Lo squaderno 2 sabato23dic

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Lo squaderno 2 sabato23dic
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Lo s Quaderno
RIVISTA DI DISCUSSIONE CULTURALE
Da soli o in compagnia?
Sommario
Editoriale........................................................................................................3
Sull’isola deserta, da soli o in compagnia
Alberto Brodesco.................................................................................................4
Elogio del camminare da soli
In praise of walking alone
Antonella Montedoro............................................................................................7
Soli o accompagnati:
Riflessione da uno sportello pubblico (passando per Philip Dick)
Nicola Messina..................................................................................................12
Solitudine e compagnia della società occidentale.
Note autobiografiche sulla responsabilità socio-culturale
Umberto Postal.................................................................................................15
Rapporti moderni
Peter Schaefer..................................................................................................18
La scrittura: Da soli o in compagnia?
Writing: Alone or in company?
Andrea ‘Mubi’ Brighenti......................................................................................23
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Editoriale
Quando abbiamo lanciato il tema `da soli o in compagnia?´ ci aspettavamo che la maggior
parte delle persone si sarebbero schierate risolutamente dalla parte della compagnia.
D´altra parte, se non si pensasse che qualche forma di compagnia è necessaria o
auspicabile, non ci si prenderebbe il disturbo di scrivere per una rivista, men che meno di
editare la stessa.
Ci ha stupito perciò vedere l´ago della bilancia dell´interesse pendere in qualche modo
dalla parte della solitudine. Certo, il tema è molto frequentato, ad esempio nei dibattiti
sull´individualizzazione della società e sulla `solitudine del cittadino globale´. Ma
evidentemente c´è ancora molto da dire e il tema è piuttosto sentito.
`Da soli o in compagnia´: tema, abbiamo detto; ma in effetti nient´altro che uno spunto. Si
sarebbe potuto parlare di moltissime altre cose che non sono state affrontate nel giro di
queste pagine: dalla migrazione delle persone, che rimescola le carte in mano agli statinazione, all´ampliamento dell´Unione europea. Sapevamo quindi sin dall´inizio che
avremmo avuto un elenco incompleto, non rappresentativo di alcuna unità. Però ci abbiamo
provato, ed ecco cosa è venuto fuori da questa seconda squadernata.
In apertura troviamo un articolo di Alberto Brodesco, che affronta un topos
cinematografico per riflettere, in filigrana, sulle rappresentazioni dei rapporti umani
immaginate da diversi registi. L´isola deserta funziona in un certo senso come un
esperimento di ri-fondazione della società nel suo complesso, e andare sull´isola deserta
implica chiedersi quali siano gli equilibri e le forme migliori (o peggiori) della socialità.
La presa di posizione più forte in favore della solitudine è quella di Antonella Montedoro. Il
suo articolo ha ripercorso le tracce di illustri camminatori solitari, sostenendo che l´essere
umano può appropriarsi della solitudine, non solo fronteggiandola come un ostacolo alla
felicità, ma anche vivendola come un fattore positivo.
Nicola Messina e Umberto Postal hanno invece fornito due testimonianze della solitudine
vissuta. Ma mentre il primo ne ha fornito un´immagine su scala esperienziale individuale, il
secondo l´ha proiettata su scala planetaria, guardando alla solitudine delle civiltà e
dell´outsider che si trova a vivere in una società completamente diversa dalla sua.
Il testo di Peter Schaefer si è concentrato sulla natura dei moderni rapporti di coppia e su
come nella società di oggi gli elementi della maturità emotiva, dell´indipendenza
economica e dell´attività sessuale seguano tempi e modi diversi, non coordinati tra loro a
causa di una serie di fattori esterni che si impongono all´individuo.
Infine Mubi si è chiesto se tutto questo sforzo della scrittura corrisponda a un´attività
solitaria o se la scrittura possa legare le persone tra loro, e in che modo. La sua posizione è
che la scrittura può essere vista come una forma di compagnia, come un modo per collegare
più parti del mondo.
Un´ultima notizia ai nostri lettori: dal prossimo numero, il sito de Lo squaderno ospiterà
uno spazio per i commenti e le repliche da parte dei lettori.
Lo squaderno
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Sull’isola deserta,
da soli o in compagnia
Mille narrazioni letterarie e audiovisive insegnano quanto sia difficile
la vita del naufrago solitario. Sulla sua isola deserta, il naufrago solitario
spesso riesce a mantenersi vivo, e scopre risorse interiori che non avrebbe
mai pensato di possedere. Però non vede l'ora di scappare via. Appena passa
una nave, fa di tutto per segnalare la sua presenza e farsi raccogliere.
Mille narrazioni letterarie e
audiovisive insegnano quanto sia
difficile la vita del naufrago solitario.
Sulla sua isola deserta, il naufrago
solitario spesso riesce a mantenersi
vivo, e scopre risorse interiori che
non avrebbe mai pensato di
possedere. Però non vede l'ora di
scappare via. Appena passa una
nave, fa di tutto per segnalare la sua
presenza e farsi raccogliere. Il
problema non è, appunto, la
sopravvivenza fisica o l'autosostentamento, ma la mancanza di
compagnia. In “Cast away” (Robert
Zemeckis, USA, 2000), Tom Hanks è
l'unico sopravvissuto a un disastro
aereo. Naufraga su un'isola. Per non
suicidarsi, per farsi compagnia,
elegge a miglior amico e confidente
un pallone da volley, battezzato
“Wilson”. Ma dopo quattro anni
vissuti così, è talmente disperato da
buttarsi in mare su una zattera o la
va o la spacca. Sarà fortunosamente
raccolto da una nave di passaggio.
L'altra prospettiva è quella del
naufragio collettivo. In letteratura, al
cinema, nella cultura pop, il
naufragio collettivo nasconde, per
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contro, insidie ancora peggiori.
Spesso non si muore di noia, ma per
mano di uno dei compagni di
naufragio - basta pensare alla guerra
che si scatena tra i ragazzi caduti
sull'isola de “Il signore delle
mosche” (il romanzo di William
Golding è del 1954; il film di Peter
Brooks del 1963). Altre volte, si
viene assorbiti in un soffocante
mondo di enigmi e misteri - è il caso
del serial televisivo “Lost” (2004-).
Oppure, più banalmente, si finisce
per strapparsi i capelli l'uno con
l'altro - Antonella Elia e Aida
Yespica nella seconda edizione de
“L'isola dei famosi” (2004).
In situazioni, come queste, di
naufragi di gruppo, si ha quasi la
certezza di esiti degenerativi. La
questione della convivenza si
complica fuor di misura. Il
pessimismo narrativo sulla riduzione
allo stato di natura ambisce a
instillare dubbi sull'effettiva
possibilità di ricreare con successo il
patto sociale. Per accennare alla
profondità di tali dibattiti, tre dei
protagonisti di “Lost” hanno per
nome John Locke, Danielle Rousseau
Sull’isola deserta
e Desmond David Hume.
Ma indubbiamente la formazione che
sull'isola deserta funziona meglio è la
coppia. Un uomo e una donna. Il
caso classico vero e proprio punto di
riferimento dell'immaginario pop
anni Ottanta è “Laguna blu”
(Randal Kleiser, USA, 1980). Il film
ci mostra due adolescenti
Christopher Atkins e Brook Shields
che, diventati adulti sull'atollo,
quando vedono un giorno passare una
nave non fanno niente per farsi
notare. Scelgono di rimanere da soli
sull'isola. Interverranno poi delle
complicazioni, ma il film conferma la
riuscita della formula esistenziale
uomo + donna + isola deserta.
