, cit., p. 179. Nel Rapporto del 2003 diverse
manifestazioni di religiosità, che si vanno moltiplicando nella società multiculturale, sono
avvertite come pericoli per la laicità, e interpretate come tensioni da eliminare. Desta
stupore, tuttavia, il fatto che alcuni problemi che possono essere agevolmente risolti (e che
sono risolti, come si vedrà più avanti, in un contesto di laicità positiva e accogliente) sono
interpretati in una logica di conflittualità e di attentato alla laicità dello Stato. Ad esempio,
“a scuola, l’uso di un segno religioso vistoso (ostensibile) – grande croce, kippa o velo – è
sufficiente a turbare la quiete della vita scolastica. Ma le difficoltà riscontrate trascendono
questa vicenda eccessivamente mediatizzata. In effetti, il normale andamento scolastico
viene alterato anche dalle domande di assenze sistematiche per un giorno alla settimana, o
dall’interruzione di corsi ed esami per motivi di preghiera o di digiuno. (…) L’ospedale non
è più risparmiato da questo tipo di contestazioni. (…) Più di recente si sono moltiplicati i
casi di rifiuto, da parte di mariti o di padri, per motivi religiosi, di lasciare che lo loro spose
o figlie siano curate o assistite durante il parto da medici di sesso maschile. (…) Nelle
33
carceri sono emersi un gran numero di problemi. (…) In un ambiente in cui la pressione
collettiva è molto forte, si esercitano pressioni sui detenuti perché si sottomettano a
determinate prescrizioni religiose. In occasione delle loro visite, le famiglie e gli amici dei
detenuti sono vivamente “incitati” ad adottare una tenuta “religiosamente corretta”. In
questo clima di tensione l’amministrazione penitenziaria può essere tanta, al fine di
mantenere l’ordine all’interno della prigione, di procedere a dei raggruppamenti comunitari”
(ivi, p. 198-200).
12. E. OLIVITO, Laicità e simboli religiosi nella sfera pubblica: esperienze a confronto, in
Dir. Pubb., 2004, p. 551. Sull’argomento, A. G. CHIZZONITI, Cerimonie, ordine delle
precedenze, festività civili e religiose. Casi particolari di uso pubblico di simbologia
religiosa, in AA.VV., Simboli e comportamenti religiosi nella società globale, cit., p. 82 ss.
13. Gentile accede alla interpretazione dei simboli come strumenti proselitici della politica o
della religione, ritenendo che la “religione secolare” è “un sistema, più o meno elaborato, di
credenze, di miti, di riti e di simboli, che conferisce carattere sacro ad un’entità di questo
mondo, rendendola oggetto di culto, devozione e dedizione” (E. GENTILE, Le religioni
della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari 2001).
14. L. LOMBARDI VALLAURI, Simboli e realizzazione, in E. Dieni, A. Ferrari, V. Pacillo (a
cura di), Symbolon/Diabolon. Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale, il
Mulino, Bologna, 2005, p. 14.
15. L. LOMBARDI VALLAURI, Simboli e realizzazione, cit., p. 17.
16. E. DIENI, Simboli, religioni, regole e paradossi, in AA.VV., Simboli e comportamenti
religiosi nella società globale, cit., p. 103.
17. In Corriere della Sera, 7 novembre 2009.
18. N. GINZBURG, Quella croce rappresenta tutti, in L’Unità, 22 marzo 1988.
19. In La Repubblica, 6 novembre 2009.
20. In La Repubblica, 29 ottobre 2003.
21. Linch v. Donnelly, 465 U.S. 685-686 (1984). In senso critico, cfr. S. MANCINI, Il potere
dei simboli, i simboli del potere, cit., p. 56.
22. Cons. Stato, sez. II, parere 27 aprile 1988, n. 63, in Quad. dir. pol. eccl., 1989, 1, p. 198.
23. Cfr. B. ALAEZ CORRAL, Sìmbolos religioso y derecho fundamentales en la relación
escolar, in Revista Española de Derecho Constitucional, n. 67, 2003, p. 89 ss. Con sentenza
del 3 giugno 1991 la Corte costituzionale bavarese ha ritenuto che “con la rappresentazione
della croce come icona della sofferenza e della autorità di Gesù Cristo (ci si confronta) con
una visione religiosa diffusa in cui si afferma il potere formativo delle credenze cristiane”; il
crocifisso, quindi, non costituisce “l’espressione di una convinzione legata ad una specifica
confessione, piuttosto un oggetto essenziale della tradizionale generale cristianooccidentale”, e in quanto tale “non richiede né l’identificazione con le idee e le credenze che
essa incorpora, né alcun’altra forma di comportamento attivo orientato in questo senso”.
24. Prosegue la Relazione: “altrettanto, se in un Paese esistono tradizioni culturali legate a
festività religiose – in Italia a festività natalizie, al culto mariano, ad altre ricorrenze – nella
scuola, in ambienti giovanili o in altri momenti della vita associativa, volerle eliminare
vorrebbe dire proprio intaccare quella ricchezza multiculturale che si vuole invece tutelare e
promuovere. D’altronde, nessuno ha mai pensato di eliminare le statue di Buddha nei Paesi
nei quali ilo buddismo vanta una lunga tradizione, o di cancellare festività nazionali che
hanno una chiara impronta religiosa riferibile alla religione di maggioranza”.
25. La tendenza negativista spinge a volte ad involontari settarismi, ad esempio ritenendo il
crocifisso come simbolo del “cattolicesimo”, secondo quanto affermato dalla Sentenza della
Corte di Strasburgo del novembre del 2009. Si tratta di settarismi incomprensibili perché
l’affermazione non è esatta né sul piano scritturale né sul piano dei fatti, perché il crocifisso
è simbolo eminente del cristianesimo ortodosso e di quello cattolico, mentre la croce è
34
espressione del cristianesimo nel suo complesso, compreso quello riformato-protestante
Sull’argomento, più ampiamente, C. CARDIA, Identità religiosa e culturale europea. La
questione del crocifisso, Allemandi & C, Torino, 2011, p. 62 ss.
26. Cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Coronation_of_the_Britisch_monarch. Cfr. anche M. EVE,
Dentro l’Inghilterra. Ragioni e miti di un’identità, Marsilio, Venezia, 1990; P. RAPELLI,
Simboli del potere e grandi dinastie, Electa, Roma, 2004.
27. http://www.hakeillah.com.
28. S. MANCINI, Il potere dei simboli, i simboli del potere, cit., p. 26.
29. La negazione più recisa del carattere culturale del simbolo religioso viene dalla Corte
costituzionale federale tedesca quando nel 1995 sostiene che la croce “appartiene ed è
sempre appartenuta ai simboli specifici della cristianità, di cui costituisce il simbolo di fede.
Essa iconografizza la redenzione dal peccato originale attraverso il sacrificio e la morte di
Cristo e al tempo stesso la vittoria di Cristo su Satana e la sua autorità sul mondo, la sua
sofferenza e il suo trionfo al tempo stesso. Profanare la croce, attribuendole meramente il
significato di espressione della tradizione occidentale, o di generico segno di culto senza
specifiche implicazioni di fede, come fa la decisione in oggetto (della Corte bavarese),
significherebbe contraddire l’autocomprensione stessa della cristianità e della chiesa”.
30. L.-L. CHRISTIANS, La legge civile come simbolo religioso: dalla genealogia della
norma alla logistica della destigmatizzazione, in AA.VV., Simboli, religioni, diritti
nell’Europa multiculturale, cit., pp. 63-64.
31. Sull’argomento, C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 223 ss.; P. LILLO,
Concordato, “accordi” e “intese”tra lo Stato e la Chiesa cattolica, Giuffrè. Milano 1990;
AA.VV., Minoranze, laicità, fattore religioso, a cura di R. Coppola e L. Troccoli, Cacucci,
Bari, 1997. Per i contenuti essenziali delle Intese (che, nella sostanza, sono molti simili) cfr.
V. PARLATO, Le Intese con le confessioni acattoliche, Giappichelli, Torino, 1991.
32. A. GLUCKSMANN, La terza morte di Dio (2000), Liberal, Roma, 2004, p. 173.
33. Sulla tradizione ebraica, e le diverse interpretazioni, cfr. A. MAOZ, La luna e Maimonide.
La tradizione giuridica ebraica tra simboli naturali, ermeneutica dei comandi divini e
Kabbalah, in AA.VV. Simbolon/diabolon, cit., p. 65 ss. Tra gli ebrei riformati e conservativi
anche le donne indossano la Kippah, mentre l’uso del capo coperto, ma con la kippah è
proprio delle donne sefardite di rito orientale.
34. R. BENIGNI, L’identità religiosa nel rapporto di lavoro. La rilevanza giuridica della
“fede” del prestatore e del percettore d’opera, Jovene, Napoli, 2008, p. 62.
35. Cfr. R. BENIGNI, L’identità religiosa nel rapporto di lavoro, cit., p. 63 ss. Il testo riporta
altre esperienze di accoglienza delle pratiche religiose nell’ambito laburistico.
36. Cfr. art. 8, Contratto integrativo provinciale operai agricoli e florovivaisti per la prov. di
Ragusa, gennaio 1996/ dicembre 1999, gennaio 2000/dicembre 2003, in
www.cgil.it/flai.sicilia/contrattoRG.htn.
37. R. BENIGNI, L’identità religiosa nel rapporto di lavoro, cit., p. 64.
38. Cfr. A. MANTINEO, Le festività religiose verso l’inclusione tra i diritti all’obiezione di
coscienza e le tentazioni di pluriconfessionismo particolaristico (che può leggersi all’url
www.unicz.it/lavoro/MANTINEO/htm, 14 novembre 2001, 1, 6).
39. Trib. pen. Vicenza, Decreto di archiviazione 28 gennaio 2009, cit. da AA.VV., Simboli e
pratiche religiose nell’Italia “multiculturale”, a cura di A. De Oto, Ediesse, Roma, 2010, p.
156.
40. A.G. CHIZZONITI, Cerimonie, cit., p. 83.
41. A.G. CHIZZONITI, Cerimonie, cit., p. 94.
42. A.G. CHIZZONITI, Cerimonie, cit., p. 99.
43. Paolo Cavana rileva una singolarità nella giurisprudenza della Suprema Corte degli Stati
Uniti quando ha ritenuto incostituzionale, in occasione delle festività natalizie, una
35
rappresentazione della Natività cristiana recante l’annuncio dell’angelo: “Gloria in Excelsis
Deo”, posta sulla grande scalinata del tribunale di contea della città di Pittsburgh, nella parte
principale e visibile dell’edificio, mentre ha ritenuto ammissibile l’esposizione di un grande
candelabro della tradizione ebraica (Chamukah menorah) situato all’esterno dell’edificio del
Comune accanto ad un grande albero decorato di Natale (Christmas tree). Ciò perché,
mentre nel primo caso il messaggio religioso cristiano appare inequivocabile e la
collocazione isolata e centrale della rappresentazione suggerirebbe il sostegno del governo
ad una particolare religione, nel secondo la collocazione del simbolo di una festività ebraica
accanto ad un altro di dimensioni maggiori e di significato secolare (l’albero di Natale), che
occupa la posizione preminente sulla scena, escluderebbe un simile effetto (P. CAVANA
Modelli di laicità nelle società pluraliste. La questione dei simboli religiosi nello spazio
pubblico, in AA.VV. Simboli e comportamenti religiosi nella società globale, cit., p. 70.
L’indirizzo è criticabile, eppure esso coglie a livello elementare l’elemento di cui si parla nel
testo, nel senso che un simbolo da solo è privilegio, due simboli insieme già superano il dato
negativo e riflettono un pluralismo minino.
44. P. CAVANA Modelli di laicità nelle società pluraliste, cit., p. 77. Sulla problematica più
generale del riconoscimento cfr. C. TAYLOR, La politica del riconoscimento, in J.
HABERMAS, C. TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli,
Milano, 1998.
45. Sull’argomento, G. CASUSCELLI, Dal pluralismo confessionale alla multireligiosità: il
diritto ecclesiastico e le sue fonti nel guado del post-confessionismo, in AA.VV.,
Multireligiosità e reazione giuridica, a cura di A. Fuccillo, Giappichelli, Torino 2008, p. 61
ss.
46. E. DIENI, Simboli, religioni regole e paradossi, in AA.VV., Simboli e comportamenti
religiosi nella società globale, cit., p. 102. Cfr. sull’argomento R. HEYER, G.-R. SAINTARNAUD, Pluralismo, simboli e sintomo, in AA.VV., Symbolon/diabolon. Simboli,
religiosi, diritti nell’Europa multiculturale, cit., p. 35 ss.
36
PUO' LA TEOLOGIA ESSERE SCIENZA?
Érico João Hammes,
Prof. Dr. da Faculdade de Teologia da PUCRS.
Abstract: The question on the scientific aspect follows the Theology since a long time. The reply
depends on what it is understood about science, the capacity of the Theology in adjusting it to the
demanded criteria and to the interests. An understanding of science as relation between subject and
reality, surpasses the presumption of an absolute objectivity and neutrality. The Theology, in its
proper scientific aspect, related with a community is, however, essentially free. As partner of
dialogue with other sciences, it can contribute in the formulation of the ethics and the sense of
totality. Thus the Theology is situated between human hermeneutic sciences and as a contrast
science. It also has its own object and method compared with the sciences of the religion.
Key words: Theology; Theology as science; Theology and human sciences.
