i quaderni del cream

Transcrição

i quaderni del cream
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO BICOCCA
CENTRO DI RICERCHE ETNO-ANTROPOLOGICHE MILANO
I QUADERNI DEL CREAM
2010 – X
Trauben
I quaderni del CREAM sono una pubblicazione a cura del Centro di
Ricerche Etno-Antropologiche dell’Università degli Studi di Milano
Bicocca. Raccolgono articoli, note, recensioni e testi di conferenze e
seminari tenuti nell’ambito delle attività del Centro e delle iniziative ad
esso collegate: Corso di Laurea Specialistica in Scienze Atropologiche ed
Etnologiche, Dottorato in Antropologia della Contemporaneità (DAC),
Corso di Perfezionamento in Antropologia Culturale (COPAC), Laboratorio di Antropologia Visiva (LAV), Seminario di Antropologia del
Medio Oriente e del Mondo Musulmano (SAMOMU), Seminario di
Atropologia Teorica (SAT).
Unidea-UniCredit Foundation, nell'ambito del proprio impegno nel
campo della ricerca, sostiene le attività del CREAM.
Direttore Roberto Malighetti
Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione 'Riccardo Massa'
Università degli Studi di Milano Bicocca
Piazza dell'Ateneo Nuovo 1
20126 Milano
© 2010 Trauben editrice s.a.s
via Plana 1 – 10123 Torino
fax 011.837193
www.trauben.it
ISSN 1970-867X
I quaderni del CREAM , 2010, X
Indice
5 Ugo Fabietti, Claude Lévi-Strauss: profeta dei tempi moderni?
13 Roberto Moscat, La facoltà di Scienze della formazione:
un profilo storico.
27 Roberto Malighetti, Runa Lazzarino, Violenza e limite.
Conversazione sul lavoro di ricerca in una favela carioca.
59 Sergio F. Ferretti, Religiões de matrizes africanas no Maranhão.
75 Vânia Fialho, Pesquisando no Nordeste indígena brasileiro:
processos coletivos e questões metodológicas.
91 Francesca Nicola, Essere Okapians a Port Moresby. Tradizioni
di scambi e nuove ideologie del Sé in Papua Nuova Guinea.
115 Giancarlo Anello, Civiltà e diritti: archeologia della
subalternità legale nel colonialismo giuridico italiano
145 Antonio Carlos Wolkmer, Pluralismo giuridico: fondamenti di
una nuova cultura giuridica
181 Antonio De Lauri, Questionidi antropologia giuridica: una
introduzione
I quaderni del CREAM , 2010, X
UGO E. M. FABIETTI
CLAUDE LÉVI-STRAUSS:
PROFETA DEI TEMPI MODERNI?
I profeti, come è noto, non sono degli “indovini” ma uomini e donne
che, in periodi di crisi, prospettano per la propria comunità un orizzonte di senso, non necessariamente ottimistico, entro cui si renda
possibile pensare il presente e il tempo a venire. Perché, dunque, una
figura come quella di Claude Lévi-Strauss potrebbe essere definita
profetica? Senza mezzi termini diremo che affermazioni, dichiarazioni, interventi spesso inattuali e paradossali – come sono quelli di
tutti profeti – si sono rivelati, ultimamente, di una sconcertante attualità. Come tutti i profeti, Lévi-Strauss esprime giudizi e prefigura
situazioni che possono essere – come di fatto sono state – lette in maniera diversa e persino opposta. Forse, più che di eredità in divenire
bisognerebbe parlare, a proposito di Lévi-Strauss, di “profezie in
divenire”.1
Conosciamo tutti i motivi per cui Lévi-Strauss occupa un posto di
primo piano, e per molti aspetti unico, nell’antropologia e nelle scienze
umane del Novecento. Parentela, mito, totemismo, arte: non c’è quasi
aspetto della cultura umana al cui studio Lévi-Strauss non abbia dato un
contributo originale, fondamentale e spesso decisivo. Ma Lévi-Strauss
ha anche contribuito più di altri a diffondere, almeno in certi anni, una
immagine dell’antropologia che ha avuto grande successo: quella dell’antropologia come studio delle “società primitive”; dell’antropologia
come rimorso dell’Occidente, e quindi evocatrice di quei tropici “tristi”
magistralmente raccontati nel libro del 1955. Tristi tropici è lo spazio
1
Questo testo riproduce, nelle grandi linee, una relazione presentata al convegno
Claude Lévi-Strauss. Un’eredità in divenire, tenutosi a Torino il 24 settembre, 2010.
I quaderni del CREAM , 2010, X
5
della messa in scena della perdita e della nostalgia che – e dicendo
questo non pensiamo di sbagliarci – costituiscono l’humus delle sue
profezie. La tristezza infatti è quella dell’antropologo, egli stesso
prodotto del rimorso dell’Occidente, il quale dovrebbe rendere partecipe
il suo pubblico del proprio sentimento. Non si tratta della tristezza di
coloro che vivono ai tropici, selvaggi, contadini o cittadini che siano.
Piuttosto che gli “altri”, ad essere triste è Lévi-Strauss e Tristi tropici è,
potremmo azzardare, un’espressione estetica raffinatissima di una concezione dell’antropologia che vede nell’altro più un oggetto di studio,
che non un soggetto di cui cogliere – per riprendere un adagio
malinowskiano – “il punto di vista e la sua visione del suo mondo”. Per
Lévi-Strauss la comunicazione con l’alterità è possibile solo sul piano
dell’astrazione, a livello di strutture inconsce, come ci ricorda spesso
anche in Tristi tropici, dove pure il mondo dei “primitivi” è descritto
con accenti che, per lo stile abituale di Lévi-Strauss, sono eccezionalmente carichi di pathos.
Tristi tropici è in effetti il momento in cui il profetismo di LéviStrauss emerge in relazione a gran parte dei temi che poi ritorneranno
nel corso degli anni successivi. Uno di questi è l’“allontanamento
dell’uomo dalla natura”, un tema che egli declina nel libro in vari
modi e nel quale avrà modo di ritornare spesso anche in altre
occasioni. Significativa è una celebre intervista rilasciata nel 1979
dove dichiara di individuare il punto di non ritorno di questo
allontanamento nell’umanesimo. L’umanesimo, in cui riconosce un
momento di apertura verso le altre civiltà, è infatti all’origine di “tutte
le tragedie che abbiamo vissuto, dapprima con il colonialismo, poi con
il fascismo, infine coi campi di sterminio [in quanto queste cose] si
presentano quasi come il suo prolungamento naturale”. L’umanesimo
ha il suo erede nell’illuminismo che avrebbe condotto questo processo
all’estremo, e persino il marxismo gli appare come, “un’astuzia della
storia per promuovere l’occidentalizzazione accelerata dei popoli
rimasti emarginati fino ad un’epoca recente”.
Siamo dunque qui di fronte a una classica “messa in scena” dell’eterogenesi dei fini, un motivo certo non estraneo a qualunque
profetismo. Un’apertura – quella dell’umanesimo nei confronti delle
altre culture – che si traduce in una centralità dell’uomo il quale, da un
I quaderni del CREAM , 2010, X
6
lato si allontana dalla natura, mentre dall’altro si avvia verso una
forma di pensiero “astratto”, “radicale”, “livellante” suscettibile di
creare, nella sua apparente “universalità”, altre e più crudeli differenze: razzismo, schiavismo, etnocidio, campi di sterminio, ideologie
“inglobanti” e totalitarie.