Un caso analogo, altrettanto
conosciuto, è “Travolti da un insolito
destino nell'azzurro mare di agosto”
(Lina Wertmuller, Italia, 1974). A
naufragare sull'isola sono una ricca e
schizzinosa borghese e un grezzo,
virile militante del PCI. Dalla
convivenza forzata nasce presto un
idillio amoroso. Il problema,
tuttavia, è che la felicità si realizza
solo fuori dalle convenzioni, in quel
lasso di tempo sospeso, dopo il
naufragio e prima del salvataggio. I
due naufraghi, ormai innamorati, non
si fanno vedere dalla prima nave che
passa vicino all'isola. Si fanno però
salvare dalla seconda. È una sfida:
l'uomo vuole mettere alla prova la
solidità del sentimento della sua
donna, in apparenza totalmente
conquistata. Ma al ritorno alla civiltà
tutto sfiorisce: Giancarlo Giannini
rimane sul molo in compagnia
dell'ingombrante moglie siciliana
mentre la splendida e insopportabile
Mariangela Melato vola via in
elicottero con suo marito, verso
Nord.
È meno noto il film “Cast Away, la
ragazza Venerdì” (Nicholas Roeg,
GBR, 1987). Un uomo di mezza età
pubblica su “Time Out” un annuncio:
cerca una donna con cui trascorrere
un anno su di un'isola deserta.
Risponde una ragazza bionda, dalla
bellezza mozzafiato. La vita sull'isola
li mette di fronte a grossi problemi,
ma, trascorsa l'annata, quando si
salutano, si capisce che di
quell'esperienza resterà solo il
ricordo positivo. L'esperimento, tutto
sommato, riesce.
Marcello Mastroianni, in “La cagna”
(Marco Ferreri, Francia/Italia,
1972), è un disegnatore di fumetti
che si rifugia su un'isola con il suo
cane Melampo. Sembra stare
benissimo così. Mastroianni non è un
vero e proprio naufrago. Può
raggiungere in gommone, di tanto in
tanto, un villaggio in cui va a
rifornirsi. Quest'isola poco isolata
sembrerebbe un compromesso ideale
tra il piacere della solitudine e le
ristrettezze della vita da naufrago.
Ma quando, dal suo yacht, sbarca
sulla spiaggia Catherine Deneuve,
tutto va in fumo. Come si fa a
resistere a una donna così, nel fiore
della sua bellezza, che scende a riva
vestita di bianche trasparenze?
Mastroianni si arrende. La pressione
per il superamento della dimensione
solitaria è decisamente troppo forte.
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Sull’isola deserta
Fly away 01 - serie di 4 - 2006
La Deneuve, in seguito, uccide
Melampo e si trasforma in cagna. Un
giorno il loro gommone va alla
deriva, e come canticchia
Mastroianni “non ci sono più pesci
nel mar”. Il tentativo di fuga su di un
residuato bellico, un aereo tedesco,
non riesce a nascondere la
probabilità di una morte per inedia.
In questo caso, la formula uomo +
donna + isola, dal punto di vista
pratico, non funziona. Ferreri sembra
suggerire che non va cercato
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nell'isolamento il rimedio giusto alle
difficoltà personali e politiche: non
sta nel solipsismo la soluzione ai mali
dell'uomo e del mondo. Però, a
vedere sull'isola Marcello
Mastroianni e Catherine Deneuve, lo
schermo trasmette una tensione
splendida, una risonanza invidiabile,
un fascino tangibile. Una percezione
di assurda felicità. Pur fallendo, il
quadro mantiene un preciso contorno
poetico.
Una citazione da Cesare Pavese (`Il
Sull’isola deserta
mestiere di vivere´) ci aiuta ora a
concludere il discorso: “Tutto il
problema della vita è dunque questo:
come rompere la propria solitudine,
come comunicare con gli altri. Così si
spiega la persistenza del matrimonio,
della paternità, delle amicizie.
Perché poi qui stia la felicità, mah!
Perché si debba star meglio
comunicando con un altro che non
stando soli, è strano. Forse è solo
un'illusione: si sta benissimo soli la
maggior parte del tempo. Piace di
tanto in tanto avere un otre in cui
versarsi e poi bervi se stessi: dato che
dagli altri chiediamo ciò che abbiamo
già in noi. Mistero perché non ci
basti scrutare e bere in noi e ci
occorra riavere noi dagli altri”.
È una spiegazione cupa ma
interessante. Forse per questo,
sull'isola deserta, la formula che
funziona meglio, nonostante tutto, è
quella a due: perché è il plurale più
vicino all'uno. Perché, come scrive
Harry Nilsson in una sua canzone, il
due è “il numero più solitario, dopo il
numero uno”.
Alberto Brodesco
Alberto Brodesco lavora presso il Dipartimento
di Scienze Umane e Sociali dell'Università di
Trento. Si occupa di critica cinematografica,
televisione e, in generale, di comunicazione
visiva. E' fra i fondatori di AtoZ, collettivo
culturale vicentino che, oltre a produrre
spettacoli e video, organizza il festival ´Azioni
inClementi´. Tiene lezioni in diversi corsi
universitari, è segretario del Cineforum 'Trento',
cura rassegne cinematografiche per il MART e
collabora alla rivista ´Questotrentino´.
Attualmente sta scrivendo una monografia sulla
figura dello scienziato nel cinema.
Elogio del camminare da soli
Il viaggio e il camminare da soli permettono di capire l'esistenza umana
e di conquistarne una visione libera e personale, di sentire ed esplorare il
mondo e ricostruire la propria identità.
Nella nostra società contemporanea,
tecnologicamente avanzata e
umanisticamente disaggregante, la
grande quantità di rapporti
giornalieri si accompagna alla
scarsità di confidenza e familiarità a
tal punto che la solitudine costituisce
una condizione diffusa e in aumento
di cui però la maggior parte delle
persone non sa che fare. La
condizione di stare da soli non è
apprezzata nella maniera giusta e
spesso è ritenuta e temuta come una
condizione non naturale, infelice,
depressiva.
Al contrario, direi che la solitudine è
la condizione primaria dell'uomo,
infatti solo per brevi periodi della
nostra vita siamo costretti ad
accettare la dipendenza da un'altra
persona, come durante lo
svezzamento neonatale, per un
naturale istinto di sopravvivenza e
perché ancora non siamo autonomi e
7
Elogio del camminare da soli
indipendenti. Ma dopo questo periodo
di dipendenza, l'uomo potrebbe, anzi
dovrebbe, imparare a stare da solo,
apprezzando le caratteristiche
positive dello stare da solo.
La solitudine è una condizione
naturale, ma che deve essere
coltivata, è la condizione della natura
che crea esseri singoli e totalmente
indipendenti e autonomi, che bastano
a se stessi e che sanno apprezzare la
compagnia di se stessi, che
rappresentano non mezze mele, non
mezze anime, ma il cerchio completo,
la mela intera. Spesso il desiderio di
superare una crisi individuale e di
progettare una nuova costruzione del
sé si risolve nell'intraprendere un
viaggio, un cammino, che si deve
compiere in solitudine. Molti di noi
hanno camminato in montagna da
soli o sono andati a scalare o a
correre in solitudine per ritrovare
nella natura un nuovo equilibrio, per
scaricare tensioni e dolori. Molti
sono stati i solitari in cammino anche
tra scrittori, filosofi e poeti,
attraverso le loro citazioni,
riflessioni, impressioni si possono
scorgere le possibilità e la libertà
della suprema condizione dello
spirito di essere da soli, capaci di
stare bene con se stessi, sapere
apprezzare la propria solitudine
come modo di vivere e di stare al
mondo in armonia con se stessi, con
la natura e quindi con gli altri.