A Teologia é uma polêmica científica. No mais tardar desde Tomás de Aquino (séc. XIII), sabe-se
que a Sacra Doctrina, como então se chamava, é ciência em sentido polêmico. A primeira questão
(Quaestio) da Suma Teológica, dedicada à natureza da Teologia, em seu segundo artigo, discute
especificamente a pergunta sobre a cientificidade da Teologia (cf. STh I, q. 1, a.2). Embora de
perspectiva distinta da atual, não deixa de responder à objeção da falta de autonomia ante os
princípios de fé, nos quais se baseia. Nisto, porém, segundo Tomás, a Teologia é parecida com a
geometria e a música, ambas construídas a partir da aritmética. O advento das ciências positivas,
contudo, radicalizou a pergunta pela cientificidade, com a exigência da verificabilidade.
Doravante, ciência será fundamentalmente sinônimo de objetivação e controle.
Do Iluminismo para cá, sobretudo com a proclamação da separação e desvinculação da Igreja frente
ao Estado, aparece um novo componente. O Estado não pode comprometer-se com assuntos de
religião, e menos ainda de confissão. Como a Teologia, muitas vezes, não tem condições de situarse
fora do ambiente eclesiástico, foi retirada ou retirou-se dos sistemas oficiais de ensino e pesquisa.
Em alguns países, por conseguinte, aceitamse os estudos de religião, mas não os de Teologia. O
fenômeno da religião é público e pode ser tratado em analogia com outras manifestações sociais ou
culturais, enquanto a Teologia, por sua vinculação confessional, só seria acessível a iniciados.
Em contraposição, também as Igrejas muitas vezes se enclausuraram em seu mundo, não
permitindo que a sociedade participasse de suas pesquisas. Embora aceitando ser a Teologia
ciência40, não raro a reduziram a um discurso interno, em diálogo apenas fictício com os
interlocutores externos. Outras vezes, até mesmo a Teologia como tal é recusada, por representar
um pretenso risco à fé. Ora, se nem mesmo a comunidade cristã dá espaço à liberdade de pesquisa,
ou teme suas conseqüências, o caráter científico de sua Teologia está comprometido na raiz. Uma
Teologia reduzida, ou uma Teologia sem liberdade, dificilmente pode argumentar a seu favor, em
termos científicos, mesmo atendendo formalmente às exigências de método e rigor. Sem se
entenderem como parte do todo maior e eximindo-se da responsabilidade pública, as Teologias
40 A pergunta pela cientificidade da Teologia geralmente é abordada nas obras de introdução à
Teologia. Insistindo na relação à Igreja e ao Magistério, no caso da Teologia Católica, nem sempre
se deixa clara sua distinção essencial frente aos mesmos. Freqüentemente observa-se uma tendência
a limitar seu papel à explicação da doutrina, sem levar em conta sua tarefa criativa e dialogal.
37
assim reduzidas tendem a ser tautologias da própria fé e de seus sistemas de crença. Em seu autoisolamento preferem dispensar a exposição de sua convicções ao debate, devido ao risco da
liberdade de profissão de fé.
Assim, nem sempre os verdadeiros motivos da resistência à inclusão da Teologia entre as ciências
são de ordem objetiva. Preocupações de natureza estratégica, econômica ou prática, interferem nas
decisões definidoras.
De toda maneira, a sociedade está em seu direito, quando, ao eleger suas prioridades, um
determinado campo de saber não aparece como relevante. A definição de relevância, contudo, passa
pela autocompreensão da sociedade. As escolhas baseiamse no que pretende de si mesma, como se
entende e se projeta no futuro, e como quer seus membros. Fazer escolhas econômicas ou
científicas é escolher-se e definir-se em termos de valores, conceitos e modo de ser. Entram nessas
opções percentuais de investimento, sistemas de ensino, filosofia educacional, objetivos
estratégicos e assim por diante.
No momento em que, em muitos lugares, no mundo, a educação superior e a pesquisa estão
passando por avaliações e transformações, também a Teologia precisa dar conta de si mes ma. Sua
situação, no entanto, não é igual em toda parte. Enquanto em vários países da Europa, e também de
outros continentes, há séculos integra o quadro das ciências, participando da origem das
universidades, no Brasil foi reconhecida apenas a partir dos anos 80, como pós-graduação, e, em
1997, como curso superior. Sua exclusão do quadro dos campos de saber oficiais, em vários países,
com base na laicidade do Estado, tende a ser ampliada.
Para contribuir ao debate atual, presente nos âmbitos acadêmicos do Brasil, propõem-se aqui
fundamentalmente três questões: Como está a situação da ciência? É possível entender a Teologia
como científica? Haverá alguma contribuição relevante da Teologia para o mundo das ciências?
1 A pergunta pela cientificidade da ciência
Sem querer entrar na história da evolução do conceito, pode adotar-se como uma característica
essencial da ciência sua habilidade de aproximação metódica e rigorosa da realidade, com vistas à
sua apropriação para uso. Mesmo quando não se veja uma finalidade prática imediata, a
aproximação da realidade quer, em última análise, capturar os aspectos relevantes de controle para
servir ao ser humano, ao seu conforto, seu bem-estar ou à sua ilustração.
A partir dessa definição, a ciência aparece em sua característica de relação às coisas, objetos, que
lhe garantem objetividade41.
Postula, essa mesma característica, a verificabilidade por outros sujeitos, e, em caso ideal, livre da
influência de condicionamentos subjetivos e pressupostos não-verificáveis ou indemonstrados.
Ao mesmo tempo que o sujeito (cientista) quer aproximar-se do objeto, só poderá garantir a
objetividade de suaaproximação (conhecimento), neutralizando sua qualidade de sujeito e seus
pressupostos. Em outros termos, levado ao extremo, o ideal do conhecimento objetivo consiste na
supressão do sujeito e da sua interferência na apreensão do que está fora dele. Ora, essa supressão
significa a negação da própria finalidade da ciência, que consiste na relação de um sujeito com a
realidade. A ciência absoluta significaria a impossibilidade de qualquer ciência pela negação do
sujeito. Por conseguinte, a ciência é possível se, e tão-somente se, mantiver a tensão controlada e
consciente entre sujeito e objeto.
O estágio atual de complexidade do real e da amplitude do conhecimento evidencia a fragilidade da
pretensão de um conhecimento sem pressupostos. A interdependência nos processos de produção de
conhecimento (grupos de pesquisa intercontinentais) exige uma relação de confiança para além da
41 Desnecessário lembrar que essa objetividade é sempre uma aproximação mediada –
epistemologicamente qualificada de realismo – e nunca uma coincidência com o real – realismo
ingênuo – (cf., a propósito, LAMBERT, Dominique. Ciências e Teologia: aspectos de um diálogo.
São Paulo: Loyola, 2002, p. 26-32).
38
própria capacidade de verificação. As décadas recentes da pesquisa e desenvolvimento, no Brasil,
demonstraram o quanto a autosuficiência, o estreitamento de horizonte e a reserva de mercado
podem prejudicar o avanço tecnológico. De outro lado, a simples competência tecnológica, isolada
de critérios dialogados e acordados de uso, coloca em risco os próprios resultados da ciência.
O enriquecimento de urânio, para fins bélicos, ou mesmo o abuso da energia atômica, para fins
“pacíficos”, colocam a biosfera com todos os seres vivos diante de riscos iminentes (acidentes em
usinas, submarinos, lixo atômico e assim por diante).
Dir-se-á que os próprios cientistas encontrarão o caminho para seu controle. E pode ser verdade.
Albert Einstein, Bertrand Russell e quantos outros não aceitaram a simples transferência da fórmula
ao laboratório ou do laboratório à indústria. No entanto, a subserviência ou a falta de percepção
conduziu a humanidade à beira do colapso. Uma ciência descuidada do sujeito perde sua
objetividade. Mais do que nunca a ciência hoje não pode conten tar-se em ver para crer. O ver pode
ser fatal. A ciência carece de consciência42 para continuar sendo ciência.
A redução do conceito de ciência, a partir das ciências positivas, à verificabilidade e
demonstrabilidade não é mais sustentável. Para ser e se manter como ciência, a ciência precisa mais
do que ser positiva: precisa ser viável. A cientificidade consiste em aceitar a complexidade do ser
humano em sua aproximação do real. A linguagem, o direito, a matemática, o pensamento abstrato,
as tateantes hipóteses, para entender os comportamentos da economia e do mercado, são tantas
outras formas de relação construtiva com a realidade.
Um segundo problema com o qual as ciências se deparam é a liberdade. Enquanto atividade
humana, a ciência precisa ser livre para investigar e debater. A coerção ou a repressão inibem o
sentido humano da pesquisa. Diferente é o problema do interesse43.
Liberdade e neutralidade são categorias diferentes que têm papel distinto. Enquanto a primeira
garante o desempenho livre da busca da verdade, a segunda suporia uma total inocência.
2 A Teologia como ciência
A questão da cientificidade da Teologia, no debate atual, depende, em primeiro lugar, de um
conceito aberto de ciência, capaz de abranger áreas de pesquisa e metodologias diferentes das
meramente positivas. A própria Teologia precisa aceitar as demais ciências como parceiras,
abdicando da presunção histórica de superioridade frente aos demais campos do saber ou a um
regime de tratamento excepcional44. Embora, no passado, gozasse de certos privilégios, foi a
Teologia quem soube compreender, antes das instâncias hierárquicas, a relevância dos métodos
positivos de apreensão da realidade. Foi graças às mentes abertas e rigorosas, formadas na Teologia,
e informadas do estágio de desenvolvimento científico, que os preconceitos e os juízos arbitrários
puderam ser superados. Observa-se, com razão, que também as ciências modernas não surgiram em
oposição à Teologia, mas como um caminho a mais para ler a obra da criação.
O problema da cientificidade da Teologia tornou-se agudo, no período iluminista, quando se
pretendia garantir a total liberdade de investigação, rompendo com a tutoria eclesiástica. O
Positivismo de Augusto Comte veio reforçar essa tendência, ao reduzir as ciências aos métodos
positivos. A própria Teologia, ocasionalmente, se recusou a aparecer como ciência, por desprezar as
ciências. Foi assim no início do Cristianismo e foi assim também na Reforma. Ora, a
desqualificação da Teologia como ciência pode conduzir, paradoxalmente, ao desprezo de qualquer
42 Cf. MORIN, Edgar. Ciência com consciência. 2. ed. Rio de Janeiro: Bertrand Brasil, 1998.
43 Cf. HABERMAS, Jürgen. Conhecimento e interesse. Rio de Janeiro: Ed. Guanabara, 1987.
44 Por concordatas, pelo caráter confessional da instituição em que se encontra ou por interesses
especiais do Estado, a Teologia muitas vezes reivindica ou goza de um tratamento excepcional,
eximindo-a ou impedindo-a de ser tratada como uma ciência entre as outras (cf. WILFRED, Felix.
Teologia na universidade moderna. Qual especialização? Concilium, fasc. 315, p. 174-184, 2006,
esp. p. 177).
39
ciência. Na medida em que as comunidades humanas se entendem como totalidades, sua
expectativa tende a incluir as várias dimensões da existência. Excluir a Teologia, como um dos
momentos de reflexão, em sociedades onde a ciência era privilégio de poucos, tinha um impacto
menor; mas, na sociedade atual, marcada pela pesquisa e desenvolvimento, a exclusão da Teologia
corresponde à supressão de uma parte da vida. De outro lado, o seu reconhecimento atesta a
inclusão da ciência na vida.
3 De que maneira a Teologia é ciência
O problema de ser ou não ciência não é privilégio da Teologia. O questionamento do caráter de
ciência, por razões diversas, atinge também a Filosofia, o Direito, Ciências Sociais e até mesmo a
Medicina. Como foi dito acima, a primeira questão é aceitar um conceito de ciência suficientemente
amplo, para dar conta da realidade e dos caminhos de apreensão da mesma.
No caso particular da Teologia, um dos argumentos mais comuns, que ainda hoje se ouvem com
facilidade, seria o fato de estar baseada em crenças, ao contrário da ciência que procede mediante
demonstrações. Ora, todo esforço da Teologia, em dois mil anos de história, consistiu sempre em
distinguir-se da crença.
A Teologia se define como lógos da fé e não como fé. A autoridade das suas conclusões e dos seus
resultados vem da força dos argumentos e dos dados capazes de convencer, inclusive dando forma e
sentido novos ao conteúdo do crer. Em sua origem, a Teologia quis ser um espaço para dialogar
com o pensamento e a cultura circundante45. É verdade que, após o período áureo da Idade Média,
especialmente na Modernidade, houve um isolamento em muitos lugares. Nem se deve esquecer,
porém, que foi a partir da Teologia e do pensamento por ela influenciado que se desenvolveram os
primeiros conceitos de direitos dos povos (Francisco de Vitória, na Espanha). Dependesse apenas
das crenças, o Cristianismo colonial teria sancionado monoliticamente a empresa colonialista com
todos os seus efeitos. De outro lado, a precariedade teológica e a subserviência às crenças
mantiveram a legitimação do tráfico de escravos, quase sem críticas.
4 Como qualificar, então, a cientificidade da Teologia?
Para ser reconhecida como ciência, na sociedade aberta e pluralista, de separação entre Igreja
(religião) e Estado, a Teologia precisa dar conta de ao menos quatro condições: estatuto
epistemológico próprio, liberdade de pesquisa, inserção científica e relevância pública. Em sua
estrutura fundamental, Teologia expressa a relação entre a inteligência e a fé, ciência da fé. É um
método de apropriação daquele aspecto humano chamado crença, enquanto dimensão existencial
subjetiva e social, vivida e recebida, em sua relação com a sociedade e a realidade. Seu objeto
imediato, a fé, no entanto, não é – como poderia fazer crer uma concepção apenas intelectualista –
sinônimo de irracionalidade e sim de confiança em alguém, de fidelidade. É ato de racionalidade
aberta e acolhedora, que não é apenas compatível com pesquisa, mas lhe é intrínseca e inerente, a
exemplo de qualquer outra realidade humana.