Lévi-Strauss profeta dei tempi moderni? Rispondiamo con una
domanda: l’immagine dell’ineguaglianza come effetto di un eccesso di
egualitarismo non è un tema – prima strisciante e poi conclamato – di
alcune ideologie sociali che si sono imposte in questi ultimi decenni, e
che presentano gli individui come “presi” in un tritatutto di regole
astratte e apparentemente valide per tutti dal quale tuttavia le differenze riemergono come il prodotto dell’applicazione di quegli stessi
parametri astratti e impersonali, da cui alcuni traggono vantaggi e altri
no? Viene in mente la politica, naturalmente, ma anche la burocrazia,
il potere anonimo di elite, caste e cosche che, dietro il paravento di
una “democrazia” priva di reali contenuti, agiscono come se la regola,
ormai staccata da questi ultimi,, fosse l’alibi universale. Un esempio
basterà: la sacrosanta sentenza “La legge è uguale per tutti” non sarà
che un vuoto mantra finché non sarà meditata, accompagnandola con
la costatazione anche troppo banale – tanto banale che la si accetta
come la pioggia o la malattia – secondo cui è la giustizia a “non essere
uguale per tutti”.
Come stupirsi se, di fronte a una macchina sociale che nel segno di
una uguaglianza di diritto e facendosi scudo di essa non fa che riprodurre disuguaglianze e sperequazioni? Si spiegano così le molteplici
richieste di riconoscimento che attraversano il nostro tempo. Riconoscimento del diritto degli individui a essere considerati come soggetti
autonomi e con una dignità propria non sono certo una novità dei tempi
moderni ma queste richieste si sono ormai trasfromate in un “sentire di
massa” (almeno in Occidente) tanto da rimodellare la rappresentazione
dei rapporti tra individui e istituzioni e tra individui stessi.
Il tema del riconoscimento è legato, naturalmente, alla questione
della differenza, e la questione della differenza investe, altrettanto
naturalmente, il piano culturale. A tale riguardo Lévi-Strauss è
relativista. Sempre in Tristi tropici scrive: “nella gamma di possibilità
aperte alle società umane, ciascuna ha fatto una certa scelta e … le
I quaderni del CREAM , 2010, X
7
scelte fatte dalle società umane si equivalgono; …nessuna società è
profondamente buona e nessuna è assolutamente cattiva; […] offrono
tutte certi vantaggi ai loro membri, tenuto conto di un residuo di
iniquità che sembra più o meno costante”.
Tuttavia, quando si tratta di contatto tra culture Lévi-Strauss entra
in allarme. In Tristi tropici il tema del contatto tra culture assumeva
innanzitutto la veste di un Occidente che avanza stritolando gli altri,
colorandosi anche di tinte contraddittorie: più le culture restano isolate
e meno si sviluppano; più comunicano tra di loro e meno conservano
la propria identità. Quello che era un paradosso elaborato a partire dal
rapporto tra l’Occidente e “gli altri”, con il tempo assume i carattere di
una proposizione universale. Di qui il rifiuto di una “società mondiale”, foriera di quella omogeneizzazione culturale raffigurata dalla
monocultura-barbabietola di Tristi tropici: “non c’è più nulla da fare
…. l’umanità si cristallizza nella monocultura … la civiltà di massa,
invaderà le nostre mense con la monocultura prodotta come la
barbabietola”. Questo è un leit-motiv levi-straussiano, dal 1955 fino ai
suoi ultimi interventi dove la società planetaria, fondata sull’universalismo, è presentata (ancora) come figlia dell’umanesimo e dell’illuminismo: dimensione quanto mai astrusa quella dell’universalismo, dal
momento che tutta l’opera di Lévi-Strauss, pur protesa al suo
raggiungimento, la presenta come pura dimensione astratta, e quindi
non traducibile in qualcosa di concreto.
Queste posizioni portano Lévi-Strauss a pronunciarsi a favore di
misure che contrastino gli effetti (nefasti) dell’avanzata della società
planetaria: controllo demografico, gestione dei contatti tra culture,
conservazione dell’ambiente, ecc. lasciandoci però nel dubbio su chi,
se non un governo o comunque le varie società o culture sulla base di
un accordo “planetario”, dovrebbe proporre e agire da un punto di
vista che non può, almeno in questo caso, non essere che “concretamente universale”.
Forse il profetismo di Lévi-Strauss si rivela con maggiore enfasi
nella polemica da lui condotta sul tema della libertà. Certamente,
scrive in Tristi tropici, l’uomo neolitico non era più libero di oggi.
Tuttavia, “ventimila anni di storia sono andati perduti … Non c’è più
nulla da fare”. È vero che “nel neolitico – egli prosegue – l’uomo si è
I quaderni del CREAM , 2010, X
8
messo al riparo dal freddo e dalla fame; ha conquistato la possibilità di
pensare; [ma] lotta male contro le malattie, che probabilmente i
progressi nell’igiene non hanno fatto altro che scaricare … su altri
meccanismi: grandi carestie e guerre di sterminio, il cui compito è di
mantenere un equilibrio demografico al quale le epidemie contribuivano
in una maniera non più spaventevole delle altre”. Sembra, insomma, che
più abbiamo guadagnato, più abbiamo perduto. Il tema della futilità,
altro grande motivo di tutti profetismi, ci sospinge così verso il sentimento che la libertà astratta non sia altro che una illusione.
Tra il 1976 e il 983 Lévi-Strauss torna con un saggio proprio su
questo tema: Riflessioni sulla libertà. Qui Lévi-Strauss afferma
chiaramente che la libertà non può essere costruita a partire dalla
natura morale dell’essere umano. Questo perché non esiste una morale
universale, per cui le stesse libertà sono diverse, a seconda delle
epoche e in relazione a contenuti fifferenti. La libertà di un ateniese
del tempo di Pericle non è, insomma, quella di un europeo della
seconda metà del Novecento. La libertà di un padrone non è la stessa
libertà di uno schiavo (che qualche libertà pur ce l’ha). Lévi-Strauss si
mostra iperrelativista anche su questo punto, mentre l’idea di libertà
nata con la modernità sarebbe assolutista in quanto “imposta” a partire
da principi astratti e universali. In conseguenza di ciò, gli stessi diritti
umani debbono essere fondati non sulla morale, ma sulla natura
dell’uomo in quanto essere vivente (i diritti dell’uomo finiscono, a
giudizio di Lévi-Strauss, quando si rischia di mettere a repentaglio la
vita di altre specie).
Il rischio di una libertà fondata su principi universali e astratti è
infatti duplice: o la dottrina universalista della libertà evolve verso
forme di partito unico, oppure si avvia sulla strada di quella “libertà
devastatrice” sotto la cui influenza le idee si combattono tra loro sino
a “perdere ogni sostanza”. Forse che, come diceva paradossalmente
Montesquieu, “dopo essere stati liberi grazie alle leggi, si vorrà essere
liberi contro di loro”? Eccoci di fronte a un altro tema che dipende a
sua volta da una visione dell’agire umano come esposto al rischio
dell’effetto perverso: tema che, pur non essendo tipico del profetismo,
si presta senza dubbio a letture profetiche. Così, quando si tratta di
spiegare come debba essere intesa la libertà, Lévi-Strauss trova
I quaderni del CREAM , 2010, X
9
l’antidoto all’astrattezza illuminista nella superstizione. Le superstizioni non sono le convinzioni del credulo, ma le forme di attaccamento ai “tenui legami, [alle] solidarietà minute che evitano all’individuo
di essere stritolato dalla società globale, e a questa di polverizzarsi in
atomi intercambiabili e autonomi … che tengono ognuno in un suo
particolare modo di vivere, in un suo territorio, in una sua tradizione,
in una sua forma di credenza o non-credenza”.
A parere di Lévi-Strauss, se si ritiene che la libertà abbia un fondamento razionale la si condanna a “recedere dal suo contenuto”
relativo, oltre che dal suo fondamento, il quale è “irrazionale”. È
infatti il suo “fondamento irrazionale” – sostiene Lévi-Strauss – che
assicura la sopravvivenza della libertà: quei minuscoli privilegi, quelle
minuscole disuguaglianze irrisorie che “senza compromettere l’uguaglianza generale permettono dall’individuo di trovare punti d’ancoraggio nelle sue vicinanze … la libertà reale fatta di lunghe abitudini …
in una parola delle usanze”. Riferite alle sue vedute sul progresso
umano queste affermazioni sembrano dirci che la libertà, per LéviStrauss, non la si può mai veramente conquistare. E che, tutt’al più, si
rischia sempre di perderla.
