tura - Piera

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tura - Piera
ANGELO DETTORI
GOLOSSARIO
SARDO –LOGUDORESE
Indagine su vocaboli enigmatici, ignorati o mal noti
per la salvezza del patrimonio linguistico sardo
EDIZIONI 3T – CAGLIARI
1978
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PRESENTAZIONE
Presento umilmente agli studiosi di linguistica ed a tutti coloro
che hanno a cuore il patrimonio linguistico sardo questo studio
di indagine su vocaboli enigmatici, ignorati o mal noti delle
parlate dei nostri padri antichi.
Non pretendo d'aver fatto un'opera di scavo in profonditàdel
nostro lessico; tuttavia ho motivo di ritenere di aver
ottenutoqualche risultato utile per tutti i cultori del sardo
idioma.
E se riceverò qualche autorevole consenso, questo sarà il miglior
premio per questa mia umile fatica.
Angelo Dettori
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ABBREVIAZIONI
a. – anno, avanti
A. - autore
agg. - aggettivo
Arch. - Archivio
art. - articolo
camp. - campidanese
cat. - catalano
cit. - citato-a
cm. - centimetri
Cod. - Codice
collett. - collettivo
cong. - congiuntivo
CSNT - Condaghe San
Trullas
CSPS - Condaghe San Pietro
di Silki
DES - Dizionario Etimologico
Sardo
det. - determinativo
dim. - diminutivo
ecc. - eccetera
Et., et. - etimo
f. - femminile
fasc. - fascicolo
fig. - figurato-a
franc. - francese
id. - idem
imp. - imperativo
interiez. - interiezione
it. - italiano-a
lat. - latino
log. - logudorese
m. - maschile
manoscr. - manoscritto-a
merid. - meridionale
mod. - moderno
nuor. - nuorese
op. - opera
pag. - pagina
pers. - persona
pl. - plurale
pres. - presente
Rep. - Repubblica
sec. - seconda
sett. - settentrionale-i
sing. e s. - singolare
sost. - sostantivo
spagn. e sp. - spagnolo
Stor. - Storico
StSa - Studi Sardi
suff. - suffisso
term. - termine
Terran. - Terranova
top. - toponimo
V. - vedi
v. - verbo
voc. - vocabolo
vocab. - vocabolario
vol. – volume
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ENIGMI ED ASPETTI PECULIARI
DELLA LINGUA SARDA
Con la ripresa e l'approfondimento degli studi sui dialetti sardi ad
opera di linguisti moderni, specialmente del Wagner che vi ha
dedicato decenni di febbrili indagini e di dotte elaborazioni, in
questo secolo il sardo è ormai riconosciuto come una lingua vera e
propria. E per lingua sarda deve intendersi il complesso dei dialetti,
cioè del logudorese, del nuorese (esteso ad una vasta area del
centro), del campidanese o meridionale, esclusi il gallurese, il
sassarese, l'algherese ed il carlofortino che hanno origini e
caratteristiche diverse e sono dissimili anche fra loro. Questa lingua
riflette le condizioni di una economia curtense, cioè di vita
economica e sociale sin dall'origine e per molti secoli di una società
chiusa nei confini dell'Isola: la società agro-pastorale. Perciò il suo
lessico comprende prevalentemente i vocaboli della vita rustica. Il
sardo, quindi, è una lingua lessicalmente povera a paragone di altre
lingue romanze, sebbene arricchitasi con assimilazioni di varia
natura nell'età moderna. Formatasi durante la dominazione romana
dell'Isola, già strappata ai punici che ne avevano fatto una provincia
di Cartagine, ebbe per nutrici più generose la lingua greca e la
latina, prevalentemente questa, con le quali ha amalgamato le sue
parlate originarie. La grande analogia che il sardo serba col latino è
stata, per molti secoli avanti, motivo di sorpresa e meraviglia per
gl'incolti, di indagine e ammirazione per gli studiosi. Le
infiltrazioni di genti d'oltre mare attraverso scali marittimi divenuti
empori, l'insediamento di colonie e le dominazioni straniere
nell'andare dei secoli non potevano non influenzare e trasformare il
substrato, racchiuso nelle articolazioni dei neolitici sardi e delle
genti nuragiche, a noi sconosciute per la mancanza di una grafia che
nessun reperto archeologico ci ha tramandato. Così il sardo trasse
linfa dal greco attraverso gli insediamenti ellenici passati al nord
della Corsica, tanto che ancora oggi se ne hanno chiare vestigia in
vocaboli in uso, come theràccu (da therapon, servo), orìzu e orìzàre
(da orizo, orlo, margine, confine), mustàzzu (da mustacs, baffo),
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ingalenàre per assopire, appisolare (da galene, calma, bonaccia)
condàghe (da contàchion) e tanti altri. Assimilò anche molti
vocaboli fenici attraverso gli scali marittimi e commerciali di
Calaris, Nora, Bitia, Sulcis, Tharros, Cornus, Turris e Olbia, che
furono i principali, divenuti poi centri sardo-punici di espansione
economica e culturale. Introdusse perfino un filone berbero,
limitato ad una ottantina di vocaboli — come ci riferì il Wagner
allorché da Washington tornò in Sardegna nel gennaio del 1956—;
per es. tilighèrta (lucertola), tilingìòne (lombrico), tiligùgu (cicigna,
specie di lucertola), tilipìrche (cavalletta), tilibrìu (falchette) ed altri
vocaboli estesi variamente alla vita rustica. I vocaboli citati, che
iniziano con la sillaba ti, nell'originario berbero avevano questa
sillaba per articolo, per cui erano nominati: lighèrta, lingiòne,
ligùgu ecc.; ed incorporati poi nel parlare incolto dei sardi furono
rimpinzati con gli articoli sardi sa o su al singolare del logudorese e
dei rispettivi plurali La dominazione spagnola, che durò ben
quattro secoli, influenzò a lungo la lingua sarda. Così abbiamo nel
sardo molti catalanismi e spagnolismi. Es.: assussegàre,
assussegàdu, denominali di assussègu o sussègu (rispettivamente
per acquietare, calmare, calmo o tranquillo, quiete o riposo);
ampàru (guida, sostegno, protezione); hermànu (germano, puro);
olvìdu e olvidàre (per oblio e obliare); sobràdu (per avanzato,
maggiore, sovverchio); ventàna (finestra, balcone); hermòsa,
hermosùra (per bella o avvenente, bellezza o avvenenza); herège
(eretico); trampa, trampèri (per inganno o truffa, ingannatore o
truffaldino).
Durante la dominazione aragonese numerose colonie ebraiche,
provenienti da Barcellona e dalle Baleari si stabilirono nell'Isola e
aumentarono il numero degli ebrei che già vi risiedevano.
Attraverso il consolidarsi di queste colonie, nei centri più
importanti come Alghero, Oristano, Bosa, Iglesias, ancor più a
Cagliari dove esisteva già da tempo una sinagoga, e l'espandersi dei
loro commerci, la lingua sarda assimilò pure dei vocaboli ebraici,
non molti però, come vorrebbe lo Spano. Con la dominazione
sabauda, che ebbe inizio nel 1720, il sardo ha assimilato molti
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vocaboli italiani, specialmente della terminologia del costume, della
tecnica, dello sport. Quest'assimilazione, che si riscontra facilmente
nelle parlate odierne, ha inizio soltanto nell'800 perché in Sardegna
ha continuato a sopravvivere ufficialmente la lingua spagnola,
parlata e scritta (nelle scuole come nelle chiese, presso i notai e nei
tribunali, in uffici pubblici e privati) per tutto il '700 e fino a
dileguarsi e scomparire intorno al primo decennio del secolo
successivo.
Pur attraverso questo crogiuolo in cui nei secoli si è sviluppato a
suo modo, il sardo ha mantenuto integra fino ad oggi la
caratteristica che lo avvicina al latino (la stessa che aveva stupefatto
Dante e Fazio degli Uberti), pur conservando dei filoni lessicali del
substrato, con particolari aspetti nella sua toponomastica. Ed il
substrato ci tramandò degli enigmi che attendono ancora la voce
veritiera dell'oracolo.
Vediamo di passare in rassegna dei vocaboli, già esaminati da
studiosi o da sviscerare ancora, che per il loro «colore oscuro» o per
discusse e non sicure o non esatte interpretazioni, meritano
l'attenzione di specifici cultori e non di questi soltanto.
ABBA CRASTA - E' l'acqua un po' oleosa che spurga dal frantoio
durante la macinazione delle olive. Nel glossario da me pubblicato
in appendice di «Rizolos Cristallinos» riportavo il detto: «giughes
in conca s'abba crasta» rivolto a qualcuno che viene considerato un
cervellotico o di poco senno. E soggiungevo: «Crasta riteniamo che
sia apocope di crastada, cioè sterile: per cui il liquame che cola dal
frantoio non è che il rifiuto di decomposizione dell'olio, la feccia.
Che s'abba crasta sia lo spurgo dell'olio che cola dal frantoio non c'è
alcun dubbio; debbo però ricredermi da quell'apocope di «crastada»
al lume della definizione tecnica di abba crasta che mi ha fornito
l'amico sassarese Aldo Dessì, studioso di botanica, oltre che attento
indagatore di altri interessi culturali.
Si consideri che il frantoio antico, usato per la macinazione delle
ulive, era costruito stabilmente sopra un piano roccioso, la cui base
formava un recipiente denominato (in sassarese ed in logudorese)
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chirriottu, entro il quale fluiva l'acqua di vegetazione mista ad olio.
E poiché veniva gettata continuamente dell'acqua caldissima sopra i
fiscoli incolonnati per la pressione (maggiormente alla fine di ogni
torchiatura), per rendere più rapida la separazione dell'olio di
superficie dall'acqua di vegetazione, si otteneva la raccolta di tutto
il liquido entro il recipiente roccioso, cioè il chirriottu, procedendo
poi in questa tecnica: ivi depositato il liquido della torchiatura, si
raccoglieva in superficie, usando delicatamente una scodella, l'olio
che vi affiorava; di modo che rimaneva nel chirriottu solamente
l'acqua un po' oleosa, che successivamente veniva depurata in un
altro recipiente roccioso, molto più ampio del primo, chiamato
inferno, dove l'olio affiorava in minore quantità, mentre l'acqua
pura di vegetazione veniva scaricata nelle fogne. Quest'acqua così
depurata è chiamata abba crasta. L'aggettivo «crasta» sarebbe
pertanto derivato dal crastu (roccia) di cui erano formati i due
recipienti (il chirriottu e l'inferno), nei quali veniva depositato il
liquido del frantoio attraverso il processo di depurazione dell'olio
dall'acqua di vegetazione.
ABBERCHEDDARE - E' voce che lo Spano non registra nel suo
prezioso vocabolario. Antonio Sanna in «Note Sardologudoresi », la
ricava dalla parlata viva di Bonorva nel significato di «rimpinzare,
detto specialmente di bevande». Qui è bene subito precisare che
abbercheddare, nell'accezione comune di quella parlata, è usato per
satollarsi, rimpinzarsi non soltanto o specialmente di bevande, ma
di cibi di ogni natura; come pure abbudegàre. E per questo
apprezzato studioso della lingua sarda «le due voci logudoresi
appaiono formate, rispettivamente, da cella (ad-per-cella+are) e su
apotheca (apotheca + are)» e le considera «due metafore tratte dalla
terminologia della casa romana e perciò molto antiche».
Il Wagner, nel suo Dizionario Etimologico Sardo riprende in esame
il verbo abbercheddare e spiega: «sbavazzare, riempirsi lo stomaco
di bevande». (Ma non soltanto di bevande, come abbiamo
precisato). Sarebbe, secondo il Sanna, un derivato da CELLA (adper-cella + are).
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Questo verbo e abbudegàre (-» budda) sarebbero sempre, secondo
questo autore, due metafore tratte dalla terminologia della casa
romana e perciò molto antiche. E' appena necessario fare osservare
che una formazione AD-PER-CELLA + are è, dal punto di vista
formale, semplicemente impensabile. Noi non crediamo
nell'antichità di questa parola, né di abbudegàre, ma vediamo nel
verbo bonorvese un derivato da porcheddu, cioè comportarsi come
un porco». Così il Wagner. Chi scrive non si sente di sfiorare
minimamente l'autorità del Wagner quando osserva che «dal punto
di vista formale» la derivazione del vocabolo strutturata in ADPER-CELLA + are «è semplicemente impensabile». Però umilmente
si sente di non poter accogliere la sua opinione nel vedere «nel
verbo bonorvese un derivato da porcheddu». Perché gode del
suffragio diretto, in questo suo dissentire, dalla lingua viva dei
bonorvesi, che è pure la sua lingua di latte, appresa nobilitata dal
«miglior fabbro parlar materno» — per dirla con l'Alighieri — che
fu il Paolo Mossa. Che da porcheddu potesse derivare
abbercheddare
(se
mai
più
naturalmente
deriverebbe
apporcheddare), è un dubbio che non si dissipa facilmente anche
dal «punto di vista formale». Perché abbercheddare deriva
semplicemente da berchedda, che è l'uccellino ancora implume nel
nido. Quando la madre degli uccellini implumi, tornata ai suoi
piccini col pieno di larve e di vermi, li alimenta fino a rimpinzare il
gozzo; e questa azione è comunemente chiamata abbercheddare.
Chi scrive, da fanciullo, è salito (oh, quante volte!) in cima agli
alberi più protesi al cielo per snidare uccellini e prende piene mani
sas bercheddas. Non è un dubbio, dunque, ma assoluta certezza. E
per analogia figurata si dice abbercheddadu un beone o crapulone
che si è riempito fino al gozzo...
Come si vede la giusta spiegazione è... l'uovo di Colombo.
Sentiamo ancora il Wagner. Alla voce chedda, sempre suo
dizionario etimologico, cita lo Spano: anche una quantità di frutta e
di altre cose», oltre, cioè, a significare un piccolo branco di animali
(di pecore, capre, suini ecc.) come il vocabolo è comunemente inteso
in tutta l'area del logudorese.
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Nelle parlate montagnine, al centro dell'Isola, si dice grustu: unu
grustu de arveghes o berbeghes, che è qualcosa meno o frazione
del masone). E poi, continua il Wagner: «riferito a persona : «prossa
kella dessos Murtas d'Enene... ca los chereat a sservos tottu». Ma
più precisamente riferito ad animali «Dande .XL. maiales e II
verveghes pro porcu a parthires uniskis cun CHELLA sua». Ora
vien da chiedere: se CHELLA delle citate carte antiche sta per
chedda, come risulta chiaramente, ed il passaggio dal più antico
CELLA appare pensabile, non è il caso di riesaminare la
derivazione formulata dal Sanna per abbercheddare o di proporne
un'altra? Non potrebbe considerarsi apprezzabile l'opinione che
abbercheddare fosse in antico l'azione di saziare, rimpinzare sa
chedda de sos puzoneddos? La soluzione dell'enigma non consiste
più nello stabilire da quale parola derivi, nell'ambito del
logudorese, abbercheddare, perché abbiamo visto come risulti con
certezza un denominale di berchèdda, ma quella di cercare l'etimo
di quest'ultimo vocabolo. E questo è compito dei viventi studiosi e
cultori di linguistica sarda, giacché il Wagner, il più qualificato dei
nostri tempi, non può dall'al di là più intervenire sull'argomento.
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ALTRI ENIGMI E PECULIARI ASPETTI
DELLA LINGUA SARDA
AJUBORE - Significa gioia grande, talvolta con turbamento. Per
Antonio Sanna in «Note sardo-logudoresi»: «gioia grande mista a
timore; voce ormai rara». II poeta Paolo Mossa in «Su lamentu», nel
rievocare le gioie amorose condivise con la sua adorabile Gisella:
«Ahimè, cant'ajubore! / Cantos teneros carignos! ». E' un ajubore
sentito nell'intimo trasporto. Però in «Sa mariposa», nel descrivere
la falena che, svolazzando intorno al lume or s'avvicina ed or se ne
allontana per ritornarvi sempre piti attratta dalla luce, fino a
bruciarsi un'ala e rotolarsi per terra, da cui il Poeta la solleva e poi
la vede d'un tratto pigliare nuovamente il volo dalla palma della
sua mano verso la finestra aperta: «A bolos tales, a vista simile / su
coro mi riesit de ajubore», in cui è veramente espressa una «gioia
mista a timore». Quindi è da ritenere che ajubore sia l'esito di aju
più pore, corrispondente, cioè, a quiete gioiosa dell'animo mista a
timore (che è il significato del secondo elemento, se si tien conto che
ornine de pore vuol dire uomo che incute timore).
ALAPÌNNA - Rifugio naturale o riparo occasionale di campagnoli
in tempo piovoso o nevoso, costituito per lo più da una parete
rocciosa con cappellaccio sporgente, a riparo del quale trovano
rifugio pecore, buoi ed altre bestie, oltre che delle per sone. Spesso i
pastori ed i contadini trovano un riparo occasionale dalla pioggia e
dal vento mettendosi a ridosso di un muro alto e ben assiepato,
come in alapinna: a pinna a bentu o de sa fiocca. L'esito di
alapinna è pertanto ala più pinna, come voler significare un'ala di
riparo. Da pinna (riparo) derivano pinnettu e pinnetta (capanne
rurali).
ANNUIADORZU - E' la rotula del ginocchio, anche gomito, che si
piega come per rotella. In logudorese è frequente l'espressione: «Mi
faghene male tottu sos annujadorzos». Voce in disuso è il verbo
annujare, per piegare meccanicamente. E’ da ritenere che
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annujadorzu, sostantivo m., sia un deverbale, appunto da
annujare. Né del verbo né del sostantivo fa cenno lo Spano e
neppure il Wagner. Per annujare è proponibile la derivazione da
AMMUJARE scomposto in A + mujare che, per aferesi del prefisso
a ci dà il verbo oggi in uso nel significato di piegare. In questo caso
mujare sarebbe il continuatore moderno di annujare.
ASSUSSEGÀRE - E' voce spagnola: asosegar. Sinonimo asseliare,
significa calmare, star tranquillo, acquietarsi. Mia madre,
richiamandomi da ragazzetto per la mia irrequietezza, mi diceva
spesso: «Elio assussegadi a una 'olta!». E Sebasiano Satta in «Don
Chisciotte»: «... e da hidalgo asosegado / Divenne, o sogno,
caballero andante...».
ATTRASETTARE - Lo Spano ignora questo verbo logudorese, il
Wagner lo ha raccolto. E' un denominale di trasettu (abbattimento,
mortificazione). Il Mossa in «Sos deunzos»:
«Troppu troppu bos hana attrasettadu
custos deunzos a panza piena».