Tecnicamente a Teologia se compõe de dois momentos: o momento da recepção e o momento da
reflexão. A recepção consiste essencialmente em situar-se numa determinada comunidade de fé46.
Esse momento dificilmente poderia ser considerado científico.
A opção por uma determinada religião e confissão depende de fatores quase nunca demonstráveis.
Sob esse ponto de vista, é comparável a escolhas e pertenças partidárias ou a escolhas de amizade e
amor. A aceitação de princípios pré-teológicos, e que poderão ser ou não objeto de sustentação
45 Cf., p. ex., HÜNERMANN, Peter. Was heißt es heute, Theologe zu sein? Theologische
Quartalschrift, Tübingen, v. 183, p. 239-246, 2003.
46 Ainda que de fato existam estudiosos de Teologia não-vinculados confessionalmente, por
definição Teologia implica a confessionalidade.
40
teórica, não é ainda, propriamente falando, Teologia. É na reflexão que se explicita o caráter de
ciência da Teologia. Com a ajuda de métodos de pesquisa histórica, são estabelecidos criticamente
os textos, por exemplo, que são tidos por normativos47. É o momento desconstrutivo, no qual o
conteúdo da fé se desvencilha das armadilhas de irracionalidade ou da a-socialidade. Procuram-se
as estruturas profundas que levam o ser humano a crer e significar a sua fé na linguagem do
símbolo, do mito e do rito. Sem abdicar da linguagem religiosa, a Teologia é capaz de distinguir seu
significado real da forma que o reveste.
Com critérios semelhantes, procura estabelecer uma primeira compreensão do texto em seu
contexto histórico e social.
Trata-se da leitura crítica e da interpretação, segundo as regras gerais aplicáveis. Servindo-se de
conceitos elaborados com a ajuda da Filosofia, é possível ler e capacitar para a leitura e
interpretação, conforme as exigências da realidade e em consonância com o sentido estabelecido
cientificamente. Trata-se do momento reconstrutivo, no qual a circularidade hermenêutica entre as
demais ciências e os textos (e crenças) estabelecidos criticamente produz uma nova compreensão da
fé enquanto conteúdo e exigência prática48.
A segunda condição a ser preenchida pela Teologia, para responder por seu caráter científico, é a da
liberdade de pesquisa. A ciência só pode existir na liberdade para estudar e investigar.
De fato, sabe-se o quanto a liberdade pode ser condicionada, em todos os campos do saber: dotação
de recursos, interesses políticos, ideológicos, e objetivos estratégicos. Exigir liberdade de pesquisa
para a Teologia não significa, então, total isenção de mecanismos limitadores. O problema que na
realidade se apresenta, e lhe é peculiar, vem de sua vinculação à comunidade de fé. Como, no
entanto, é a própria fé que exige a pesquisa, o cerceamento da liberdade, vindo da fé, revela-se
contraditório49. A recorrente intervenção de autoridades eclesiásticas, e a eventual censura, não
justificam a negação da liberdade em princípio, mas debitam-se a conjunturas mais ou menos
favoráveis. Como em qualquer outra comunidade científica, também na Teologia, em tese, a busca
da verdade, ou a compreensão de uma realidade, se faz coletivamente, sendo a rejeição de posições
incongruentes um efeito da produção de evidências diferentes. A afirmação da liberdade de
pesquisa, nas condições da sociedade atual, obviamente inclui a defesa do pluralismo teológico.
Não se poder falar simplesmente de a Teologia, no singular. Teologia se caracteriza por uma atitude
de diálogo envolvendo, não apenas confissões e religiões diferentes, mas também culturas e
ciências distintas.
47 Cf., p. ex., DUQUOC, Christian. A Teologia no exílio, p. 90-93.
48 Essa posição, sugerida, entre outros, por C. DUQUOC, em termos de “escuta respeitosa” e
“cumplicidade, sem comprometimentos” (cf. op. cit., p. 100), coloca a Teologia no mesmo plano
das demais ciências, nem acima, nem abaixo e nem em perspectiva privilegiada, mas em parceria
dialogal. Dominique LAMBERT, como se verá em seguida, seguindo Jean LADRIÈRE (Ladrière,
Jean. A articulação do sentido. São Paulo: EPU, 1977) propõe a relação em termos de articulação.
Clodovis BOFF, nesse sentido, embora falando em diálogo, interlocução e relação democrática,
parece ainda requerer um espaço especial à Teologia, na medida em que as demais ciências são
“mediação” (cf. Teoria do método teológico, p. 358-389). O conceito de mediação é adequado
como método de produção de conhecimento para a Teologia, mas não como relação com as demais
ciências.
49 Aqui poderiam aduzir-se as diferentes referências de documentos oficiais da Igreja Católica
afirmando a liberdade de pesquisa em Teologia. Resguardada a unidade nas coisas necessárias,
aceita-se a liberdade “na elaboração da verdade revelada” (CONCÍLIO VATICANO II. Unitatis
Redintegratio, n. 4). À semelhança dos estudiosos de outras disciplinas “os teólogos gozam também
da mesma liberdade” (JOÃO PAULO II. Constituição apostólica sobre as universidades católicas,
n. 29). A liberdade de pesquisa é condição de avanço em base ao diálogo e disponibilidade para
acolher a verdade (cf. CONGREGAÇÃO PARA A DOUTRINA DA FÉ. Instrução sobre a vocação
eclesial do teólogo, n. 11-12; comparar com n. 32-41, sobre o dissenso).
41
Daí a pluralidade de Teologias, a exemplo do que ocorre quanto ao pluralismo em outras ciências.
A terceira condição de cientificidade da Teologia é a inserção científica. Exprime a relação Teologia
e ciências. Em primeiro lugar, a Teologia participa do destino das ciências, como uma espécie de
sintoma. Tradicionalmente, sua afinidade maior se dá com as humanas e, dentre essas, a Filosofia. A
fragilização do reconhecimento destas envolve também aquela. Em segundo lugar, pode
relacionarse com as demais ciências. Pode propor-se um modelo de articulação em lugar de
concordismo e discordismo50. O modelo concordista da relação com as ciências consiste em fazer
das ciências um caminho teológico imediato, ao estilo de provas matemáticas da existência de
Deus. O modelo discordista separa os mundos das ciências positivas e teológicas, na forma de
laboratório sem fé. Nesse modelo, o cientista pode ser uma pessoa de fé, mas esta fica do lado de
fora. E a Teologia se esconde em seu próprio mundo, na melhor das hipóteses, julgando atos e
atitudes sem conhecimento de causa. A atitude mais adequada da Teologia, como ciência, para com
as congêneres, parece a de articulação, mediante a presença recíproca e o diálogo aprendente. Ao se
relacionar com as demais ciências, a Ciência da Fé se deixa interpelar e pode contribuir,
especialmente no âmbito do sentido e do alcance das pesquisas em curso51. No momento atual, não
se pode omitir a referência à contribuição no campo da Ética. Descartada qualquer pretensão
monopolizadora, a Teologia é especialista qualificada para estudar e debater as implicações éticas
da pesquisa e da tecnologia52.
Em conclusão, a Teologia, por seu método e conteúdo, está entre as ciências humanas, e pode ser
entendida como uma ciência hermenêutica, na medida em que seu objeto são textos e tradições
aceitos por comunidades humanas como normativos de sua existência53. Cabelhe a tarefa educativa
de relacionar esses textos com a realidade e, com os recursos das outras ciências, mediar o diálogo
entre as demais visões de mundo, garantir a paz religiosa, relativizar os absolutismos políticos,
econômicos e sociais, e prevenir os fundamentalismos e a intolerância. É o que se poderia designar
de papel universalizador da Teologia.
Ao lado desse papel, e talvez mais importante, seja uma outra contribuição da Teologia para as
demais ciências: a de ser uma ciência contrastante. O conceito remonta a G. Lohfink, ao falar do
Cristianismo como sociedade de contraste54. Ser contraste das demais ciências significa ter uma
função reveladora, a exemplo do que acontece nas Artes plásticas ou na Medicina. O contraste pode
servir para fazer ver aspectos – eventualmente doenças – da realidade que, de outra maneira,
passariam despercebidos.
O mundo desenhado ou implícito nas demais ciências pode ser identificado por essa ciência
estranha que é a Teologia; a falsa universalidade, que exclui grande parte da população mundial ou
esquece dimensões essenciais da vida; o estreitamento do tempo ao presente imediato e à geração
50 Cf. LAMBERT, Dominique. Ciências e Teologia, p. 67-114.
51 Felix WILFRED, a partir da crescente especialização nas demais ciências, assinala à Teologia
especialmente a tarefa de busca de totalidade, de uma parte, em “estreita afinidade com a
sabedoria” que “não pode absolutamente ser uma intrusa na universidade” e, a partir daí, a
colaboração na busca do sentido, com a sensibilidade para os problemas da humanidade (cf.
Teologia na universidade moderna: qual especialização? Concilium, fasc. 315, p. 180-184, 2006).
52 Como diz Clemens SEDMAK, “em tempos pós-teológicos, a Teologia pode legitimar-se
fornecendo uma contribuição exemplar para a ética das ciências” (Theologie in nachtheologischer
Zeit, p. 7).
53 O caráter de ciência hermenêutica pode ser visto, de modo especial, em Claude GEFFRÉ, que
fala em “virada hermenêutica da Teologia” (cf. Crer e interpretar: a virada hermenêutica da
Teologia. Petrópolis: Vozes, 2004, especialmente, p.29-63; ver também Como fazer teologia hoje:
hermenêutica teológica. São Paulo: Paulinas, 1989).
54 Cf. SEDMAK, Klemens. Theologie in nachtheologischer Zeit. Mainz: Matthias-Grünewald,
2003, p. 47-58. Para o conceito em Gerhard LOHFINK, cf. sua obra Wie hat Jesus Gemeinde
gewollt? Freiburg; Basel; Wien: Herder, 1993.
42
atual, tudo isso são aspectos da realidade que a Teologia pode mostrar como sua contribuição
específica. Assim, tendo seu objeto e método próprios, a Teologia, situada entre as demais ciências,
participa de suas questões transcendentes internas e da responsabilidade de pesquisar as condições
de uma sociedade construída sobre os “valores da liberdade, justiça e dignidade humana”
(UNESCO), com condições de futuro.
A partir do que se viu, evidenciam-se a especificidade epistemológica e a contribuição própria da
Teologia, no contexto do debate recente com as Ciências da Religião. Ainda que materialmente os
dois campos de conhecimento se sobreponham em muitos aspectos, os pressupostos, o método, as
intenções e os resultados configuram sua especificidade própria. Sendo por natureza confessional –
mesmo quando ecumênica e aberta ao diálogo inter-religioso (macroecumênica) – a Teologia
elabora seus conceitos a partir da intimidade do ser humano e do seu destino.
Dessa maneira, temas como Ética e sabedoria lhe são conaturais.
REFERÊNCIAS
1. DUQUOC, Christian. A Teologia no exílio: o desafio da sobrevivência
da Teologia na cultura contemporânea. Petrópolis: Vozes, 2006.
2. NEUTZLING, Inácio (Org.). Teologia na universidade contemporânea.
São Leopoldo: UNISINOS, 2005.
43
I SIGNIFICATI DELLA VERITA' TRA FEDE E SCIENZA
Gianpaolo Pegoretti
Introduzione: l'appiattimento dei significati
L'ampiezza del valore semantico della parola verità copre, da un punto di vista storico,
fondamentalmente due significati. Adottando il linguaggio tecnico mutuato dagli studi di Frege
(1892), è possibile sostenere che verità abbia due differenti riferimenti (bedeutung). Ovvero,
riprendendo la scuola pragmatica di linguistica, usiamo la parola verità in due modi distinti.
Dall'appiattimento di due significati in un unico valore semantico nasce una confusione intorno al
concetto stesso di verità. Senza dipanare i significati della parola diventa impossibile comprenderne
le diverse accezioni. In particolare l'epistemologia della scienza contemporanea si basa su di un
significato di verità differente da quello adottato nel discorso teologico.
Pertanto come prima cosa è importante ricostruire la genealogia del valore semantico della verità, in
modo da identificare il divergere dei significati.
Storia delle idee: i due significati
1. Verità come corrispondenza tra linguaggio e realtà
Quando si traccia la genealogia del significato, procedendo dunque dal più recente al più antico, si
evidenzia per primo il significato di verità come adeguamento della parola alla realtà.
La definizione precisa di verità, secondo questa accezione, è quella di predicato di una proposizione
che dica qualcosa intorno al mondo di cui si fa esperienza. In altre parole, è vera una qualsiasi frase
che descriva uno stato di cose in modo tale da accordarsi con l'esperienza. Ad esempio, se si guarda
un tavolo e si vede che c'è un libro poggiato sopra, e si afferma: “c'è un libro sopra quel tavolo” si
sta dicendo una frase vera. Nel caso invece non si vedesse alcun oggetto posto sullo stesso tavolo, e
ugualmente si affermasse la medesima frase, la frase sarebbe definita falsa.
Questo significato di verità è quello normalmente adottato in ambito scientifico.
La caratteristica distintiva di questa accezione della verità è la sua dipendenza dall'esperienza: si
può stabilire se una frase è vera o meno solo mediante un diretto confronto tra le parole e la propria
esperienza, in particolare con l'esperienza sensibile. In caso non sia possibile operare il confronto, la
verità di una proposizione rimane dubbia o presunta. Ad esempio, nel caso si dicesse “c'è un libro
sopra il tavolo che si trova nel mio salotto”, senza essere presenti nella stanza, ci si potrebbe anche
sbagliare, infatti qualcuno potrebbe aver spostato il libro senza avercelo fatto sapere. Chi ha
pronunciato la frase riteneva di dire il vero, in quanto non sapeva che il libro era stato spostato.