I pronunciamenti paradossali di Lévi-Strauss su umanità e natura,
sul contatto tra culture e sui fondamenti della libertà sembrano essere
l’altra faccia di una riflessione che ha invece puntato tutto sulla
razionalità e l’astrazione. In questo senso, e da un certo punto di vista,
i temi dell’eterogenesi dei fini, della futilità e degli effetti perversi
potrebbero essere letti, paradossalmente, come gli antidoti di un eccesso
di astrazione e di formalizzazione dispiegata nell’analisi di miti, strutture di parentela, classificazioni totemiche e altro ancora: astrazione e
formalizzazione che si rivelano poveri strumenti allorché si tratta di
affrontare tematiche che sono tuttavia centrali nella vita spicciola delle
società, e alla cui carenza si sopperisce con l’adozione di “posture antimoderne” non estranee alla sensibilità culturale di Claude Lévi-Strauss.
O forse sarebbe più semplice dire che, come avviene nel caso di tutti i
profeti, anche i pronunciamenti di Lévi-Strauss si prestano a letture
diverse, spesso opposte perché lontani dall’offrire soluzioni ai problemi
che enunciano, denunciano o stigmatizzano. I temi del relativismo, del
I quaderni del CREAM , 2010, X
10
contatto tra culture e la questione della libertà non sono d’altronde
suscettibili oggi di letture doppie e quasi sempre contraddittorie?
Il contatto tra culture è tema di discussione tra coloro che si preoccupano della sopravvivenza dei popoli “marginali”, che da tale
contatto sono minacciati nella loro stessa esistenza fisica. Ma è anche
al centro delle preoccupazioni di coloro che, in questo contatto,
vedono una minaccia alla propria identità e “intimità culturale”, e che
reagiscono con comportamenti che vanno dal malumore a operazioni
di notevole violenza, anche se solo simbolica (come fece un paio di
anni fa un sindaco lombardo promettendo ai suoi concittadini un
“bianco natale” – cioè una caccia agli immigrati non in regola per
poterli espellere dal territorio comunale).
Lévi-Strauss può, coi suoi pronunciamenti sulla questione del
contatto tra culture, essere d’ispirazione agli uni come agli altri, e se
molti etnologi e attivisti nel campo della promozione dei diritti delle
minoranze hanno colto un senso nelle sue parole, una certo populismo
di destra (ma non solo) ne ha colto un altro, che è esattamente opposto
al primo. Una cosa è la protezione degli indios, “fragili e impotenti
vittime della civiltà delle macchine” (come Lévi-Strauss li chiamò una
volta); altra cosa è una concezione delle culture che ne fa degli isolati
a rischio di contatto e di degenerazione, concezione che può rivelarsi,
se caricata di un significato “politico-elettorale”, una vera e propria
macchina di costruzione dell’altro come “straniero”. Il relativismo è
certo una buona cosa ma, collegato con questa prospettiva, si presta
facilmente a operare esclusioni fondate sull’idea di intraducibilità e
incomunicabilità tra culture. Così, in questa lettura del contatto
culturale, e della relatività dei valori culturali, l’altro è tale finché
rimane nel suo spazio e le sue immagini sono quelle –rassicuranti –
trasmesse dagli antropologi o dai turisti. Ma diventa straniero quando
la sua presenza tra noi può rivelarsi “viscosa” – come dice Baumann
riprendendo una metafora sartriana – un ineliminabile “altro da noi”
come l’extra-comunitario, il clandestino, il rom: figure evocatrici più
della “precarietà del noi” che non della presenza degli “altri tra noi”.
E c’è infine la questione della libertà. Come negare, oggi, la
presenza di discorsi che pretendono di mettere al centro l’individuo
con la sua dignità, i sui diritti, le sue necessità e le sue libertà contro
I quaderni del CREAM , 2010, X
11
teorie sociali e filosofiche accusate e di astrattezza e di autoritarismo?
Ora, se questi “discorsi” possono inclinare verso una maggiore attenzione per la persona “concreta” come contrapposta a un individuo
“astratto”, essi possono anche nascondere proprio ciò che, di quell’idea astratta di libertà, è il prodotto: una vecchia conoscenza, in
fondo, l’homo economicus nelle sue molte sfaccettature. Un individuo
“privato” in quanto (illusoriamente) “privo” di un contesto sociale,
che persegue i suoi fini “utili”, ai cui occhi l’interesse pubblico finisce
per confondersi con il proprio (o viceversa), e che inveisce contro le
regole e le leggi viste come impedimenti al “diritto alla propria
realizzazione”. Aveva forse torto Lévi-Strauss quando, allarmato,
citava il paradosso di Montesquieu: “dopo essere stati liberi grazie alle
leggi si vorrà essere liberi contro di loro?”
Una lettura di Lévi-Strauss come “profeta dei tempi moderni” è
quindi possibile. E forse nessuno meglio di Susan Sontag lo intuì
quando descrisse l'antropologo, in un saggio del 1963 a lui dedicato,
come colui che “non soltanto porta il lutto del freddo mondo dei
primitivi, ma ne è anche il custode. Gemendo tra le ombre, lottando
per distinguere l’arcaico dallo pseudoarcaico – scrive Sontag – egli
esprime un moderno pessimismo, eroico, diligente e complesso”.
I quaderni del CREAM , 2010, X
12
ROBERTO MOSCATI
1
LA FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE:
UN PROFILO STORICO
2
I hear and I forget, I see and I remember, I do and I understand.
(Confucio, originale non in inglese)
La scuola si rivela obsoleta perché non sa tenere conto
del dinamismo e della complessità indotti dallo scontro
e dalla commistione di culture molteplici e differenti,
limitandosi ad atteggiamenti di apertura e tolleranza.
(Riccardo Massa, Cambiare la Scuola)
You may say I’m a dreamer,
But I’m not the only one...
(John Lennon, Imagine)
Grazie davvero per avermi invitato a tenere questa relazione. Devo
però premettere che non essendo uno storico e non avendo tenuto in
questi tredici anni un diario non riuscirò a tener fede al titolo che mi è
stato proposto. Cercherò invece di sviluppare alcune considerazioni
articolate in quattro punti:
1. Le Origini della Facoltà viste da un sociologo;
2. Il contesto sociale (e politico ed economico) oggi;
3. A cosa serve (dovrebbe servire) la scuola post-obbligo e in particolare l’Università oggi;
4. Insegnare oggi.
L’intento prevalente è quello di inquadrare – partendo dalle origini
e lo sviluppo della nostra Facoltà – la condizione complessiva (eco1
Professore di sociologia dell’educazione, Università degli Studi di Milano Bicocca
2 Testo presentato per la prima volta il 14/10/2010, in occasione della Conferenza
della facoltà d Scienze della formazione presso l’Università di Milano-Bicocca.
I quaderni del CREAM , 2010, X
13
nomica, sociale e politica) entro la quale l’istruzione secondaria superiore e in particolare l’università sono chiamate ad operare e dalle
quali sono influenzate. L’analisi non sarà solo descrittiva ma, come si
vedrà, tenterà di indicare una possibile evoluzione alternativa a quella
oggi prevalente nei paesi maggiormente sviluppati.
Le Origini della Facoltà viste da un sociologo
Per quel che riguarda la dimensione personale sono stato attratto dalla
nascente facoltà per le sue finalità: formare delle figure professionali
ritenute (da me) centrali per la società, e per le modalità di perseguire
le finalità: attraverso la fornitura ai futuri insegnanti/formatori di una
conoscenza articolata dei diversi aspetti relativi alle loro professioni di
tipo sociale, filosofico, economico, psicologico, linguistico, e che comprendeva le “scienze dure”, oltre che ovviamente pedagogico. Ricordo
con emozione la cena a casa di Riccardo Massa dei founding fathers
and mothers della Facoltà.