E annota nel suo manoscritto: «Attrasettare, estenuare, abbattere,
mortificare». L'etimo di attrasettu è da ricercare.
BOZZIGA - Ero ancora giovanetto quando per la prima volta mi
sono interessato di capirne il significato. Tuttora è in uso a Bonorva
la locuzione: «Non bidet mancu sa bòzziga» (per uno che è cieco del
tutto). Per quante indagini avessi svolto da giovane, anche
interrogando persone anziane da qualche decennio a questa parte,
non ero riuscito nello scopo. Nessuno mi aveva saputo dire che cosa
fosse «sa bòzziga». Tutti, però, mi avevano spiegato concordemente
che il «non bider mancu sa bòzziga» significava non veder proprio
niente. Uno degli anziani che avevo interpellato, che parlava il
logudorese schietto e conosceva molte voci arcaiche, azzardò questa
spiegazione: «bòzziga = bozzigòne (per accrescitivo) e buccicòne in
campidanese, dato sugli occhi (e chi non lo vede est zegu pàbaru)».
(Pàbaru, aggettivo appropriato per l'uovo mal concepito, senza
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guscio e avvolto da una sottile membrana bianca, simile alla cornea
di molti ciechi). Su questa semplicistica e lepida spiegazione
verrebbe ora da ridere, ma anche da ripensarci, poiché son venuto a
sapere che cosa in concreto fosse anticamente la bòzziga, come per
addentellato di similitudine. Il vocab. bòzziga, ignorato dai nostri
vocabolaristi, non è più un enigma da sciogliere. In seguito a nuove
indagini da me svolte alcuni anni orsono, ne ho avuto l'esatta
spiegazione dall'amico poeta Raimondo Piras di Villanova
Monteleone. Nella parlata di quel paese (conservativa come di
un'isola linguistica logudorese) il termine bòzziga è ancora vivo e
significa una pallottolina di carta o di straccio (può essere anche
una mandorla o una noce) di cui le massaie si servono per iniziare il
gomitolo di un filato lino, di lana o di cotone: a mano a mano che i
giri del filato avvolgono, incrociandosi ed infittendosi in tutti i
sensi, nocciolo, occultato al centro, finisce col non vedersi più,
stessa guisa come non si vede dall'esterno di una pesca il nocciolo.
Per cui il non vedere manco una bòzziga è come essere ciechi del
tutto o creduti tali. Ora che l'enigma della frase idiomatica
bonorvese ha avuto la giusta spiegazione l'oracolo di Villanova
Monteleone, a me non resta che opinare (pestando luovo di
Colombo) che l'arcaica bòzzica equivalga la moderna boccia.
CONNOU - Cordoglio, afflizione, angoscia. «Ohi, coro pienu de
connou!» (da un'antica canzone popolare). Ed il Mossa in «Sa cazza
a ischeliu»: «prò te in grave perdita e connou!» per te in grave
perdita e afflizione. Tanto il Wagner come lo Spano hanno ignorato
il vocabolo connou, l'etimo del quale è da ricercare come un'ago nel
pagliaio.
CULVENU - In logudorese significa custodia, serbo, ritiro, Ponner
in culvènu è l'atto di ritirare, custodire, conservare, riservare,
nascondere una cosa. Culvènu indica anche il posto o il luogo in cui
si conserva una cosa, si nasconde anche un uomo. Es «Su nuraghe
fìt su culvènu sou (o de sa fura sua)». In senso figurato: culvenare
in sas intragnas, per custodire o conservare nell'animo. Lo Spano
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ignora culvènu e culvenare; neppure il Wagner ha registrato queste
voci. Anche di questo sostantivo non si conosce l'etimo.
GALIU - E' aggettivo usato a Bonorva dagli anziani per significare
un oggetto di scarsa misura, non adeguato all'uso o al congegno cui
è destinato. Per es.: è galìu o galìa un tappo troppo piccolo per il
collo di una bottiglia; una vite di scarsa sezione rispetto ad un dado;
una pietra o un mattone per il buco che si vuol tappare; e così via.
Sinonimo di galìu è menguante.
Lo Spano non raccoglie questa voce ancora viva e certamente
antica. Neppure il Wagner. E' sconosciuto il suo etimo.
GHIU - Leggendo il saggio introduttivo sapientemente svolto da
Gonario Pinna, l'illustre penalista nuorese e chiaro umanista, nel
presentare la «Antologia dei poeti dialettali nuoresi» da lui curata e
commentata, rileviamo che il Pinna si è imbattuto in un vocabolo a
lui completamente ignoto e che ha riportato da una poesia del
nuorese Nicola Daga. E' il vocabolo Ghiu che il saggista non ha
riscontrato nei vocaboli dello Spano e del Porru e neppure nel
Dizionario Etimologico Sardo del Wagner. Nei versi riportati il
poeta «rimprovera ad un giovane il proposito di sposare una donna
resa incinta da altri»;
Asiu nd'has isseperta isseperta
como chi b'hat in mesu atteru GHIU.
Ed alle prese con ghiu il Pinna chiede lume a degli anziani. Taluno
di questi gli «ha tradotto ghiu per seme», tal'altro lo «ha tradotto
per nocciolo», ma il più vecchio dei nuoresi» da lui interpellati lo
«ha tradotto invece per sterco» spiegandogli «che un animale lascia
nel pascolo il segno della sua presenza nello sterco, così il giovane
temerario che vuol sposare una donna impedia, non può sceverare
l'autore della gravidanza della donna perché "c'è in mezzo altro
sterco", vi ha pascolato altro bestiame». La metaforica
interpretazione del «più vecchio dei nuoresi» dev'essere sembrata a
Gonario Pinna, oltre che chiave di similitudine, più simpatica e
poetica, e l'ha senz'ai accolta nella traduzione in italiano che ha fatto
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dei versi DEL Daga qui sopra citati. Sterco e non seme, dunque. Ma
linguisticaraente non regge. Perché è proprio seme la traduzione
ghiu, nella sua accezione comune. Se il Pinna, consultante Spano,
avesse avuto l'intuizione (che è venuta a chi scrive) cercare la voce
logudorese CHIÙ = GHIU nuorese per passaggio della c dura in g
aspra avrebbe subito appreso da Spano che chiù vuol significare
seme (e non sterco), come Log. ed al Sett. è risaputo: «midollo,
nocciolo». A Tonara termine muta in giù (per le noci, noccioline,
mandorle se guscio, con cui si confezionano i torroni). Nelle
espressioni consuete dell'area logudorese si ha dalla viva parlata: su
chiù sa mendula, de sa nizzola, de sa pruna ecc. In logudorese su
chiù rè il nocciolo, che viene chiamato ossu (s'ossu de su pessighe
su barracocco ecc.), ma ciò che sta dentro il nocciolo, cioè seme vero
e proprio. In campidanese (vedi il Porru) chiù sta pisu: su pisu 'e
su prèssiu ecc., anche delle leguminose, prese le selvatiche (che,
invece, nel logudorese viene chiamato séme-E' tipicamente lepido
nell'umorismo campidanese il detto: «fa pisu» per indicare un figlio
bastardo. Seme, dunque, e non sterco. Ma il Pinna, tutto preso dalla
metafora del «più vecchio», l'ha adottata. De gustibus... Eppure
seme è più poetico di sterco (che così a crudo non soddisfa neppure
il palato). Ed anche per un altro gusto: che traducendo «c'è in
mezzo altro sterco» appare implicito che quello verrà dopo, cioè il
seme del giovane che vuol sposare la donna incinta da altri, sia
pure dello sterco, mentre sarà sempre buon «seme d'Adamo». Per
noi ha pienamente ragione quel «taluno» dei nuoresi che ha
tradotto ghiu per seme.
GIANNITTARE - Significa l'abbaiare del cane in modo
lamentevole, quasi piagnucolando. E' verbo diffuso nell'area del
logudorese Molto comune nel mandamento di Bonorva, in uso
particolarmente in bocca ai pastori e contadini. Anche usato il
sostantivo giannìttu, per guaito. Ciò fa ritenere che anche il
sostantivo Sardo abbia, come per l'italiano, la matrice in vagitus. Lo
Spano non ne fa cenno (dobbiamo ancora lamentarci) e neppure il
Wagner. Pietro Casu che ebbe la parlata logudorese settentrionale,
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nella poesia «Primos passos» ne dà un chiaro esempio descrivendo
un bimbo: «Cun una canna presa s'infusilate faghet giannìttare su
catteddu». E' d'uopo risparmiare altre esemplificazioni per
necessità di spazio.
GRUSARE - In logudorese sta per amareggiare, intristire,
intisichire. Modi di dire: Ah, comente ses grusadu! Mi so grusende
cun tantos pensamentos. Il Mossa nella poesia «Su disterru»
(l'esilio):
«In breve hat a finire su disterru
chi nos grusat sas dies de sa vida».
Lo Spano non registra il verbo grusare; neppure il Wagner nel suo
Dizionario Etimologico Sardo.
Ancora il Mossa in «Su cazzadore».
«Non mi conto pius prò cazzadore
ca sa fortuna in tottu m'hat grusadu».
E annota in un suo manoscritto: Grusare, deprimere, avvilire. Ma
qual'è il suo etimo?
ILLIERARE - E' pacifico che illieràre = liberare. Lo spano: «da levis
o liber». E' voce viva in Logudoro per indicare il partorire di una
donna (mai di un animale, per lo sgravarsi quale è appropriato il
verbo anzàre). Il Wagner nel DES, alla voce illiberare cita «illieràre
logudorese (Cuglieri: illioràre; illiorai! campidanese (Sulcis)
partorire = liberare.
E' pensabile che il verbo illieràre abbia qualche relazione col
vocabolo lieru = libero. In Logudoro lieru è voce ancora usata dagli
anziani. Omine lieru = uomo libero, senza impacci, immune da
imposizioni, non censurato da alcuno, quindi anche franco e leale.
Questi significati traslati sono da ritenere derivati in origine,
dall'uomo medioevale di libera condizione, non servile. D'altro
canto in Logudoro si diceva dagli anziani (e forse si dice ancora):
«est liera» per una donna che ha partorito da poco, cioè libera
perchè si è sgravata. Oggi è più corrente il «s'est illierada».
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INZOTTU - Tace lo Spano ed anche il Wagner su questo termine
logudorese. Né lo riporta il Porru che abbiamo consultato nel
sospetto che fosse voce trasmigrata dal campidanese, come
vedremo dopo per il vocabolo minzìdiu (bugia, menzogna). A
Bonorva inzottu sussiste, in bocca degli anziani, nel significato di
fatica imprevista, di pena causata da imbroglio, da un affronto
immeritato. Un modo di dire: già mi l'has dadu s'inzottu. A
Nughedu San Nicolò, invece, è usato in senso di rimprovero, di
rimbrotto E la sua derivazione? Potrebbe essere una variante di
azzottu (per sostituzione del prefisso in con a e raddoppiando la
consonante z). Azzottu, infatti, è registrato dallo Spano nel
significato di «rimprovero, rimproccio», indicandone l'uso a
Posada, proprio nel senso di inzottu usato a Nughedu.
ISCULPÌRE - Lo Spano: «scolpire». (Sic et simpliciter). Registra, per
contro, iscurpire per verbon. «logudorese ottenere, conseguire ». Il
Wagner nel Dizionario Etimologico Sardo fa una lunga discussione
su isculpire citando passi di carte antiche; per il logudorese mod.
iskurpire cita lo Spano; «iskrùffere (Marghine e Bitti)»; per
skruffìri (campidanese) cita il Porru, nel significato di ottenere (p.
es. un impiego) e skruffirisì per difendersi, liberarsi; ed il Garau in
«Campanas »: «sa di chi m'ia podi scruffì una parigh' 'e soddus» (in
senso di guadagnare un po' di soldi). Infine ritiene di osservare, in
parentesi, che la derivazione da CULPA, proposta in Vox Rom. V
147, «è meno probabile». Su questo punto dissentiamo dall'illustre
studioso. Chi scrive ritiene, invece, che il Wagner non abbia
approfondito né esaurito lo studio su isculpire, per scolpare, pagare
o scontare le colpe, attraverso questi significati ancora in uso e
validi nella parlata logudorese. Infatti ancora oggi in Logudoro si
dice: «Già nde l'hat a isculpire a innanti 'e Deu su male ch'hat fattu
a mie»; «peccadu 'e babbu nde l'isculpit su fizu»; e simili. Allo
stesso modo il poeta Bachisio Canu di Bonnanaro, nella poesia
«It'hat cun megus comare», così esprimeva in una strofe:
«Pius boltas la cretesi
una nue passizera;
19
e in nessuna manera
cun comare m'isculpesi».
Non occorre indugiarsi per dimostrare la derivazione isculpìre (per
scolpare) da CULPA, che fu d'altronde proposta non a torto in Vox
Rom.
ISPAJU - Il Wagner, nel suo Dizionario Etimologico Sardo, registra
e spiega: «logudorese per meraviglia, contentezza, giubilo,
esultanza: "Ca mi faghet ispaju", Bellorini, no 31 (Nuoro). "Caglia,
caglia. Ti 'ogo da ingannu / non b'hat bisonzu chi fettas ispaju".
(Pietro Casu in poesia manoscritta). "Il Casu porta per il logudorese
settentrionale anche ispraju per godimento, sollazzo, sollievo, con
r ascetizio". «Spaju campidanese (Sarrabus) = spasso» per lo Spano.
Il Wagner opina che ispaju probabilmente = catalano espai «spazio,
che fra fra l’altro ha anche il senso di descans, cesacciò de traball,
de la preoccupaciò; espoyar-se significa a Maiorca "solazar-se
(Dicc. Aguilò III 294), distruere 's, reposar de treball».
Nell'ozierese ispaju sta per allegrezza, euforia, sollazzo. Un ispaju
chi tenes; chissà chi t'ispajes in sa festa; razza de ispaju chi has
hapidu (di chi si ride ironicamente del male altrui). Da uno di
questi modi di dire si rivela il denominale ispajare. Ci pare di poter
concludere che ispaju = ispassu.
LIBIDE - E' vocabolo enigmantico anche per i cultori del sardo e
parrebbe inspiegabile etimologicamente. Lo Spano lo ignora e non
lo registra neppure il Wagner. Eppure è conosciuto a Nughedu San
Nicolò e riteniamo in tutta l'area delle parlate affini, come Ozieri,
Ittireddu, Pattada, Bantine ecc. In quell'area è voce intesa per lèbiu
(leggero) di stomaco o di testa.
«Mi sento unu pagu libide» — si dice ancora oggi a Nughedu per
significare di essere un po' alleggerito dalla febbre. In «Note
lessicali sarde», pubblicate in «Archivio Storico Sardo» (Vol. VII,
1911) dal Prof. Giovanni Campus, pattadese, è riportato il termine
lìbides ed il detto «fora 'e libides inteso per parlar senza capo né
coda». E fa derivare lìbides da lìmites, per lo scambio fra b ed m
20
intervocalici. Il significato di lìbides per limite datoci dal Campus
parrebbe non concordare col significato di lìbide inteso oggi a
Nughedu. Ma se si considera che a Nughedu è vivo anche il modo
di dire ses arende e libide, cioè in superficie, non in limite di
profondità, è da ritenere che, per evoluzione semantica, siasi giunti
dal lìbides per lìmite del Campus nel pattadese antico al lìbide
seriore di Nughedu.
LUDRAU - Questo termine, nell'intento di sviscerarlo
linguisticamente è apparso per tanti secoli col volto della sfinge.
Uno studioso delle carte sarde antiche — come ci riferisce Antonio
Sanna — precisamente il Bonazzi «aveva riconosciuto la voce latina
bolitrauu del Condaghe San Pietro Di Silki 192, 309, etimologia
accettata dal Meyer-Luebke in REW 9440 e ulteriormente
confermata da un passo del Condaghe San Trullas 290 "assu
gulutrau de su rivu"». Il Sanna riporta subito dopo una citazione in
tedesco del Wagner, la quale termina col ritenere che «oggi il
vocabolo pare estinto». Ma non è affatto estinto nel Logudoro. Ed il
Sanna lo ha appreso anzitutto dalla parlata viva dei bonorvesi. Ma
ecco il volto della sfinge allo scoperto: è lo stesso Sanna a rivelarcelo
con felice intuizione e con acume. Nelle citate sue Note «sardologudoresi» spiega: ludràu, m., pozzanghera, panno, fanghiglia». E'
il continuatore moderno di VOLUTABRUM. Indi l'esito: «La viniziale latina che passa b- mobile nel 1ogudorese ha permesso di
arrivare a ulutràu, uludràu, e per l'effetto dell'articolo maschile, da
s'uludràu a su ludràu». Il Wagner, nel Dizionario Etimologico
Sardo, dopo aver dissertato alla voce «LUTU (Bitti); logudorese
Ludu o ludru nuor., su ludràku, ludràgu, illudriare logudorese» per
«avvoltarsi nel fango» ed altri derivati, cita lo Spano in ludràu
(1og.) e prosegue: «Ma ultimamente ha avanzato un'altra
spiegazione il Sanna, Studi Sardi. XII - X III , parte II , p. 436; egli
sostiene che ludràu corrisponde al gulutràu del Condaghe San
Trullas, 209 ed al bolitràvu del CSP = volutàbrum attraverso
ulutràu, uludràu, con l’articolo s'uludràu e finalmente su ludràu.
Ritengo questa spiegazione buona». Infine il Wagner cita il Pittau
21
che contesta la validità della spiegazione data dal Sanna in quanto
l'ulutrau non si potrebbe applicare — secondo lui — al bulutrabu
nuorese. Ma il Wagner gli dimostra con chiarezza che ha torto.
A conclusione di questa disamina fatta da diversi studiosi del
sardo, non possiamo non essere convinti e non compiaciuti della
rivelazione del vero volto della sfinge per bocca dell'colo in Antonio
Sanna.
MINZIDIU - E' voce usata dal Mossa, quindi logudorese, sebbene
lo Spano non la riporti nel suo vocabolario. Nella poesia Su disterru
(l'esilio) il cantore di Gisella, rivolto a «Lene» (Elena), giovinetta che
amò e che fu allontanata da Bonorva a suo dispetto, così sfogava
l'ira sua: «Sos infames minzidios atterra / chi s'imbidia anzena hat
macchinadu», significando minzìdios per menzogne calunniose. Lo
Spano registra, invece, mincìdiu (mer.) per menzogna, bubbola; ed
il Porru lo dà per lo stesso significato. Qui è evidente che Io Spano
ha preso il termine dal Porru, il quale aveva già pubblicato il suo
vocabolario campidanese prima che lo Spano si accingesse a dar
corpo alle sue schede su tutti i dialetti dell'isola.