Il viaggio e il camminare da soli
permettono di capire l'esistenza
umana e di conquistarne una visione
libera e personale, di sentire ed
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esplorare il mondo e ricostruire la
propria identità. Il viaggio è
metafora dell'esistenza umana,
ambigua, inquieta, effimera, senza
fissa dimora, sempre in cammino tra
il qui e un altrove, ma proprio per
questo motivo non vuota, avventurosa
e degna di essere vissuta. Il
viaggiatore è in continuo movimento,
pronto a nuove vette e nuovi abissi,
per inseguire quella linea, quella luce
verde che è il desiderio di
completezza, di perfezione, di
miglioramento che a ogni passo
avanti del viaggiatore arretra dinanzi
a lui. “Volgi il tuo occhio all'interno
e scoprirai migliaia di regioni, nel
tuo cuore, vergini ancora. Viaggiale
tutte e fatti esperto di cosmografia
interiore” ci suggerisce Thoreau nel
Walden spronandoci a lavorare sulla
nostra interiorità.
David Le Breton definisce il
camminare un'attività antropologica
per eccellenza, che insegna a farsi
domande sul senso dell'esistere in
questo mondo: “l'esperienza del
camminare decentra da sé e
ripristina il mondo, inscrivendo
l'uomo nei limiti che lo richiamano
alla sua fragilità ed alla sua forza.
Stimola continuamente nell'uomo il
desiderio di comprendere, di
individuare il suo posto nella trama
del mondo, di interrogarsi su ciò che
stabilisce il legame con gli altri” (Le
Breton, 2003). La solitudine è una
condizione necessaria per recuperare
una personalità individuale in un
mondo dominato dalla cultura di
massa (Nuvolati, 2006).
Elogio del camminare da soli
La solitudine costituisce una
condizione necessaria per il viaggio,
la camminata, la peregrinazione e la
passeggiata, intesi nel senso di
esercizi che hanno come tappa l'io
stesso (Demetrio, 2005): la solitudine
è compagna amichevole, guida alla
conoscenza e alla contemplazione.
“Non so mai molto bene dove mi
porterà una strada né se mi porterà
da qualche parte. In compenso, so
con certezza da cosa mi distoglierà:
da un assopimento che non è forma
di saggezza, dalla rassegnazione, dal
ripiegamento su di me; e nella
solitudine che talvolta accompagna il
mio andare non vi è nulla di amaro,
perché mi restituisce a quanto di
grave e di dolce vi è in me, e che
resta la mia guida” (Sansot, 2001).
Thoreau ama stare da solo, della
solitudine dice che nessun compagno
è mai stato così amichevole. Essa
non si misura sulla distanza che c'è
fra me e il mio vicino, ma è una
condizione interiore di ricettività
verso l'esterno ma soprattutto di
grande ascolto dell'interiorità, è un
viaggio dentro noi stessi: “andai nei
boschi perchè desideravo vivere con
saggezza, per affrontare solo i fatti
essenziali della vita e per vedere se
non fossi capace di imparare quanto
essa aveva da insegnarmi, e per non
scoprire, in punto di morte, che non
ero vissuto”. Anche Friedrich
Nietzsche si dichiara dedito per
diletto personale alle passeggiate
solitarie. Non è da meno JeanJacques Rousseau che ne ‘Le
fantasticherie del passeggiatore
solitario’, meditazioni legate a
passeggiate più o meno reali, lega
indissolubilmente l'idea del
camminare alla dimensione della
solitudine (Rousseau, 1993): “mai ho
pensato, ho vissuto, sono stato vivo e
me stesso come in quei viaggi che ho
fatto a piedi e da solo” e aggiunge ne
Le confessioni “non ho mai tanto
pensato, tanto vissuto, mai sono
esistito e con tanta fedeltà a me
stesso, se così posso dire, quanto in
viaggi che ho compiuto da solo e a
piedi” (Rousseau, 2000). Il regista
cinematografico, Werner Herzog, nel
1974 parte solo da Berlino per
andare a Parigi a trovare un'amica
malata, “presi una giacca, una
bussola, una sacca con dentro lo
stretto necessario. (…) A parte
questo, volevo essere solo con me
stesso”.
La maggior parte dei camminatori
solitari qui citati associano il
camminare a un ambiente rurale,
montano, boschivo. Tuttavia vi sono
numerosi camminatori solitari anche
in città, da Baudelaire, a Hermann
Hesse, Virginia Woolf, Paul Auster e
Peter Hallberg, che raffigurano e
raccontano la condizione umana.
Walter Benjamin studiò la figura
caratteristica di Parigi, quella del
flâneur, un camminatore e
osservatore solitario che vaga per le
vie della grande città. Il flâneur
cammina nella città come farebbe in
una foresta in un atteggiamento di
disponibilità verso le scoperte, ma il
vagare solitario in città ha una vena
di sofferenza e alienazione che non si
9
Elogio del camminare da soli
riscontra nel vagare nella natura. Il
viaggiatore poeta baudelariano si
mette in viaggio per partire,
vagabonda solo senza una meta e si
perde nei meandri della metropoli,
che diventa simbolo della vita caduca
e fragile che ci destina a errare
continuamente. Ma è così, attraverso
la condizione dolorosa e privilegiata
della solitudine, che il flâneur cresce,
conosce se stesso e il mondo.
Antonella Montedoro
Antonella Montedoro è laureata in Storia
dell´Arte e lavora come bibliotecaria. Ama
dipingere, fotografare e leggere, soprattutto
poesia. Si interessa di arte, in particolare di
iconologia e delle influenze della tradizione
classica sull'arte rinascimentale italiana. È
autrice di alcuni articoli su queste tematiche
usciti su Studi Trentini di Scienze Storiche e
Venezia Arti.
In praise of walking alone
In our technologically advanced, but
humanly poor, contemporary society, the
high number of daily interactions goes hand
in hand with the lack of confidence and
familiarity with others, which means that
solitude becomes an increasingly
widespread condition. At the same time,
staying alone is perceived as useless, it is
not appreciated correctly and is often
feared as an unnatural, unhappy and even
depressive state.
On the contrary, I argue that solitude is a
basic human condition which has several
positive aspects. Nature creates single and
independent human beings. Often, the wish
to overcome a personal crisis and to project
10
Bibliografia:
Benjamin, Walter, ‘I passages di Parigi’,
Einaudi, Torino 2000
Duccio, Demetrio, ‘Filosofia del camminare.
Esercizi di meditazione mediterranea’,
Raffaello Cortina, Milano 2005
Le Breton, David, ‘Il mondo a piedi’. Elogio
della marcia, Feltrinelli, Milano 2003
Nuvolati, Giampaolo, ‘Lo sguardo vagabondo.
Il flâneur e la città da Baudelaire ai
postmoderni’, Il Mulino, Bologna 2006
Rousseau, Jean-Jacques, ‘Passeggiate’,
Tranchida, Bologna 1994
Rousseau, Jean-Jacques, ‘Confessioni’, Rizzoli,
Milano 2000
Sansot, Pierre, ‘Passeggiate Passeggiate’, Il
Saggiatore, Milano 2001
Schopenhauer, Arthur, ‘I manoscritti giovanili
1804-1818’, Adelphi, Milano 1996
Thoreau, Henry David, ‘Camminare’, SE,
Milano 1999
Thoreau, Henry David, ‘Walden, ovvero vita nei
boschi’, BUR, Milano 1997
Woolf, Virginia, ‘Street haunting’ in ‘The death
of the moth’, 1942
a new sense to one's own existence leads to
the undertaking of a journey, a walk which
is necessarily a lonely one. Many of us have
walked, run, or even climbed alone to find a
new balance in the wildlife. Among writers,
philosophers and poets are many solitary
walkers who longed for freedom as a
supreme spiritual condition.