Il vantaggio cruciale di questa idea multiculturale e disciplinare si è
manifestato all’entrata in vigore della riforma degli ordinamenti didattici
dove il processo di adeguamento delle risorse interne alle nuove strutture
delle “classi” e dunque dei corsi di laurea è stato facilitato dalla presenza
di risorse molteplici (altrove le acrobazie ingegneristiche sono state ad
alto rischio e a basso coefficiente di efficacia).
L’altro vantaggio è stato rappresentato dal clima che Riccardo ma non
solo ha instaurato fra i componenti la nuova facoltà. Clima che forse è
esagerato definirei comunità accademica ma che comunque ha consentito
di fronteggiare difficoltà tradizionali e nuove senza traumi particolari e
pur in una situazione così pluridisciplinare. Oltre ai meriti dei componenti
l’avere comuni finalità legate a figure professionali abbastanza ben
identificate ha certo aiutato a non instaurare il clima di “separati in casa”
così tipico, ad esempio, delle Facoltà di Scienze politiche. Ha consentito
inoltre di sviluppare una disponibilità a innovare gli approcci alle diverse
tematiche e a combinare diverse ottica su temi come l’insegnamento
“dentro e fuori la scuola”. Le stesse presidenze che si sono succedute
hanno rappresentato diverse espressioni della comune origine politico-
I quaderni del CREAM , 2010, X
14
culturale. Naturalmente si poteva-potrebbe fare di più e meglio: ci sono
sempre percorsi da completare.
Il contesto socio-politico-culturale nel quale si muove
l’università e dunque la Facoltà
Il cambiamento è accelerato, parliamo di società post (industrialetaylorista-moderna) nella quale cambiano i modi di produzione, la
struttura e le dinamiche sociali, il tipo e la diffusione della conoscenza. È probabilmente giusto definire la nostra come la “società del
rischio” che Ulrich Beck già nella metà degli anni Ottanta definiva
come un processo di rottura della modernità:
una modernità che si sta liberando della sagoma della società industriale
classica per darsi una nuova forma: la forma di quella che chiamo ‘società
(industriale) del ‘rischio’. Ciò richiede (a noi testimoni del processo) un difficile bilanciamento delle contraddizioni tra continuità e rottura della
modernità, che sono riflesse nella contrapposizione tra modernità e società
industriale e tra società industriale e società del rischio (Beck 2000, p.14).
Società detta del rischio nel senso che:
l’accrescimento del potere del ‘progresso’ tecnico-economico è messo sempre più in ombra dalla produzione di rischi…con la loro universalizzazione,
con la critica da parte dell’opinione pubblica e l’analisi (anti)scientifica, i
rischi emergono dalla latenza e acquistano un significato nuovo e centrale per
i conflitti sociali e politici. Essi non possono più essere circoscritti a luoghi o
gruppi come avveniva nel XIX secolo e nella prima metà del XX secolo con i
rischi relativi al lavoro di fabbrica o ad un’attività professionale, e mostrano
invece una tendenza alla globalizzazione che comprende produzione e
riproduzione, sfugge ai confini nazionali e in questo senso produce minacce
globali sovranazionali indipendenti dall’appartenenza di classe con un’inedita
dinamica sociale e politica (Ivi, p.18).
Il presupposto per poter pensare questo mutamento è una revisione
dell’immagine della società industriale. Nelle sue linee di fondo quella
industriale è una società a modernità dimezzata, comprendente in sé
I quaderni del CREAM , 2010, X
15
tratti di contro-modernità che sono costruzione e produzione della
società industriale (stessa). Il quadro strutturale della società industriale si basa su una contraddizione tra il contenuto universale della
modernità, diritti civili, uguaglianza, differenziazione funzionale, metodi argomentativi e scetticismo e la struttura delle sue istituzioni in
cui questi principi possono essere realizzati solo in forma parziale e
selettiva. Ciò vuol dire che la società industriale affermandosi si
destabilizza(p. 20).
Lo stesso Antony Giddens parlando della globalizzazione ne Il
mondo che cambia segnala come
L’impotenza che proviamo non è segno di fallimento individuale, ma riflette
l’inadeguatezza delle nostre istituzioni: è necessario ricostruire quelle che
abbiamo, o crearne di nuove, perché la globalizzazione non è un incidente
nelle nostre vite di sempre. È il cambiamento delle condizioni stesse della
nostra esistenza; È il modo in cui oggi viviamo.
Come si manifesta l’effetto della globalizzazione nell’istruzione?
A causa delle trasformazioni economiche, culturali e sociali delle società
post-industriali gli assunti più comuni sul ruolo dell’istruzione sono ora posti
in discussione. Il potere dello stato-nazione è minacciato dallo svilupparsi di
un’economia globale che ha eliminato tutti gli strumenti chiave impiegati per
controllare il destino economico delle nazioni (Halsey 1997).
È necessario dunque richiamare alcuni aspetti del contesto di riferimento:
(a) Intanto si parla di Globalizzazione neo-liberista, vista come un
ritorno alle vecchie idee pre-keynesiane. Secondo Pierre Bourdieu è
definibile come rivoluzione conservatrice che restaura il passato
riuscendo a trasformare la regressione in progresso. Alcune sue
caratteristiche sono il decentramento, l‘accento sugli standard (qualità
degli studenti e dei docenti), un nuovo clima di concorrenza mondiale,
lo sforzo di ridurre la spesa pubblica nell’istruzione (come degli altri
servizi pubblici) in parallelo con misure di privatizzazione. Le stesse
riforme per l’equità vanno interpretate certamente nell’ottica della
I quaderni del CREAM , 2010, X
16
riduzione delle diseguaglianze educative, viste peraltro come mezzo
per eliminare lo spreco dei talenti.
(b) Caratteristica peculiare di questa globalizzazione è poi data dal
fatto che non esiste qualcosa che si possa chiamare “contesto sociale
non regolato” (da cui l’enfasi sui meccanismi di governance): le
regolazioni sono opera degli stati o di organizzazioni create dagli stati
(organizzazioni internazionali: OCSE, GATT, World Bank, FMI,
Organizzazione mondiale del Commercio). La “global economy” in
sostanza è costruita politicamente
(c) All’interno del rapporto tra neo-liberismo e istruzione nasce poi
la teoria delle scelte pubbliche tra le quali caratteristiche si segnala lo
sforzo di introdurre la concorrenza tra le istituzioni formative; dal
canto loro i consumatori (le famiglie) scelgono e pagano il prezzo
attraverso buoni di consumo (vouchers) e si schierano in tal modo
contro il supposto potere di gestione dei “providers”(gli insegnanti che
andranno pagati a prestazione e in generale le amministrazioni pubbliche e i burocrati). Assai spesso, in tali situazioni, gli interessati al
servizio seguono la strategia dell’exit invece di quella della voice
(Hirschman), accettano senza protestare e si sviluppano inevitabilmente scuole per ricchi e scuole per poveri. Sisviluppa quella che è
stata anche chiamata la “commercializzazione della cittadinanza”
(Crouch) nella più generale ristrutturazione dei sistemi di welfare
secondo le linee teoriche che vanno sotto il titolo del New Public
Management-NPM.
(d) Si sviluppa altresì una tendenza contraddittoria verso il decentramento e/o la ricentralizzazione dei sistemi formativi: (i) da un lato,
si attribuiscono maggior potere alle famiglie e alle comunità locali =
più partecipazione e democrazia ma dall’altro (ii) si sviluppa un
maggior controllo dei curricoli per l’aumento della competitività
nazionale, enfasi sugli standard, responsabilizzazione delle istituzioni
scolastiche e contenimento dei costi di funzionamento: quali effetti di
tali provvedimenti sulla qualità della formazione?