C'è da rilevare da una così concomitanza dei due termini,
rassomiglianti per struttura e significato, che mincìdiu sia
trasmigrato dal Campidano verso il nord prendendo in minzìdiu la
caratteristica dello pronuncia logudorese. Questo fenomeno dello
trasmigarzione nel lessico sardo non è isolato, ma è ricorrente in
tutte le parlate circonvicine o comunque influenzate reciprocamente
nei rapporti economici e sociali. Per citare solo un esempio:
l'aggettivo asùlu, per azzurro, è usato a Tonara e nella Barbagia di
Beivi, come il campidanese asùlu. Il Porru, infatti, riporta questo
termine nel significato di azzurro e lo fa derivare dallo spagnolo
azul. E questo trasmigrare di asùlu dal Campidano in Barbagia ben
si spiega col trasmigrare dei pastori barbarioini con le loro gregge
transumanti al sud, nella rigida stagione invernale, e col calare nelle
stesse direzioni di quegli artigiani rurali, fattisi bertuleris, per
smerciare, oltre le castagne — come cantò Montanaru — i loro
caratteristici utensili di legno duro, per lo più truddas e tazeris.
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VOCI IGNORATE O MAL NOTE
Riteniamo clie possa interessare ancora la dissertazione che stiamo
modestamente svolgendo su enigmi ed aspetti peculiari della
lingua sarda. Per cui ne continuiamo le esemplificazioni, in
remissivo eloquio, alfine di colmare delle immancabili lacune dei
nostri vocabolaristi e di integrare o emendare delle loro pur dotte
definizioni contando sulla esperienza che ci proviene dalle vive
parlate logudoresi ed affini.
ABBISCARZARE - E' verbo logudorese, della viva parlata di
Nughedu San Nicolò, e significa riempirsi (di cibi o di bevande)
fino al gozzo; rimpinzarsi, ingozzarsi, satollarsi. E' dunque
sinonimo di abbercheddare, la cui voce abbiamo trattato
addimostrando chiaramente come sia un denominale derivato da
berchèdda (l'uccellino implume nel nido) ed esprime l'azione che
svolge l'uccello madre nel rimpinzare col suo becco provvisto di
vermi e larve i gozzo dei suoi nati. A Nughedu gli uccellini
implumi vengono chiamati ranuccìas, perché sono simili a
ranuncoli; mentre il termine berchèdda vi è ignoto. Il vocabolo
abbiscarzàre è ignorato dai nostri vocabolaristi, né alcuna
menzione si riscontra di esso termine (per quanto ci è dato frugare)
in pubblicazioni sulla linguistica sarda. Questo verbo nughedese
rende ancor più di abbercheddare e del sinonimo abbudegàre
l'azione di nutrire col becco (biccu) della madre l'uccellino ancora
implume fino a rimpinzarne il gozzo (iscàr-zu). Presenta da sé la
viva immagine del becco che s'introduce fino al gozzo: abbiscarzàre
si forma, per l'appunto, da BICCU + ISCARZU nella sua
giustapposizione, che ama (come nel comportamento di altre
formazioni similari) aggiungere il prefisso a- col raddoppiam. della
consonante che segue, più l'uscita in -are.
ALAPINNA - «Centr., riparo contra il vento (Nuoro); alabìnna
logudorese, ricovero provvisorio, ridosso. Sarà giustapposizione di
ALA + PINNA (pinna). La rassomiglianza con lo spagnolo alpende,
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portoghese alprende, langued. alapen, che designano una specie di
rimessa (spagnolo cobertizio); francese, appentis, per i quali vedi
ora Corominas, Dicc. I , 165, sarà fortuita in quanto la voce sarda si
usa non per un capannone o simile, ma per un ricovero naturale,
come p. es. una sporgenza di roccia che permetta di ripararsi dal
cattivo tempo e non ha certamente a che vedere con PENDERE».
Così il Wagner nel suo Dizionario Etimologico Sardo, che ci ha dato
un'esatta definizione di alapìnna. Che le rassomiglianze del genere
citate dallo spagnolo, dal portoghese, dalla lang. E dal francese,
siano del tutto fortuite con la voce sarda, non c'è alcun dubbio.
Quante altre rassomiglianze non si sono fortuitamente riscontrate
per altre voci, perfino della toponomastica? In seguito daremo tutto
un florilegio di parole rassomiglianti fortuitamente a voci sarde che
degli autori ingegnosi quanto certosini, ed anche bizzarri, sono
andati a pescare nella toponomastica di paesi sperduti fin nel
lontanissimo centro dell'Asia e perfino (con abbondanza di citazioni
e di ardite congetture) dal lessico dell'antico nordico, del danese,
del gotico, dell'islandese, del norvegese, dello svedese, dello
scandinavo ed oltre, dal quale sono stati pazientemente staccati
prefissi e suffissi per innestarli ad una lunga serie di vocaboli sardi,
ed il tutto nell'intento accalorato di dimostrare, con malaccorta
ingenuità e anche a dispetto della storia, la presenza dei vikinghi in
Sardegna nell'alto Medio Evo. Lo Spano non riporta alapìnna; ma
alla voce pinna spiega: «esser in pinna, al ridosso asilo,
protezione». Questa definizione è pure esatta, anche se non designa
ed esaurisce la natura dell'asilo ecc., come ampiamente ha fatto il
Wagner per alapìnna. Il Can. Spano, studioso dell'ebraico e di altre
lingue orientah, ci dà la derivazione di pinna dall'ebr. pinha
(antemurale). Ed il Wagner, che pur lo aveva consultato, non lo
smentisce, ma non si pronuncia sull'etimo di pinna. Evidentemente,
nonostante le sue prevenzioni contro il filoebraismo dello Spano, ha
ritenuto non improbabile la derivazione di pinna dal pinha ebraico.
A proposito di pinna c'è da segnalare qualche modo di dire (dei
pastori e contadini) tuttora in uso e ricorrente: est in pinna a bentu,
s'est postu in pinna a sa tramontana (o a sa fiocca) per indicare di
24
uno che si è messo un po' a riparo dell'inclemenza del tempo. E
questo riparo è occasionale in una campagna; non è esclusivamente
s'alapìnna, ma spesso è un muricciolo hurdu (di pietre collegate
senza malta, bastardo) od una siepe; e chi vi si ripara, per lo pivi
accocolato, è esposto alla parte contraria del vento o della tormenta.
Da pinna, oltre la giustapposizione di ALA + PINNA, è derivata la
voce pinnettu e pinnetta (abituri): l'uno in forma circolare costruito
in pietre grezze senza malta e con tetto di frasche intramezzate con
canne o steli di granoturco o di biodo, rametti di tamerice e simili;
l'altra in forma quadrangolare, costruita in pietre collegate o no a
maha, con tetto a uno o due spioventi, pure di frasche ecc. o anche
coperto con tegole. L'uso del pinnettu e della pinnetta è quello del
riparo e dell'abitazione del pastore e del contadino. (Pinnettu e
pinnetta, resi al diminutivo di pinna, si devono scrivere con la
doppia tt — lo sottolineiamo en passant — e non con una sola come
molti scrivono, come hanno scritto anche delle persone colte, in
pubblicazioni che interessano la Sardegna, orecchiando con l'it.
pineta). Lo Spano registra pure la voce pinnacuzza, per «muro a
cresta, che sporge». E' da ritenere che questa voce, oggi in disuso,
fosse in origine pinna curza, cioè corta, o pinna accuzza, come fosse
acuta, affilata, quasi una alapinna di piccole dimensioni. Sulla
grafia di alabinna, infine, dobbiamo emendare l'informazione che
ebbe il Wagner per questa voce logudorese, in quanto lo scadere
della labiale p in b, pure lab., è semplicemente dovuto al modo di
pronunciare la p levigata in logudorese, da sembrare b, così come si
pronuncia ala pinta, fae punta (fava bacata), col suono fievole della
p. Si deve scrivere alapinna, dunque, in logudorese come nei
dialetti centrali.
ATTUTINARE - E' verbo logudorese, «farsi folto (detto dell'erba);
fig. affollarsi, aggrupparsi; sostantivo attutìna, zizzania, erba
parassita e tutto quello che soffoca il grano». (Spano per Cuglieri e
confermato nel paese); fig. «affollamento, confusione, scompiglio».
Così il Wagner nella spiegazione data nel suo Dizionario
Etimologico Sardo. Il verbo attutinàre, anche se sussiste ancora con
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questo significato a Cuglieri, è certamente in disuso nell'area
generale delle parlate logudoresi, nelle quali vive, però, nel
significato di dar fastidio, fare una provocazione, insolentire una
persona per suscitarne una reazione. «Proite l'attutinas? S'est
boltadu che pìbera (si è rivoltato come una vipera) ca l'hat
attutinadu»: sono modi di dire ricorrenti. Riteniamo che attutinàre
sia un denominale, derivato da tutìnas, sostantivo plurale ancora
vivo nella parlata di Dorgali e che indica per la gente di campagna
gli animali novici in genere. Tutìnas non è riportato da alcun
vocabolario sardo. E il suo etimo? Lo stesso Wagner non lo trova
per attutìna e se lo chiede con un punto interrogativo. Lo Spano,
riportato dal Wagner nella spiegazione del cuglieritano attutìna,
ritiene che questo termine sia corrotto da mattutìnu e da bàttere.
Ma questa derivazione è tutt'altro che convincente, specie se la
stessa voce la si raffronta per significato al nome collettivo
dorgalese tutìnas. Ed è significativo che il Wagner non l'abbia
raccolta, anzi l'abbia voluta ignorare. Da quale sfondo ancestrale
della stirpe derivano tutìnas e attutìna?
LIBRISCU - Aggettivo logudorese che significa furbo, astuto. Il
termine è conosciuto nei paesi dell'Anglona ed in altre contrade.
Noi l'abbiamo depreso da una poesia di Giorgio Pinna, di Bulzi che
narra metaforicamente di unu zirriòlu (un pipistrello) che «maccu
maccu o libriscu / fit chirchende sa tana in figu friscu...». Il
pipistrello nel cercarsi una nuova tana, per l'appunto in figu friscu,
faceva il finto tonto o l'astuto. Riteniamo che libriscu derivi da
alibrìscu (giustapposizione di ALA + BRISCU), cioè dalle ali
accorte e svelte con cui il pipistrello volteggia con singolare abilità
scansando qualunque ostacolo contro cui pare debba cozzare a
brevissima distanza. L'aggettivo Si è poi esteso ad altri animali ed
anche alle persone che si ritengono dotate di astuzia o furberia, di
sveltezza nel concepire e commettere inganni o raggiri. Lo Spano
non riporta alibrìscu né libriscu nel suo vocab.; ma alla voce brìsca
(briscola) per «specie di giuoco di carte» ci dà in senso figurato il
sottinteso aggettivo m. brisco, per «furbo, astuto» e facendo
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derivare brìsca dal francese, evidentemente da brisque. Come nota
aggiuntiva e per maggiore edificazione della sua etimologia
riprendiamo anche la voce
LUDRAU - Oltre al toponimo citato Su buludràu esistente nei
pressi della strada che da Macomer conduce a San Leonardo,
abbiamo da segnalare un altro toponimo legato a quella voce antica.
Nell'anno 1834, quando venne svolto il catasto agrario in Sardegna,
per la divisione del territorio di Neoneli e quello di Austi s vennero
indicate le località del relativo confine che si estendeva «fìntas assu
ludragu mannu de Fresaghes». Dobbiamo alla cortesia dell'amico
Prof. Danilo Murgia, nativo di Neoneli, già preside dell' Ist.
Magistrale Stat. «De Sanctis» di Cagliari ed ora del Liceo Scientifico
«Pacinotti», la precisa indicazione del toponimo Su ludràgu de
Fresaghes. Il passo testuale di quella indicazione di limite
territoriale, del tutto simile al passo del Condaghe San Trullas, 290,
«assu gulutrau de su rivu», ci proietta un'altra luce sulla ramificata
generazione data dal latino volutàbrum. Perché noi riteniamo di
poter modestamente affermare che ludràgu, perpetuato nel
toponimo di Neoneli e di Austis, sia parente stretto del logudorese
ludràu e discendente diretto del bulutràbu nuor. assieme a
ludràku, così come dal bolutràvu del Condaghe San Pietro Di Silki,
192, 309, è disceso il moderno ludràu logudorese Attraverso l'esito
che da volutàbrum ha felicemente dimostrato Antonio Sanna.
PINNADELLU - E' un amuleto di pietra nera che nel Logudoro ed
in regioni finitime fino a non molto tempo fa veniva appeso al collo
dei bambini per fugarne il «malocchio» ed appariva ancora, al pari
del sebèze barbaricino un residuato della idolatria praticata dai
sardi antichi. Questo amuleto logudorese è su pinnadellu. Lo
Spano spiega questa voce per giavazzo, ambra bruciata; ed alla voce
giavàzzo, riportata nella seconda parte del suo vocabolario, ci fa
intendere in sardo: «ispecie de bitumen nieddu». Il Wagner
definisce pinnadellu «una pietra nera di giavazzo che si attacca al
collo dei bambini per scacciare la iettatura». E cita degli esempi
27
riportati dalla poesia popolare (dal Soro Morittu dal Bottiglioni e
dal Bellorini). Indi soggiunge: «Anche l'origine della voce è incerta,
ma oserei riallacciarla a pinna (essere in pinna, essere a ridosso,
essere in sicurezza) in quanto, secondo la credenza popolare, queste
pietre preservano dal malocchio». L'illustre studioso aderisce così,
implicitamente, alla derivazione di pinna dall'ebr. pinha già data
dallo Spano con la spiegazione di «antemurale», che richiama l'idea
della roccia, della pietra. Il giavazzo o giaietto o gagate — ci
spiegano i vocabolaristi dell'ital. — è una varietà di lignite
adoperata per far bottoni, oggetti d'ornamento, per lutto ecc. Ma i
nostri antenati non conoscevano su pinnadèllu come materia
prima, intrinseca, bensì soltanto come oggetto d'uso, di scongiuro e
di ornamento allo stesso tempo: nell'amuleto dalle virtù
apotropaiche. Ojos de pinnadellu. Quante volte questa espressione
è corsa in bocca alle mamme chine in «dolce atto d'amore» sulla
culla dei loro piccoli? E quanti giovani popolani amano ancora
rivolgerla galantemetne, perfino nei mutos cantati a suon di
chitarra, alle forosette dagli occhi assassini? Occhi vivi, occhi neri
lucenti, occhioni di malia. Ma nonostante questa chiara
esemplificazione che ci viene dalla viva parlata logudorese, molti
non si sapevano spiegare, ai nostri tempi, in che cosa consistesse
realmente su pinnadèllu. Ce ne aveva dato una chiara spiegazione,
fra tanti altri, l'amico Giov. Antonio Cossu poeta thiesino, cinque
anni prima che il Wagner pubblicasse il suo Dizionario Etimologico
Sardo. Cultore del puro eloquio dei padri e vigoroso di virtù
mnemoniche, il Cossu ci aveva spiegato che il «pinnadèllu è una
specie di pietra nera a forma quadra, incastonata come a ciondolo al
centro di una collana fatta di coralli o perline». E ci ha soggiunto
che, pur in funzione di vezzo, la perla di pinnadèllu aveva in antico
l'attributo di scongiurare il «malocchio». La spiegazione del Cossu,
aderente alla definizione di pinnadèllu come materia grezza data
dallo Spano, integra positivamente l'intero significato dell'amuleto.
E chi scrive ne ha derivato conferma più d'una volta nel ricordo
dell'apotropaico vezzoso pinnadèllu appeso al collo dei bambini
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logudoresi e perfino di qualche povera demente o invasata, come si
diceva, dal «Malignu».
29
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RICERCHE E SCOPERTE LINGUISTICHE DEL WAGNER
Il Prof. Max Leopold Wagner venne in Sardegna nel 1905 quale
studioso di linguistica e ci ritornò nel 1911, sempre attratto
dall'interesse filologico e glottologico che gli presentava la Sardegna
nei tanti filoni in cui egli seppe scavare abbondante e prezioso
materiale di studio. Fu in quest'ultimo periodo che, frequentando
assiduamente la Reale Biblioteca presso l'Università di Cagliari, si
vide un giorno presentare dal bibliotecario Cav. Arnaldo Capra,
divenuto suo caro amico, un prezioso esemplare del vocabolario
sardo del tanto benemerito Can. Giovanni Spano che comprendeva
dei fogli manoscritti, interpolati alle pagine di stampa e con esse
rilegati, coi quali un anonimo introdusse aggiunte e rettifiche alle
voci prevalentemente sardo-logudoresi raccolte e definite dallo
Spano. Quel volume proveniva in donazione alla stessa biblioteca
dal Prof. Giuseppe Todde. Il Wagner si tuffò avidamente nell'esame
linguistico di quelle aggiunte che trovò estremamente interessanti
ad opera di uno studioso ed intelligente autore. Dalle caratteristiche
del lessico usato dall'anonimo e dalla localizzazione su voci in
prevalenza appartenenti al vernacolo di Bonorva, oltre che di Giave
e di qualche altro comune del Logudoro, nonché al sassarese, col
quale l'ignoto autore delle aggiunte rivelò di avere dimestichezza, il
Wagner intravide subito che quelle «aggiunte e rettifiche» erano
state elaborate da «un anonimo bonorvese». E con questa
indicazione le pubblicò più tardi, con chiarimenti ed osservazioni
proprie, in «Archivio Storico Sardo» (vol. VII). Inoltre, in seguito ad
apposite approfondite indagini, scoprì che la paternità di tali
«aggiunte e rettifiche » apparteneva a Paolo Soro Morittu di cui
abbiamo dato qualche cenno biografico. Nella sua introduzione a
quelle aggiunte, il Wagner scriveva fra l'altro: «Ci è parso che le
note tali e quali sono hanno un certo valore documentario in questo
senso che rappresentano quel che un Bonorvese intelligente e buon
conoscitore del natio vernacolo, credette di dover cambiare e
correggere nel vocabolario dello Spano, nonché di aggiungervi.
Salta agli occhi che queste sue annotazioni hanno soprattutto un
31
valore documentario e vorremmo augurarci che simili lavori si
facessero nei diversi paesi dell'isola. Come che, come il nostro
autore, prendessero, man mano che consultano il vocabolario dello
Spano, appunti, aggiungendovi i vocaboli non enumerati e
correggendo e modificando le definizioni insufficienti o sbagliate».