Travelling and walking alone enable us to
better understand the human condition, as
well as to reach a free and personal vision
of it; in the attempt at shaping one's own
identity. The journey is a metaphor of
human existence, with all its ambiguity, its
restlessness, its ephemerality, its
placelessness. Life is always in between
here and elsewhere, without for that reason
being empty and unworth being lived. The
traveller is in perpetual movement, ready
for new peaks and leaps, ready to follow
In praise of walking alone
that green light which is the longing for
completeness, perfection, and selfamelioration. As Thoreau wrote in Walden,
“Direct your eye right inward, and you'll
find / A thousand regions in your mind / Yet
undiscovered. Travel them, and be / Expert
in home-cosmography”.
David Le Breton (2003) defines walking as
the anthropological activity par excellence.
Walking raises questions about one's
existence in this world, as it decentres the
ego and restores the world. By doing so, it
fosters the desire to find one's place in the
plot of the world, to question oneself about
the boundaries towards one's species
companions. Solitude is a necessary
condition to build an individual personality
in a world dominated by mass culture
(Nuvolati, 2006).
Solitude is thus necessary for walking as an
exercise centred upon the ego (Demetrio,
2005). Solitude is a friendly company, a
guide to knowledge and contemplation. “I
never quite know where a path will lead me
to. But I know very well from what it will
take me away from: away from an
Migrazione - 2005
11
In praise of walking alone
indolence which is not wisdom, from
acquiescence, from self-indulgence; in the
solitude that sometimes accompanies my
walking there is no bitterness, as it
uncovers the sweetness in me, which is my
true guide” (Sansot, 2001). Both Thoreau
and Nietzsche loved lonely walks. And
Rousseau noted in The Rêveries of a
solitary walker (1993) and repeated in the
The Confessions (Rousseau, 2000) that he
never felt as much alive as in the journeys
he made walking alone. In 1974, the
director Werner Herzog walked alone from
Berlin to Paris to meet an ill friend, taking
with him only what was necessary: “I
wanted to be alone with myself”, he wrote.
Most of these lonely walkers crossed
mountains, woods, and the contryside. But
there are several lonely walkers in cities,
too. From Baudelaire to Hermann Hesse,
from Paul Auster to Peter Hallberg, there
are many examples. Walter Benjamin
described the Paris flâneur, the lone walker
and observer who roams in the streets of
the big city. Virginia Woolf described a
similar street haunting in London. The
flâneur is open to discovery, but city
walking breeds a different feeling from
walking in the woods. Baudelaire, the poet,
sets his lone journey without a final
destination, he gets completely lost in the
metropolis. Hence the city becomes the
symbol of the fragility of life. Through the
painful but privileged condition of solitude,
the flâneur grows up, he gets to know
himself and the world.
Antonella Montedoro
Antonella Montedoro has a degree in History of
Art and works as a librarian. She loves to
paint, to photograph and to read, especially
poems. She is interested in Art, in particular
iconology and the influences of the classical
tradition on Italian renaissance. She has
written several articles on these topics which
have been published in Studi Trentini di Scienze
Storiche and Venezia Arti.
Soli o accompagnati:
Riflessione da uno sportello pubblico (passando per Philip Dick)
Nell'attimo in cui il mio cervello percepì la consistenza del viale su cui
ero uscito, preso da sconforto, misi a fuoco l'idea dell'esistenza di uno
spazio temporale. La conoscenza/comprensione di altre entità: questo sta
alla base della differenza tra essere soli o accompagnati.
Ero in fila ad uno sportello pubblico,
uno “a vostra scelta”. L'impiegata
chiede alla persona davanti a me di
mostrarle il cartellino: “Ma lei
quanti anni ha?” L'uomo risponde:
“Ne ho 70, sono nato nel 1936”.
Insistendo, l'impiegata replica che le
12
risulta che l'uomo si chiami “a vostra
scelta”, che di anni ne abbia 36,
essendo nato nel 1970. A quel punto
il settantenne si affretta a declinare
le proprie generalità anagrafiche.
Avendo seguito la discussione, in quel
momento mi faccio avanti mostrando
Soli o accompagnati
il mio cartellino: l'impiegata vede che
mi chiamo anch'io “a vostra scelta”,
che ho 36 anni, essendo nato nel '70.
Un'omonimia con inversione dei dati
anagrafici, una stranissima
coincidenza .
Un episodio insignificante. Una
situazione tipica della narrativa di
“Ai confini con la realtà” che tratta,
tra l'altro, di casi di sdoppiamento,
universi paralleli e viaggi temporali.
Possiamo chiederci cosa c'entri tutto
questo con il tema della solitudine.
Il fatto è che sul momento pensai di
trovarmi di fronte al mio alter ego
futuro, un personaggio x con
l'inversione numerica di età e data di
nascita come unico labile indizio. Se
ne sarebbe potuto scrivere un
raccontino satirico sull'efficienza
degli uffici. Invece mi sono chiesto
quale fosse il punto di contatto per
indurmi a una tale riflessione.
Siamo soli o non riusciamo a vedere
chi ci accompagna? Ecco, credo che
questo sia il punto. La persona in fila
poteva essere una proiezione della
mia coscienza o un mio possibile
futuro di solitudine? E come posso
poi definirla una persona “sola”,
conoscendola appena?
Nell'attimo in cui il mio cervello
percepì la consistenza del viale su cui
ero uscito, preso da sconforto, misi a
fuoco l'idea dell'esistenza di uno
spazio temporale. La
conoscenza/comprensione di altre
entità: questo sta alla base della
differenza tra essere soli o
accompagnati.
La mancanza di persone da
conoscere non ci/mi preoccupa:
nostro vero timore è che, incontrando
altre “entità carbonio”, queste non
invadano lo spazio che ci siamo
costruiti. Un fenomeno all'apparenza
contraddittorio, amplificato dallo
stress quotidiano, come succede in
fila agli sportelli.
Allen Ginsberg definì questo stato di
cose come una “solitudine pubblica”.
Cerchiamo di raggiungere dei
traguardi rapportandoci agli altri
sulla base dell'apparire, rateizzando
la nostra anima in una serie infinita
di beni in svendita e giustificandoci
alla nostra coscienza con la scusa di
una quotidiana lotta per la
sopravvivenza.
La solitudine, di questi tempi, sta
diventando una sorta di status
symbol. Solo così una società basata
sul consumo può sopravvivere:
sostituendo la naturale
predisposizione alla socializzazione
con prodotti di varia natura. La
difficoltà di avvicinarsi all'altro, a
prescindere dalla naturale timidezza,
è così accentuata che si preferisce
affidare questo compito ad agenzie o
filtri telematici pur di non affrontare
“l'alieno dell'appartamento accanto”.
Il banale episodio che ho raccontato
sopra mi ha indotto a riflettere sulla
mia/nostra condizione. “Vivere in
una caverna visionando una serie
infinita di film e dove la realtà fa
capolino di tanto in tanto” è sterile.
Altra questione: l'universo conosciuto
è la nostra unica realtà o nel
frattempo qualcuno ne ha creata
un'altra con il fiocco rosa?
13
Soli o accompagnati
L'opposto della solitudine è la
compagnia. Ma cos'è la compagnia?
Una sorta di famiglia che si divincola
tra le difficoltà dell'interrelazione?