(e) Cresce inoltre la privatizzazione della scuola attraverso vari
modalità: “Charter Schools”scuole sotto contratto/in appalto (autonome) – Buoni-scuola (voucher) (che potrebbero del resto avere – se
forniti alle famiglie indigenti – effetti compensativi degli svantaggi
I quaderni del CREAM , 2010, X
17
iniziali per evitare scuole segregate), moltiplicazione di università
private, specie per l’istruzione a distanza.
(f) Si diffondono dunque elementi di mercato nel finanziamento
delle università comprendenti il controllo ex-post dell’allocazione e
uso delle risorse (un modo per trasferire alle università l’amministrazione della scarsità!). L’intento è quello di costruire rapporti con
l’economia privata. Ne deriva quel fenomeno che è stato chiamato
“capitalismo accademico” (gli accademici trasformati in imprenditori
sussidiati dallo stato). Per questa via si prefigura la fine dell’università
come comunità di studiosi, mentre la gestione (il management) si
sostituisce alla governance.
A cosa serve (dovrebbe servire) la scuola post-obbligo e
in particolare l’Università oggi
Come spiegarsi innanzitutto il subitaneo e largamente imprevisto
successo di un’iniziativa di quattro ministri di paesi europei (Francia,
Germania, Inghilterra e Italia con chiara identificazione del ruolo
cruciale dei ministri di Francia, Claude Allegre e Italia, Luigi Berlinguer) che ha dato vita al “Processo di Bologna”? (evento tra l’altro
parallelo alla nascita della Facoltà!)
In realtà, il modello europeo d’insegnamento superiore proposto
dalla Commissione ministeriale francese presieduta da Jacques Attali
(1998)3 segnalava l’urgenza di ridurre le differenze tra i sistemi formativi dei paesi europei, considerando l’evoluzione dell’economia
mondiale (incipiente globalizzazione) e la dimensione politica dell’internazionalizzazione, con riduzione delle autonomie e peculiarità degli
stati-nazione. I governi europei (alcuni più degli altri) avvertono in
quel momento l’opportunità di omogeneizzare i propri sistemi
formativi. Poco dopo l’Unione Europea sviluppa una politica che mira
a creare un’Area di formazione superiore (European Higher Education Area, EHEA) ed una della ricerca (European Research Area,
ERA). Quest’ultima nasce con il chiaro scopo di rendere l’economia
della conoscenza europea maggiormente competitiva a livello mondia3 Rapport de la commission présidée par Jacques Attali (Attali 1998).
I quaderni del CREAM , 2010, X
18
le (“strategia di Lisbona”) ed evidenziando dunque l’urgenza di
sviluppare una dimensione continentale in una dialettica tra potenze
economiche globali che non forniscono più spazi autonomi alle
singole nazioni del continente. Gli elementi che fungono da motori del
cambiamento erano del resto presenti da tempo e riguardavano i
rapporti delle università con il territorio, e, in particolare, l’uso della
ricerca scientifica per lo sviluppo delle economie attraverso l’innovazione, sia secondo la relazione detta delle “tre ellissi” tra le università
e suoi partners pubblici e privati, sia con il consolidamento del
“triangolo della conoscenza” derivante dall’integrazione tra istruzione,
ricerca e innovazione. La tendenza prevalente è dunque caratterizzata
dalla crescente internazionalizzazione dell’istruzione superiore e della
competizione tra economie nazionali, fondata in buona misura sullo
sviluppo della conoscenza e le sue applicazioni. Questa forma di
“quasi-mercato” si manifesta sia a livello di paesi (dunque di sistemi
formativi) sia a livello di singoli atenei e trova espressione nella
crescente diffusione di graduatorie e classificazioni degli atenei le cui
ricadute hanno effetto anche sui sistemi universitari: si pensi ai programmi si accorpamento a livello territoriale delle università francesi
(i PRES), o ai progetti di eccellenza (Exzellenzinitiative) del governo
federale tedesco. Ne derivano una serie di ulteriori conseguenze come
l’introduzione di forme di valutazione delle performances delle
istituzioni formative e di accreditamento delle stesse che testimoniano
di una trasformazione del rapporto tra università e stato e che
modificano in parte il funzionamento della vita accademica e i ruoli
degli universitari.
Il nodo che sta, non da oggi a mio avviso, al fondo del dibattito sui
sistemi formativi e dell’istruzione superiore in particolare si identifica
in un punto poco considerato nel nostro paese ma centrale che
riguarda le funzioni dell’istruzione superiore. Nelle considerazioni
precedenti il tema era abbastanza evidente e si concentrava sul
rapporto tra istruzione e la cosiddetta “economia della conoscenza”.
Ma per valutare il significato e le funzioni dell’università nel
mondo contemporaneo esiste anche l’ottica della “società della
conoscenza”. Per evidenziarne la rilevanza occorre muovere da alcuni
dati di fatto.
I quaderni del CREAM , 2010, X
19
La conoscenza è più diffusa di sempre nella società e dunque non è
più riservata alle élites. La relativa democratizzazione della conoscenza si è poi accompagnata alla crescente contestabilità delle
affermazioni della conoscenza. Ne deriva che l’auto-legittimazione
delle tradizionali élites della conoscenza diventa meno certa. Come
sostiene Beck, nella “società del rischio” la cultura della expertise
entra in crisi con la crescente richiesta pubblica di accountability della
scienza e della tecnologia (Beck 2000). Un’ulteriore conseguenza
della sua diffusione risiede nel fatto che la conoscenza generale non
può più essere separata dalla conoscenza professionale. Questa
trasformazione sta alla base della tesi della riflessività secondo la
quale nella modernità la conoscenza è sempre più relativa all’applicazione della conoscenza a se stessa piuttosto che ad un altro obiettivo. Viviamo dunque in una società della conoscenza nel senso che
gli attori sociali hanno maggiori capacità di auto-interpretazione e di
azione, proprio perché conoscenza generale/generica e conoscenza
professionale sono meno separate (Giddens 1991; 1994; 1996).
Partendo da tali assunti si è sviluppata un’ipotesi interpretativa delle nuove funzioni attribuibili all’università nella società della conoscenza (Delanty 2001). Ipotesi che si può riassumere secondo queste
linee. Se l’università non deve degenerare in forme di consumismo
tecnocratico in virtù del quale gli studenti diventano meri consumatori
di conoscenza e l’università stessa una corporazione burocratica
transnazionale che si legittima attraverso il principio tecnocratico
dell’eccellenza (destino che le è inevitabilmente riservato secondo
alcuni studiosi: Readings 1996) essa deve scoprire per se stessa un
ruolo diverso.
E un nuovo ruolo come una nuova identità stanno infatti emergendo per l’università che ruotano attorno alla democratizzazione
della conoscenza: intendendo per democratizzazione la partecipazione
di un sempre maggior numero di attori nella costruzione sociale della
realtà. Su questa base l’università oggi può diventare il luogo più
importante della interconnettività della società della conoscenza. Vi è
infatti una tale proliferazione di diversi tipi di conoscenza che non vi
sono possibilità di unificare gli uni e gli altri. Se quindi l’università
non può ricostruire l’unità distrutta della conoscenza può tuttavia
I quaderni del CREAM , 2010, X
20
aprire vie di comunicazione tra questi diversi generi di conoscenza: in
particolare tra conoscenza come scienza e conoscenza come cultura.
Per riuscire in una simile impresa l’università deve fornire espressione
al nuovo elemento unificante che sta emergendo e cioè la comunicazione. L’università dovrà, secondo questo approccio che recupera
molto dell’opera di Habermas, creare luoghi di comunicazione e di
pubblico dibattito nella società. Infatti, è o può diventare luogo di
dibattito pubblico tra cultura comune e cultura di esperti. Questo
tenendo altresì conto che sta crescendo uno spazio nella produzione e
nella comunicazione della conoscenza: se l’università perde d’importanza nell’esclusività della produzione e dell’applicazione della
conoscenza (per il proliferare di altre fonti) ne guadagna nella sua
comunicazione.