Nel richiamare queste parole del Wagner, chi ora raccoglie ed
elabora le presenti note si sente confortato ed incoraggiato
dall'incitamento del massimo studioso della lingua sarda per
proseguire, anche se con deboli forze e senza specifica
qualificazione, nell'assunto che si è proposto, nell'intento ambizioso
di dare il suo pur modesto contributo alla salvezza — come scrisse
lo stesso Wagner — del patrimonio linguistico sardo.
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PAOLO SORO MORITTU E LE SUE LACUNE
NELLE INTEGRAZIONI ALLO SPANO
Abbiamo già scritto che Paolo Soro Morittu ha interpolato in fogli
manoscritti un esemplare del vocabolario sardo dello Spano —
secondo gli accertamenti fatti dal Wagner — conservato nella
Biblioteca Statale presso l'Università di Cagliari. La personalità di
Paolo Soro è poco conosciuta fra le generazioni di questo secolo,
anche nel suo paese natio. Del Soro avevamo raccolto i seguenti
cenni biografici, inviatici nel 1927 da una sua nipote, tale Genesia
Soro, residente a Oristano. Nacque a Bonorva nel 1804 e morì a
Sassari nel 1875. Laureatosi in Teologia fu nominato professore e
preside della facoltà nell'Università di Sassari e vi dedicò la sua
appassionata attività finché questa facoltà venne soppressa nel
1873. Fu rettore per un triennio del Convitto Nazionale di Sassari e
poi rettore di quella Università. Come rappresentante della città e
dell'ateneo di Sassari, venne inviato a Firenze per il VI centerario
dalla nascita di Dante Alighieri ed in quella circostanza fu insignito
della Croce di Cavaliere de SS. Maurizio e Lazzaro. Commemorò a
Sassari, nell'occasione dei funerali, la regina Maria Adelaide, moglie
di Vittorio Emanuele II. Sempre a Sassari fu l'oratore per
l'inaugurazione del monumento a Domenico Alberto Azuni. Lasciò
molti manoscritti tra i quali un vocabolario sardo che andò disperso
per incuria dei nipoti. Nei fogli manoscritti interpolati al citato
esemplare del vocabolario dello Spano, il Soro Morittu colmò molte
lacune sul lessico registrato dall'illustre canonico ploaghese, e fece
delle rettifiche morfologiche e di significato di numerose voci
riportate nello stesso vocabolario, integrandole anche con
spiegazioni ed esemplificazioni appropriate. Si direbbe che così
integrato e meglio definito in molte voci, il vocabolario dello Spano
possa presentarsi allo studioso ed al consultatore generico come
una raccolta pressoché emendata e completa. Ma non è così. Nella
lingua sarda c'è ancora molto da osservare, da ripescare, da scavare,
da integrare. E chi scrive si è proposto di dare un apporto, sia pure
modesto, all'integrazione di quanto il Soro stesso ha supplito alle
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omissioni ed alle inesattezze o insufficienze dello Spano,
limitandosi al lessico bonorvese, di cui il Soro era buon conoscitore.
E se l'esempio potesse avere seguito per tutte le pariate sarde, si
potrebbe ottenere un risultato così copioso di frutti da mettere in
rassegna un ben nutrito vocabolario della nostra lingua. Ecco ora,
come prime indicazioni, le voci che il Soro avrebbe dovuto inserire
nelle omissioni dello Spano: le lacune delle lacune. Nei precedenti
capitoli di questo scritto abbiamo ampiamente trattato, tra l'altro, le
seguenti voci appartenenti alla parlata bonorvese: abbercheddàre
(ingozzare, rimpinzare); annujadòrzu (rotula del ginocchio o del
gomito);
attrasettàre
(mortificare,
estenuare);
attutinàre
(nell'accezione di infastidire, provocare, insolentire); l'enigmatico
bòzziga, in uso ancora nell'espressione: non bides mancu sa
bòzziga (da noi scoperto qualche anno fa a Villanova Monteleone
come l'antenato di boccia (il cuore di un gomitolo di filato);
culvenu (custodia, ritiro. nascondiglio); galìu (scarso, insufficiente
di misura); giannittàre (il guaire dei cani, da giannìttu, latino
vagitus); grusàre (amareggiare, intristire); inzòttu (pena, affronto,
fatica imprevista); isculpìre (nell'accezione di scolpare); malevaldìa
(maleficio di fattucchiera); minzìdiu (menzogna calunniosa); tura
(in nieddu che tura, per fumo nero e denso). Ebbene, queste voci
non raccolte ed ignorate dallo Spano non furono raccolte neppure
dal Soro che non le poteva ignorare. Ma esistono nella parlata
bonorvese tante altre voci che il Soro non ha raccolto per supplire
alle omissioni dello Spano. Ne citiamo tutta una serie, neppure
completa.
ABBALESTRA - femminile logudorese, termine di caccia;
appostamento occulto. Il Mossa nella poesia «Su cazzadore»
(descrivendo il suo fucile): «De raru suzzediat a faddire / si mi
'eniat fera a s'abbalestra». (Raramente il mio fucile falliva se la fiera
mi veniva a tiro). Ed in sua nota manoscritta: «abbalèstra, agguato
». Viene spontaneo considerare che abbalèstra fosse
originariamente = a balestra, il punto indicato per il tiro, quando la
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caccia, prima che si conoscessero le armi da fuoco, come nel periodo
nuragico, era praticata con le frecce ad arco, le balestre.
ABBORTIJARE - verbo logudorese, disseccare, divenire arido ma
anche grinzoso come bortìju (sughero), per accezione diffusa tra la
gente di campagna. Antonio Sanna in «Note Sardo-logudoresi »
(Studi Sardi (1952-53): abbortijàre , «inaridire, rendere asciutto e
legnoso o insensibile, riferito a vegetali, frutta, carne ed anche parti
del corpo. Nella coscienza dei parlanti è chiarissima l'idea di
"rendere simile al sughero"»; ecc. ecc.
AJUBORE - m. logudorese, gioia, giubilo non contenuto. Il Mossa
in «Su lamentu - in morte de Gisella»: «Ahimè, cant'ajubore /cantos
teneros carignos!». Antonio Sanna in Studi Sardi, op. citata:
«(b)ajubòre, (azhubòre), gioia trepida mista a timore. Voce ormai
rara».
ARIJEDDA - femminile logudorese, spiga di grano duro
degenerata, un po' simile alla spiga di grano tenero. Deriva da
arista, resta, perché s'arijèdda (sincope di aristijedda) contiene più
reste che chicchi. Per il campidanese, il Porru registra aristixedda,
«s,f, dim., aristula».
ARTURIU - m. logudorese, brio, spirito e sensi dell'uomo. Modi di
dire: Ses chenza artùrios (sei senza brio, privo di spirito). Da-e
cando m'est morta sa cumpanza so restadu sen'artùrios (Da
quando ho perso mia moglie son rimasto senza spirito o senza
sensi). Il Mossa nella sua commovente lirica «Baddemala»: «Oh,
disinganna su pius ostile / chi mi leas arturios e testa!» (Oh,
disinganno il più ostile che mi togli i sensi ed il senno!). Neppure il
Wagner ha raccolto il termine artùriu. Il suo etimo? Lascio la porta
aperta a degli studiosi per scrutare il volto della sfinge.
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BIRZINE - m. f. logudorese, colore sul turchino oscuro .come
livido. Deriva da birde (verde). Modo di dire: ses bìrzine da-e su
frittu. (Sei livido dal freddo).
BUNDU - m. logudorese, serietà, carattere ineccepibile e coerente
dell'uomo. Ornine senza bundu, uomo senza carattere; ponner
bundu, considerare serio e coerente un uomo per le sue azioni. Il
Mossa nella poesia «Sa tirania amorosa»: «Ponner bundu in
femìnas est lucura» (attribuire serietà alle donne è cosa vana, come
dir ciance).
CAMPANIARE - verbo logudorese, ordinare, comporre, mettere
insieme. Il Sanna in Studi Sardi, op. citata così spiega: «mettere
insieme, mettere d'accordo. Il verbo e i deverbali campàniu,
campania si incontrano frequentemente nei testi medioevali:
"fechimus inde compania... Essende facta custa cumpania". (Carta
del 1173 riportata dallo Spano; Ortografia, II, p. 88, 89)». Cita poi
campania, campàniu, campaniare riportati da diversi condaghi
(Condaghe San Pietro Di Silki, Condaghe San Trullas, CSMB).
Infine, dissentendo dal Meyer-Luebk, Altlogudorese, 58, sostiene, e
non a torto, che «è voce vivissima nell'uso logudorese, tanto col
valore di "mettere d'accordo" che ha nell'ant. sardo, quanto in
quello di "ordinare, rassettare", etc: "kampaniare sos mannujos, sos
pilos" etc: ordinare, mettere insieme i manipoli di grano, ravviare i
capelli; akkampaniare-sì, mettere in ordine. E insieme al verbo
sopravvivono i due deverbali».
COROGLIARE - verbo logudorese, ingannare, raggirare. Il Mossa
nella satira «Sas feminas»: «Ma como chi bos isco cuss'astruscia /
su de mi corogliare est corogliadu» (Ma ora che vi conosco
quell'astuzia, il vostro raggirare è raggirato). Ed in nota
manoscritta: «Corogliare: infinocchiare, abbindolare». Corogliare =
coglionare, per metatesi variata.
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CONNOU - m. logudorese, cordoglio. E' voce in disuso. Nelle
poesie del Mossa ricorre soltanto due volte. Ed in nota manoscritta
l'Autore ci spiega: «Connòu: cordoglio, afflizione; si usa in prosa ed
in versi, ma morigeratamente; eccone l'esempio in un'antica
canzone: Ohi, coro piena de connou! Ohi, coro piena de pinnicu!».
CULIU - aggettivo m. logudorese, ultimo; si dice per il cavallo
corridore che arriva al traguardo per ultimo, anche per chi, in una
processione o corteo, è l'ultimo della fila; culìu è pure lo scolaro che
è considerato l'asino della classe. Antonio Sanna in op. citata:
«culìu, aggettivo, ultimo. Formazione intrinseca da culu. Cf.
codianu da coda. Forse attestato - culìa - in un passo non ben chiaro
di un documento del 29-6-1120, riportato in CDS (Codex
Diplomaticus Sardiniae) I, 29, p. 201: et calia de custas tres domos».
DELLEZU - m. logudorese, dileggio, scherno; nell'uso comune
anche la cosa o la persona che ripugna: est una dellezu, per dire che
è ripugnante. Antonio Sanna in opera citata: «delledzu e
delledzare, irrisione, irridere: sono le voci toscane "dileggio",
"dileggiare"».
DIDDIA - femminile logudorese, pietruzza levigata dall'acqua del
mare o di un fiume. (V. la voce pedrischèddula). Forse deriva da
biddìa (gelo, ghiaccio), in quanto la pietruzza dìddìa si presenta in
superficie levigata come il ghiaccio e di questo dà la sensazione
analoga quando è estremamente fredda.
FITTIVU - aggettivo m. logudorese, continuo, incessante. Il Mossa
in «S'attìtidu» (alludendo a superstizione); «Non fit senza motiva /
chi urulende fittìvu / sos canes m'atterrian su reposu» (Non per
nulla i cani, ululando continuamente, mi atterrivano il riposo).
FORROTTULA - femminile logudorese, anche furròttula: specie di
pane casalingo, di fior di farina, a forma di tralcio ovoidale. In
occasione del Capodanno veniva regalata ai ragazzi e ai poveri che
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andavano di porta in porta a pedìre (chiedere) a candelarzu (da
calendarium) e veniva infilata nelle braccia come un festone. Col
tema forr- deriva da forru e con furr- da farru (forno). Non
crediamo affatto che derivi da farre — come altri sostengono —
anche perché il farre è una semola grossolana, specialmente quella
derivata dalla farina di granoturco, di cui non si fa la forròttula.
FROBBADU - m. logudorese, uva bianca, un po' simile all'uva
nuragus, che dà vino secco pregiato, veramente aristocratico. Il
vitigno, dallo stesso nome, è di origine iberica. Veniva coltivato nel
secolo scorso, anche prima che la filossera infestasse e distruggesse
le vigne, in tutto il Logudoro, nell'Anglona ed in altre regioni
settentrionali, e si coltiva ancora, specie nell'Algherese. Non è altro
che il torbato, conosciuto come vino tipico dell'Andalusia: il trubat,
dalla cui voce deriva in sardo trobbadu e, per scambio della t
iniziale con f, frobbadu.
CRINA - femminile logudorese, primo chiarore dell'alba. Ponner
grina: albeggiare. Da un'antica gobbuletta anonima: «Inoghe mi
faghet die / ponzende grinas in mare» (Qui mi spunta il giorno
facendo chiarore nel mare). Ponner grina in logudorese risponde
esattamente ad albeschere, avvreschere. Paolo Mossa in «S'incontru
fortunadu»: «Si m'odiat su cara amadu oggettu / E addite pius
m'avvreschet die?» (Se mi odia l'oggetto amato, a che prò mi
spunta più il giorno?). Ed in sua nota manoscritta: «avvreschere,
albeggiare, aggiornare». La voce grina è forse un catalanismo.
ILLORIARE - VERBO logudorese, «dire sciocchezze». Antonio
Sanna in op. citata: «Anche questo verbo è una costruzione
metaforica; formato "su loru" = lorum, come dire "essere sciolto dai
loros... del buon senso"».
INNORIARE - VERBO logudorese; Sanna in op. citata: «sparlare di
uno, calunniare e anche disprezzare. Formazione denominale per
dissimilazione da onore con in negativo: in - (o) - noriare».
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INZICHI - cong. logudorese in forma avverbiale: forse che, senza
dubbio, probabilmente. Sanna in op. citata: «inzichi, (indz-), cong.
che si potrebbe tradurre, in maniera approssimativa, come
"evidentemente", "si vede che" e si usa per introdurre una
deduzione logica se pure in senso dubitativo. Può corrispondere ad
una espressione impersonale: "è chiaro, è evidente che" e si
costruisce regolarmente col congiuntivo. E' l'esito, foneticamente
regolare, di inde hic, con la consueta ripetizione paragogica
dell'ultima vocale».
ISALIADU - aggettivo m. logudorese; Sanna in op. citata: «sciocco;
formazione sarda su sale con in- privativa».
ISBENTIUMENE - m. logudorese; in senso figurato si dice per un
parlare insulso e a lungo, di cose futili che infastidiscono o
annoiano. Corrisponde al campidanese isciollòriu. Isbentiumene è
un deverbale: da isbentìàre, (Spano: «evaporare»).
ISCETTU - aggettivo m. logudorese, scelto; dicesi di oggetto
pregevole, quasi raro. Il Mossa in «Su cazzadore» dice che il suo
fucile fit iscettu e spiega in nota manoscritta quest'aggettivo:
«prescelto, unico». Evidentemente la voce iscettu è corruzione di
isceltu.
ISTEJARE - VERBO logudorese, allontanare, discostare; deriva da
tesu (attesu), lontano. In centri montani è istesìare.
ISULIARE - VERBO logudorese, mandar via, allontanare con la
violenza. E' riferito particolarmente ad animali nocivi come volpi,
donnole, avvoltoi, cornacchie ecc. In una vecchia canzone: «Corvos
non che nde poto isuliare / da-e sa figu mia carcarende » (Non
riesco a cacciar via i corvi gracchianti dal mio fico). Sanna in op.
citata: «isuliare, cacciar via, disperdere, detto specialmente di
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animali; riferito a persona acquista un senso
dispregiativo. Continua direttamente exiliare».
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lievemente
ALTRE LACUNE DEL SORO MORITTU
Se l'incitamento che riceve l'autore di queste note linguistiche da
parte di non pochi amici, perché egli continui nella ricerca e nello
studio che ha intrapreso non inutilmente, è motivo per lui di
soddisfazione e di incoraggiamento, gli si balena d'altra parte il
sospetto che dei lettori possano attribuirgli intenzioni vanagloriose
nell'integrare quanto l'illustre canonico Giovanni Spano ed il pur
dotto Prof. Paolo Soro Morittu hanno elaborato sul lessico sardo.
Per dissipare un tal sospetto e scongiurare un'eventuale taccia di
pretensione che lo mortificherebbe non poco, egli rende noto che si
rimette umilmente all'appello ispiratore che lo stesso Spano ha
indirizzato ai suoi lettori nel dare alle stampe il suo prezioso
vocabolario sardo. Nel chiudere l'introduzione a quell'immane
fatica, dopo aver dichiarato onestamente che «un lavoro di tanta
mole per la prima volta che vede la luce, non è possibile che vada
scevro di pecche», e che a lui è bastato «di aver gettato le larghe
fondamenta dell'edifizio», fa generoso appello a «tutti quelli cui
(questo edifizio) appartiene» perché porgano la mano per
«innalzarlo al totale suo culmine». Si conceda dunque a chi scrive di
portare, tra i beneficiari di quel basilare edifizio, qualche pietra
supplementare, dei frammenti laterizi ed alcune manciate di malta
per sutura. Ecco, quindi, la continuazione delle note lessicali
spigolate fra le lacune del Soro nelle integrazioni da questo
apportate al vocabolario dello Spano.
ISCANCU - m. logudorese, strappo, rottura. E' un deverbale, da
iscancàre, tirar via a forza, detto specialmente di rami e tralci che si
strappano con violenza dal tronco. Anche in senso figurato, per il
cuore che riceve una scossa, uno strappo. Il Mossa così nella poesia
«Su determinu»: «... a su coro un'iscancu »; poi spiega il termine in
nota manoscritta: «scossa, sensazione, mancanza violenta».
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ISCASIDDARE - verbo logudorese, da casìddu = quasillum,
sovero cilindrico, bugno per api, arnia. Significa cadere dall'alto, da
un albero, da un muro ecc. Ne deriva iscasiddàda, sinonimo di
istrampàda (da istràmpu, precipizio). Iscasiddàre significa anche
togliere il miele, sfasciare il casìddu. Questo poteva cadere dall'alto
e sfasciarsi, quando anticamente veniva collocato su di un picco o di
un albero, per essere riparato dal bestiame. Di qui la similitudine
col primo significato.
ISCHIJITTU - aggettivo m. logudorese, squisito, gustoso, di sapore
delicato. Significa anche schifiltoso nel mangiare, difficile ad
accontentarsi se non di cibi squisiti; lecornioso. Modo di dire:
ischijìttu ses, pedinde moris (se sei schifiltoso morirai
mendicando).
ISTRAZONE -femminile logudorese, diminuT., di istràle (bistrale)
accetta, picola scure.