Successivamente, tornato di persona nel luogo fisico dove si trova il tavolo di cui parlava, vedendo
il tavolo vuoto, potrebbe rendersi conto di aver detto qualcosa di errato. Per quanto banale possa
apparire questa relazione tra verità ed esperienza, proprio l'opacità di tale relazione è fonte di
enormi controversie, in quanto non sempre è possibile controllare che le parole dette siano adeguate
alla realtà. Un numero incalcolabile di divergenze di opinioni, anche su argomenti di importanza
vitale, derivano dal non poter controllare la corrispondenza tra parola e realtà.
La scienza moderna si è posta il compito preciso di controllare in maniera sistematica la
corrispondenza tra le affermazioni che compongono il corpo teorico delle discipline scientifiche e il
loro campo di indagine, ossia quella parte di realtà che ciascuna disciplina studia. La letteratura
scientifica, ossia l'insieme di affermazioni intorno alla realtà prodotte dalla ricerca scientifica, viene
costantemente controllata. Il primo pensatore che esplicita questo bisogno di continuo confronto
con l'esperienza sensibile è Bernardino Telesio, seguito da Campanella e Bruno, e successivamente
44
da Cartesio e Galilei, che introdussero il linguaggio matematico in quanto maggiormente adatto a
descrivere con precisione i fenomeni quantificabili della realtà.
Per quanto i metodi di controllo sviluppati nel tempo si siano molto affinati rispetto ai primi
tentativi rinascimentali, la logica di fondo della ricerca scientifica è stata gettata dai pensatori di
quell'epoca.
Tuttavia le origini del concetto di verità come adeguamento tra parola e realtà sono rintracciabili
nell'epoca precedente, primariamente all'interno del pensiero scolastico: “veritas est adaequatio rei
et intellectus”, la verità è la corrispondenza della cosa e dell'intelletto, scriveva Tommaso d'Aquino
nel De Veritate. Concezione probabilmente mutuata dai sui precursori, i commentatori arabi ed
ebrei delle opere aristoteliche. Proprio nella filosofia di Aristotele si trovano le idee che hanno
costituito la matrice da cui è stata elaborata questa concezione di verità. Nel libro IV della
Metafisica, Aristotele fonda la conoscenza sul principio di non-contraddizione. Sostenendo
l'impossibilità che due affermazioni contraddittorie siano entrambe vere, allo stesso tempo e sotto il
medesimo profilo. Due affermazioni in contraddizione55 tra loro possono essere vere in momenti
diversi, o riguardo diversi aspetti, ma non nelle medesime circostanze. In tal modo Aristotele lega
implicitamente il concetto di verità al linguaggio, più precisamente alla proposizione, ossia alla
frase dotata di contenuto conoscitivo, la frase che dichiara qualcosa56. Sfruttando questa concezione
di verità proposizionale Aristotele costruisce il suo sistema di logica, che è la base metodologica di
tutte le discipline scientifiche prodotte dalla cultura occidentale. Il sistema logico-deduttivo
tracciato per la prima volta da Aristotele si configura come lo studio degli enunciati assertori, ossia
dell'attribuzione di un predicato ad un soggetto. Pertanto ogni forma di verità proposizionale, di cui
la verità come corrispondenza tra parola e realtà è la forma più conosciuta attualmente, implica
l'attribuzione di predicati a dei soggetti. Senza la costruzione di enunciati dichiarativi non c'è alcuna
verità. Il campo di azione di questa concezione di verità si riduce all'esclusione reciproca di certi
predicati in relazione a ciascun soggetto. L'esclusione viene operata in ultima analisi sempre in base
all'esperienza57. Il limite maggiore di questa verità è la sua totale estraneità rispetto al futuro: non si
può stabilire se una dichiarazione concernente il futuro sia vera. Solo quando il futuro sarà
diventato passato è possibile sancire la verità di una proposizione. Pertanto sostenere che un
determinato fatto avverrà, non rientra in questo significato di verità. Argomenti come la seconda
venuta di Cristo non rientrano in questo tipo di verità, in quanto non ancora avvenuti.
Questo significato di verità riveste una grande importanza, tuttavia non esaurisce il valore
semantico della parola. Un secondo significato va aggiunto per completare il quadro. Si tratta della
verità come svelamento, manifestazione.
2. Verità come svelamento
Il secondo modo di usare la parola verità è radicalmente diverso dal primo. Si tratta della verità
come aletheia58, ovvero come svelamento. Consiste nel diventare coscienti di qualcosa di
precedentemente ignoto; è l'aprirsi della mente al nuovo, ed è frutto di un'attività conoscitiva
esplorativa. Qualora si osservi l'esperienza secondo degli stereotipi, questo tipo di verità diventa
irraggiungibile. È la verità di coloro che non ritengono di “sapere già”, piuttosto è la verità
55 Due affermazioni sono contraddittorie quando una afferma A, e l'altra afferma Non-A. Ad
esempio le frasi: “Rex è un cane”, e “Rex non è un cane”, sono tra loro contraddittorie.
56 Si noti che certe frasi non possono essere vere o false secondo questa logica. Ad esempio un
augurio, che si configura come un semplice atto linguistico, non come una descrizione della
realtà: augurare “buon giorno” è una forma di cortesia, non una descrizione di come stia
andando il giorno.
57 Anche se non necessariamente attraverso l'esperienza dei sensi, da questo punto di vista anche
l'impossibilità logica è un dato dell'esperienza.
58 Parola composta da: Alfa privativo + la radice lethe, parola greca traducibile come “oblio”.
45
dell'infanzia, dello scoprire e del guardare con occhi nuovi alle cose, anche alle cose che già erano
conosciute.
La verità come svelamento precede l'esperienza. Questo è il suo aspetto di radicale divergenza
rispetto alla verità come adeguamento: l'adeguamento segue sempre l'esperienza, lo svelamento la
precede sempre. Pertanto è una verità dipendente dal soggetto59, ossia dai modi in cui ciascuno è
capace di guardare alla propria esperienza. Costituisce il modo di comprendere l'esperienza.
In altri termini, la verità come adeguamento è una risposta alla domanda “che cosa è questo?”,
mentre la verità come svelamento è una risposta alla domanda “che cosa esiste? Che cosa è
possibile?”. Ha a che fare con il senso dell'esperienza, non con i dati della stessa. Inoltre si tratta di
una verità primitiva, che viene prima rispetto all'adeguamento. Dallo svelamento dipendono i dati
dell'esperienza, in quanto sono colti dal soggetto attraverso la sua apertura di fronte alla realtà. È
questa capacità di conoscere che orienta il modo in cui si fa esperienza. Così che la verità come
svelamento presenta aspetti soggettivi che condizionano la percezione della realtà stessa: di come la
viviamo e la comprendiamo. Dal momento che si tratta di una verità come apertura al conoscere,
dal punto di vista linguistico è definibile come la connessione di predicati a soggetti. Questa
seconda accezione di verità è disponibile al futuro, crea gli enunciati che descrivono futuri possibili.
Mentre la verità come adeguamento è una verità selettiva, la verità come svelamento e apertura è
creativa e generativa di nuovi significati.
La verità come adeguamento tende a produrre pregiudizi, è conservativa. La verità come
svelamento tende ad una certa ingenuità, non classifica ed è innovativa. Ad esempio, una persona
guidata solo dall'adeguamento tenderà a descrivere nuove esperienze con enunciati
precedentemente costituiti, ossia ri-utilizzando i medesimi criteri di esclusione dei predicati. In tal
modo, se avrà stabilito, attraverso esperienze precedenti, che una data porzione dell'umanità
presenta spesso un dato comportamento (es. gli italiani sanno cucinare, gli svizzeri sono puntuali
ecc), continuerà a tenere per vera la proposizione fino a quando nuove esperienze non abbiano
dimostrato il contrario. Chi è guidato dallo svelamento si rapporterà ad ogni situazione in maniera
del tutto nuova, senza applicare enunciati precedentemente validati. Questo atteggiamento offre
continue possibilità di scoprire qualcosa di nuovo, ovviamente anche quando questo qualcosa è
spiacevole.
Entrambi i tipi di verità affrontano la complessità del reale in maniera imperfetta, e tuttavia utile ed
irrinunciabile.
Seguendo la storia delle idee, la verità come aletheia è stata tematizzata nell'antichità: attraversa la
storia della filosofia occidentale da Platone fino ad Heidegger. In particolare trova la sua radice nel
concetto platonico di idea, intesa come entità astratta, esistente indipendentemente dalla realtà
sensibile, e disponibile alla mente umana attraverso la partecipazione al logos, concetto tipico della
filosofia greca, tradotto con la parola “verbo”, che sta ad indicare la conoscibilità della realtà
tramite il linguaggio. Quindi idea come “mattone fondamentale” del pensiero, espressione di una
razionalità universale del cosmo. Le forme geometriche e i numeri sono parte di questa razionalità.
Infatti, più che entità fisiche, si tratta di costanti universali, che consentono di fare esperienza, nel
senso di conoscere una realtà dotata di regolarità anziché trovarsi nel caos.
Secondo questa impostazione, la verità, lo svelamento, non consiste in una credenza, e nemmeno in
una certezza, espressa attraverso enunciati; invece consiste nell'intelligibilità della realtà attraverso
il logos, ossia il linguaggio. Quindi verità è dare senso: aprire a nuovi significati.
Interessante notare come durante il I secolo d.c. questa accezione di verità fosse maggiormente
diffusa, rispetto al concetto di adeguamento, che è stato tematizzato in epoche successive. In
particolare il Vangelo di Giovanni risulta debitore, fin dai primi versi, di concetti provenienti dal
pensiero greco-platonico. Pertanto sarebbe fuorviante intendere il significato della parola verità,
presente nel testo evangelico, come adeguamento. Secondo il Vangelo di Giovanni la verità è ciò
59 Questo non toglie che il soggetto sia cambiato dall'esperienza, lo svelamento progredisce
proprio grazie alla capacità umana di avere una mente plastica.
46
che è portato dal verbo: non è verità in quanto creduta dalle persone, piuttosto sono le persone
chiamate a credere alla verità. Ovvero non è verità in quanto proposizione controllata logicamente a
partire dall'esperienza, è invece una verità radicale, che pone in essere l'esperienza stessa. È una
verità che svela in quanto fa esistere.
Fedi e persone di fronte ad una verità plurale
Se da un lato risulta chiaro che entrambi i significati di verità siano fondamentali, dall'altro è
importante interrogarsi su quali relazioni ci siano tra le due accezioni.
È evidente che la Verità-Adeguamento (VA) esprime la sua funzione nell'accertamento dei fatti.
Mentre la Verità-Svelamento (VS) la esprime nell'elaborazione dei significati. Questo comporta che
la VA sia intersoggettiva, poiché un fatto è tale proprio per il suo rimanere una costante
dell'esperienza tra persone diverse, altrimenti si tratterebbe di una interpretazione dell'esperienza e
non di un fatto. La dimensione intersoggettiva dipende da qualche riferimento esterno osservabile e
condivisibile60. Si noti tuttavia che, come osservato da Kierkegaard, “Ciò che è la verità può in
bocca dell'uno o dell'altro diventare non-verità” (1972, p 367). Lo stesso concetto viene elaborato
anche da Bonhoeffer: “L'asserto è vero come risultato, ma come presupposto è un autoinganno.”
(2008, p36). Questo fenomeno dipende dalla dipendenza della VA da eventi passati. In pratica,
quando ci si riferisce a qualcosa che non sia fattuale, e quindi già avvenuto, la verità non può essere
relativa ad un riferimento esterno. Può tuttavia essere relativa ad un elemento interno al soggetto
che parla. Qui il tema della verità entra a contatto con il tema della speranza e della progettualità. Si
tratta di aspetti legati ai soggetti, in particolare alla volontà e alle conoscenze della persona che
spera o progetta. Trattandosi di aspetti soggettivi, è un campo in cui è la VS a svolgere funzione
veritativa.
Alcuni esempi per chiarire:
Se mi rivolgo al domani, posso fare una previsione o un'ipotesi: domani pioverà. Dal punto di vista
della VA il fatto consiste nell'aver fatto un'ipotesi, quello è il valore di verità che è possibile
enunciare. Qualsiasi asserto riguardante il contenuto dell'ipotesi, “pioverà domani”, non è
predicabile né vero né falso fino al giorno successivo.
Se la sera e prima dell'alba guardo il cielo, posso dire: “la stella della sera è più bella della stella del
mattino”. Si tratta di una frase dotata di senso, dipendente da un gusto personale, diverse persone
potrebbero convenire con me, e trovare che quanto dico sia “vero”. In realtà la stella del mattino e
della sera sono uno stesso astro, in effetti si tratta di venere. Ma questo non è rilevante per il senso e
la sincerità della mia frase: in funzione della VS, da un medesimo riferimento esterno ne traggo
esperienze diverse.
Allo stesso modo: se decido di fare X il giorno Y, per la VA il fatto riguarda solo l'atto di decidere,
che è già avvenuto, non il contenuto della decisione. Invece, l'essere diventato cosciente della
decisione, è in funzione della VS, e riguarda proprio i contenuti, in quanto so di voler fare X (ad es.
finire di scrivere questo paragrafo). Se non fossi consapevole del contenuto della decisione, potrei
asserire: ”ho deciso, ma non so che cosa”, che è un enunciato privo di senso, anche se corretto dal
punto di vista della VA. Questo esempio mette in chiaro come la VA senza VS sia del tutto vuota di
significati, anche quando formalmente corretta.