Un supporto alla possibilità di
sopportazione dell'altro nelle sue
personali manifestazioni quotidiane
di qualunque genere esse siano? Un
codice d'onore in cui omertà ed
integrità, onore e rispetto si
amalgamano nel culto della virilità?
In un universo parallelo, come ci
apparirebbe la compagnia, in una
sorta di fila per la “pagnotta”? Un
branco di lupi potrebbe definire la
cosa! Una cupola della griffe!
La compagnia è fonte di maturazione
attraverso il confronto quotidiano
con l'altro: questo confronto può
essere un rimedio alla solitudine
pubblica solo se lo spazio pubblico
non viene visto come un centro di
14
smistamento del consumismo, fatto
di loghi e suonerie senza senso.
Credere che possano esistere altri
luoghi e che questi ci possano aiutare
a migliorare la percezione sociale
della differenza tra l'essere soli o
meno, può essere di conforto alla
consapevolezza che non esista solo
l'oggetto. L'uomo non deve essere
relegato in un frigorifero e dal quale
venga tolto solo per lavorare e
consumare secondo un'immagine che
ci viene da un romanzo di Philip
Dick.
Nicola Messina.
Nicola Messina vive e lavora a Trento.
Organizza concerti di musica d´autore con
artisti internazionali di genere Americana e
roots, e si interessa di letteratura fantastica e
fantascienza. www.focusonmusic.org
City - serie - 2005
Solitudine e compagnia
della società occidentale.
Note autobiografiche sulla responsabilità socio-culturale
Solamente in questi ultimi anni ho potuto comprendere che, se sono
venuto in America centrale, è stato perché qui più che in altri paesi tutto
questo continuava, rafforzandosi in centinaia di rivoli alla ricerca di
risposte sociali che permettano alle comunità di proseguire il proprio
cammino.
Quando nel '95 mi spinsi fino alle
isole Bocas del Toro di Panama, in un
primo momento, come una per una
specie di istinto fugace, ebbi paura di
aver sbagliato destinazione, poiché il
mio destino ideale, quello che avevo
in mente, erano le isole Samoa,
nell'arcipelago del Pacifico. Esse
furono tra l'altro uno dei primi luoghi
di ricerca degli antropologi europei:
elementi come il totem, il tabù e il
canibalismo appartenevano agli
antenati culturali di quelle comunità
isolane.
Per la verità, non ricordo come fu,
ma tenevo attaccata sopra la testa
del letto una mappa delle isole Bocas
del Toro, come appunto di qualcosa
da scoprire, che portai per anni e
anni con me e che nel momento
culminante risultò determinante,
quando me ne fuoriuscivo come un
esiliato da un paese dell'Italia del
nord, completamente malato e
depresso, verso l'inizio di un viaggio
interamente sconosciuto e senza meta
apparente.
Le ragioni per le quali feci tutto ciò
mi sarebbero occorse più tardi come
quelle di un programma
computazionale metaconoscitivo, che
tenevo come un microchip nella testa;
ma ciò lo potei scoprire e realizzare
solo quasi dieci anni più tardi,
precisamente ora, mentre lo sto
annotando.
Comprendo ora le motivazioni per le
quali negli anni '80 artisti e
intellettuali tedeschi, austriaci e
inglesi abbandonarono la vecchia
Europa per l'estremo oriente e il
continente africano, alla ricerca di
nuove conoscenze, di patrimoni
originali dell'umanità, per rinnovare
di stimoli e concimi la neonascente
società europea.
Nei primi anni '90 alcune menti
brillanti avevano già compreso che lo
sviluppo mitologico e scientifico della
scuola greco-latina non era
abbastanza ampio per far fronte e
contestare con efficacia tutte le
questioni legate alle necessità che le
nuove scienze stavano sviluppando.
Lo stesso feci io, ma senza nessuna
strategia, né gruppo di sostegno, con
cuore infantile, che tanto mi costò
proteggere dalle intemperie degli
15
Solitudine e compagnia della società occidentale
uragani emotivi che mi raggiunsero,
sicché in più di una occasione
credetti che la mia ultima ora fosse
giunta.
I predecessori di quelli che oggi si
riconoscono e si possono identificare
come Esseri Umani Contemporanei,
erano uomini e donne che a livello
subliminale manifestavano una
particolare attenzione tanto verso gli
elementi della responsabilità socioculturale quanto verso il benessere
psicofisico ed esistenziale delle
persone.
Insieme di tutti quegli aspetti che in
ultima analisi concorrono a
giustificare l'esistenza degli esseri
umani, buona o cattiva, giusta o
ingiusta che essa possa essere,
l'elemento della responsabilità socioculturale potremmo intenderlo come
una elaborazione di ordine
sociologico degli archetipi ancestrali
primari, formati senza dubbio da
secoli e secoli, che è venuta a
prefigurare la società dei consumi di
massa, oggi diacronico-informatica.
Una mescolanza di fattori originali e
derivati si trasmette nelle esperienze
di tipo accademico e nelle
soggettività empiriche che giungono
a stabilire la scala delle norme socioculturali di pertinenza soggettiva, o
alla formazione della coscienza
critica.
Quando una persona, come accadde a
me, si rende conto del cammino che
ha iniziato a compiere, già si trova
molto fuori dalla propria Europa;
perché infatti là vive con un senso
socio-culturale molto profondo ma
16
non percepisce la distanza, il
contesto spazio-temporale nel quale
si trova inserito, la totalità del
mondo stesso all'interno della propria
responsabilità sociale.
Allora una persona si incontra nel
“Tornare ad essere il mondo” e il
“Mondo torna ad essere se stesso”.
A questa condizione molto
particolare concorsero, nel mio caso,
elementi di diversa origine, come una
impressionante sequenza di trappole
che, riconsiderandole meglio ora,
potevano essere una corsa ad ostacoli
per un cieco - con il solo aiuto del
terzo occhio interiore.
Le prove che mi si pararono di
fronte, e che non vado a spiegare in
tutti i particolari, di fatto
rafforzarono sempre più, non la
persona che sta scrivendo queste
note, ma il senso particolare delle
motivazioni per le quali sto
scrivendo. Questa ricerca potrebbe
essere interpretata come una ricerca
decostruttiva di derivazione francese.
E nel momento di raccoglierne i
frutti, mi rendo però conto che tutto
questo non sarebbe stato possibile
senza la sopra ricordata
responsabilità socio-culturale.
Come società occidentali abbiamo
vissuto quotidianamente per secoli la
storia del re nudo, a tal punto che
una ostinata e centenaria miopia
sociale ha potuto consegnare le
società del pianeta all'era
dell'elementarismo diacronico,
secondo la definizione di Roland
Barthes: la necrofilia delle culture
europee e di derivazione occidentale.
Solitudine e compagnia della società occidentale
Millenium - 2005
All'inizio del testo mi chiedevo le
ragioni per cui, invece di andarmene
alle Samoa, finii qui, invischiato alle
radici sotterranee dell'America
centrale, e perché l'asse della storia
evoluzionistica dell'umanità si fosse
spostato per così dire dalle isole
Samoa all'America centrale,
portando con sé tutte le
problematiche dell'antropologia
culturale impostate da Boas,
Malinowski e Lévi-Strauss,
generando degli psicodrammi di
ordine socio-culturale, etico e
religioso che le società future
saranno presto obbligate ad
affrontare in qualche modo solitario.
La causa risiede nel declino delle
istituzioni basate sugli impianti di
paura del tabù e del totem, a
vantaggio delle diverse forme di
cannibalismo riprese nelle società di
cosumo di massa. Si tratta di una
necrofilia socio-culturale, imposta in
tutti i suoi prinicipi dogmatici a
oltranza di fronte alla più pura, più
vera e umile compassione universale.