LICHIDU - aggettivo m. logudorese, liquido, pulito, sceverato. E'
usato come in italiano nell'espressione dinari lìchidu (denaro
liquido, risparmio pulito). Anche: trigu lìchidu, latte lìchidu, per
grano senza loglio o altre impurezze, per latte non annacquato e
cosi via.
LULLÙ - m. logudorese, calunnia, attribuzione maligna di fatto
denigratorio. Modo di dire: m'han bogadu custu lullù (m'hanno
attribuito questo fatto calunnioso). In quale fondo arcaico occorre
ricercare il suo etimo?
MADRUNCULA - femminile logudorese, osso del malleolo che
articola il piede di animali fessiodattili (porco, capra, bue ecc.).
Rassomiglia ad un dado con le facce irregolari, concave o convesse,
con caratteristiche diverse una dall'altra. Della madruncula si
servivano anticamente, e si servono ancora, i ragazzi paesani per
fare il giuoco del dado: la faccia concava ha per valore uno; la
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opposta, che è convessa, vale zero; delle altre una vale due, la
opposta rappresenta tutto il valore della scommessa: su tottu. Per la
sua particolare struttura la madruncula, lasciata cadere dall'alto, si
posa più facilmente per terra mostrando in alto la faccia che vale
zero: su nudda. Questo gioco è analogo a quello chiamato del
barraliccu nei paesi del Campidano. Vien da considerare che la
voce madrùncula sia una contrazione di madurùncula, da madùra
(grande), con la consueta uscita in -ùncula, come dire l'osso più
grande.
MALUGAGNU - E' interiezione composta da malu + gagnu.
Gagnu = gagno (intrigo, schr. ventre). Malugàgnu! Come dire:
Mal'istògomo! Malu fìdigu! Mal'intragna! (Brutto stomaco, brutto
fegato, cattive viscere). I! Mossa introduce quest'interiezione nella
sua spiritosa celia «A sos semestenesos»: Semestene si godit,
malugàgnu / de-ì custa bellesa giutt'annottu (Semestene gode, mal
se ne giovi!, di questa bellezza rinomata). In cui il sapore spregevole
dell'interiezione è in simbiosi con l'ironia del sostantivo bellesa (di
una brutta sposa). In nota manoscritta l'A. fornisce questa
spiegazione di malugàgnu!: «che mal prò gli faccia!». Ma se questo
valore è appropriato per l'assunto dei versi citati, altro è il valore
più comune e consueto di malugàgnu: quello che va riferito, con le
interiezioni prima esposte, a persona infida, equivoca, perfida.
MANNOSIGU - aggettivo logudorese, sostenuto, superbo. Sanna
in citata «Studi Sardi» con lo stesso significato di «superbo»:
«Formati su mannu = magnum, col suffisso -osus, estremamente
produttivo nel sardo, come nelle altre lingue romanze, e con -icus,
che si lega, molto spesso, con il suffisso precedente per la
formazione degli aggettivi».
MANUDA - femminile logudorese; tenner a manuda si dice per
qualche selvaggina che si acchiappa con le mani. Il Mossa in «Su
cazzadore »: Bennida fit s'arcazza a tale tiru / chi la podia tenner a
manuda (Era venuta la damma a tiro tale che l'avrei potuta
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prendere con la mano). A manuda: contrazione di a manu nuda
(senza impiego di arma).
MUFFACHE - f, logudorese, specie di pane fatto di sola farina di
grano, non però dal fiore, ma dal secondo o terzo velo, un po'
bruna, dopo aver tolto dallo staccio la crusca ed il cruschello ed
averne separato la semola. Sa muffache è simile ad una focaccia
ovoidale, un po' spessa, con delle ditate sopra. E' diversa dal pane
chivarzu (latino cibarium) la cui farina contiene un po' di
cruschello. Quale sia l'etimo di muffache non ci è dato sapere;
tuttavia riteniamo di non andare errati facendo derivare muffache
da muffa, non però nel significato di muffito o di tanfo (con questo
significato muffa si dice in logudorese mughèru), ma di cosa
inzuppata d'acqua non ammuffita. Ammuffaammuffa si dice per
tutto ciò che è pregno d'acqua, messo a bagno o per aver ricevuto la
pioggia, anche per un ubriaco perché inzuppato di vino. La pasta
della muffache, a differenza di quella del chivarzu che viene
lavorata un po' in asciutto, è infatti molto idrata.
MURIMENTU - m. logudorese, tumulo di sassi per sepoltura
campestre. Diamo la parola a Paolo Mossa, che in apposita nota a
questa voce, usata nella bella egloga «Sos duos amantes» (v. «Stella
di Sardegna» del 31.1.1878, a. IV), ne fa una descrizione esauriente:
«Murimèntu: quasi muramèntu, muriccio. Ritrae da muru
l'etimologia ed altro non è che un mucchio di sassi che in campagna
ponsi sui siti ove qualcuno disgraziatamente periva anche quando
non vengavi seppellito, affine di tramandarne per tradizione la
memoria ai posteri. Questo vocabolo sfuggì all'attenzione del
benemerito senatore Spano nel compilare il suo vocabolario;
giacché non può dirsi d'avervi supplito con la voce monumentu,
mentre questa — pur restringendone il significato soltanto a
sepolcro — involve sempre l'idea della sontuosità e d'un epitafio;
quello invece la esclude affatto, ricorda sempre una sventura e
riducesi ad un mucchio di sassi senza un nome. Il nostro
murimèntu ha una qualche affinità coi tumuli che nei tempi eroici
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inalzavansi ad onorare i guerrieri caduti in battaglia o nel recarsi
alle loro spedizioni pero a questi, apponevansi un'iscrizione, come
prelevasi dal verso seguente: Et tumulun. facite et tumulo
superaddite carmen”.
NACHI – E’ sincope di naran chi; dicono, si vocifera” è quanto spiega
esattamente il Mossa per nâchi, in nota manoscritta riferendosi a
questa voce da lui molte volte usata in poesia. E’ bene quindi che si
scriva col segno dell’accento circonflesso sulla vocale a: nâchi.
NIBIDU - agg logudorese, nitido, forbito. Si dice per un ramo o
tronco d'albero che ha la corteccia pulita, senza macchie e senza
grinze, anche per un frutto immacolato con buccia liscia e sana,
come il cocomero, la pesca, la castagna ecc. Il femminile di nìbidu è
nìbida (con la b lenita) da cui si ha per sincope nìda. L'aggettivo
nìdu è poco usato (forse per non creare ambiguità col sostantivo
nidu, nido). Il Soro riporta l'aggettivo nìdu (senza l'accento
circonflesso per segnare le sincope) con l'accezione di «netto, terso,
senza difetto». Ha supplito così alla lacuna dello Spano per
l'aggettivo nìdu, ma non a quella dell'aggettivo originario nìbidu.
PEDRISCHEDDULA - femminile log-, da pedra (pietra). E' forma
particolare di diminutivo, come trotischèddu (trota appena nata)
con l'uscita in -ischèddu (-a, -la). Il dimin. di pedra à pedrighèdda
(in nuor. pedrischèdda). La pedrischèddula, pure essendo una
pedrighèdda delle più piccole, all'incirca quanto un dado da
giuoco, assume questo nome solo in funzione di un giuoco da
ragazzi. E' un sassolino levigato, tondeggiante, come diddìa di
vario colore, per lo più bianco e nero, che si trova numeroso su
sponde di ruscelli e nelle spiagge di mare. In formazione di cinque
pedrùscheddulas ogni ragazzo concorrente al giuoco le butta per
terra in ordine sparso, però con accorgimento, in modo che non
risultino né troppo vicine né troppo lontane una dall'altra: ad uno
ad una le raccoglie con la mano destra (se mancino con la sinistra)
senza farsele cadere, altrimenti perde la giocata, ma se le contiene in
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una sola mano segna un punto. Il giocatore che, alla fine della
partita convenuta, segna i punti prestabiliti vince la posta.
PUDEMIA - femminile logudorese Riportiamo senz'altro dal Sanna
in Studi Sardi, op. citata: «pudèmia, puzza insostenibile. Fig. detto
di persona moralmente spregevole. Est una pudèmia. Sarà
epidemia con la -u- di putere. Lo Spano riporta epidemia col
significato proprio; ma comunemente si è avuta l'aferesi di e-:
pidèmia, sa pidemia». Si suol dire, infatti: sa pidèmia de su
'ermizolu, de su colera; l'epidemia del vaiuolo, del colera.
PERDEZZI - interiezione logudorese: perbacco! perdio! perdinci!
Perdèzzi! Anche perdèzzila! perbaccola! perbaccolina! Il Mossa usa
entrambe le interiezioni come per celia, facendo dell'umorismo.
REBBEGLIARE - verbo logudorese, nella comune accezione di
scassare, dissodare il terreno. Fagher sa rebbeglia indica fare lo
scasso a mano, con zappe e picchi, in profondità di 50 cm. ed oltre,
asportando vecchie radici arboree e sassi di ogni dimensione, per
impianto di vigne. Per fare sa rebbeglia si procede a raglia a raglia,
cioè eseguendo uno sbanco per volta, dritto e spesso di 30 o più cm.
Riteniamo che rebbegliare sia un catalanismo, come lo è raglia =
catalano ralla.
RENZIA - femminile logudorese, schiatta, discendenza. Da erènzia
ridotta per aferesi. Erènzia significava in antico eredità, famiglia. E'
lo spagnolo herencia. Nell'uso comune e curialesco per indicare gli
eredi di un patrimonio si dice sa rede, cui si collega la voce rènzia.
SEMIDANU - m. log,: è un vitigno gentile; nell'aspetto vegetativo
rassomiglia al nuragus. L'uva semidànu produce vino delicato,
profumatissimo. Il suo grappolo è allungato, con acini piccoli e
polpa verdognola, buccia coriacea e vinaccioli piccoli. La voce
semidànu parrebbe derivare da seme (sèmen), ma è indubbiamente
di origine toscana.
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SILVA - femminile logudorese, stelo delle cucurbitacee. Silva de
melone, de sìndria, de cugùmere (del melone, dell'anguria, del
cetriolo ecc.). Il Mossa ce ne ha dato anche un'altra accezione oggi
in disuso. In «Stella di Sardegna», genn. 1878, a. IV, annotò la voce
silvone (cinghiale): «Chi non sa che le zanne del cinghiale, oltre a
iscaglias e caminzones, chiamansi pure silvas? Chi non sa che in
sardo silva non si dice in significato di selva, bensì per denominare
le piante cucurbacee, le quali si allungano accuminate e, stante la
rassomiglianza della loro forma colle zanne del cinghiale, diedero il
nome a queste?».
SUPREVA - femminile logudorese, sorba. Parrebbe che la voce
originaria fosse superba, poi divenuta supreva per metatesi e con lo
scambio della b in v, forse in ragione della sua asprezza anche
quando si coglie matura, ma non ancora appassita nella paglia o in
appositi recipienti.
TRASINU - m. logudorese circostanza impreveduta. Il Mossa nella
lirica «Su tribunale de Amore»: «Mustradi in custu trasìnu / severu
cantu potente» (Mostrati, in questa circostanza, severo quanto
potente). E' l'istanza di un amatore che aveva querelato la sua
amata, Lisabella, perché gli aveva rubato il cuore e non era riamato,
portandola innanzi al tribunale del dio Amore. L'istanza,
direttamente esposta a questo supremo magistrato, ritenuto
tutt'altro che imparziale nei suoi giudizi, così veniva completata:
«Paghe chi Lisa su coro / mi torret liberu e francu; / o chi in
cambiu assumancu / si diat su coro sou...» (Fa' che Lisa mi
restituisca il cuore libero e franco; o almeno, per compenso, mi dia il
suo cuore...). Circostanza non peregrina ma impreveduta per il
povero amatore. Perciò l'Autore adotta l'invocazione: «Mustradi in
custu trasinu...» che annota in manoscritto: «Mostrati in questa
emergenza». Quale l'etimo di trasinu?
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TRODDULARE - verbo logudorese, rotolare, come trottolare
quando il movimento della trottola, perso il suo equilibrio
centripeto, è un rotolare per terra a moto disuniforme. Si dice
comunemente: ch'est caladu troddulende (è disceso rotolando);
ch'est trodduladu da-e sa raza (è rotolato dallo stremato). Dal
Mossa nella celia «A sos semestenesos»: «...che boccinu
troddulende» (come il boccino rotolando). Ne è derivato
trodduladura, l'azione di rotolare. Non è azzardato ritenere che il
verbo troddulare derivi dall'it. «trottolare» assumendo nel percorso
semantico il significato di rotolare.
ZUPPEDDU - m. logudorese, dim. di zuppu o zippu:
truncheddu,segmento di tronco. Il Campus in «Note lessicali»
(Arch. Storico Sardo, vol. VII): «con questa voce si indica
precisamente un pezzo di legno tozzo e grosso che si usa come
sedia nelle campagne. E' da mettersi fra i derivati di cippus e la u si
spiega per l'influsso della labiale seguente».
Zuppeddu è sempre ricorrente nella nomenclatura agropastorale,
più vivo che zippu. Lo segnaliamo da un sonetto che l'A. di queste
note, decine d'anni fa, dedicava ad un suo amico, che, essendo
Cherchi il suo cognome, amava firmare le sue poesie con lo
pseudonimo di «Quercia»:
Da-e su truncu, boìdu, a tuveddu,
non b'hat potidu essire unu giuale
e solu b'est restadu unu zuppeddu.
48
MANCATE RETTIFICHE DEL SORO
ALLE INTEGRAZIONI NELLO SPANO
Nei fogli manoscritti interpolati da Paolo Soro Morittu nel
vocabolario della Spano compaiono numerose rettifiche
morfologiche e di significato da lui apportate alle voci lessicali dello
stesso vocabolario; rettifiche indubbiamente interessanti, alle quali
il Wagner attribuì soprattutto un valore documentario. Ma ben altre
rettifiche il Soro avrebbe potuto riportare in quei suoi fogli
manoscritti. Ecco perché ci accingiamo ad indicarne una raccolta
nell'intento di contribuire, colmando anche di queste sue lacune,
alla salvezza del nostro patrimonio linguistico.
BABBARROTTU - m. logudorese; la definizione che ne dà lo
Spano per «voce di paura ai ragazzi» va rettificata secondo una nota
manoscritta di Paolo Mossa: «mammuntone, spauracchio». E si può
aggiungere: spaventa-passeri. Al Soro è sfuggito di fare a questa
voce, nel vocabol. da lui interpolato dello Spano, una così
sostanziale rettifica. Il mammuntone bonorvese non ha alcuna
parentela col mamuthone carnevalesco di Mamoiada. La voce
mammuntone è un incrocio di mamma a muntone (mamma a
mucchio), come per dire di una madre vestita con un tetro mucchio
di stracci. simile ad un babbarrottu (peggiorativo di babbo):
entrambi per far spavento a sos fizos malos.
BETTU - m. logudorese; io Spano ce lo spiega per «colpo, gettito,
colpo di fucile». Ma per bettu s'intende anche il tanto della semente
occorsa nelle colture a cereali o leguminose. Sono ricorrenti i modi
di dire: Da-e sa regolta no est bessidu su 'ettu; pagu 'ettu, pagu
isettu; e simili. Il Soro ha mancato di integrare in questa voce lo
Spano.
BRASSANU - aggettivo m. logudorese; è corruzione di balzanu =
balzano. Su caddu est brassanu a pês de segus (o a pés de nanti)
per indicare il pelame bianco che fascia il collo del piede del cavallo
49
o intorno al tarso. Si dice anche: est pei alvu (dal piede bianco). Lo
Spano ha registrato balzanu e spiega che caddu balzanu «è quello
segnato con striscia di colore (?), segnata di bianco al piede». Il Soro
integra con un altro significato il termine balzanu: «lista di roba che
serve di rinforzo ed ornamento alle gonnelle o vesti talari dei preti»;
e questo ha senso per similitudine. Però non ha raccolto il termine
bonorvese brassanu, che è tuttora vivo ed esclusivo nel significato
di balzano.
CAMINZONE - m. logudorese; lo Spano riporta questo termine
spiegandolo «musoliera, dei capretti (Padria)». Il Wagner, nel
Dizionario Etimologico Sardo, alla voce camu, che definisce
esattamente «morso del freno dei cavalli», completa in parentesi la
definizione dello Spano: «un pezzo di legno che si mette in bocca ai
capretti perché non possano succhiare il latte delle madri, per
svezzarli». Indi tratta dei derivati, tra cui caminzòne localizzandolo
a Macomer, Padria e Posada, ancora per «musoliera dei capretti», e
nel logudorese settentrionale cabinzòne, «id. (incrociato con cabu,
giacché la voce significa anche capo di corda o di filo», secondo
un'indicazione del Casu; poi i denominali accamàre, accabinzonàre
ed altre varianti per «mettere l'accàmu ai capretti».
Per caminzones c'è da raccogliere però un altro significato che era
conosciuto ai tempi dello Spano e che Paolo Mossa ci ha riferito
ottant'anni prima che il Wagner pubblicasse il suo Dizionario
Etimologico Sardo. Nel gennaio 1878 il Mossa, annotando la voce
silvòne (cinghiale) contenuta in una sua poesia che apparve in
«Stella di Sardegna», spiegava che le zanne del cinghiale, oltre
ìscàglias e caminzones, venivano pure chiamate silvas (da cui
sarebbe derivato silvòne, come già riferito alla voce silva nel
precedente capitolo. Con questo significato neppure i linguisti
moderni hanno spiegato il termine caminzones; e se ciò è sfuggito
allo Spano, non poteva essere certamente ignorato dal Soro, che era
contemporaneo del Mossa e bonorvese come questi. Caminzòne,
comunque anche nelle diverse varianti, deriva da camu = CAMUS,
giusta l'indicazione nel REW, 1565, data dal Wagner.
50
ISCHIMÀRE - VERBO logudorese; deriva da chima = cima, ed
indica l'azione di tagliare le cime degli alberi o dei tronchi già
tagliati. Lo Spano non riporta questo verbo, mentre riporta il
derivato ischimadòrza che spiega per «roncone» Ma l'ischimadòrza
non è soltanto l'arnese usato per ischimàre, perché significa più
comunemente l'insieme dei rami tagliati cioè delle cime. L'azione di
ischimàre è sostantivata in ischimadùra: fagher s'ischimadùra a
sas piantas. Il Soro non ha raccolto ischimàre né ischimadùra e non
ha integrato nello Spano il significato di ischimadòrza.