Un ultimo esempio, tratto dalla letteratura fantascientifica, per mostrare quanto sia rilevante la VS e
come il valore di verità proprio dello svelamento di nuovi significati non sia direttamente legato a
riferimenti esterni, ma dipenda da come i soggetti colgano questi riferimenti durante l'esperienza:
partendo da una prospettiva biblica, è possibile affermare che un essere senziente, dotato di
conoscenze e poteri immensi, sia venuto sulla terra e abbia creato la vita, inclusi gli esseri umani.
Abbia di tanto in tanto comunicato con alcuni di loro, sia attraverso sogni sia con parole e visioni,
infine abbia scelto di incarnarsi in un essere umano qualche anno prima della nostra epoca, dalle
60 Mi riferisco ad una concezione ontologica di tipo realista.
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parti del medio-oriente. Ovviamente, seguendo alcuni pessimi pseudo-storici ma ottimi autori di
fantascienza, quest'essere potentissimo e più vecchio del tempo stesso non sarebbe altro che un
alieno di qualche universo lontano. Si badi bene che in questa affabulazione gli elementi storici
sono identici a quelli biblici. Da un punto di vista dei fatti accertabili, il valore di VA di queste
storie fantasiose è identico a quello di alcuni passi biblici. Infatti molti programmi fintamente
culturali ripropongono ciclicamente questo tipo di cose, assieme a piramidi aliene ecc. L'abilità di
chi scrive questo genere di racconti sta proprio nell'intrecciare gli stessi elementi fattuali in una
trama del tutto diversa, che quindi offre un valore di verità-svelamento differente.
L'esempio qui sopra è fantascientifico, tuttavia molte incomprensioni tra fedi cristiane hanno la
medesima origine: da una stessa figura storica, si traggono significati molto diversi. Ogni
significato è riconosciuto quale verità dal gruppo che lo porta avanti. Si pensi al dibattito, vivo negli
Stati Uniti soprattutto prima dell'ultima elezione presidenziale, riguardante il seguente argomento:
se la Chiesa di Gesù Cristo e dei Santi degli Ultimi Giorni sia o meno una chiesa cristiana 61.
Secondo i membri e i dirigenti di quella stessa chiesa, la risposta era certamente si: considerano la
propria chiesa una denominazione cristiana. Secondo una parte dei gruppi protestanti conservatori
americani, la risposta è stata no: non accettano come cristiani i membri di quella chiesa, adducendo
come motivazione proprio alcune differenze nella concezione della Divinità. Infatti tale chiesa non
promuove una concezione trinitaria, invece predica un Padre dotato di corpo fisico, così come il
Figlio, oltre a presentare una lunga serie di differenze nella visione dei rapporti tra Dio e umanità. Il
risultato è che l'appartenenza al Cristianesimo di tale chiesa, che pur riconosce Gesù Cristo come
Salvatore, viene messa in discussione da molti gruppi cristiani.
In generale tutte le divisioni nel Cristianesimo dipendono non da VA, ma da VS: a partire da una
medesima fonte scritturale, si sono moltiplicati i significati.
Di certo, all'interno delle religioni la VS assume un ruolo di primo piano rispetto alla VA. Sia in
relazione agli aspetti escatologici, del tutto fuori dalla possibilità di verificazione tramite
adeguamento, sia per gli insegnamenti che si traggono da fatti storici, in quanto non sono i semplici
fatti a costituire il fulcro della narrazione biblica. In proposito si pensi ai libri storici dell'Antico
Testamento, non è importante sapere quali fossero state le battaglie, quando e dove fossero
avvenute e i modi di combattimento, piuttosto quei testi hanno lo scopo di mostrare l'azione Divina
in favore del Popolo Eletto. Naturalmente un archeologo può benissimo prendere i libri storici per
andare a ricercare gli avvenimenti precisi che vi sono dietro. Questi studi sono stati portati avanti, e
i risultati hanno spesso messo in luce delle importanti distorsioni della Scrittura in relazione ai fatti
(Ska, 2003). In particolare il libro di Giosuè presenta una storia in chiave epica, poco
corrispondente sia agli scavi archeologici, sia ai successivi libri storici (Ska, 2003).
In maniera simile si può ragionare riguardo al libro di Giobbe: non sappiamo se si trattasse di un
personaggio realmente esistente, né conosciamo l'autore del libro. I dialoghi al suo interno
difficilmente sono una trascrittura “verbatim” di una conversazione. Anche se l'episodio fosse stato
ricostruito da un sapiente, sulla base di una testimonianza o di un racconto, e anche se l'episodio
fosse inventato, manterrebbe comunque il suo significato e la sua possibilità di trasmettere delle
verità. Pretendere che si tratti per forza di una storia raccontata secondo i fatti, in ogni minima
parola, oppure considerarla una falsità, sarebbe come scoprire che Pierino non è un preciso
personaggio storico, e quindi mettersi a gridare “al lupo” in quanto si ritiene la storia non vera!
Ovvero, per fare un esempio più colto, sarebbe come sostenere che la Pietà di Michelangelo non
rappresenti veramente Maria, in quanto la donna scolpita ha abiti tipici dell'Italia rinascimentale e
non del medio-oriente del I sec.
A questo punto una domanda diventa pressante: se la VA dipende dal riferimento intersoggettivo
che è possibile controllare attraverso l'esperienza, da cosa dipende la VS?
Trattandosi di una verità pre-esperienza e radicale rispetto al soggetto, non può dipendere da altro
se non dal soggetto stesso. È una verità dipendente dalle persone. Interessante notare come, in un
61 Il candidato del partito repubblicano era infatti un membro di quella particola chiesa.
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linguaggio neo-platonico, si parla di ipostasi, indicando quello di immutabile che soggiace alla
realtà così com'è conosciuta. Il termine ipostasi è stato anche tradotto da Tertulliano con il latino
persona. Da cui l'italiano “persona”. Quindi persona assume qui un significato basilare: persona è
quell'apertura che indirizza il modo di relazionarsi con il mondo di ciascun individuo. È ciò che sta
alla base della creazione dei significati.
Questa caratteristica della VS, di essere dipendente dai soggetti, ne rende la comunicazione limitata.
La semplice enunciazione non trasmette il suo valore di verità. Il riconoscimento della verità svelata
è limitato dalle ipostasi, ossia tutte quelle disposizioni mentali 62 che sono proprie di ogni persona.
Solo quando due o più persone condividono, almeno in parte, le medesime ipostasi, sono in grado
di scambiarsi, almeno in parte, delle verità.
Le verità che abbiamo in mente sono il prodotto dell'azione delle ipostasi. Non possiamo
semplicemente scegliere cosa troviamo vero e cosa no. Inoltre ci sono modi virtualmente illimitati
di essere una persona, e quindi di affrontare la vita e di cogliere la verità. Quello che per qualcuno è
epifania, chiarezza, per un altro è assurdità.
Riprendendo Gadamer (1983), si può affermare che ciascuno si muova in un orizzonte di senso, ma
i diversi orizzonti possono fondersi, ampliarsi. In base a quanto esposto qui sopra, l'ampliamento
del proprio orizzonte, o la sua trasformazione, avviene in virtù di una modificazione della persona,
ossia delle ipostasi che la caratterizzano. Fin quando una persona non cambia, non è in grado di
cogliere le verità che si trovano fuori dal suo orizzonte di senso.
La capacità di cambiare, di essere plastici, è essenziale per operare quella riforma della mente che,
secondo lo stesso Apostolo Paolo, conduce allo spogliarsi dell'uomo vecchio per rivestire l'uomo
nuovo (Ef. 4). Non ci si stupisca se la persona naturale non è in grado di cogliere una verità
Evangelica, non possa espandere il proprio orizzonte di senso con il Vangelo. Il lavoro di
rispecchiamento dell'Immago Dei è la pratica cristiana per eccellenza secondo Meister Eckhart, i
cui scritti iniziano la riflessione sulla Bildung, termine tedesco derivante dalla radice “bild” che
significa immagine. Bildung viene tradotta in italiano con la parola “formazione”, nell'accezione di
“dare forma”, ed è al centro della riflessione pedagogica contemporanea. Quindi una radice
fondamentale del pensiero pedagogico moderno si trova nella riforma della mente proposta da
Paolo: alla base dell'educazione vi è la capacità di cambiare se stessi per cogliere nuovi significati.
In effetti, ogni volta che si tenta di comunicare una VS, si sta offrendo un'opportunità di
cambiamento. Pertanto, al fine di consentire la comunicazione della VS, è utile porsi in dialogo con
l'altro secondo una modalità educativa, ossia con l'intenzione di insegnarsi reciprocamente.
Comunicare una verità plurale
Dal momento che gli esseri umani sono capaci di cambiare, e lo fanno soprattutto attraverso il
contatto con altre persone, vi sono molti studi63 su questo tema riguardanti sia i neuroni specchio sia
le implicazioni educative delle relazioni interpersonali (Rizzolati, 2006 e Feuerstein, 2006), ne
segue che è possibile comunicare una VS, dando opportunità a chi ci ascolta di espandere il proprio
orizzonte di senso, proprio grazie alle relazioni umane. Si noti come la comunicazione della VA
avviene secondo modalità diverse da quella della VS. Infatti la prima è comunicata in quanto viene
provata, ossia vengono fornite prove a sostegno, e questo è sufficiente; la seconda invece va offerta
e insegnata.
È chiaro che, se si comunica la VS come se si trattasse di VA, si commettono alcuni errori
comunicativi:
62 La definizione di ipostasi è molto ampia, essa comprende: modelli di pensiero, spesso appresi
durante le prime fasi della vita; conoscenze pregresse, convinzioni più o meno profonde e
consapevoli; aspetti emotivi, quali paure e speranze.
63 Con un misto di orgoglio e umiltà cito anche la mia tesi di dottorato: “Apprendere
l'intelligenza”, che copre questo argomento in diversi capitoli.
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il primo è sicuramente la mancanza di umiltà: dal momento che quando si comunica una VS non ci
si basa su evidenza esterna, piuttosto si sta insegnando qualcosa atto a cambiare chi ci ascolta, è
ottima norma seguire i consigli di Proverbi di evitare gli occhi alteri (6:17) e di usare dolcezza delle
labbra (16:21).
Dal primo punto deriva il secondo: non accorgersi della mancanza di evidenza per chi è diverso da
noi. Una persona diversa, soprattutto con un differente retroterra culturale, coglie quanto le viene
detto da un punto di vista diverso dal nostro. Stupirsi che le persone “non capiscano, eppure sono
intelligenti”, è sintomo di un atteggiamento che manca di empatia. In particolare, per quanto
riguarda le materie di religione, è importante ricordare, come ha sottolineato Rice (1985) che: “Le
prove su cui la fede si fonda non sono mai irresistibili, non ci obbligano a decidere in un senso o
nell'altro. Esse ci permettono semplicemente di prendere una decisione in modo intelligente. Questo
limite della fede è importante perché preserva la nostra libertà di scelta.” (p189). Si noti che questo
non implica solo una dicotomia credere/non-credere, permette diverse fedi e relativi sistemi di
credenze. Se non si accetta questa situazione riguardo alla VS, allora il problema nella
comunicazione è una mancanza di tolleranza.
La scarsa tolleranza è, a mio avviso, il risultato dello spettro dell'insicurezza che porta le persone ad
una visione autoritaria della verità. L'unica spiegazione, che io sia in grado di trovare,
all'atteggiamento di quelli che pretendono che tutti la pensino come loro, è una forma di paura. In
fondo, che problema c'è se il mio vicino ha idee e convinzioni diverse dalle mie? Succede sempre,
se tutti siamo tolleranti, magari anche curiosi, tali divergenze di opinioni e conoscenze possono
essere un arricchimento.
Al di fuori di considerazioni psicologiche, la capacità di essere disposti ad imparare da altre persone
e contemporaneamente ad insegnare loro è la chiave per mettersi in dialogo.
Essere pronti ad apprendere dall'altro non implica affatto rinunciare né alle proprie convinzioni né
alla propria fede: implica invece essere capaci di mutare le proprie credenze, e di saper cogliere
punti di vista diversi e nuove verità. Questo ci porta a sottolineare la disgiunzione tra credenza fede
e verità, che molte persone tendono ad appiattire su di un unico significato: le credenze son ciò che
è creduto; spaziano dall'opinione al voler credere. La verità è invece qualcosa o di provato
dall'esperienza, ed è intersoggettiva quando riguarda i fatti; ovvero è uno svelamento che porta
nuovo senso. Definire la fede è più complesso, non serve farlo qui, ora è importante sottolineare che
ci sono sia verità sia credenze che non hanno a che vedere con la fede. Ad esempio: credere che “la
persona X sia interessata all'acquisto di una casa”, è una credenza e non ha alcuna relazione con la
fede; oppure, la frase “a zero gradi centigradi l'acqua trasforma in ghiaccio”, è vera, alle giuste
condizioni di pressione, e non ha nulla a che vedere con la fede. Pertanto ritenere che fede, verità e
credenze siano la stessa cosa è impreciso.
Questo si può riscontrare anche su credenze e verità riguardanti una medesima fede: capita spesso
che i membri di una stessa comunità, pur condividendo la stessa fede, abbiano delle credenze e
delle opinioni diverse riguardo numerosi aspetti, anche aspetti centrali per la loro religione, e
stimino come veri enunciati differenti, anche trovandosi in contraddizione tra loro. Degli esempi
importanti a livello internazionale sono costituiti dalla teologia della liberazione in seno alla Chiesa
Cattolica, e al dibattito, molto forte in Nord America, sul darwinismo e sul disegno intelligente. In
entrambi questi casi le persone coinvolte “credono in” uno stesso Dio e in uno stesso Libro, tuttavia
“credono a” fonti diverse, e non concordano su punti importanti, quindi le persone coinvolte
“credono che”64:
nel caso della teologia della liberazione, che il concetto di salvezza vada applicato anche a livello
64 “Credere che” esprime un'opinione, una convinzione o una credenza in generale; “credere in”
esprime una fede; “credere a” esprime fiducia verso qualcosa. Ad esempio è possibile credere
agli alieni, ossia credere che esistono, tuttavia ci sono certe persone che credono negli alieni, si
tratta delle cosidette UFO Religions, fenomeno inizato con il Raëlismo durante gli anni '70 del
secolo scorso.