Solamente in questi ultimi anni ho
potuto comprendere che, se sono
venuto in America centrale, è stato
perché qui più che in altri paesi tutto
questo continuava, rafforzandosi in
centinaia di rivoli alla ricerca di
risposte sociali che permettano alle
comunità di proseguire il loro
cammino.
Questo testo è un primo passo nel
cammino verso la ricerca della
verità, quel cammino con cui Paul
Feyerabend concluse la sua ultima
17
Solitudine e compagnia della società occidentale
intervista: “Mi piacerebbe essere
ricordato come una persona che
cercò di amare”.
Umberto Postal
Umberto Postal è un artista che negli anni
Ottanta e Novanta è stato legato alla corrente
dei neofuturisti. Ha esposto ed è stato recensito
a livello internazionale. Dopo un periodo
trascorso in America centrale, si occupa oggi di
analisi della società contemporanea e di design.
Rapporti moderni
Viviamo in un´epoca in cui il benessere fa maturare i ragazzi sempre
più presto. Il risultato è che tanti giovani hanno rapporti emotivi
importanti in un momento della vita nel quale di norma non ci sono le
condizioni per portarlo avanti con lo scopo di formare una famiglia. Si fa
sesso, ma si è immaturi.e spesso si soffre in modo sproporzionato.
Tutto dipende da tutto. E non solo
dipende, ma si potrebbe dire che in
un dato momento storico i modi di
pensare e di comportarsi si
influenzano a vicenda e creano delle
circostanze tipiche. Questo vale
anche per i rapporti di coppia, che
sono condizionati dalle mode e dai
problemi specifici di ogni epoca. E
qui bisogna fare un'osservazione
piuttosto importante. L'uomo, infatti,
è un essere particolare perché il suo
comportamento viene influenzato da
natura e cultura, le quali possono
essere in conflitto tra di loro. Per i
rapporti di coppia, questo dualismo
ha conseguenze interessanti.
La psicologia evolutiva ci insegna che
siamo una specie ultra-sociale, il che
è anche dovuto al fatto che i bambini
umani dipendono per molto tempo
dai genitori. È per questo, si ipotizza,
che l'attaccamento emotivo duri circa
quattro anni (il tempo minimo prima
che il piccolo possa inserirsi nel
gruppo). In termini simili viene
18
anche spiegato il momento della
menopausa della donna, la quale
dopo di essa normalmente vive
ancora parecchi anni e può quindi
dedicarsi a crescere anche l'ultimo
figlio (la leonessa, al contrario, dopo
la menopausa vive ancora uno, due
anni). Un altro dettaglio biologico
interessante consiste nel fatto che
l'attività sessuale maschile è più
concentrata di quella femminile.
Maschi ritenuti belli hanno più
rapporti sessuali che donne
ugualmente belle, ma è meno
probabile per un uomo brutto (o
meno forte) intraprendere attività
sessuali che per una donna dello
stesso tipo.
Queste tendenze naturali vengono poi
alterate dalle regole culturali con le
quali l'uomo riesce ad adattarsi a
circostanze, che a sua volta
contribuisce a formare. Una
questione interessantissima, che qui
però non può essere approfondita è se
e in che modo la cultura, cioè gli usi
Rapporti moderni
e costumi, cambino la biologia e con
questo la psicologia umana.
A questo punto è utile individuare
alcune tendenze culturali che sono
importanti per capire come stanno
cambiando i rapporti. È tuttavia
necessario mettere in rilievo che
queste tendenze possono anche essere
in conflitto tra di loro, il che
alimenta delle dinamiche particolari.
Guardiamo prima le tendenze.
La prima tendenza importante è il
crescente tasso di istruzione che si è
accompagnato alla secolarizzazione.
L'uomo si sente in modo crescente
padrone di se stesso e del suo destino
e tende a dare meno peso agli
insegnamenti e alle tradizioni
religiose. Questo significa che anche i
matrimoni forse non vengono più
presi così sul serio come una volta.
Connessa all'educazione è la
democratizzazione, che ha portato al
venir meno di rapporti gerarchici in
generale, inclusi quelli famigliari. Il
risultato è anche qui una maggiore
libertà di scelta, trasformando il
rapporto romantico nel rapporto più
normale. L'influenza delle famiglie è
ancora un fattore forte per quanto
riguarda la scelta del partner, ma
sicuramente l'influenza diretta è
diminuita. Infatti, al giorno d'oggi è
raro che i rapporti vengano
combinati per motivi politici o
economici, come era di norma tra i
romani e tra i nobili.
Tra le tendenze più importanti è il
cambiamento dei ruoli, un risultato
del progresso tecnologico che ha
cambiato il mondo economico.
Sempre più lavori non richiedono
sforzi fisici eccezionali e sempre più
ragazze decidono di intraprendere
una carriera lavorativa. Una delle
conseguenze non volute di questo
processo è che in una fase nella quale
il lavoro è scarso, l'affluenza delle
donne sul mercato del lavoro
diminuisce lo stipendio medio dei
lavoratori. In questo modo anche chi
non voleva lavorare è costretto a
farlo per arrivare a fine mese, il che
significa che i processi economici
amplificano il cambiamento
culturale.
Ovviamente l'importanza di queste
tendenze varia da generazione a
generazione, il che porta a delle
dinamiche particolari e crea non
pochi problemi. Per capire questi
problemi bisogna lasciarsi alle spalle
una visione troppo razionale
dell'uomo che lo ipotizza cosciente di
se stesso e capace di prevedere
completamente i risultati delle sue
scelte.
Una visione alternativa al
razionalismo moderno di tipo
occidentale è un complesso di
conoscenze sull'uomo che ci vengono
trasmesse in modo più o meno
esplicito dalle religioni. Un sistema
interessante è ad esempio la
classificazione indiana dei chakra
che, a differenza della filosofia
occidentale che ipotizza un corpo
comandato da una mente, cerca di
unire corpo e mente. In particolare
viene ipotizzato che l'uomo sviluppi
certi tipi di coscienza i chakra in
modo sia sequenziale sia parallelo, il
19
Rapporti moderni
che porta a due concetti
fondamentali la lenta presa di
coscienza e l'equilibrio personale.
Per i rapporti di coppia entrambi i
concetti sono importanti e ignorarli
porta spesso a vivere esperienze
dolorose. Viviamo in un'epoca in cui
il benessere fa maturare i ragazzi
sempre prima. Il risultato è che tanti
giovani hanno rapporti emotivi
importanti in un momento della vita
nel quale di norma non ci sono le
condizioni per portarlo avanti con lo
contraddizione tra di loro i maschi
diventano più femminili e le ragazze
più maschili. Essendo immaturi, non
di rado si agisce sull'orlo di un
femminismo oppure maschilismo
esagerati. Un tale comportamento
conflittuale ovviamente non giova al
rapporto che, per essere felice,
avrebbe invece bisogno di reciproco
rispetto.
Tutto sommato si può dire che i
rapporti moderni sono complicati
perché non ci sono regole condivise
Autoritratto con corna - serie di 4 - 2005
scopo di formare una famiglia. Si fa
sesso, ma si è troppo immaturi e
spesso si soffre in modo
sproporzionato. Tante volte il partner
è il primo che pone dei limiti
all'adolescente viziato, il quale
scarica la sua aggressività giovanile
sull'altro, non conoscendo ancora
abbastanza se stesso e le
conseguenze delle sue azioni.