LOBA - femminile logudorese; paio, coppia, giogo (di buoi). Lo
Spano spiega il termine per «gemello» e riporta l'espressione
«frades de loba, gemelli». Indica poi loba mer. facendone il
rimando a pariga ed infine localizza la voce a Terranova per «veste
di sacrista ». Però loba è particolarmente usato per indicare un
giogo di buoi (Macomer e paesi del Margh.). Si dice una loba de
'oes, una loba de noèddos (di novelli, cioè di buoi domati a tre
anni). E allobàre per aggiogare, appaiare, anche in senso figurato. II
Wagner, rifacendosi solo alla «veste di sacrista» indicata dallo
Spano, segna : spagnolo loba, baje ecclesiastico.
LUZANA - femminile logudorese; lo Spano registra: «argilla; terra
luzàna, terra argillosa, cretacea». Per terra luzàna a Bonorva è
conosciuta quella terra attaccaticcia non del tutto argillosa, non
compatta come l'argilla plastica, esattamente quella terra mista di
argilla e arena, talvolta poco rossiccia, un po' grigia, anziché rossa
viva o giallastra.
Il Wagner, nel Dizionario Etimologico Sardo, registra la voce
campidanese luzzu: «luzzu 'e vaccas» piscio di vacche = lotium,
lotum (FeW 131; REW 5129)» ed esemplifica: «Fangu in sas
luzanas» (Casu in poesia manoscritta); Nuraghe Sa Luzzana presso
Oliena; Sas Luzzanas, regione presso Benetutti; in Condaghe San
Trullas125: Et ego devili terra in sa luiana suta sancta Victoria. La
base sarebbe dunque luliana. Et.? (forse preromano)». Per luzàna si
indica anche un nome collettivo di formichine talmente minuscole
51
da sembrare dei puntini grigi di sabbia, la stessa dei terreni arenari
misti ad argilla. Sa luzàna prolifica copiosamente nel terreno
sciolto, ove si crea degli ambienti sotterranei che sboccano in
superficie come crateri di vulcano in miniatura. Vive in colonie
numerosissime. Il Soro doveva conoscere sa luzàna anche come
formichine. ma questo nome collettivo, non raccolto dallo Spano, è
sfuggito alla sua attenzione, come pure all'indagine del Wagner.
Siamo indotti a ritenere che l'antica gente di campagna abbia voluto
chiamare queste formichine col nome collettivo di luzàna per la
loro rassomiglianza con i puntini grigi della sabbia della terra
tuzàna, in cui pur si riproducono a miriadi. È un'immagine riflessa
nella natura. Luzana deriva certamente da luzu o luzzu = fango,
mota. Quale sarà l'etimo di luzu? Si sarebbe indotti a pensare al
latino lutum (fang. argilla), da cui con esito più regolare si avrebbe
ludu in logudorese (lutu e ludru in nuor.). Proponiamo, piuttosto,
di considerare più attendibile la derivazione di luzu dal greco
luzron, che significa macchia di sangue, sangue misto a polvere,
sudiciume, lordura (in Omero). In questo caso il suo etimo sarebbe
preromano, come ha ritenuto in «forse» il Wagner.
MORISTELLU - m. logudorese; uva nera da vino comune. Il
vitigno moristèllu è logudorese antico, ma si coltiva ancora oggi in
diverse regioni della Sardegna. Dà grappoli massicci con acini
turgidi e molto succosi. In qualche luogo ha nome moristèddu. Lo
Spano riporta muristèllu (assimilando in u la o iniziale) per «uva,
bovale». Non si tratta, però, dell'uva bovale, per quanto si
rassomigli a questa. Il vitigno moristèllu è di origine iberica: è lo
spagnolo «Monastrell» (in francese, è «Morrastel»). Per moristèllu
vorremmo azzardare un'ipotesi: che la sua derivazione sia stata in
origine dal latino: mori + tellus (terra dei mori, con la s ascetizia). e
che dalla Spagna, in questo caso, il vitigno ci sia stato importato dai
mori.
PITTIMA - femminile logudorese; Lo Spano ci spiega:
«applicazione allo stomaco di cose aromatiche fatte a cerotto». Si è
rifatto all'italiano «pittima», nella stessa definizione di vocabolaristi
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del suo e del nostro tempo: decozione con vino e spezie usata come
bagnuolo sulla parte del cuore o del fegato; empiastro, cataplasma.
Lo Spano non ha raccolto pìttima nel senso figurato che in sardo
vive tuttora, né il Soro lo ha colto per le sue integrazioni: in quel
senso che manifesta l'atteggiamento o la disposizione di una
persona, specie di un ragazzo, ad essere falsamente doglioso o
affaticato per non fare un lavoro o per opporre qualsiasi
disobbedienza. La frase già nde giughes de pìttimas è di uso
corrente. Da pittima abbiamo l'aggettivo pittimòsu, detto
specialmente per un ragazzo o di un bambino indocile, che fa il
riottoso e piagnucola spesso. Il sardo ha fatto suo l'italiano
«pittima» prendendolo di peso dalla terminologia medica e
farmaceutica, ma si è arricchita nello svolgimento semantico.
PITTIRIACCA - femminile logudorese; fagher sa pittiriacca: è il
lavoro di stralcio o dì sfalcio che si fa in viottoli campestri per
pulirli dagli sterpi e da piante erbacee offensive, come cardi
selvatici, ferule e simili, amputando rovi, biancospini, pruni
(prunizza) ecc., affinché vi si possa passare con bestie da soma
(cavalli, asini) con carico di grano, uva, latte, legna, fieno ecc. E non
soltanto nei viottoli affiancati da muricci, ma anche nei sentieri
delle tanche, specie montuose, ove il passaggio è obbligato, per lo
più fra cespugli. Localizziamo la voce a Bonorva ed in altri paesi del
Logudoro ed oltre. Lo Spano riporta la voce pitturècca, «femminile
logudorese (Codice della Repubblica) muro di cinta». E prosegue:
«forse da pitteràcca, a cui fa rimando col significato di «viuzza,
chiasso, strada». Che per pitteràcca si intendesse un tempo una
viuzza, però campestre, non è da mettere in dubbio, ma non una
strada, tanto più che la stessa voce viene raccolta poi nel Logudoro
dal Wagner, come vedremo oltre, con un significato più esatto e ben
definito. Pensiamo che lo Spano siasi rifatto, per la voce pitteràcca,
dal Porru, nel termine murixeddu, «s.m., camminu de omini a pei,
chiasso, viuzza stretta», e che il termine «chiasso» l'abbia indotto a
generalizzarlo in «strada». La voce pitturècca del Codice della
Repubblica per «muro di cinta» si spiega per traslato da tutto il
53
significato di viottolo. Comunque il Soro non ha rilevato
l'omissione di pittiriacca nello Spano, né lo ha rettificato in
pitteràcca. Il Wagner nel Dizionario Etimologico Sardo, oltre un
secolo dopo, registra la voce pittiracca, «logudorese settentrionale»,
localizzandola a Osilo, Pattada, Ploaghe, Codrongianus, Cargeghe e
Florinas, dandone la precisa accezione: «viottolo incastrato». Indi
soggiunge: «si spiegherebbe con petturi + acca (petto di vacca)
indicando un viottolo talmente stretto che ci passa solo il petto di
una vacca». Poi ancora riporta da Studi Sardi: «fina a pithurecca
dessa vigna». E conclude: «L'origine di questa parola non è bene
assodata, ma è probabile che oggi si interpreti come abbiamo detto
sopra». La spiegazione di pittiracca data dal Wagner per «viottolo
incastrato » è certamente più esatta di quella offerta dallo Spano per
la voce pitturècca. Però, con tutto il rispetto che abbiamo per
l'autorità del Wagner, non possiamo accettare la formazione
ingegnosa che ci ha dato di pittiracca con pitturi + acca (petto di
vacca). Noi riteniamo che i due elementi di tale formazione (petturi
e acca) siano saltati fortuitamente in mente al Wagner. Né vale a
sostegno di essa il raffronto che poi cita con «sa gianna a unu 'oe»
(la porta ad un sol bue), per significare che è aperta con un solo
battente. Quest'immagine è di chiara evidenza metaforica a
paragone del bue solo, spaiato dall'altro bue col quale si aggioga di
consueto. Così come pure si dice: «a boe solu» per un coniuge che
non è accompagnato dall'altro, col quale è solitamente mostrarsi in
pubblico. Mentre il petto della vacca (petturi + acca) non rispecchia
con alcuna evidenza la metafora tratta dallo spazio «talmente
stretto» del viottolo campestre. Anche perché nei viottoli incastrati
o nei sentieri obbligati delle tanche boscose dovevano passare le
bestie da soma col loro carico, dalle quali, se mai, andava tratta la
metafora, ammesso che fosse possibile. Noi riteniamo che da
pittiriacca, il lavoro di stralcio dei viottoli (butturinos), siano
derivate le voci pitturècca, pitteràcca (Spano) e pittiracca (Wagner);
e ciò in virtù di sineddoche, dando cioè lo stesso nome del lavoro di
ripulimento a tutto il viottolo (la parte per il tutto). La derivazione
di pittiriacca ci viene suggerita da pittu, punta, estremità,
54
sporgenza: perché fare la pittiriacca nei viottoli e sentieri è lo
stralciare sos pittos, ispittire o ispittare i rovi e gli sterpi in genere,
tagliare le sporgenze che ne ostruiscono il passaggio. Da pittu,
dunque, con l'influsso di ispittire. Il petto delle vacche non può
entrare in causa e pertanto non è da considerare neppure
ipoteticamente.
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56
NUOVE INDAGINI SU VOCI ENIGMATICHE
La lingua sarda ci offre ancora tanta materia d'indagine ed un
interesse così notevole che ci incoraggia a continuare il nostro
lavoro di scavo e di decantazione.
BAE - Oltre al significato di bava, in logudorese, è voce imperativa
a sé stante per la seconda persona del verbo andare: va. È termine
verbale di maniera, si direbbe un idiotismo. E' usato in locuzioni
caratteristiche: di commiserazione o di sdegno come bae cun paris
tuos! (vai con i tuoi pari!); bae chi ses unu miserabile! (va che sei
un miserabile!); oppure di commiato augurale come bae in bonora!
(va in buon'ora!). In tutti i tempi e modi il verbo andare si coniuga
in logudorese (e con qualche variante nel campidanese) nelle forme
regolari dei verbi desinenziali in -are, perfino all'imperativo ad
iniziare dalla terza persona: àndet, andàmus (-os), andàde, àndene
(-ent), per vada, andiamo, andate, vadano. Per la seconda persona
singolare si usa il manierato bae, che non è forma tematica nella
coniugazione del verbo andare. Tuttavia questo verbo anche alla
seconda persona è usato regolarmente in qualche caso, come: e
anda! per dire ad uno: e vai! Per tutto ciò la voce bae non è un
deverbale. Ma ecco che... (scava scava nei filoni delle parlate sarde),
sale all'onore di un'autonoma e compatta coniugazione regolare, col
suo tema ba-, del verbo andare, sia pure circoscritto ad un'isola
linguistica: il paese di Orune. Infatti ad Orune il verbo andare è
coniugato al presente indicativo in questa forma: jeo bao, tue bas,
isce bat, nois bamus, bois badzes, iscios bana. (Si noti che il tema
ba- viene pronunciato dagli orunesi con la b lenita). Accade pure
talvolta di coniugare la prima e la seconda persona plurale
nell'ambito di andare: nois annamus, bois annades; ma è evidente
che queste due forme sono seriori, importate dal logudorese.
All'imperativo, per va si dice bae (sempre con la b lenita) e le altre
persone dello stesso imperativo hanno le corrispettive forme del
presente indicativo da cui derivano regolarmente, come il più puro
esempio grammaticale in lingue diverse. Una così tipica
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coniugazione del verbo andare, isolata e conservativa soltanto ad
Orune (anche a differenza delie più vicine parlate del nuorese)
indurrebbe a pensare ad una forma prettamente autoctona. Che
abbia avuto origine dall'idioma di qualche clan degli insediamenti
preromanici in quel picco aspro di montagna ed abbia resistito,
tetragona, alla tardiva latinizzazione della Barbagia? Dobbiamo
questa tipica forma al substrato appartenente alle parlate delle tribù
nuragiche? Comunque il dato linguistico va posto all'attenzione e
dall'acume degli studiosi per il suo peculiare aspetto ed il suo
notevole interesse.
CANAPIDA - Sonu de canàpida: è un'espressione che per prima
volta abbiamo appreso leggendo un documento in sardo, del '400,
che il Prof. Alberto Boscolo, già rettore dell'Università di Cagliari,
ha rintracciato nel 1953 nell'Archivio della Corona di Aragona in
Barcellona Di questa espressione avevamo intuito con esattezza il
significato logico, ma non conoscevamo alcuna accezione del
vocabloo canàpida nel sardo antico. Ci era venuto incontro un
vecchio di Dorgali, Pantaleo Cucca, con una spiegazione che
abbiamo ritenuto attendibilissima. Canàpida, meglio cannàpide
secondo la parlata dorgalese, altro non è che un rudimentale
strumento di canna da agitarsi con una certa energia e con
destrezza per emanare dei rumori striduli e assordanti atti a
mettere in fuga passeri, cornacchie, serpi, volpi, donnole ecc. (aes,
terpes e urpes) dai seminati in maturazione, dagli orti e dalle vigne.
«Si prende una canna lunga m. 1,50 — ci spiegò il Cucca — e la si
spacca perpendicolarmente per la lunghezza di un metro:
all'estremità inferiore della spaccatura la canna viene legata per
dieci cm. circa, con delle striscie di pelle di gatto selvatico (corrias
de gattu areste): così la cannàpide è bell'e fatta e viene impugnata
al di sotto della legatura, e fatta azionare. Le striscie di pelle
schioccano come tante fruste obbligando la canna spaccata alla
opposta estremità ad emettere suoni striduli continuati. La
cannàpide era molto in uso nel Dorgalese fino alla metà dell' '800.
Un vecchio ergastolano, graziato verso il 1890, ridottosi a 90 anni a
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fare il guardiano delle vigne, orti ecc., ricordando da giovane la
vecchia usanza della cannàpide per spaventare ed allontanare sas
tuttinas (animali nocivi, volatili e no), se n'era costruita una da sé e
se ne serviva a profitto del suo ultimo mestiere». Chi scrive ricorda
di aver conosciuto da ragazzo analogo strumento e per lo stesso uso
nel Logudoro, chiamato furriolu 'e canna, di costruzione meno
semplice della cannàpide dorgalese. Ricorda anche che il poeta
Peppe Calvia di Mores, in un sonetto in cui lamenta l'incuria di un
guardiano di una sua vigna, sul finire di settembre del '900,
menziona lo stesso strumento con questa incitazione: «Zeccala sa
cannàiga, perdeu». Canàpide, cannàpide, cannàiga: una stessa
voce variata.
IGUMARRAS - E' quasi un rebus. A Tonara il termine sopravvive,
nel significato di lampeggio in lontananza e senza tuono, attraverso
dei modi di dire. Per es.: «Nottesta gioganòis su igumàrras»
(questa notte il lampeggio sta giocandosi). Caratteristica e singolare
la forma gerundiale di gioganòis, a differenza del logudorese
gioghèndesi. Ed anche: «Su igumàrras si nd'est arrìtiràu» (il
lampeggio ha cessato). Igumàrras è parola composta: da igu
(vitello), che in logudorese è biju, da cui la forma barbaricina bigu,
che davanti a vocale perde la b e per definitiva elisione è rimasto
igu (su igu). E marras...? Assume diverse accezioni: il pi. di marra,
zappa larga; la dentatura dell'uomo e delle bestie (marruzza si dice
per i denti di un bambino); i denti di un rastrello, di un pettine e
simili; significa anche i tagli o le pieghe che assumono, per usura di
lavoro, zappe, roncole, coltelli ecc. dalla parte del taglio, come se
questa fosse ridotta a denti: su zappu est tottu a marras (la zappa è
tutta a denti o pieghe, non è pili a filo). E da marras si ha il verbo
ismarrare per indicare la riduzione della lama o del taglio a crepe o
pieghe. In che rapporto e con quale immagine si accosta il termine
marras ad igu per significare insieme il lampeggio secco in
lontananza? Nessun vocabolario sardo fa menzione di questo
termine. Né ci è dato sapere che ne esista traccia in carte antiche. I
linguisti lo ignorano. Lo Spano riporta, alla voce biju (vitello), lo
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specifico biju marinu, per lampo a secco, localizzandolo a Cuglieri.
Non v'è dubbio che esiste una certa parentela del cuglieritano biju
marinu (a Santulussurgiu, invece. si è aggiornato in lampittu
marinu), col igumàrras tonarese. Ma questo termine, così strano ed
impenetrabile nella derivazione di marras e nell'integrazione di
questa seconda parte ad igu (vitello), ci lascia inaccessibile l'erta per
risalire alla genesi della sua semantica.
ISCADANCARE - E' verbo della parlata di Tonara e delle contrade
finitime. Sta per staccare, distaccare. Indica particolarmente lo
sbrancare dei tralci minori e superflui dal ceppo delle viti:
iscadancàre sas bides. In logudorese ha il suo sinonimo nel verbo
ismamàre usato per indicare il medesimo lavoro nelle viti.
Ismamàre, da marna, vale per staccare dalla madre, per slattare
(vitelli, puledri, capretti ecc.). Ismamàre sa 'inza è come dire che si
staccano i polloni bastardi dal ceppo-madre nelle vigne, specie dal
rizoma. Se ismamàre è un denominale di marna (madre),
iscandancàre deriva da cadànca, che è un parassita che si attacca in
primavera e nell'estate alla pelle delle bestie (cavalli, vacche, pecore,
cani). E' la piattola degli ammali che ne succhia il sangue; al pi. le
zecche. In logudorese Si dice cadenància, da cui è derivato, nelle
parlate montagnine, cadenànca, e per sincope cadànca. Inutile dire
che cadànca è term. ignorato dai nostri vocabolaristi.
LUDRAU - Torniamo a questo termine o meglio ai suoi antenati.
Abbiamo citato qualche toponimo che si rifa alla voce bolutràvu del
Condaghe San Pietro Di Silki, 92, 309, ed alla voce gulutràu del
Condaghe San Trullas, 290; precisamente: Su boludràu in territorio
di Macomer (che va rettificato in Su bonudràu, senza che per
questo ne sposti la derivazione), e Su ludràgu de Fresàghes in
territorio fra Neonelli ed Austis. Troviamo che il toponimo
Bonudràu macomerese è stato citato da Antonio Sanna, assieme al
top. Boludràu in agro di Anela, nelle sue «Note sardo-logudoresi»
pubblicate in «Studi sardi» (Sassari, 1955). Ora possiamo
aggiungere un altro consanguineo: il top. Buludràu (con l'articolo,
60
S'uludràu) in territorio di Nughedu San Nicolò, precisamente in un
sito alquanto acquitrinoso, secondo una recente informazione che
dobbiamo alla cortesia del poeta nughedese Salvatore Corveddu.