50
sociale (Boff, 1977), in questo riprendono argomenti di tipo marxista e li inseriscono in un'ottica
cristiana, mentre altre correnti di pensiero cattolico ascrivono la Salvezza ad una realtà non terrena,
e si tengono ideologicamente molto distanti dal Marxismo.
Invece, nel caso dei creazionisti, essi “credono che” non vi sia posto per una visione darwinista,
perché il darwinismo assume la morte degli organismi come sempre esistita, i creazionisti credono
quindi che Genesi 1 e 2 non possa essere armonizzata con la teoria evoluzionista in quanto essa
concepisce la morte come strumento fondamentale per creare la biodiversità; al contrario, il
creazionismo crede che la morte non sia causata da Dio, ma sia il prodotto della ribellione (Gibson,
2012) avvenuta a creazione ormai ultimata; invece, chi propone il disegno intelligente vede
l'evoluzione naturale come il mezzo attraverso cui Dio ha creato gli organismi viventi.
Pur condividendo la stessa fede, rispettivamente una fede cattolica per il primo esempio ed una fede
evangelical per il secondo, le divergenze di opinione e di visione sono palesi e rilevanti. Nonostante
ciò, all'interno del Cattolicesimo si è riusciti a gestire un dialogo tra teologia della liberazione e
correnti di pensiero ortodosse. L'attuale Pontefice, pur avendo preso le distanze dalla teologia della
liberazione ed essendosi sempre schierato al di fuori di essa, è attento a manifestare aspetti di
frugalità che sono coerenti con pratiche ecclesiastiche predicate proprio dalla teologia della
liberazione. Da notare che, prima di assumete l'incarico di Pontefice, Papa Francesco ha gestito il
dialogo tra proponenti e avversari della teologia della liberazione in America del Sud.
Al contrario, il dibattito tra creazionisti ed evoluzionisti non sta mostrando i segni di un dialogo
equilibrato, piuttosto è rimasto uno scontro su posizioni arroccate. L'ironico risultato è che persone
appartenenti alla medesima chiesa non solo non sono in grado di imparare nulla le une dalle altre,
ma a volte hanno concluso i loro dibattiti in un aula di tribunale. E tutto questo “credendo in” uno
stesso Salvatore, ma valutando in maniera diversa le fonti della ricerca scientifica, e quindi
“credendo a” la storia naturale nel caso di chi propone l'argomento del disegno intelligente,
“credendo a” un'interpretazione di Genesi nel caso dei creazionisti.
In conclusione è possibile sostenere che la capacità di accogliere persone diverse all'interno di un
medesimo gruppo sia direttamente in relazione con la tolleranza. Senza tolleranza si produce una
frammentazione sociale che conduce alla chiusura mentale: si finisce per raggrupparsi in base alle
credenze, e si parla solo con persone che la pensano allo stesso modo, illudendosi così che certe
cose siano evidentemente vere poiché così pensano tutti quelli con cui ci si confronta. Scordandosi
che tutti la pensano allo stesso modo solo in quanto chi ha opinioni diverse non è presente. In questi
casi non si comunica realmente qualcosa, si ripete a se stessi in coro. Parlare di autentica
comunicazione significa parlare di accoglienza.
Una riflessione epistemologica: la fede e il metodo scientifico
Il dibattito creazionismo/evoluzionismo introduce il tema più ampio di fede/scienza, su cui voglio
spendere alcune parole.
Riprendendo quanto scritto nel paragrafo sulla verità come adeguamento del linguaggio
all'esperienza: il fenomeno culturale che viene comunemente definito scienza è costituito da
comunità di ricerca, dalle loro pratiche e i relativi risultati, espressi sotto forma di letteratura
scientifica. Quello che distingue le comunità di ricerca e il loro lavoro non è un'autorevolezza
veritativa, piuttosto è un sistematico controllo degli enunciati. È quindi lecito domandarsi come
avvengano questi controlli e se siano efficaci.
Riguardo al come la risposta può essere appena accennata, in quanto vi sono moltissimi metodi,
specifici per ciascuna disciplina. Tuttavia è possibile tracciare un quadro, anche se molto generale.
Per prima cosa la ricerca si basa sull'onestà intellettuale: chi falsifica i dati commette il peccato più
grave che possa esistere all'interno della comunità scientifica. Quando si trovano dei dati, per
quanto scomodi essi siano, vanno comunicati così come sono, anche se vanno contro alle proprie
convinzioni. Lo scambio aperto di dati è essenziale, così il controllarsi a vicenda, e quindi serve una
51
totale trasparenza: tutti i risultati devono poter essere replicabili da altri ricercatori. Questi sono gli
aspetti etici del metodo scientifico, e sono irrinunciabili anche se, come fece notare Rorty (1991,
1993) raramente tematizzati durante le riflessioni sull'epistemologia.
Vi è poi un modello di razionalità alla base della ricerca:
campionatura/misurazione/intervento/misurazione/documentazione. Non si tratta di uno schema
logico universale, solo molto diffuso e generalmente accettato dalle varie comunità. In pratica, il
primo passo consiste nel selezionare un campione, ossia uno o più gruppi di entità da studiare. Il
secondo, nel misurare una serie di variabili relative al campione. Il terzo nell'intervenire, nel portare
un determinato tipo di azione sul campione. Quarto, rimisurare le variabili per vedere cosa è
cambiato. L'ultimo passo non è necessariamente temporalmente distinto dall'intervento, può essere
contemporaneo. Infine è importante documentare puntualmente tutta la ricerca.
Il modello di razionalità è applicabile a moltissimi campi: il campione può essere una serie di
cementi armati di diverso peso e spessore, o delle persone di diversa età, o delle piante di melo di
diverse varietà; la misurazione può essere relativa all'integrità strutturale, o ai tempi di reazione ad
uno stimolo visivo, o all'altezza e al numero di frutti prodotti; l'intervento può essere una
simulazione di terremoto, o 20 ore di training dei riflessi attraverso videogames, o la coltivazione a
diversi tipi di altitudine; la rimisurazione sarà di nuovo sulle stesse variabili e indicherà se e quanto
sono cambiate; tutto deve essere documentato, può essere fatto attraverso immagini al microscopio,
o con una relazione verbale, o usando un linguaggio matematico e via dicendo.
Il modello è sempre lo stesso, l'efficacia dipende dalla precisione adottata: se il campione non è
accuratamente selezionato si mettono sullo stesso piano entità diverse, che rispondono in maniera
non uguale a certi stimoli e azioni, inoltre se non è abbastanza numeroso non risulta statisticamente
significativo; se le misurazioni non sono precise, o sono troppo poche, non si sarà in grado di
valutare l'impatto dell'intervento; se l'intervento non è perfettamente uguale a se stesso, e del tutto
isolato da altri possibili fattori di disturbo, non si saprà se il cambiamento nel campione è correlato
all'intervento o ad altro; se la documentazione non è esauriente, anche qualora tutto il resto fosse
fatto bene, i dati saranno scarsamente replicabili e si dovrà rifare tutto.
E se tutto viene eseguito alla perfezione, abbiamo la verità?
Durante l'epoca moderna-contemporanea la risposta a questa domanda è mutata diverse volte.
Durante il periodo positivista del '900, si pensava in fondo di si, che potesse esserci una definitiva
asserzione sulla realtà. Le cose sono cambiate in seguito agli studi di Popper (1969) e a quelli di
Kuhn (1979). Popper ha letto tutto il metodo scientifico secondo la logica congetture/confutazioni:
chi fa ricerca si accosta all'esperienza con un'ipotesi, attraverso l'esperimento cerca di confutarla; se
non gli è possibile, allora la ritiene corroborata, ossia la tiene per buona fino a quando un altro
esperimento non la confuti. In tal modo la scienza si basa sui tentativi di falsificare, non di
verificare. Ossia Popper sostenne che, attraverso il confronto con l'esperienza, sia possibile stabilire
che un enunciato non sia vero, quindi falsificarlo, ma non che un enunciato sia vero. Popper
riprende, in maniera critica, l'idea probabilistica di Hume (1740), il quale fece notare che vedere i
cigni tutti bianchi non ci consente di affermare “tutti i cigni sono bianchi”, in quanto potrebbero
essercene di blu altrove, magari in un luogo remoto dove nessuno li ha mai visti. Oppure, il fatto
che ogni mattina sorga il sole, non rende assolutamente certo che anche domani sorgerà, in effetti
potrebbe esserci una catastrofe cosmica. Ovviamente è estremamente probabile che domani il sole
sorgerà, tuttavia affermarlo potrebbe non essere vero, ossia adeguato a quanto accadrà. Quindi
Popper afferma che la ricerca possa solo stabilire se un enunciato non è vero. In seguito ai suoi
studi, l'epistemologia ha avuto una svolta probabilistica e relativista, addirittura radicalizzando il
pensiero Popperiano. È infatti logico ritenere che, come sia impossibile verificare una proposizione,
allo stesso modo non sia possibile essere del tutto certi che un enunciato sia falso: anche la
falsificazione è probabilista.
Oltre la posizione di Popper si trova quella di Kuhn, il quale è partito dall'esame della storia della
scienza e ha notato dei periodi di grossi cambiamenti teorici, seguiti da altri relativamente stabili.
52
Secondo Kuhn i periodi stabili corrispondono ai tentativi di falsificazione, ossia a periodi in cui gli
esperimenti corroborano le congetture, e quindi non c'è bisogno di cambiare le proprie ipotesi.
Tuttavia, quando una serie di esperimenti mette in crisi degli enunciati importanti, si assiste ad una
rivoluzione scientifica: si cambia paradigma di pensiero. Il concetto di paradigma scientifico è la
trasposizione della VS in ambito della ricerca: un paradigma è quello sfondo teorico a partire da cui
si formulano ipotesi e si interroga l'esperienza. L'esempio di cambiamento di paradigma
storicamente più famoso è la rivoluzione copernicana: non più l'idea tolemaica-medievale della
centralità della terra con il sole e tutti gli astri che le ruotano attorno, ma il contrario. Se per noi è
del tutto ovvio che sia così, è tuttavia utile ricordare che percettivamente sembra che sia il sole a
ruotare attorno a noi. Se ci si basasse solo su quello che si vede, potremmo affermare che
l'enunciato “il sole gira attorno alla terra” sia vero. E per molti secoli si è pensato così. Pareva che
l'enunciato fosse adeguato all'esperienza. In effetti, immaginando due oggetti nello spazio vuoto che
si passano vicini muovendosi in direzione contraria, e che ci si trovasse su di uno di questi due
oggetti, si osserverebbe l'altro passarci vicino ad una velocità X, ma non si potrebbe sapere se è
l'oggetto su cui stiamo noi a muoversi a velocità X, o è l'altro, oppure se entrambi si muovono e X è
la somma della velocità di entrambi gli spostamenti. Il moto del nostro pianeta però non è
altrettanto regolare, gli astronomi avevano notato una serie di irregolarità celesti che diventavano
sempre più complesse da calcolare. Copernico ha ri-proposto un sistema con sole al centro, che era
matematicamente più semplice da descrivere. La sua è stata un'intuizione data da un cambiamento
di concezione65, non dal controllo tramite esperienza. Si tratta di un ottimo esempio di verità
svelamento all'interno della storia della scienza. Ovviamente la nuova concezione veritativa viene
in seguito controllata con l'esperienza, durante la fase di scienza normale.
Da queste concezioni emerge una comunità di ricerca capace di sfruttare gli errori, che
immancabilmente commette, per affinare la propria capacità di raggiungere sia nuove concezioni,
sia enunciati controllati e molto probabilmente veri. Rimane ad ogni modo un relativismo
epistemologico di fondo.
Per quanto riguarda la dimensione della fede, rivolta al futuro e a qualcosa che non si vede, quindi
oltre l'esperienza sensibile, è chiaro che i criteri di controllo siano diversi. Ma sono possibili dei
controlli sul valore di verità svelamento?
Accontentarsi di ritenere che VS sia vera solo in quanto creduta sarebbe errato. Questo in quanto si
può benissimo credere “che, a, in” cose non vere. Per fare degli esempi: credere nelle divinità
olimpiche non le rende vere, così credere nella reincarnazione, ma anche credere che un certo
popolo sia la razza superiore non è minimamente sufficiente per concludere che sia vero. Eppure in
passato si è creduto in altri dei, nel secolo scorso il dibattito sulle razze umane ha accompagnato
deliri politici, e ancora oggi milioni di persone credono nella reincarnazione. Dunque com'è
possibile valutare una verità che è soggettiva? Una risposta onesta è che non si può controllare
direttamente, e stabilire cosa sia vero secondo aletheia e cosa no. Tuttavia la corrente filosofica del
Pragmatismo (Peirce, 1905) ha proposto una soluzione ingegnosa: osservare gli effetti della
presunta verità. Secondo questa prospettiva, la differenza tra illusione e verità si trova nei loro
effetti. Se uno svelamento genera del bene nelle persone, allora è considerabile verità, non che
debba esserlo per forza ma è del tutto plausibile che lo sia. Quindi è del tutto lecito tenere per vero
tale svelamento. Al contrario, quando il risultato è un danno, specie un danno sociale, tale
svelamento non è da considerarsi vero. Chiunque lo consideri tale danneggia la società. Il giudizio è
quindi di natura etica e pratica. Ne consegue che ritenere vera la reincarnazione è lecito, nella
misura in cui non si danneggia nessuno; ritenere di appartenere alla razza superiore non è lecito, in
quanto è dannoso per l'essere umano. La proposta pragmatista ricalca il concetto evangelico di
riconoscerli dai loro frutti (Mat 7). La domanda pragmatista a proposito del Cristianesimo è la
65 Una delle ipostasi che reggeva il sistema medievale consisteva in una lettura biblica letterale.
Copernico la scarta, la sua mente agisce in base ad un'ipostasi diversa: la semplicità della
spiegazione.