In questo suo nuovo operare l’università si propone allora come
luogo della conoscenza costruita riflessivamente all’interno di una
società caratterizzata dall’incertezza, dal caos e dalla supercomplessità
(Barnett 1990; 1999). In tal senso una finalità centrale dell’università
potrebbe essere quella di fornire di senso una realtà in continuo
cambiamento, rendendo le persone capaci di vivere con maggior
efficacia la sfida dei nuovi problemi etici. Dunque se svolgerà un
ruolo critico e sarà in grado di orientare i modelli culturali della
società, l’università si assumerà il compito un tempo affidato allo stato
e prima ancora alla chiesa, sviluppando la cultura civica, cioè le regole
dell’appartenenza alla comunità sociale e alla comunità culturale. La
crescente importanza di quest’ultima dimensione è infatti da porre in
relazione alla centralità della “cittadinanza culturale”, tema del riconoscimento di gruppi sociali diversi e di gruppi di diritti diversi
(Delanty 2001, p.155).
Se si accetta la rilevanza di questa dimensione si può convenire che
l’università può diventare (sotto certi aspetti e in determinate circostanze lo è già adesso) l’istituzione maggiormente in grado di legare le
richieste del mondo economico, la tecnologia e la domanda di cittadinanza. Mentre è infatti vero che la nuova produzione di conoscenza
è dominata dalla strumentalizzazione della conoscenza stessa e quindi
il ruolo tradizionale dell’università è indebolito, questa è oggi nella
I quaderni del CREAM , 2010, X
21
posizione di servire le finalità sociali più di un tempo in cui altre
finalità erano premianti.
Ma a questo punto un problema di fondo si pone: sino a qui –
almeno da quando lo stato-nazione ha utilizzato l’università – i fini
della stessa sono stati predisposti da entità esterne invece che
dall’università stessa che quindi non utilizza appieno le sue risorse
(Ivi, p.158). Sarebbe pertanto importante che l’università recuperasse
quella dimensione cosmopolita che le è stata propria alle origini e che
oggi con l’internazionalizzazione sempre maggiore della conoscenza e
del suo utilizzo ritorna in primo piano. E dunque anche in questa
prospettiva si evidenzia la indispensabilità dell’autonomia degli
atenei. L’altro problema di fondo è ovviamente legato al riconoscimento da parte del mondo politico e di quello accademico della
rilevanza di queste funzioni dell’università.
Insegnare oggi
Non è certo mio compito indicare a questo uditorio cosa e come
insegnare nell’università oggi (ognuno deve fare il proprio mestiere,
come si diceva una volta a Milano:“offelé fa el to mesté!”). Tuttavia
mi è capitato in mano un numero della rivista “European Journal of
Education”(n.1/2010) dedicato interamente al tema “Knowledge,
Globalisation and Curriculum” che suggerisco di leggere e dal quale
ho tratto un paio di spunti che indico qui di seguito:
A livello internazionale i costruttori di curricoli e i ricercatori si
trovano a doversi confrontare su cinque temi cruciali:
1. Come i curricoli devono rispondere alle pressioni economiche
globali?
2. Una politica curricolare in che misura e come può affrontare i
temi dell’ineguaglianza e delle persistenti ridotte acquisizioni conoscitive degli studenti svantaggiati?
3. Nonostante generali pressioni di tipo globalizzante, sino a che
punto i curricoli nei diversi paesi devono continuare a riflettere
specifiche tradizioni e finalità nazionali?
I quaderni del CREAM , 2010, X
22
4. Le pressioni economiche globalizzanti suggeriscono/impongono
curricoli più integrati per tutti gli studenti o curricoli che chiaramente
distinguono tra coloro destinati all’istruzione superiore e coloro che
molto probabilmente lasceranno la scuola per un’occupazione?
5. In che modo le politiche formative interpretano la base conoscitiva dei curricoli? Si viene infatti considerando come sia sempre più
anacronistico fondare i curricoli su settori conoscitivo/disciplinari
separati da confini ben definiti e, se così è, quali possono essere i
nuovi princìpi fondativi dei curricoli?
Questi interrogativi sono espressione dell’impatto della globalizzazione sui curricoli che comprendono l’enfasi posta sull’abilità di fare
piuttosto che di conoscere, sull’essere flessibile, evitare i confini
disciplinari, produrre cittadini competenti e in grado di autoregolarsi.
Emerge altresì la tendenza a riunire nello stesso quadro curricoli
generalisti e professionalizzanti.
Si manifestano, nei vari saggi della rivista, dubbi sulla possibilità
di trascurare le peculiarità delle diverse aree della conoscenza. D’altro
canto, si discute molto delle modalità curricolari atte a ridurre le
difficoltà degli studenti svantaggiati (sulla scia delle opere in particolare di Bernstein) e a tener conto del carattere multiculturale delle
società moderne.
Un aspetto cruciale appare infine quello della diffusione delle
tendenze a ridurre l’importanza dei contenuti fondati su specifiche tematiche disciplinari in favore di collegamenti interdisciplinari. Questi
approcci sembrano incentivati dalle politiche di diversi stati ma poco
seguiti dalle scuole di élite (almeno in Inghilterra). Se questo “doppio
binario” (scuole di élite e scuole “generiche”) dovesse diffondersi ne
deriverebbero svantaggi per gli studenti non appartenenti alle élite che
si troverebbero impreparati quando entrassero all’università (a meno
che anche nell’università non si diffondesse questo nuovo tipo di
curricoli e dunque spostando il problema a più alto livello: post-laurea,
istituti di ricerca probabilmente privati).
Il tema della interdisciplinarietà nei curricoli rimanda in fondo alla
necessità di non separare l’acquisizione di conoscenza (il curricolo)
dalla produzione di conoscenza (la ricerca).
I quaderni del CREAM , 2010, X
23
Ma un altro tema sollevato è quello della collaborazione curricolare tra scuola secondaria superiore e università (sollecitato anche
dalle crescenti percentuali, anche superiori al 50%, di passaggi tra il
livello secondario e il terziario).
I temi in discussione non finiscono qui ma non è possibile
affrontarli tutti in questa sede. Per concludere mi sento di segnalare tre
spunti per ulteriori approfondimenti:
- dobbiamo capire meglio a cosa serve e a chi serve davvero
l’università oggi (tenendo presente che non deve prevalentemente
servire a noi docenti/ricercatori!);
- dobbiamo in conseguenza saper cambiare, con convinzione e
umiltà, le nostre funzioni professionali;
- dobbiamo essere convinti che le riforme – del sistema formativo e
dell’università – le facciamo (o non le facciamo) noi e non la normativa. In un paese abituato a credere che tutto si compia, nel bene o nel
male, attraverso le leggi l’esperienza anche recente delle riforme
nell’università ci dice che il vero cambiamento è prodotto dagli addetti
ai lavori, cioè da chi deve mettere in pratica la normativa attraverso
l’attività professionale: dunque dipende quasi tutto da noi.
I quaderni del CREAM , 2010, X
24
Bibliografia
Attali, J., (1998), “Rapport de la commission présidée”, in Pour un modèle
européen d’enseignement supérieur, Paris, éd. Stock.
Beck, U., 2000, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma,
Carocci.
Halsey, A. H., (a cura), 1997, Education. Culture, Economy and Society,
Oxford, Oxford University Press.
Giddens, A., 1991, Modernity and Self-identity, Cambridge, Polity Press.
Giddens, A., 1994, Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino.
Melucci, A., 1996, Challenging Codes: Collective Action in the Information
Age, Cambridge, Cambridge University Press
Delanty, G., 2001, Challenging Knowledge. The University in the Knowledge
Society, Buckingham, Open University Press.
Readings, B., 1996, The University in Ruins, Cambridge, Mass. Harvard
University Press.