Ma in Sardegna questi toponimi consanguinei sono certamente
numerosi e stanno a dimostrare che la voce bolutràvu, riconosciuta
dal Bonazzi come latina nell'antico codice di San Pietro di Silki,
confermata poi dalla voce gulutràu del San Nicolò di Trullas, non
solo non è estinta, contrariamente a quanto affermò il Wagner, ma è
copiosamente tramandata in toponimi che ricorrono in citazioni
della gente di campagna, come negli atti notarili, catastali ecc. Così
come sopravvive nell'uso corrente delle parlate sarde la voce
ludràu (per fanghiglia, acquitrini e simili), che è il continuatore
moderno di VOLUTABRUM, come ha dimostrato Antonio Sanna, e
da cui derivano pure le voci riportate da quei due codici antichi.
TURA - E' voce che ricorre oggigiorno nell'espressione logudorese
nieddu che tura (o che-i sa tura), simile a quest'altra: nieddu
pìdigu, cioè nero come la pece (pighe, da cui l'aggettivo Pìghidu
divenuto pìdigu per metatesi). Ausonio Spano''' così inizia la sua
bella poesia «Temporada»: «Nues fittas che tura / s'accaddan in
s'aera» (nubi fitte come tura s'accavallan nell'aria), in cui la
similitudine delle nubi con tura sta in forza dell'aggettivo pi. fittas e
non dell'aggettivo pi. nieddas. Qual'e il significato di tura? E la sua
derivazione? Il Can. Spano raccolse questo termine e ce lo spiega
semplicemente per «nerezza». Poi esemplifica: «Nieddu che tura».
Ma se tura sta per «nerezza», allora nieddu che tura sarebbe come
dire nieddu che nieddura: il che non convince, ed è per lo meno
una spiegazione facilona. Sentiamo il Wagner: «Tura, logudorese,
«nerezza». E qui si rifa allo stesso Can. Spano. Indi cita i versi
riportati più sopra di Ausonio Spano (da «Cantigos de su 'ezzu»,
pag. 97) ed assimila poi la voce tura = ARTRURA (Salvioni, RIL
XLIX, 770; REW 753) osservando che il primo r sarà stato eliminato
per dissimilazione ». Infine rimanda per analogia la voce tura a
tremèntu, trumèntu, (che spiega «soprattutto per nicotina della
61
pipa, trumèntu della pipa, Nuoro») assimilandole =
ATRAMENTUM (REW 758).
Parecchi anni prima che il Wagner pubblicasse il suo Dizionario
Etimologico Sardo avevamo trattato nella rivista S'ISCHIGLIA la
voce tura alla cui spiegazione il poeta lussurgese Bachisio Asili ha
voluto dare il suo contributo riportando un distico di Tibullo:
«Redderetque antiquo menstrua tura Lari». E soggiungeva: «è usato
dall'accorato poeta latino nella elegia (III), "Ibitis aegeas sine me,
Messalla, per undas etc." nel significato di incenso (si restituirebbe
all'antico focolare l'incenso di ogni mese); e poiché l'incenso
produce fumo, spesso denso e nero, non sarebbe fuor di luogo,
secondo il mio modesto avviso, pensare che i nostri lontani antenati
logudoresi abbiano derivato tura da tura latino ed esprimendo
"nieddu che-i sa tura" abbiano inteso dire "nieddu che fumu",
analogamente a "nieddu che pighe" e "nieddu che trumèntu (su 'e sa
pipa)"». Per l'Asili, dunque, sa tura non sarebbe altro che fumo
denso e nero, quello che s'innalzava nei focolari sacri ai domestici
Lari e dai sacrifici delle are saliva al cielo in fitte nubi d'incenso. E
con la sua interpretazione prendono chiaro senso i versi di Ausonio
Spano in «Temporada»: «Nues fittas che tura (come fumo) /
s'accaddan in s'aera»; interpretazione suffragata, inoltre, con
l'espressione di un poeta ploaghese dei primi dell'SOO, tale Pietro
Pintore, che in una poesia satirica, in cui finge di essere ritornato
dall'inferno, dice che i dannati di ogni ceto e condizione «nieddos
sunu pius de sa tura», come a volerli dipingere neri più del fumo
infernale. Noi pensiamo — a margine delle spiegazioni date dai
linguisti del vocabolo tura — che i nostri lontani antenati
logudoresi, come pensò l'Asili, abbiano assimilato il tura latino nel
significato di fumo denso e nero: che altrimenti non avrebbero
chiaro senso i versi riportati dal thiesino Ausonio Spano e dal
ploaghese Pietro Pintore, i quali danno la prova non facilmente
confutabile, più di ogni altra disquisizione, della bontà di tale
significato. Riteniamo perciò di poter postulare la derivazione della
voce logudorese tura dal latino tura (tus, turis) data dall'Asili.
62
ULTERIORE CONTRIBUTO ALLA SALVEZZA
DEL PATRIMONIO LINGUISTICO SARDO
LIBIDE - Ritorniamo a questa voce (aggettivo s. logudorese) che
abbiamo già trattato indicando il suo significato di lèbiu, lèzeri
(leggero) nel vernacolo di Nughedu San Nicolò. Abbiamo trovato
recentemente in «Note lessicali sarde», pubblicate in «Archivio
Storico Sardo» (volume VII, 1911) dal Prof. Giovanni Campus, il
termine lìbides. «Si ode questa voce — ci spiega il Campus — nella
frase fora e lìbides» (la e isolata dovrebbe scriversi 'e perché
rappresenta la preposizione de) «e prende vari significati secondo il
contesto: così fora 'e lìbides significa "parlar senza capo né coda";
est bessidu fora 'e libides, "ha passato la misura nel parlare" e
simili. Non è altro che limites e ci dà un nuovo e bell'esempio di
scambio fra b ed m intervocalici». Da dove il Campus abbia tratto il
vocabolo libides, se da qualche antico testo o dall'ancora viva
parlata di qualche contrada o paese dell'area del logudorese, non ci
è dato sapere. Il significato di lìbides per limite, dato dal Campus,
parrebbe a prima vista non concordare col significato di lìbide
inteso oggi a Nughedu S. N.; come pure le espressioni fora 'e
lìbides, est bessidu fora 'e lìbides, nel senso riportato dallo stesso
Campus, non rispecchierebbero le espressioni mi sento unu pagu
lìbide (un po' leggero di febbre sofferta, di un mal di testa e simili),
ses arende a lìbide (stai arando leggermente, non in profondità) da
noi citate nell'uso del vernacolo nughedese. Ma se si pensa ad uno
svolgimento semantico di lìbides = limite, non può apparire strano
che il lìbide di Nughedu, certamente seriore, si debba intendere
pure derivato da limites; ed il sentirsi unu pagu lìbide (più leggero
di febbre, sollevato da un malessere) è come esprimere il concetto di
aver superato o quasi un limite (della malattia); così come il dire ses
arende a lìbide (stai arando in superficie) sta per indicare che i
solchi risultano non in limite di profondità, meno della misura
consueta o stabilita. Così dal lìbides si può ritenere di essere giunti,
per evoluzione semantica, a lìbide. Il Campus, che ce ne ha dato il
bandolo, avrebbe rivelato così il vero volto della... sfinge.
63
MALEVALDÌA - E' sostantivo femminile logudorese; significa
maleficio per fattucchieria. Non è riportato dai nostri vocabolaristi e
non ne abbiamo avuto traccia in studi di linguistica sarda. Il
termine è usato da Paolo Mossa nella sua bella lirica «In sa domo de
campagna». All'arrivo delle rondini, ai primi tepori primaverili, il
poeta le invita a prender dimora nella sua casa campestre, ove
erano nate l'anno prima; ma vedendo che esitavano a farlo e si
comportavano come sospettose verso di lui, si domanda un po'
amareggiato; «Cale tortos, cale fattu / bos hapo malevaldìa? »
Quali torti, quale maleficio vi ho fatto? Poteva il poeta aver fatto
delle fattucchierie a loro danno? In traduzione libera il Mossa aveva
reso gli stessi versi senza ricercatezza: «Qual torto, quale offesa v'ho
io mai dato?» Ma nella stessa lirica il poeta fa seguire subido dopo
due esempi di maleficio che per fattucchieria si commettevano
crudelmente accecando dei rondinini nel nido o squarciando il
petto a delle rondini per ingoiarne il cuore ancora palpitante. E
quegli esempi spiegano più compiutamente il significato di
malevaldìa. Questo termine, pensiamo, sarà stato in origine
malefadìa, da malu fadu (fato maligno), da cui l'aggettivo
malefadàdu per misero, infelice, sfortunato. La v intervocalica di
malevaldìa segue in questo caso lo svolgersi naturale, nel
logudorese, del suono della f in quello della v (similmente a certi
casi nel francese) con la 1 ascetizia. L'uscita in -dia nel lessico sardo
è comportamento comune per diversi nomi astratti, come biadìa
(beatitudine, felicità), primadìa (primaticcia), redadìa (tardiva),
nadìa (nativa ed anche stirpe), maladìa (malattia), romadìa
(raffreddore), pesadìa (allevamento, educazione), masedìa
(mansuetudine), bagadìa (libera, nubile) e nel nome concreto
tegadìa, bozzacchio, escrescenza del fiore del prugno in luogo della
susina non andata a compimento. («E cando 'oliare s'est bida /in
tegadìa sa pruna». - P. Mossa). Similmente malevaldìa = malefadìa,
ora non più usato a Bonorva se non in bocca di qualche novantenne.
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SARAU - Termine logudorese antico: tripudio, scialo, festa. Per lo
Spano è semplicemente «stravizio». Ma ecco Pietro Casu nella
poesia «Sa recuida»: «Dulze pinnetta, s'unicu sarau / dés esser tue
de su viver meu, / lontanu a degni miseru ludrau». I cui versi
indicano le feste, le gioie pure che può dare una misera capanna, e
non certametne degli stravizi. Sentiamo ora un poeta incolto di
Bonorva, un certo Gavino Ruggiu (più comunemente Tiu Ruzu),
vissuto a scavalco fra r800 ed il 900: «Canes de fogu riccu, / chi mai
no nd'han bidu 'e sarau: / bi nd'hat unu piticu, deh! ch'ìstat
baulende ciu ciau; /e cancaradu e siccu / chi faghet a sa lande che
ispau». E' chiaro che il termine sarau, intravisto per la «dulze
pinnetta» del Casu, come nei cibi gustosi ed abbondanti negati ai
cani di «fogu riccu» del Ruggiu, significa ricchesa, recreu, logu
recreadu e bonurecatu. Inoltre Pietro Cherchi, il cieco poeta tissese,
in Mulas (pag. 450): «Musicas e saraos dogni die / ti faghen che
reina coronada». E Demonti Licheri in «Raccolta» edita a Oristano
(pag. 211): «Sas gherras, sos saraos, sos cumbidos...». Il vocab. sarau
è il sarao spagnolo, anche il sarau catalano, precisamente come in
sardo: «reunion notturna anche hay baille o musica».
SEBEZE - Questo vocabolo, sconosciuto ai più in Sardegna, ci fu
riferito dal compianto amico Salvatore Cambosu. L'aveva
pronunciato sebètze. Ci spiegò che si trattava di un amuleto in
pietra nera che si appendeva ancora, come in tempi arcaici, al collo
dei bambini di Barbagia per scongiuro delle tentazioni e contro la
iettatura: tali erano le sue credute virtù apotropaiche.
Lo si può confrontare, anzi rassomigliare ad un altro amuleto, pure
in pietra nera, che in Logudoro e regioni finitime, fino a circa mezzo
secolo fa, messo al collo dei bambini per fugarne il «malocchio»,
appariva ancora un residuato della idolatria praticata dai sardi
antichi. Il Cambosu ne scrisse anni dopo nel suo composito e
favoloso «Miele amaro», in un capitolo che s'intitola «L'amuleto
nero». «Gli pendeva al collo — Egli ci narra — la pietra nera, su
sebèze, e diceva che quell'amuleto era più forte della Tentazione, e
che non era poi tanto raro. I Bambini senza il sebèze inciampano
65
spesso per lo sgambetto del Maligno. Ma forse lo diceva per
prendersi gioco di chi lo interrogava, e non del tutto scettico del
potere apotropaico di quel suo talismano».
Così introduceva quel capitolo il Cambosu, per poi evocare San
Gregorio che nel 594 «parla ancora di barbaricini che vivono «ut
insensata animalia», che non conoscono il vero Dio, che adorano
«Ugna et lapides». Lapides, pietre: e quel bambino, battezzato al
fonte battesimale di Gavoi, senza saper nulla di tutto questo, era
ancora tanto «antico». Indi, chiudendo il capitolo: «L'idolatria
particolare all'adorazione di quella pietra andò nei secoli
decadendo in superstizione. E la superstizione dura ancora in
quella contrada, dove la pietra nera sebèze abbonda e dove ancora
le si attribuiscono virtù apotropaiche. L'etimologia stessa del
termine suggerisce l'idea della venerazione».
Dell'«amuleto nero» possiamo dire di saper tutto, eccetto però della
sua etimologia che il Cambosu lascia indovinare, più che
intravedere, quando scrive che «suggerisce l'idea della
venerazione». Ha voluto forse indicare nell'amuleto nero una pietra
scelta (eletta per occulto potere) come fosse sebèze derivato da
sèberu, da sebèstu o da altro deverbale: di seberàre, sebestàre,
sebertàre, assebertàre? Nessun vocabolario sardo ci ha potuto
suggerire qualche idea in proposito (anzi non registra neppure il
termine), né altre pubblicazioni di linguistica sarda che pure
abbiamo consultato. E' molto probabile che sebèze derivi da
sebèstu, che si raffronta col greco sebaste che significa veneranda.
A meno che non sia questo il bandolo certo, come noi riteniamo, e
venga fuori chissà quale etimo per bocca dell'oracolo.
TRAJANU - E' aggettivo m. logudorese, per mandròne, pigro. Il
termine ci perviene da Bulzi ed il poeta Giorgio Pinna, bulzese, lo
ha usato in una sua poesia: «Su puddèrigu trajànu» Lo Spano
ignora questo termine, ma alla voce traja del suo vocab. ci indica
questo sostantivo femminile merid. per «trava, travicello». E'
pensabile che l'aggettivo logudorese trajànu sia derivato dal
sostantivo tràja (non importa che si sopravvissuto nel
66
campidanese), sebbene il Wagner riporti traja, «logudorese
settentrionale», limitatamente al significato di «macchia folta ed
intricata, per lo più spinosa (una — de rù, de prunizza) una folta
macchia di rovo, di pruni»; e trajòne per «macchione folto e
intricato». Trajànu fa pensare anche ad una derivazione dal latino
trahere o da traha, treggia, slitta di montagna per trasporto di
legna, paglia, fieno ecc. In logudorese la treggia è chiamata carruga,
anche carrùca, e carrugàre per trasportare grano mietuto, legna ecc.
con la carruga (specialmente in montagna e posti scoscesi, ove non
si poteva passare col carro agricolo), la quale, per la sua costruzione
a mezzo di travi rudimentali, ha un senso comune con traja (trava).
Il trahere della treggia (carruga) offre anche il senso figurato del
cavallo trajànu dall'andatura stentata nel tirare il carico, quindi
anche lentamente pigro.
TERPES e URPES - Il primo vocabolo è nome collettivo che indica
l'insieme dei rettili. È derivato dal latino serpens con lo scambio
della iniziale s in t. Il secondo vocab. è pure nome collettivo che
indica l'insieme degli animali felini (volpi e gatti selvatici) e anche
dei mustelidi (donnole, puzzole, martore). È derivato dal latino
vulpes, per afferesi della consonante v e lo scadimento della
consonante l in r. E' noto alla periferia di Cagliari il Monte Urpinu,
così denominato per le tane delle volpi che vi abbondavano
anticamente. Tanto terpes come urpes sono voci ignorate
completamente dallo Spano.
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DI ALCUNI TOPONIMI
Quanto sia azzardato e rischioso lo studio per la ricerca
dell'etimologia dei toponimi lo sanno per esperienza molti di
coloro, filologi e no, che vi si sono cimentati. Qui non s'intende,
naturalmente, far riferimento a dei toponimi di facile spiegazione,
cioè di quelli che si spiegano da se stessi, in quanto si presentano
coi propri connotati scritti in fronte, come: Sant'Antioco, Quartu
Sant'Elena, Sestu, Decimomannu, San Sperate, Serramanna, San
Gavino,
Fluminimaggiore,
Perdasdefogu,
Lunamatrona,
Villanovafranca, Santu Lussurgiu, San Leonardo, Tresnuraghes,
Villanova Monteleone, Pozzomaggiore, Monterasu, Montesantu,
Monteacutu, Castelsardo, Logusantu, Portotorres, Terranova,
L'Asinara, La Maddalena e così via. Ma neppure s'intende far
riferimento a dei toponimi, diremo così, fotogenici, come: Carloforte
(da Carlo Emanuele III detto «il forte»); Teulada (da tègula o teula,
che è l'interpretazione ovviamente più popolare, nonostante la
derivazione fatta dal Nurra dal fenicio THQALATH, che altro non è
che un verme, e l'etimologia dataci dal Can. Spano, in THEALATH,
che vuol dire canale); Siliqua che deve il nome ad una pianta
cespugliacea, che alligna abbondantemente nel suo territorio:
l'anagiris fetida; Domus Noas Canalis (case nuove del canale, in
quanto nuove e vicino al fiume); Monastir (da Monasteriu);
Villacidro (Villa dei cedri, chiamata in campidanese
Biddaxirdu);TorraIba (da Turris alba, cioè da una torre alba,
bianca, che esistette certamente sul posto, forse in tempi romani,
costruita con pietre calcaree di cui fa sfoggio la sua natura
geologica); ecc.
Né s'intende far riferimento neppure a dei toponimi dal volto
storico ben riconosciuto, come: Cagliari dall'antica Càlaris o
Càralis, oppure Karales delle più antiche iscrizioni; Iglesias
(corruzione di Eglesias), l'antica Villa Ecclesiarum, Villa dì Chiesa;
Fordongianus, anticamente Forum Traiani, perché vi si stanziò una
colonia al tempo dell'imperatore Traiano; la Barbagia, regione
centrale dell'Isola che si divide in Barbagia di Ollolai, Barbagia di
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Belvì e Barbagia di Seulo: era anticamente denominata Barbaria,
come da iscrizione romana; Paulilàtino (che i continentali
pronunciano per la prima volta Pauli Latino e molti sardi ritengono
che il paese sia così denominato per la sua origine latina) deve la
sua etimologia da padule a làtere, in quanto il paese aveva intorno
molte paludi; Macomer (in log, odierno Macumere, anticamente
Macumele) ha derivato il nome dalla Macopsìssa dei romani.