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seguente: il Vangelo può fare il male al creato? Ovviamente la risposta è no. Anzi, se una persona
che crede di conoscere la buona notizia, in realtà sta danneggiando il suo prossimo, allora non
conosce veramente il Vangelo. O, per meglio dire, nella misura in cui danneggia il suo prossimo, è
fuori dalla verità; potrebbe aver afferrato comunque una parte del messaggio, e quindi agire in
maniera a tratti benefica, e parlare secondo verità in certi momenti, mentre in altre circostanze
essere dannosa e vivere nell'illusione.
Anche in questo caso emerge un relativismo. Pertanto, non sembra possibile stabilire con assoluta
certezza che una persona sia completamente e sempre nella verità, tanto nella verità come
svelamento che come adeguamento. È tuttavia possibile da un lato stabilire cosa probabilmente è
errato e, dall'altro, decidere cosa è eticamente lecito credere. Credenze, opinioni, fedi e verità
continuano ad essere separate, pur essendo in relazione tra loro. Grazie ai modelli epistemologici
descritti qui sopra è possibile indagare tale relazione, e quindi avviare un dialogo.
Conclusioni: relativismo, apertura e dialogo
Tanto dalla tematica della conoscenza della verità, quanto dalla tematica della comunicazione della
verità, emerge un relativismo positivo. Positivo in quanto, evitando di assolutizzare un unico punto
di vista veritativo, consente una crescita e uno scambio delle verità. L'attitudine ad accettare di
poter essere al di fuori della verità consente un'autentica comunicazione dialogica, in quanto applica
il principio di carità. Tale principio (Davidson, 2001), quando applicato alla comunicazione,
implica assumere che l'altro, con cui si stia comunicando, possieda capacità di comprensione e di
ragione simili alle proprie. Qualora ci si accosti ad un'altra persona assumendo che non sia in grado
di comprendere, allora si nega il principio di carità; se invece si ritiene che abbia le facoltà minime
per comprendere, ma ci si designa in ogni caso come superiori all'altro, pur non negando
completamente il principio, non lo si sta applicando. Ovviamente è possibile ritenere di avere un
messaggio importante, in questo caso è caritatevole presumere che anche la persona a cui stiamo
comunicando ne abbia uno altrettanto importante. In tal modo la comunicazione diventa dialogo.
Da un punto di vista pratico, il dialogo non è la soluzione di tutti gli attriti tra i diversi punti di vista
veritativi. Per quanto riguarda la VS di tipo religioso, il problema nell'accettazione di una verità
diversa da quella che si conosce gira attorno a cosa sia dannoso per la società. Quindi sulla liceità di
uno svelamento. Questo confronto etico, gestito secondo il principio di carità, può dare ottimi
risultati. Tuttavia il dialogo viene annichilito dal pregiudizio di chi ritiene malvagio chiunque non la
veda le cose al suo stesso modo. Simili atteggiamenti fondamentalisti sono l'antitesi ad un positivo
relativismo epistemologico.
In conclusione:
la verità non è un'entità fisica, qualcosa che si possiede. Piuttosto è un'azione, un tipo di azione
mentale conoscitiva, compiuta in modi diversi dalle persone. Conoscere secondo verità, come
adeguamento, può essere approssimato attraverso il controllo dell'esperienza, in relazione ad una
realtà fattuale. Conoscere secondo verità, come svelamento, dipende dall'agire delle ipostasi, è
soggettivo e indirizza la comprensione dell'esperienza.
Il contenuto della conoscenza non è di per se veritativo: infatti le stesse parole possono essere lette
e conosciute da varie persone, tuttavia per alcune vengono interpretate come verità, mentre per altre
sono discorsi vuoti. Ad esempio la lettura dei Vangeli per un credente o per un ateo. Per il credente
la verità della Parola è svelata ed evidente, non così per l'ateo, pur mettendosi davanti al medesimo
messaggio.
Future directions: il problema della razionalità
Quanto sostenuto nel presente scritto sottolinea un'ineliminabilità del pluralismo veritativo. Se da
un lato i fatti cadono sotto il dominio della VA, il concetto di paradigma scientifico richiama
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l'importanza della VS anche in relazione ad essi. Viceversa l'interpretazione religiosa di testi e
circostanze storiche, pur cadendo sotto il dominio di VS, sono disponibili al controllo di VA.
Da un lato, distinguere i due tipi di verità è utile in quanto fa cadere il bisogno di tenere assieme
fatti e interpretazioni, consentendo di verificare gli uni e le altre secondo modalità appropriate e
razionali. Mischiando i due concetti di verità si arriva a conclusioni assurde, quale l'idea che il
significato coincida con l'esattezza. Al contrario è possibile enunciare una serie di eventi con totale
precisione, spogliandoli di ogni possibile significato. Mentre è possibile narrare una storia, anche
inventata, che sia atta a comunicare significati importanti.
Dall'altro, questa distinzione promuove un confronto tra modi di conoscere la verità differenti. Tale
confronto implica la possibilità di cambiare, di affinare la conoscenza veritativa. In altre parole, si
propone una verità che esclude predicati, tuttavia non in maniera definitiva.
Un bell'esempio di questo atteggiamento si trova nell'introduzione alle dottrine fondamentali degli
Avventisti del 7°Giorno: le dottrine costituiscono il modo in cui la chiesa comprende
l'insegnamento delle Scritture; una loro revisione è possibile, in relazione sia ad una comprensione
più completa della verità biblica, sia ad un linguaggio migliore per esprimere gli insegnamenti.
Ovviamente, trattandosi di dottrine che caratterizzano un'intera chiesa, la revisione non può essere
fatta da una singola persona, ma deve essere espressione di una conferenza generale. Questo è un
esempio di una fede che conduce ad interrogarsi, ricercare e comprendere, come comunità di
credenti. Dunque non uno sforzo solipsistico, piuttosto un gruppo di persone che studiano e si
confrontano costantemente per aprirsi alla verità.
Tale atteggiamento non dogmatico porta anche a ridiscutere la natura della Rivelazione. Da un
punto di vista teologico dottrina e dogma non possono differire maggiormente. La dottrina che può
essere revisionata “quando la chiesa è guidata dallo Spirito Santo verso una comprensione più
completa della verità” (SDA Church Manual, p156), pone dei grandi interrogativi riguardo alle
modalità di conoscere una verità rivelata. Utilizzare la parola “comprensione” allontana
maggiormente il concetto di dottrina da quello di dogma. Quale modello di razionalità teologica sta
dietro a questa visione della Rivelazione?
Vorrei dunque promuovere, per il futuro, una riflessione sugli assunti alla base di questa visione
teologica66, capace di raffigurare la persona umana come un essere che comprende la verità rivelata
grazie alla relazione con Dio.
Bibliografia
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66 Il bersaglio critico di questa domanda è chiaramente la teologia negativa.
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IL MANIFESTO DEL DISCEPOLO
Predicazione
Pastore Nino Plano,
Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno
di Venezia, Treviso e Conegliano
Luca 10:1-9:
1 Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due
avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2 Diceva loro: «La messe è
molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi
operai per la sua messe. 3 Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; 4
non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. 5 In
qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. 6 Se vi sarà un figlio della
pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7 Restate in
quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno della
sua mercede. Non passate di casa in casa. 8 Quando entrerete in una città e vi
accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, 9 curate i malati che vi si
trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio.
Introduzione
Se potessimo attribuire un titolo al brano appena letto, potrebbe suonare così: “il manifesto del
discepolo” o ancora “Il memento dell’evangelista”. Certamente il linguaggio qui utilizzato stride
con la nostra cultura, per varie ragioni, ma probabilmente quella principale sta nei verbi di
movimento utilizzati: inviare, mandare, recarsi, andare, portare. Non voglio frustare nessuno, anche
perché se questa sera noi siamo qui è perché siamo ancora capaci di muoverci per essere chiesa
insieme, ma desidero muovere una piccola critica, che riguarda la chiesa cristiana oggi, in ogni sua
configurazione religiosa: siamo seduti all’interno delle nostre case, isolati dai rapporti sociali
diretti, ma illusi di avere dei veri contatti attraverso i social-network. Ammetto, come pastore e
forse anche voi siete sulla mia stessa linea d’onda, che l’appello di Gesù non mi piace, sento un
reale disagio nel far sapere agli altri che sono un credente attivo della mia comunità. Siamo
tendenzialmente capaci di prendere ciò che ci piace dallo scaffale del supermarket che la chiesa ci
propone, ma siano in grosse difficoltà nel vivere la chiesa come missione. Quindi tutti questi verbi,
molti dei quali all’imperativo, che esprimono un movimento reale che dobbiamo realizzare nei
confronti del prossimo, ci mettono in difficoltà. Abbiamo affidato l’annuncio dell’evangelo, che la
Parola di Dio concepisce attraverso un contatto diretto, ai vari mezzi che quotidianamente
utilizziamo, telefono, internet, radio e televisione, defilandoci dalla nostra reale presenza. Al
contrario in questo testo Gesù responsabilizza, affida un incarico, investe i suoi discepoli e ne
chiama altri, per adempiere la sua missione.
Missione verso le nazioni
Luca è l’unico dei vangeli sinottici ad affidare la missione evagelica oltre ai 12 ad altri discepoli,
che quantifica col numero di settantadue. Questo numero non è certamente reale, ma trova radice
nel decimo capitolo della Genesi, in cui le nazioni che nascono dopo il diluvio, dai figli di Noè,
sono appunto settantadue. Luca quindi ci dice che i dodici discepoli, che Gesù stesso ha costituito,
che erano per l’annuncio del vangelo in Israele, non sono più sufficienti, c’è bisogno di nuove
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forze, di persone che possano dialogare in ogni parte del mondo, del grande amore di Gesù. Non è
un caso che sia proprio questo vangelo a sottolineare questa missione, infatti esso racconta della
diffusione della buona novella in territorio giudaico, per poi continuare nel secondo libro, sempre di
Luca, “gli Atti degli Apostoli”, in cui si racconta la diffusione della stessa notizia in tutti quei
territori chiamati, pagani, lontani dalla Samaria. Nei versetti che noi stiamo prendendo in
considerazione, troviamo dunque il riassunto dei due libri di Luca: la missione in territorio giudaico
e poi la spinta verso il mondo allora conosciuto.
Scarse risorse umane
Per adempiere questa missione, a quanto pare, le risorse umane sembrano poche, almeno questo
afferma Gesù. Certamente aveva ragione, qualsiasi movimento al suo nascere è debole e soprattutto
scarseggia di uomini e di denaro per svilupparsi, propagarsi e non rischiare di morire. Nonostante
siano passati duemila anni dalla stesura di queste parole e ci troviamo di fronte ad una religione,
appunta quella cristiana, che conta più di un miliardo di credenti per alcune stime e per altre
addirittura due, tenendo in considerazione le varie denominazioni che la costituiscono, la
sensazione è che siamo nelle stesse condizioni di cui parlava l’evangelista Luca. Gli operai, cioè le
persone che si impegnano in prima linea, che hanno fatto propria la missione, che si sentono
chiamati ad adempiere un compito in virtù della relazione con Cristo, sono poche.
Le persone sono e saranno sempre poche, perché, senza voler giudicare ma semplicemente
fotografare le varie realtà ecclesiastiche, sono sempre pochi coloro che si impegnano. Inoltre
assistiamo al fenomeno che aumentando le attività, anche se le persone non sono poche, sembrano
comunque poche. Ma dobbiamo avere la fede, in questo caso le narrazioni bibliche ci sono di
grande aiuto: quello che noi consideriamo poco Dio è capace di farlo fruttare in maniera
straordinaria. Dio agisce con altre logiche e colma i nostri limiti, sia numerici che umani. Ciò che
contraddistingue una chiesa non è il dato numerico, ma l’amore che ha per Cristo. Questo amore le
conferisce una potenza straordinaria, la sensibilizza ai drammi della storia conferendole quella
passione necessaria per vivere e soffrire con tutte quelle vite con le quali entra in contatto.
Un altro elemento che balza agli occhi è che la chiesa, in ogni periodo storico, ha sempre dovuto
affrontare della sfide, diverse tra loro e spesso molto grandi. Nel suo nascere aveva bisogno di
risorse umane, capaci di diffondere senza limiti di tempo e di spazio, l’evangelo. La chiesa può
anche raccontare che nel suo passato molte persone hanno dato addirittura la propria vita per
l’evangelo, i così detti martiri.
Oggi la chiesa si trova ad affrontare un’altra grande sfida, quella di non soccombere di fronte ad
una nuova persecuzione, che non è fatta di nemici, potenze politiche e armi, almeno in questa parte
di mondo, me è una sensibilità diffusa che porta il nome di individualismo. Non voglio dire che sia
tutto male quello che questa parola porta con se, ma certamente si per alcuni aspetti della teologia
cristiana, come il tema chiesa.