Barnett, R., 1990, The Idea of Higher Education, Buckingham, Open
University Press.
Barnett, R., 1999, Realizing the University in an Age of Supercomplexity,
Buckingham, Open University Press.
I quaderni del CREAM , 2010, X
25
ROBERTO MALIGHETTI, RUNA LAZZARINO1
VIOLENZA E LIMITE.
CONVERSAZIONE SUL LAVORO DI RICERCA
IN UNA FAVELA CARIOCA
Ora, non c’è frase che non determini, vale a dire
che non passi attraverso la violenza del concetto.
La violenza si manifesta con l’articolazione.
[…] Perché si impone la frase? Forse perché, se
non si strappa violentemente l’origine silenziosa
a se stessa, se si decide di non parlare, la
violenza più grave coabiterà in silenzio con
l’idea della pace? (Derrida 1964)
Pensare la violenza
Malighetti. Il tema della violenza mette in gioco complessi nodi
teorico-epistemologici comprendenti l’etica professionale e la scrittura. Se la sfida ironica dell’antropologia consiste, come sostiene
Scheper-Hughes, nella ricerca di un senso in un mondo assurdo, tale
impresa è particolarmente paradossale quando si cerca un metalinguaggio per parlare degli orrori ed emanciparsi da spiegazioni teoriche
e discorsi normalizzanti colludenti con quelli del terrore che di essi si
1
Questo articolo collaborativo si fonda sul dialogo fra Roberto Malighetti, professore di
antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, autore di una ricerca
sull’impatto di alcuni progetti di cooperazione internazionale in una favela di Rio de Janeiro, e
Runa Lazzarino, dottoranda in scienze antropologiche, fruitrice di alcune restituzioni testuali
di questa esperienza: il diario tenuto sul campo (di cui si riportano in nota alcuni brani), la
traccia dell’intervento al ciclo di lezioni organizzato da Stefano Allovio presso l’Università
degli Studi di Milano, la relazione orale tradotta negli appunti della coautrice, un’introduzione
a un’antologia di prospettive antropologiche sullo sviluppo (Malighetti 2005) in cui si fa un
breve cenno agli esiti dell’indagine nella favela di Manguinhos. Analizzando questi materiali
e la letteratura si è discusso il lavoro antropologico in una realtà urbana caratterizzata da forme
diffuse di violenza, restituendo la forma dialogica del processo di riflessione e di scrittura.
I quaderni del CREAM , 2010, X
27
alimenta (Sheper-Hughes 2005, p. 292). Si rimane prigionieri di ciò
che Taussig ha definito epistemic murk (opacità epistemica), soprattutto se, oltre a raccogliere memorie della violenza, si è stati vittime
della sua azione.
Non è un caso che la letteratura antropologica, benché tradizionalmente interessata a realtà di estrema violenza, abbia ignorato la
questione fino alla svolta interpretativa e riflessiva degli anni Ottanta e
alle considerazioni dell’esperienza personale dell’etnografo e del
processo di ricerca come elementi fondamentali della costruzione del
significato e della sua restituzione testuale. Questi approcci hanno
confermato l’impermeabilità della violenza all’ottimismo cognitivo e
la sua resistenza agli sforzi di tradurre e rendere familiare l'estraneo e
allo stesso tempo preservare e comunicare tale estraneità (Geertz 1983;
Clifford, Marcus 1986) o, come sostiene Taussig citando Conrad, scoprire il velo senza annullare la qualità allucinatoria (Taussig 1984).
Risulta estremamente complicato sottrarsi al rischio romantico di
estetizzare ed erotizzare la violenza e l’orrore (Dei 2005; Avruch
2001) o di ridurli ai loro effetti pornografici e voyeuristici (Dei 2005,
p. 18). Quelle poche volte in cui ho parlato della mia esperienza della
violenza, la mia narrazione riusciva a sorprendere anche me stesso e
ad acquisire un’autonomia che assumeva, mio malgrado, connotazioni
eroiche o incoscienti. Anche per questo ho sempre preferito evitare gli
effetti indesiderati di produrre nel mio interlocutore imbarazzanti
fraintendimenti, soprattutto nelle narrazioni delle atrocità a cui avevo
assistito o quando riconducevo parte delle motivazioni che portano il
ricercatore a rischiare la vita, alle straordinarie capacità adattive di cui
gli esseri umani sono dotati e che producono una forte confidenza di
avere sotto controllo la situazione, essere in grado di controllare le
scomode reazioni somato-psichiche del proprio corpo.
Le reticenze e le difficoltà riflessive possono dunque essere considerate il precipitato di due pulsioni opposte. La violenza sfugge alla
sua comprensione, sia attraverso l’adattamento e l’assuefazione che
caratterizzano, sul campo, quella che altrove ho definito come malattia
infantile dell’antropologismo che riesce a normalizzare l’esperienza,
offuscando il pensiero (Malighetti 2004, p. 52); sia per il suo imporsi
I quaderni del CREAM , 2010, X
28
in termini tanto esagerati e assurdi da impedire il pensiero e la
razionalizzazione ex post.
Lazzarino. Se l’etnografia della violenza è un’etnografia limite
(Beneduce 2008), possiamo intendere questo termine in senso kantiano come separazione di ciò che è conoscibile da ciò che è escluso dal
sapere, investendo il ruolo dell’antropologo e le dimensioni etiche e
politiche della ricerca. In uno sforzo dialogico, abbiamo cercato di
superare questi limiti, considerando la violenza come linguaggio,
dispositivo per rendere pensabile, ordinabile e agibile il complesso
contesto di esistenza e interazione dei soggetti, antropologo incluso, e
fra questi e gli spazi della favela. Tuttavia, il limite di una etnografia
della violenza – intesa come esperienza di ricerca e sua testualizzazione – traccia anche una separazione valicabile fra due, o più, coesistenti
approcci al comprendere: uno ordinatore, cartesiano, tassonomico,
linguistico e uno miasmatico, dionisiaco, trasgressivo e pre-linguistico.
Non voglio assolutamente dicotomizzare i modi epistemologici, al
contrario, tento di ampliarne la possibilità, de-etnocentrizzandoli.2
Malighetti. La problematicità nel pensare una realtà di estrema
violenza come quella che ho incontrato in favela, dare forma razionale
all’esperienza, superando il piano emotivo e traducendo la violenza in
una narrazione coerente, ha prodotto forti resistenze a proseguire il
lavoro.3 Ho trovato estremamente difficile svolgere questo compito da
2
“Parlavano della macelleria in favela, di come i narcotrafficanti squartino le persone in
strada in mezzo a tutti e poi brucino i cadaveri. Dicono di aver visto passare, proprio ieri, una
persona che spingeva una carriola con dentro un corpo da cremare nei pneumatici (tecnica
chiamata microonda) […] Sparito il corpo, sparito il reato […] In serata è arrivata la notizia
dell’uccisione di 7 ragazzi da parte della Polizia al Morro da Pedreira, praticamente fuori dalla
casa di L. che, per questo, ha dovuto passare la notte nella sede del CCAP con figlia e moglie
[…] L. parla di esecuzione. Il clima nel morro [collina] era cupo. I narcos si stavano
preparando all’offensiva obbligando tutto il morro a stare a luci spente, pronti a usare granate
e bombe” (Malighetti R. Diario, 8/03/2003).