Vogliamo invece riferirci con impegno ad alcuni toponimi non facili
a spiegarsi etimologicamente, a quelli che hanno fatto da rompicapo a più di uno studioso. Chi scrive, ad esempio, si è cimentato
per trovare l'etimologia della sua Bonorva, non risultandogli che
altri l'abbiano data alquanto attendibile. Ecco il sugo delle sue
ricerche in proposito:
BONORVA - C'è chi l'avrebbe definita per Buona Terra (sarebbe
stato Piero Cao di Cagliari, meglio conosciuto sotto le vesti
arbitrarie di «Padre Cao», a dare quella definizione trovandosi a
Bonorva, parecchi anni orsono, in escursione archeologica): ma se il
primo elemento, bono, si spiega da sé, interpretare il secondo, orva,
per terra è per lo meno azzardato. II Can. Spano, nel suo
«Dizionario Geografico», fa derivare il nome Bonorva dalla radice
Bono, che nelle carte antiche sarebbe Boon da Ban, cioè edifizio,
casa, nonché dall'aggettivo arba, cioè grande: per cui
significherebbe «abitazione distinta». Ora è risaputo che Bonorva
ebbe la sua origine dal borgo chiamato Moristene (dal latino
Monasterium), sorto prima con capanne di frasche e poi, fino al
1630, che fu eretto a contado del feudo di Costa di Valle, fu
costituito da casupole in cui abitavano dei poveri pastori o
contadini: per cui non poteva possedere, l'originaria Bonorva
nessun «edifizio» di pregio, nessuna «abitazione distinta».
All'autore di queste queste note la spiegazione datane dallo Spano
non soddisfa, anche se elaborata con dotte pezze d'appoggio. Egli
ritiene che il toponimo Bonorva, scritto Bonorba in carte antiche,
abbia il Bon prefisso nel significato sardo di bona e si componga
pure con l'aggettivo arba, però come femminile dell'arcaico arbo,
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cioè acerbo, aspro, anche fiero; perché acerbo, cioè crudo, incolto fu
il suo territorio; aspra, accidentata, impervia è la posizione di
questo, fra coste e valli; fiera ad un tempo nell'aspetto. Per tali
caratteristiche Sebastiano Satta cantò in «Ditirambo di giovinezza»:
Ho un sogno nell'anima torva,
O uccellin mio di primavera:
Vo attraversar la Costera,
Vo entrar nell'aspra Bonorva.
Aspra, dunque, cioè arba arcaicamente.
Ma enunciamo alcuni toponimi esemplari.
ELMAS - L'avevamo creduto un toponimo spagnolo derivato da El
Mas, però nell'erroneo significato de «il più grande». Il Prof.
Antonio Sanna, docente di linguistica sarda all'Università di
Cagliari, ci ha rattificato la derivazione di Elmas ed il suo
significato. Ci ha richiamato anzitutto Pasquale Cugia (nel «Nuovo
Itinerario dell'Isola di Sardegna», Ravenna 1892, vol. I pag. 189)
riportando questa breve e dubitativa spiegazione: «Il nome attuale
proviene dall'essere il paese più vicino a Cagliari dalla parte
occidentale, forse anche da corruzione dell'antica parola Mansus».
Indi esemplifica: «In italiano abbiamo "maso" e "manso". Il
Vocabolario Etimologico Italiano di Angelico Prati (Torino 1951)
spiega: "rimando maso a manso, sostantivo m., podere di misura
determinata"; bassolatino mansus, "la terra e la casa del coltivatore"
(Rossi, Glossario ligure, Appendice 177); bellunese mas "podere con
abitazione"; valsugano maso "casa isolata, di solito con podere
annesso"; trentino mas "podere, masseria, gruppo di case coloniche,
casale"»; ecc. ecc. Ci riporta poi da Emidio de Felice (ne «Le coste
della Sardegna», Cagliari 1964, pag. 95), il quale «fu per anni
incaricato di glottologia alla nostra Facoltà»: «ELMAS: ... alla base è
qui il catalano mas (dal latino medioevale ma(n)sum derivato dal
latino mansus, participio perfetto di manere, "rimanere"; maso,
"fondo agricolo", con l'art, determinativo nella forma ridotta el,
attualmente agglutinato all'elemento sostantivale e non più
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avvertito e distinto da questo - tanto che l'accentazione stessa è
spostata sull'articolo (Èlmas) - ma sino al secolo scorso era ancora
sentito come articolo e scritto infatti generalmente staccato. Nel
Dizionario di G. Casalis è infatti registrato come El Mas ed el Mas è
la forma usata, nei primi del Settecento, da Vincenzo Baccallar y
Sanna, Governatore di Cagliari e di Gallura, mentre nella Relacion
al Rey di Martin Carille (Barcellona 1612) è ancora usata la forma
con l'art, più antico, e specifico dell'uso di Barcellona e Valenza, Lo
Mas. Poiché il nome locale è tuttavia su Masu, e l'etmico Masesi,
qui insorge il problema se la denominazione originaria è quella
catalana, oppure quella sarda, di cui El Mas sarebbe una traduzione
catalana seriore, poi affermata nell'uso della capitale e nella
toponomastica ufficiale: pare tuttavia decisivo per la tesi di
un'originalità della denominazione catalana il fatto che masu, come
appellativo, non è continuato nel campidanese — anche se è sempre
possibile che un elemento latino sia continuato soltanto nella
toponomastica e non nel lessico — e che Elmas, fin dal periodo
della conquista, è sempre stato un centro di preminente interesse
catalano». Ed il Sanna soggiunge: «Fin qui il De Felice il quale, in
nota, ricorda la fondazione dovuta a Don Alfonso Infante
d'Aragona della chiesa, ora distrutta, di San Giorgio di Elmas
(riprendendo dall'Arco) e respingendo i favoleggiamenti di
un'origine fenicia o araba proposti dallo Spano. Per conto mio non
sono del tutto d'accordo con il De Felice per l'origine catalana e per
l'argomento "decisivo". Infatti è per me importante il fatto che
l'etmico sia masesu e non elmasesu ed il nome popolare sia su
Masu: difficilmente si sarebbe tradotto dal catalano in sardo; assai
più facile e logico il contrario. Si pensi a Muristeni divenuto
Monastir; ed il caso non è isolato. Con il valore di masu, mansum,
si usava nel sardo antico, forse più comunemente, masone da
mansione della stessa origine. In un documento arborense dei
primi del XII secolo, accanto a Nurage Nigellu (Nuraxinieddu)
figura Masone de Capras (Cabras): due villaggi che vengono posti
sotto il diretto controllo del giudice e pertanto affrancati da ogni
altra dipendenza ».
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A rispecchiare le indicazioni toponimiche del Sanna vediamo anche
noi, ora, l'estendersi in altre regioni italiane dei toponimi che ci
appaiono della stessa origine e con lo stesso significato, come
Masone in provincia di Genova e Mason Vicentino. Ed in perfetta
aderenza al bellunese mas ed al valsugano maso citati dal Cugia, i
masi delle campagne dell'Alto Adige, come il maso
Unterrschbaumer di Spinga presso Bressanone. Le ampie e dotte
citazioni del Sanna e la sua conclusione su Elmas ci hanno
proiettato in chiara luce la derivazione ed il significato di questa
denominazione. Noi, ch'eravamo ancorati alla voce El Mas,
riportata perfino dal Dizion. del Casalis (compilato per la Sardegna
dal Padre Angius), edito a Torino nel 1851, abbiamo creduto,
senz'aggiornarci a studi più recenti, ad una semplicistica
spiegazione di Elmas reperita intorno a mezzo secolo fa, per altro
basandoci sulla definizione data dallo Spano per mas e dalle
correlative del «Nuevo Diccionario Francès- Espanol por D.
Vincente Salvà» (Paris). Ora, lieti di poterci ricredere, conosciamo
esattamente il significato originario di Elmas, per podere con
abitazione, masserìa, casale, borgo. E, pur restando il toponimo
formato dal catalano el Mas, siamo pienamente convinti che la
denominazione derivi tuttavia dal lessico sardo divenuto toponimo
in Su Masu, appellativo popolare usato ancor oggi a Cagliari, a
Elmas, Assemini ecc. e che già conoscevamo, come pure l'etmico
masesu. Apprezzando pertanto la rettifica del Prof. Sanna,
sentiamo di far doverosa ammenda dell'errore in cui eravamo
inavvertitamente caduti. Così il toponimo Elmas, che era apparso
come un enigma a taluni studiosi, è oggi chiaramente rivelato dalla
sua carta d'identità.
LOGUDORO - E' la regione che confina al sud con la Campeda; ad
ovest col Goceano (Sa Costerà) e, continuando a destra dei territori
di Buddusò e di Ala dei Sardi, con la Baronia di Lodè fino a Olbia;
al nord con la Gallura e con l'Anglona, riprendendo poi il territorio
che da Sassari s'incunea fino a Portotorres, ad est con la Nurra e col
Mar Tirreno. Nel suo entroterra meridionale abbiamo il Meilogu
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(Medius locus), luogo di mezzo, perché situato fra due feudi:
quello di Caput Abbas e, più sopra, quello di Mores.
Il toponimo Logudoro appare semplicisticamente agli incolti come
luogo d'oro. Al Can. Spano, fra le tante opinioni sulla etimologia di
Logudoro, sembra che sia una corruzione da Luquido (populi
Luquidonenses), antica città vicino a Oschiri, ove i Romani
edificarono Castra; e da Ore, una curatoria menzionata in antiche
carte. Per cui Logudoro sarebbe Logu d'ore.
Ma le opinioni sono... opinioni. E di congetture non ne ha fatto
soltanto lo Spano, che da buon orientalista vede la derivazione di
toponimi sardi e di molte voci del nostro lessico per 10 più da nomi
e vocaboli arabi, fenici, greci ecc. Sentiamo anche Giandomenico
Serra, piemontese, già docente di filologia alla Università di
Cagliari; il quale al nome Logudoro e ad altri nomi locali uscenti in
«oro» ha dedicato un saggio in «Lingua Nostra» (Vol XVI, fase. 2,
giugno 1955), ritiene che il nome «Logudoro», nella sua struttura
originaria di Locu d'ori, sia stato introdotto in età romana e
riproduca il nome di Oris della Mauretania.
Quali delle due etimologie citate è la più attendibile? Quella del
Can. Spano che la fa derivare da Luquido, antica città
nell'Oschirese, e da Ore, antica curatoria forse del medesimo
territorio? Oppure è da prendere in considerazione quella
prospettata dal Prof. Giandomenico Serra attraverso la struttura
originaria di Locu d'ori del moderno Logudoro ed in virtù della
riproduzione del nome Oris della Mauretania? L'autore di queste
note sarebbe più propenso ad ammettere un qualche fondamento
nell'opinione del Serra, dato che anticamente alcuni popoli della
Mauretania si stanziarono in Sardegna, però al sud, precisamente
nel Sulcitano, i cui abitanti vengono ancora oggi chiamati
maurreddus (da maurus). Tuttavia rimane perplesso nel
considerare che non è certamente un buon metodo d'indagine
quello adottato da parecchi studiosi (storici o linguisti) nel far
trasmigrare in Sardegna nomi di regioni africane e del vicino
oriente, senza tener conto che la similarietà di quei nomi con dei
toponimi sardi può essere del tutto fortuita. C'è stato chi, poco più
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d'una ventina d'anni orsono, ha tirato fuori tutta una serie di nomi
di località non soltanto di paesi del Mediterraneo, dall'Anatolia
all'Africa ecc., ma addirittura del centro dell'Asia, concordanti
(almeno graficamente) con toponimi sardi, perfino col radicale nur
di nuraghe; e qualche altro dalla fantasia fervida ne ha introdotto
dalla Svezia e dalla Norvegia facendo venire in Sardegna dei
vichinghi, che qui da noi non sono mai apparsi. Ecco perché si corre
molto rischio intraprendendo lo studio etimologico dei toponimi e
diffidiamo di certi risultati congetturali. Per concludere questa nota
sul toponimo Logudoro non possiamo fare a meno di riferire
un'indicazione che ci è stata data qualche tempo fa: che il nome
Logudoro è tratto da Luogo delle torri, ottenuto per corruzione da
locutorre, precisamente in virtù delle torri esistenti lungo il litorale
di questa regione. Ne farebbe fede attualmente il toponimo
Portotorres. E questo parere ci è stato confermato più recentemente
dall'amico Pietro Mugoni, studioso di cose patrie, autore della
«Storia Economica e sociale della Sardegna dell'Evo antico»
(Editrice Sarda Fossataro, Gennaio 1957). Se il nome Logudoro
equivale veramente a luogo delle torri, la soluzione dell'enigma si è
rivelata ancora una volta nell'uovo di Colombo...
NURRA - E' la regione che confina alla destra col Logudoro, a
sinistra col littorale tirrenico ed al nord col Golfo dell'Asinara.
Nurra, dalla radice nur come in nuraghe, viene appellata a Oliena
una cavità in roccia, grotta o caverna, mentre la stessa
denominazione prende a Orune un mucchio tondeggiante di pietre
o di forma conica. Dalla fusione unitaria dei due significati opposti
si ha la configurazione, dataci da archeologi moderni, di nuraghe
come mucchio cavo. Nurra è certamente il nome riprodotto dalla
denominazione sarda di caverna, data la presenza di grotte al
Monte Nurra di questa regione, forse originate da antichissimi
scavi minerari.
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OGLIASTRA - E' la regione che si estende tra Cala di Luna nel
Golfo di Orosei fino alla foce del Flumendosa nei pressi di
Villaputzu, comprendendovi il Salto di Quirra; e dal litorale
tirrenico fino a confinare a sinistra con la Barbagia di Ollolai, i
Monti del Gennargentu, la Barbagia di Seulo, il Sarcidano e la
Trexenta; infine al sud col Gerrei ed il Sarrabus. Il nome di questa
regione deriva molto probabilmente dall'antica denominazione
Agugliastra, che si rifà ad una scogliera di mare, nel Tirreno,
formata da tante guglie rocciose. «Anticamente — scrive
l'ogliastrino integrale Angelino Usai attento e profondo studioso di
cose patrie era denominata Agugliastra, Squìllastrum, Oleastra,
Ollasta, Olasta, Ullaste, Ullastra, ed anche Trigonia di Barbagia,
dal greco «trigonos». Una delle suddette denominazioni —
Oleastra — ha fatto ritenere a tanti cultori della toponomastica
sarda che il termine derivasse dagli olivastri che allignano in
abbondanza in quella regione. L'Usai, citando tutte le
denominazioni già assunte di quella «Trigonia », ci offre soltanto un
apporto documentario senza volersi pronunciare sull'etimologia di
Ogliastra. Per lo Spano la denominazione Ollasta, a cui rimanda
Ogliastra, è derivata (nientemeno!) dal fenicio. Infatti così scrive:
«Ogliastra, ollastinu, ogliastrinu. Da questa voce hanno preso il
nome molti villaggi. Non è dunque dalla quantità degli ulivi
selvatici che abbiano preso l'antivoce, ma è da Astaroth, Astarte, la
Diana dei fenici, per il culto che gli antichi Sardi prestavano a
questa Divinità, di cui un tempio esisteva nel Capo Sant'Elia di
Cagliari». E' appena il caso di dire, con tutto il rispetto che abbiamo
per l'illustre orientalista, che non sentiamo alcuna venerazione per
la dea Astarte e che l'averla, lo Spano, riportata sugli altari della
toponomastica sarda non ci commuove affatto. Noi opiniamo per la
derivazione di questo toponimo da Agugliastra.
***
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L'autore di queste note linguistiche non si sente, a cagione delle sue
deboli forze, di poter continuare nella ricerca etimologica di
toponimi sardi. Si è azzardato a farne in numero così esiguo come
invito agli studiosi qualificati della materia di voler continuare
l'opera di scavo che ha voluto intraprendere per suo esclusivo
diletto. L'imbocco della galleria resta pertanto aperto a tutti i cultori
di buona volontà.
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INDICE
Presentazione .................................................................................Pag. 3
Abbreviazioni ................................................................................Pag. 5
Enigmi ed aspetti peculiari della lingua sarda .......................Pag. 7
Abba crasta - abbercheddàre.
Altri enigmi e peculiari aspetti della lingua sarda ................Pag. 13
Ajubore - alapinna - annujadorzu - assussegare attrasettàre - bòzziga - connou - culvenu - galiu ghiu - giannittàre - grusare - illierare - inzottu
isculpìre - ispaju - lìbide - ludrau – minzìdiu
Voci ignorate o mal note .............................................................Pag. 23
Abbiscarzare - alapinna - attutinàre - libriscu ludrau – pinnadèllu
Ricerche e scoperte linguistiche del Wagner ..........................Pag. 31
Paolo Soro Morittu e le sue lacune nelle integrazioni
allo Spano .....................................................................................Pag. 33
Abbalèstra - abbortijàre - ajubore - arijedda - arturiu
birzine - bundu - campaniare - corogliare
connou - culiu - dellezu - diddia - fittivu - forròttula
frobbadu - grina - illoriare - innoriare - inzichi
isaliadu - isbentiumene - iscettu- istejare - isuliare
Altre lacune del Soro Morittu ....................................................Pag. 41
Iscancu - iscasiddàre - ischijittu - istrazone - lichidu
lullù - madrùncula - malugàgnu - mannòsigu - manuda
muffache - murimèntu - nàchi - nìbidu - pedrischèddula
pudèmia - perdèzzi - rebbegliare - rènzia - semidànu - silva supreva - trasinu – troddulare - zuppeddu
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Mancate rettifiche del Soro alle integrazioni nello Spano ..Pag. 48
Babbarrottu - bettu - brassanu - caminzòne - ischimare
loba - luzana - moristèllu - pìttima - pittiriacca
Nuove indagini su voci enigmatiche .........................................Pag.57
Bae - canàpida - igumàrras - iscadancàre – ludrau - tura
Ulteriore contributo alla salvezza del patrimonio ..................Pag. 63
linguistico sardo
Libide - malevaldìa - sarau - sebeze - trajànu – terpes e urpes
Di alcuni toponimi .......................................................................Pag. 69
Bonorva - Elmas - Logudoro - Nurra - Ogliastra
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