Stiamo assistendo allo svuotamento delle chiese, in ogni parte del mondo occidentale. I grandi
sistemi religiosi, con una struttura liturgica ben definita, sono in forte crisi proprio perché le
persone, nonostante siano credenti, non sentono il bisogno di aggregarsi e di aderire alla forma
liturgica proposta. Quindi assistiamo al grande paradosso del diffondersi di una religiosità personale
ma appunto separata da una determinata chiesa. Assistiamo quindi alla religione “fai da te”, che
appunto ci si costruisce in casa, ma priva del dialogo e del confronto che solo la chiesa, intesa come
l’insieme dei credenti chiamati da Dio, può dare.
Consigli comportamentali
In questo brano Gesù non solo affida una missione, ma addirittura cerca di dare dei consigli utili per
un buon svolgimento dell’attività di testimonianza. Per esempio invita i suoi discepoli a non portare
nulla con se, perché è Dio stesso a provvedere per i suoi figliuoli. L’attività del credente ha una sola
preoccupazione, la testimonianza, il Signore, si preoccuperà del suo sostentamento. Certamente la
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coltura in cui sono ambientate queste pagine sono ben diverse dalla nostra, in cui ogni cosa che si
viveva era strettamente legata alla divinità. Tutto era sempre riconducibile a Dio. Oggi non è più
così. Siamo consapevoli che bisogna essere prudenti, che la fede non è incoscienza e che non butta
nel cestino l’intelletto, anzi ha bisogno dell’intelletto per essere ben vissuta. Però di fronte all’iperscetticismo della nostra epoca, dobbiamo recuperare una piccola dose di fiducia verso il futuro,
verso il domani e pensare che il Signore è presente ed ascolta realmente le nostre preghiere. Infine
mi sono sempre domandato, anche osservando altre sensibilità religiose, che prendono alla lettera
anche lo spostarsi due a due, di città in città, se il Signore ci domanda ancora oggi di agire così.
Non penso, ma tornando alla sofferenza che oggi la chiesa vive in occidente, il testo ci invita a
recuperare una dimensione importante della società, la famiglia. La famiglia deve essere il luogo in
cui si alimenta la fede. Se la chiesa vuole vincere anche questa secolarizzazione, penso che questo
testo ci inviti, proprio come facevano i discepoli, ad entrare nelle famiglie. Forse assisteremo nei
prossimi anni al recupero della casa come luogo in cui essere chiesa. In cui, intimamente, si
possono ascoltare i drammi, le gioie e le sfide e sentire l’affetto dei propri cari e dei fratelli in
Cristo. Oggi, la nostra missione, non è quella dei discepoli e dei padri della chiesa, di convertire le
persone ad una religione completamente diversa. Noi abbiamo una sfida forse ancora più
complicata, di risvegliare la fede sonnecchiate in chi si dichiara già cristiano. Ecco dunque, come
non mai, che l’intimità della casa, in cui c’è l’opportunità di essere veramente se stessi e le persone
non sono legate ai ruoli che il lavoro e la società gli affibbia, diventa il primo luogo della nostra
missione.
Conclusione
Andiamo dunque, come Gesù ci ordina, annunciando che il regno di Dio è vicino a noi
cominciando proprio da casa nostra.
Amen.
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IL TRIONFO DEL DIRITTO DI DIO
Predicazione
Pastore Nino Plano,
Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno
di Venezia, Treviso e Conegliano
Isaia 29.15-24:
15 Guai a quelli che si ritraggono lungi dall'Eterno in luoghi profondi per nascondere
i loro disegni, che fanno le opere loro nelle tenebre, e dicono: 'Chi ci vede? chi ci
conosce?' 16 Che perversità è la vostra! Il vasaio sarà egli reputato al par dell'argilla
sì che l'opera dica dell'operaio: 'Ei non m'ha fatto?' sì che il vaso dica del vasaio: 'Non
ci capisce nulla?' 17 Ancora un brevissimo tempo, e il Libano sarà mutato in un
frutteto, e il frutteto sarà considerato come una foresta. 18 In quel giorno, i sordi
udranno le parole del libro, e, liberati dall'oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi
vedranno; 19 gli umili avranno abbondanza di gioia nell'Eterno, e i più poveri fra gli
uomini esulteranno nel Santo d'Israele. 20 Poiché il violento sarà scomparso, il
beffardo non sarà più, e saran distrutti tutti quelli che vegliano per commettere
iniquità, 21 che condannano un uomo per una parola, che tendon tranelli a chi difende
le cause alla porta, e violano il diritto del giusto per un nulla.
22 Perciò così dice l'Eterno alla casa di Giacobbe, l'Eterno che riscattò Abrahamo:
Giacobbe non avrà più da vergognarsi, e la sua faccia non impallidirà più. 23 Poiché
quando i suoi figliuoli vedranno in mezzo a loro l'opera delle mie mani,
santificheranno il mio nome, santificheranno il Santo di Giacobbe, e temeranno
grandemente l'Iddio d'Israele; 24 i traviati di spirito impareranno la saviezza, e i
mormoratori accetteranno l'istruzione.
Introduzione
Con ogni probabilità questi versetti si situano nel periodo successivo al 715 A.C., in cui il re
Ezechia lotta per l'indipendenza dall'Assiria. Egli, re del regno di Giuda, cercò in tutte le maniere di
rendersi indipendente dalla dominazione Assira, attirando su di se il malcontento dell'imperatore
Sennacherib, non pagando i tributi imposti. L'esercito Assiro di conseguenza invase il regno di
Giuda e dopo il protrarsi di una lunga battaglia, difficile per entrambi gli eserciti, saggiamente
Ezechia pagò il proprio tributo, mentre Sennacherib col proprio esercito stremato, decise di
smettere di continuare ad attaccare il regno di Giuda, per evitare di attirare il malcontento
dell'Egitto alleato di Giuda.
Questo breve escursus storico forse ci può aiutare a comprendere meglio i versetti letti
precedentemente. Essi possono essere divisi in tre parti.
La prima parte, composta dai versetti 15 e 16, presenta la chiaroveggenza di YHWH, cioè la
capacità di Dio di penetrare i disegni nascosti e malvagi dell'uomo. La seconda parte che va dal
versetto 17 al versetto 21 presenta un Dio capace di capovolgere le dinamiche esistenti, dove a
regnare sarà la giustizia di Dio con la conseguente libertà per gli umili dai loro nemici. La terza ed
ultima parte, i versetti che vanno dal 22 al 24, che la maggioranza degli esegeti considera un
aggiunta redazionale, descrivono la necessità d'Israele di santificare Dio, di fronte alla sua opera
liberatrice. Lo faranno anche i più critici d'Israele nei confronti di Dio.
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La chiaroveggenza di Dio
Il profeta comincia la sua arringa in maniera decisa: egli considera pessime le iniziative politiche
portate avanti dalla dirigenza del regno di Giuda. Dio interpreta queste macchinazioni come un
deciso movimento di sfiducia nei suoi confronti. C'è la volontà di sottrarsi al volere di Dio, al
contrario c'è il desiderio di liberarsi dalla giogo assiro attraverso le proprie idee e capacità, senza
minimamente affidarsi alla volontà divina. Anche se Ezechia verrà considerato un buon re, fedele a
Dio, di fronte alla potenza dominatrice Assira agisce pensando che ormai Dio si era dimenticato del
suo popolo. Straordinaria è l'immagine della creta e del vasaio. L'atteggiamento del regno di Giuda
è quello che in ultima analisi tiene ogni essere umano: ergerci allo stesso livello di Dio, considerarci
capaci di agire nella storia, come, se non addirittura, meglio di Dio. Quindi l'immagine della creta e
del vasaio vuole ricordare che la relazione che esiste tra Dio e l'uomo è quella di creatore e creatura;
che il vasaio, il creatore, è ben più importante dell'oggetto creato.
L'atteggiamento umano invece ha come obbiettivo quello di invertire questa relazione, espressa
addirittura in maniera ironica nel testo attraverso il rifiuto del vaso di considerarsi fatto dal proprio
vasaio e addirittura attribuirgli un'incapacità intellettiva, quasi a prenderlo per stupido:
“l vasaio sarà egli reputato al par dell'argilla sì che l'opera dica dell'operaio: 'Ei non m'ha fatto?' sì
che il vaso dica del vasaio: 'Non ci capisce nulla?”.
Il trionfo del diritto
I versetti che vanno dal 17 al 21 descrivono, appunto, che se l'uomo per agire tende a nascondersi
da Dio, al contrario Dio ha addirittura la possibilità di capovolgere la realtà, anche quella più triste e
nefasta. Proprio in virtù di vasaio, cioè di creatore, il Signore ha la possibilità di rendere il Libano,
composto da foreste di cedro, come un frutteto coltivato, e viceversa. E non solo!!! Egli ha si il
potere di capovolgere la natura geografica di un territorio, ma è addirittura in grado di liberare gli
orecchi dei non udenti dalla propria sordità; di liberare i ciechi dall'oscurità delle tenebre; i poveri
dalla schiavitù dell'indigenza ed infine è in grado di ristabilire la giustizia, senza più arroganti e
falsi testimoni rei di rovinare la vita del giusto. I verbi contenuti in questi versetti, a differenza di
quelli contenuti nella sezione precedente, sono al futuro. Isaia si fa portavoce di un tempo nuovo,
un tempo completamente diverso, nella sostanza contrario alle dinamiche che l'uomo è in grado di
creare in ogni epoca e in ogni latitudine.
Non a caso in questi versetti a trionfare, nel tempo nuovo di Dio, è il giusto diritto. Non quello
umano, che presenta interessi e dinamiche di potere, trionfa il diritto di Dio, che riguarda molti
aspetti della vita umana. Nel nuovo tempo di Dio non può esistere il sordo e il cieco. Non è giusto
che alcuni possano sentire le parole ed altri no, non è giusto che alcuni possano vedere il sole, il
mare ed il creato mentre cert'altri sono schiavi della visione del nulla, delle tenebre. Ecco dunque
un tema molto caro e forse il più straordinario contenuto nell'A.T.: Dio nel suo tempo, nel nuovo
tempo, ci libererà psicologicamente e fisicamente da queste schiavitù.
La risposta di giuda
Lo straordinario messaggio di liberazione appena descritto e il conseguente insediamento del nuovo
tempo di Dio, è rivolto a tutto Israele, cioè regno del nord e regno del sud insieme. Il regno di Dio è
per tutti, non prevede divisioni o particolarità. Anche se il regno del nord spesso si era lasciato
sviare dall'idolatria, dalle divinità pagane, Dio è pronto a perdonare e ad agire con giustizia nei
confronti del suo popolo, interamente. Dio sarà in grado di educare sapientemente gli uomini dallo
spirito avverso e di insegnare agli uomini dal continuo lamento la lezione che Dio non è sordo alle
esigenze de suo popolo.
Breve commento:
Il testo in questione è quanto mai attuale per svariate ragioni.
Una su tutti è la latente sfiducia che abbiamo nei confronti di Dio. Anche se ci consideriamo dei
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fervidi credenti, anche se addirittura siamo dei leader nelle nostre comunità, la dinamica non
cambia: di fatto vogliamo agire per conto nostro, quasi escludendo Dio dai nostri affari o altrimenti
includendolo convincendoci che il nostro volere sia esattamente quello di Dio.
Un altro elemento importante presente nel testo è la relazione fede-società.
Isaia denuncia un'ingiustizia presente nelle istituzioni che erano chiamate proprio ad amministrarla;
si parla addirittura di parole dette appositamente per rendere colpevole il giusto e salvare il
malvagio. Diciamo che la fotografia del profeta Isaia è simile al momento storico che stiamo
vivendo in cui purtroppo è il conto in banca ad influenzare il giusto giudizio o l’integrazione di uno
straniero in un paese. L'intervento del Dio liberatore dalla nostra sordità e dalla nostra cecità non
può essere rinviato ad un futuro lontano. Noi siamo dei cristiani e dobbiamo testimoniare nella
nostra quotidianità che Gesù è il “tempo nuovo” cioè la materializzazione del “regno di Dio”.
Vorrei citarvi una frase di Giovanni Miegge, contenuta nel libro “Per una Fede” a pag. 211: “Il
Regno di Dio non è soltanto una realtà futura. […] Nessuno è frustrato dal Regno di Dio, se vive
nella fede del Regno e oprando per il Regno. Cristo è il Signore della storia oggi, come nel futuro.”
Non possiamo permetterci di appiattirci all'ingiustizia presente nella nostra società. Non possiamo
rimanere sordi alle bugie e agli inganni che quotidianamente sentiamo nei vari ambiti dei luoghi che
viviamo e frequentiamo. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie perpetrate nei
confronti del più debole, che spesso nella nostra società coincide col più povero. Chiedere a Dio
d'intervenire terapeuticamente nei confronti della nostra cecità significa concretamente considerarci
nuovamente creta, cioè creatura, per essere nuovamente plasmati dal vasaio, il nostro Dio.
Altrimenti il rischio sarò quello di essere modellati da altri vasai o addirittura da noi stessi.
Un ultimo elemento che vorrei sottolineare è l'universalità dell'intervento di Dio. Il testo lascia
intendere che il regno di Dio non sarà solo per Giuda, ma per tutta Israele; addirittura Isaia dirà che
sarà per tutte le nazioni. Penso che per noi credenti di una determinata confessione cristiana possa
essere un messaggio importante per non vivere la nostra fede in maniera esclusivista. Il Signore ci
invita a creare dei ponti col prossimo e trovare nell'altro, anche se proveniente da una tradizione
religiosa diversa dalla nostra, dei valori comuni per vivere il regno di Dio. Per il regno di Dio c'è
spazio per tutti, anche per tutti quelli che escono dagli schemi che la nostra mente o la nostra
religione ha creato.
Conclusione
Che il Signore possa operare nelle nostre vite affinché possiamo essere per primi, noi, artefici del
trionfo del diritto di Dio.
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