Si aggiunge la confusione dei ruoli
che porta all'instabilità personale. I
modelli di riferimento sono in
20
da tutti su come vanno vissuti.
Spesso si bruciano le tappe, i
rapporti sono troppo basati
sull'attrazione fisica e tanti fanno
fatica a fidarsi di nuovo dopo una
delusione. Si vivono rapporti
superficiali che non reggono di fronte
a problemi importanti.
I vecchi, d'altro canto, ci trasmettono
un tipo di rapporto basato su ruoli
abbastanza precisi sia per l'uomo che
la donna. In più, per loro il rapporto
era una specie di punto di arrivo.
Rapporti moderni
Ricordo una conversazione con un
signore che mi diceva che sposarsi
significava poter disporre
liberamente dei propri soldi e avere
una relazione con l'altro sesso
accettata dalla società. Un
matrimonio in chiesa significava
dunque che un rapporto completo,
premeditato, era condizione
necessaria per stare insieme.
È ovvio che tornare indietro è
impossibile, anche perché in passato
spesso erano la necessità economica
maturità emotiva e libertà
individuale.
Insomma, direi che abbiamo bisogno
di una nuova cultura dello stare
insieme che si allontana sia da vecchi
schemi che si orientano troppo al
dovere, sia da un individualismo
esagerato che, impedendo lo sviluppo
di rapporti profondi, è fonte di non
poche sofferenze. Forse la filosofia
orientale può darci spunti importanti
per rapportarsi in modo migliore
all'altro. Investire tempo nella
ed il peso della tradizione piuttosto
che la libera scelta o la vera
attrazione che facevano stare
assieme le persone. Tuttavia la
solitudine forzata dei nostri giorni,
dovuta a paure e delusioni,
decisamente non è una situazione
sostenibile. Sarà difficile imparare
che i rapporti non devono essere né
solo piacevoli e superficiali, né solo
un obbligo noioso, ma forse un
qualcosa di più grande che dobbiamo
ancora individuare, qualcosa che
permette il giusto compromesso fra
conoscenza di se stessi è sempre
utile: può quindi essere sano
alternare periodi di compagnia con
periodi di solitudine. In questo senso,
sono importanti entrambi: stare da
soli e stare in compagnia.
Peter Schaefer
Peter Schaefer studia economia e si interessa di
questioni di politica e società contemporanea.
Fa parte del gruppo di discussione `Salone
politico´. È inoltre cantautore e si esibisce
spesso come solista. Informazioni sulla sua
musica potete trovare sul sito:
www.peterschaefer.info
21
Artist’s corner
Test Card - serie
di Federico Lanaro, 2006
Prendendo spunto dalla realtà quotidiana, Federico Lanaro estrapola soggetti, li
manipola al computer e li inserisce in nuove situazioni, in ambienti azzerati,
destabilizzandone il significato originario. Alci che migrano come stormi di
uccelli, elicotteri in formazione che si dipanano su superfici bianche infinite. Ma
l'inatteso entra in scena e dà ai lavori di Lanaro uno scarto in più. Le rigidità, le
perfezioni, le simmetrie che ben si adattavano a un non-spazio bianco e infinito,
vengono spazzate via, entrando prepotente il fattore tempo e quindi l'ineluttabile,
che tramuta quello spazio in qualcosa di possibile, in cui tutte le certezze sono
pronte a diventare incertezze. Marco Tommasini, 2006 www.federicolanaro.com
22
La scrittura. Da soli o in compagnia?
Né privato come l'ego filosofico, né pubblico come il professore o
l'esperto, lo scrittore deve trovare ogni volta la sua leva per far saltare la
contrapposizione tra solitudine della scrittura e compagnia della vita; e
questa leva, si potrebbe anche dire, non è altro che la sua firma.
La scrittura si presenta, a un primo
sguardo, come un'attività
essenzialmente solitaria, forse
persino come l'attività solitaria per
eccellenza. Se guardiamo a una
biografia come quella di Proust,
troviamo due fasi nettamente
distinte, la fase della vita e la fase
della scrittura. La fase della scrittura
ha, rispetto a quella della vita, una
nascita tarda ma un destino
totalizzante: la scrittura fagocita la
vita - essenzialmente una vita che
non è più (tempo perduto) - per
trasformarla in qualcos'altro, forse
qualcosa di superiore (la verità?), in
ogni caso qualcosa di diverso (tempo
ritrovato). Parrebbe, insomma, che lo
scrittore debba compiere una scelta
fondamentale tra la solitudine della
scrittura e la compagnia della vita.
Indubbiamente, la scrittura ha un
ritmo che è diverso dal ritmo della
vita. Persino nei casi in cui il tempo
della scrittura si sovrappone e si
interseca fittamente al tempo della
vita (Kerouac chiuso in bagno a
scrivere delle cose che stanno
accadendo ai suoi amici fuori), i
ritmi delle due attività paiono
destinati a rimanere distinti, secondo
una linea indelebile che separa lo
scrittore dagli uomini (è sufficiente
anche una separazione umile, come
la porta di un cesso). Se le cose
stessero davvero così, come spiegare
però la straordinaria affermazione di
Flaubert, che all'origine della
scrittura vi sarebbe il 'desiderio di
vivere tutte le vite'?
Kafka, forse lo scrittore più puro che
sia mai esistito, dice a Felice di poter
scrivere solo di notte, quando la casa
è silenziosa e la solitudine pare
estendersi all'infinito. Ma non
bisognerebbe lasciarsi ingannare
credendo che l'accento vada posto
unicamente sui due elementi del
silenzio e della solitudine. In realtà,
mi sembra, c'è un terzo elemento che
ha non minore priorità degli altri: la
distensione, l'aprirsi a dismisura,
l'ampliamento all'infinito. Diversi
sono i momenti in cui Kafka
attribuisce la qualifica di 'infinito',
non solo alla scrittura, ma anche al
`compito´ e alla `condanna´. In
ciascun caso, si tratta di aperture.
Kafka tiene sempre aperta la finestra
della camera, anche in pieno inverno.
In questo senso si potrebbero
distinguere i destini incrociati di due
specie diverse di solitari, Descartes e
Kafka: il filosofo della stanza
riscaldata, lo scrittore della finestra
aperta. Descartes è l'ego filosofico
solitario che può trovare una verità
incontrovertibile (io penso) restando
23
La scrittura. Da soli o in compagnia?
uguale-diverso - 2005
dov'è; ma Kafka è la schiera
letteraria estrema che insegue la
necessità di protendersi, di estendersi
all'infinito, transitando, per così dire,
attraverso tutte le storie del mondo
(basta sfogliare i frammenti dei
quaderni in ottavo per vederlo).
`Schiera letteraria´ può non essere
che una cattiva approssimazione del
processo in gioco, ma fornisce, se non
altro, una prima espressione della
posizione di colui che scrive rispetto
agli altri. Né privato come l'ego
filosofico, né pubblico come il
professore o l'esperto, lo scrittore
deve trovare ogni volta la sua leva
24
per far saltare la contrapposizione
tra solitudine della scrittura e
compagnia della vita; e questa leva,
si potrebbe anche dire, non è altro
che la sua firma. La scrittura non
implica solo un ritirarsi separato
(forse anzi lo richiede, di certo non lo
esclude), ma implica - e qui le cose si
fanno più interessanti - soprattutto e
allo stesso tempo un'apertura e una
distensione immensa verso altri. Se
la scrittura fa qualcosa, è mostrare
ogni volta l'altrimenti del pensiero.
Per questo tutti i grandi scrittori
sono stati degli uomini senza
territorio. Ciò non significa persone
La scrittura. Da soli o in compagnia?
prive di relazioni sociali, ma
piuttosto persone prive di relazioni
nella forma territoriale, laddove si
dovrebbe dire che il potere produce
relazioni territoriali per eccellenza,
mentre la scrittura si espleta sempre
come pratica di sottrazione al e dal
potere. Eppure, la sottrazione è solo
una parte dell'esercizio della
scrittura, poiché tale sottrazione non
ha senso se non diventa una
protensione.
La dimensione di protensione entro
cui la scrittura esiste è colta
perfettamente da Canetti quando dice
che lo scrittore è il 'custode delle
metamorfosi'. Scrittore è colui che si
pone all'inseguimento delle
trasformazioni umane nel loro
succedersi incessante. Se si racconta
qualcosa, si raccontano
trasformazioni, e per raccontare le
trasformazioni occorre aprire la
finestra, trasformarsi in tutte le
storie del mondo - in cui ogni
successiva trasformazione racconta
di una ulteriore sottrazione al potere.
Nel saggio su Broch, Canetti
aggiunge che lo scrittore è come il
'segugio del suo tempo': qui
Writing.
Alone or in company?
At first sight, writing looks like an
essentially lonely activity, maybe even the
most lonesome of all. If we consider a
biography such as Proust's, we find two
phases, quite clearly separated from one
another: the phase of life and the phase of
writing. Compared to life, writing arrives
later but is destined to be more
l'immagine del segugio - immagine
dotata di forza straordinaria e per
nulla ridicola, al contrario di quanto
temeva Canetti - indica un rapporto
di inseguimento. Lo scrittore è
sempre all'inseguimento del proprio
tempo, della propria epoca, non le dà
tregua. Ecco perché la scrittura,
come ricordava Deleuze, non è mai
un 'piccolo affare privato', ma ha
sempre una portata sociale,
mondiale, cosmica. Per realizzarsi,
essa deve superare tanto l'essere da
soli quanto l'essere in compagnia, per
diventare essa stessa la 'compagnia',
diventare schiera letteraria,
inseguimento delle trasformazioni, al
cui centro non è più un soggetto, ma
un andirivieni di territori, tane e
fughe. La scrittura è la compagnia
del cosmo.
Andrea Mubi
Andrea 'mubi' Brighenti è ricercatore free-lance
nei territori della sociologia, dell'etnografia,
della letteratura. Ha pubblicato articoli
accademici in Thesis Eleven, Law and Critique,
Current Sociology, Canadian Journal of Law
and Society, Rassegna Italiana di Sociologia, e
Sociologia del Diritto. Scrive racconti brevi, i
più recenti tra i quali sono raccolti nella serie
Civitates. Contatti: www.bung.it.
encompassing: writing embraces life
essentially, life gone (temps perdu) in order
to transform it into something else, possibly
something superior (truth?), but by all
means different (temps retrouvé). Thus, it
may look as if the writer had to make a
fundamental choice between the solitude of
writing and the company of life.
There is no doubt, writing's rhythm is
different from life's. For even when writing
interweaves with life's time (Kerouac sitting
25
Writing. Alone or in company?
in the bathroom and writing about what is
going on with his friends outside), the two
activities do not mix together: an indelible
line separates the writer from the human
beings (a humble divider, such as a toilet's
door, will suffice). But if it were like this,
how could we account for Flaubert's
extraordinary statement that at the outset
of writing is the 'desire to live all lives'?
Kafka, probably the purest writer ever, says
to Felice he can write only by night, when
the house is silent and solitude spans
endlessly. But we should not be misled to
believe that silence and solitude are all that
matters. Actually, I think, there is a third
crucial element: extending oneself, opening
wide, enlarging to the infinite. There are
several points where Kafka attributes the
characteristic of the 'infinite' to writing, as
well as to the Task and to the Sentence. It
is always a matter of openings. Kafka keeps
his room's window open even in the middle
of winter. From this point of view, we may
distinguish two different types of solitaries,
Descartes and Kafka: the philosopher of the
heated room, the writer of the open window.
Descartes is the philosophical ego that is
able to find an irrefutable truth ('I think')
remaining where he is; but Kafka is the
extreme literary pack that by necessity
extend itself to the infinite, flowing - so to
speak - through all the stories of the world.
'Literary pack' may turn out to be just a bad
approximation of the phenomenon at stake,
but at least it gives us a starting point to
describe the standing of the writer vis à vis
the others. Neither private, as the
philosophical ego, nor public, as the
professor or the expert, the writer has to
create each time a way to bypass the
opposition of the solitude of writing and the
company of life. This 'way' is but his
signature. Although writing may ask for
loneliness - or, at any rate, it does not
prevent it it also implies an opening and an
immense extension toward others. Writing
shows the 'otherwise' of thought, and that is
why all great writers have been persons
without a territory. 'Person without a
territory' does not mean a person without
26
social relations, but rather a person without
territorial relations, i.e. relations imbued
with power. Indeed, writing is a practice of
subtraction from power. Yet, subtraction is
only the first part of writing's endeavour,
because subtraction does not mean anything
if it does not become pro-tension, or
tension-towards.
The tension-towards that is inherent to
writing is perfectly expressed by Canetti
when he says that the writer is the 'keeper
of transformations'. The writer is constantly
hunting for ongoing human
transformations. The object of narration
are transformations, and in order to tell
them one needs to open the window, to
transform oneself into all the stories of the
world where each successive
transformation tells about a further
subtraction from power. In the essay on
Broch, Canetti adds that the writer is like
the 'hound of his time'. The image of the
hound with all its extraordinary vividness,
notwithstanding that Canetti expressed the
fear that the image could sound ridiculous
indicates a hunting relationship. The writer
hunts restlessly the present, the time being,
her historical age. As Deleuze reminded us,
writing is never 'one's own small business';
on the contrary, it always has a social
scale, a world scale, a cosmic scale. It must
overpass both being alone and being in
company, in order to become the 'company'
in itself, to become the literary pack,
haunting of transformations at whose
centre is no longer one subject, but a
coming and going of territories, dens and
flights. Writing is the company of the
cosmos.
Andrea Mubi
Andrea 'mubi' Brighenti is a free-lance
researcher in the realms of sociology,
ethnography and literature. He has published
academic articles in Thesis Eleven, Law and
Critique, Current Sociology, Canadian Journal
of Law and Society, Rassegna Italiana di
Sociologia, and Sociologia del Diritto. He, also,
writes short stories. The most recent ones are
collected in the series Civitates. Contact:
www.bung.it.
Impressum
Lo squaderno è
Andrea ‘Mubi’ Brighenti
Alberto Brodesco
Nicola Messina
Antonella Montedoro
Stefano Picchetti
Umberto Postal
Peter Schaefer
***
Immagini di
Federico Lanaro
[email protected]
***
Grafica di
Sara Degasperi
[email protected]
***
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Anno 1, Numero 2
Dicembre 2006
Nel prossimo numero ‘Spazi, nomi, territori’.
27
Lo sQuaderno
RIVISTA DI DISCUSSIONE CULTURALE
Non risparmia né me
né te
Tesoro Mio
e rimbalza in questi carapaci fragili e
molli
il Nome di ogni parola.
In un attimo lucido
come sulla neve morta
tutto è uguale per dimensione
tutto è a fuoco
e un ferino --ar accerchia
ruggente e rapace
da ogni direzione
e lì lasciata
e io lasciato.
Come me, credo, ordisci
ogni riparo che speri sia comune
agli altri a te stessa.
E insieme ordiniamo di Nuovo le dita
delle mani
l´una nell'altra differenti e perfette
fra loro.

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