3
“Oggi la città di Rio è stata paralizzata. Sono stati incendiati 8 autobus nei punti strategici del
traffico in modo da paralizzare la città, oltre che terrorizzare i quartieri di Ipanema e del centro
con mitragliate e granate. Sono stati assaltati differenti supermercati […] Secondo la
televisione il tutto è stato deciso da Fernandino Beiramar (capo del Comando Vermelho) dalla
prigione per opporsi alla decisione di trasferirlo a Sao Paulo al fine di rendere più difficili i
contatti con i suoi uomini. Come più volte minacciato, il Comando ha invaso città e imposto
I quaderni del CREAM , 2010, X
29
un punto di vista antropologico, lontano dalle facili generalizzazioni,
dall’individuazione di astratte strutture profonde (materiali, pulsionali
o biologiche) o di rigidi universali empirici e vicino, invece, ai punti di
vista degli attori sociali, ai loro corpi, alle loro soggettività, all’analisi
del linguaggio delle atrocità e del ricordo. A parte un breve cenno in un
testo (Malighetti 2005) non ho dato seguito scientifico alla permanenza
in favela. Non ho cercato di cimentarmi nell’elaborazione di un testo,
né ho mai trattato il tema pubblicamente, fino ad oggi, dopo più di sette
anni da quell’esperienza. In un periodo limitato, fra i mesi di gennaio a
marzo 2003, ho avuto l’incarico da una ONG italiana di valutare
l’impatto di alcuni progetti di cooperazione internazionale realizzati
dalla controparte locale, il CCAP (Centro de Cooperação e Atividades
Populares), un’organizzazione composta da favelados che svolge la
maggior parte della sua attività nell’insieme delle 13 comunità che
compongono la favela di Manguinhos.4 Il prodotto scritto di questo
la chiusura di negozi, scuole ecc… Pena l’attacco. […] A questo si aggiungevano i conflitti
fra gli uomini del Comando Vermelho e del Terçero Comado che cercava di approfittare della
situazione per conquistare territori […] elicotteri sopra le nostre case e Polizia ovunque. […]
Ho il sentore che questa notte non si dormirà molto. Penso che la Polizia non potendo stare
con le mani in mano, voglia fare azioni dimostrative” (Malighetti R. Diario,, 24/02/2003).
“[…] Abbiamo visto molte persone correre per la favela con ogni ben di Dio, saccheggiato
dai due ipermercati della zona” (Malighetti R. Diario, 25/02/2003). “[…] In Manguinhos
(tutto chiuso) hanno assaltato il supermercato a 100m da casa […] e lo Shop America. È stato
“liberatorio” vedere le persone di Vila Turismo (donne, uomini e bambini) correre verso le
loro case con il “bottino” sulle spalle (carne, confezioni di Coca Cola, pacchi di riso, radio
ecc. ecc.). Questo ha però prodotto l’inevitabile reazione della Polizia provocando una guerra
che ci ha costretti tutti (io, L., E., I., I., B. e il povero L. un italiano venuto a intervistare I. e
che aveva rinunciato a stabilirsi nella casa, ben più tranquilla, di B. a Flamenco per ragioni di
sicurezza) a chiuderci nella sede del CCAP al buio privi di energia elettrica fino alle 22:00
quando timidamente ognuno di noi ha cercato di guadagnare la strada verso casa – non molto
allegramente). Ieri, circa 800 uomini armati fra Polizia Civile e Militare (fonti giornalistiche).
L. dice di aver contato 80 mezzi fra automobili e bus delle forze armate, più un paio di
elicotteri con tanto di fucili spianati a volo radente). Hanno invaso Vila Turismo, casa per
casa, saccheggiando, malmenando e portando in galera quanti potevano” (Malighetti R.
Diario, 26/02/2003).
4
Secondo i dati IDH (Indice Sviluppo Umano) del 2001, Manguinhos, con 55.000 abitanti,
registrava il 155° posto fra i 161 quartieri della città. Fra i dati elaborati dalla Secreteria
Municipal da Saude i seguenti erano piuttosto significativi: il tasso di disoccupazione
superava il 30% fra i giovani dai 18 ai 24 anni; il mercato informale occupava circa il 45%
I quaderni del CREAM , 2010, X
30
lavoro ha avuto una forma e un contenuto determinati dalla circostanza
e dalle richieste della committenza.
Lazzarino. Vedersi calati in ambienti di una violenza estrema e
permanente può portare lo studioso a un mutismo causato dal fatto che,
come dice Beneduce, “la violenza assedia e soffoca il ricercatore con
l’esuberanza dei suoi significati e delle sue immagini, appannando le
fini lenti strutturali o ermeneutiche di volta in volta inforcate e mettendo a
nudo – fino a smembrarli – gli oggetti” della ricerca antropologica, come
l’identità, l’agency, la relazione globale/locale, e rendendo ostico il
rispetto delle regole metodologiche (Beneduce 2008, pp. 13-14). Una
proprietà della violenza sembra essere quella di far diventare porosi i
confini, di confondere e contaminare fra loro luoghi e soggetti, di insinuare, smembrare e ricomporre appartenenze, territori, soggettività, istituzioni
secondo logiche non univoche, non razionali e non ragionevoli. L’incapacità di mantenere una distanza di protezione, un filtro, provoca un impulso
ad arretrare, a retrocedere in un silenzio imbarazzante.5
della popolazione; il reddito pro capite mensile era intorno a R$148,00 (all’epoca pari a poco
più di 40 Euro). Circa il 30% delle abitazioni erano considerate irregolari, provvisorie e a
rischio: approssimativamente il 20% non era rifornito di energia elettrica; circa il 20% non
possedeva una rete fognaria e acqua potabile. Secondo i dati della scuola nazionale di Salute
Pubblica della Fondazione Oswaldo Cruz del Ministero della Salute Federale, 80% dei
decessi di giovani fra i 15 e i 18 anni erano dovuti a armi da fuoco. La media degli anni di
scolarità da parte della popolazione delle favelas di Rio era di circa 4 anni. L’analfabetismo
toccava circa un terzo della popolazione adulta. Circa il 15% dei ragazzi fra i 7 e i 14 anni era
fuori dal sistema scolastico (Relatório de Desenvolvimento Humano do Rio de Janeiro, Rio
de Janeiro, IBGE, 2001). 5 “L. racconta di esecuzione al muro di spioni ecc. o corpi poi fatti a
pezzi con machete ecc. Tutto in strada. Puzza e terrore” (Malighetti R. Diario, 23/02/2003).
“[…] Vivo costantemente nella preoccupazione e nel pensiero che qualcosa di violento mi
possa accadere” (Malighetti R. Diario, 28/02/2003) “[…] Ieri la favela è stata nuovamente
invasa dalla Polizia. Ho avuto qualche momento di paura. In realtà lo stress da violenza è
sempre presente consumando parecchie energie. Determina la limitazione della propria libertà
e delle capacità analitiche” (Malighetti R. Diario,, 06/03/2003). “[…] X parla molto e con
naturalezza. Io cambio discorso perché ho paura che lui dica di aver raccontato una serie di
cose che è meglio non sappia” (Malighetti R. Diario, 20/02/2003). “[…] Ho smesso di
scrivere dei morti e dei feriti che continuano ogni notte perché fanno parte della “normalità “
(Malighetti R. Diario, 07/03/2003).
I quaderni del CREAM , 2010, X
31
Malighetti. In quanto esperienza del limite la violenza chiama in causa
il pudore a usare il dolore e i rischi derivanti dal sollecitare memorie
traumatiche che spesso non si è preparati a contenere. La sua forza critica
questiona anche la legittimità del lavoro etnografico oltre che le forme di
scrittura adeguate a restituire la particolare tensione fra aspetti epistemologici, emozionali ed etici della ricerca. Abbiamo cercato di aggirare
l’ostacolo utilizzando le narrazioni dei diari e la forma dialogica in termini
complessi ad includere le interrelazioni dell’antropologo con una lettrice
che condivide il linguaggio disciplinare.
Lazzarino. Aver optato per una testualizzazione dialogica, che
interpelli anche i pre-testi diaristici, riguarda precisamente il contesto
specifico che ha permesso e incorniciato la permanenza del ricercatore
sul terreno. Riguarda il suo vissuto particolare, l’eco soggettiva dell’esperienza stessa e le sue posizioni teoriche sulla ricerca antropologica, nonché il contesto di stridente violenza della sua esperienza. La
testualizzazione delle conversazioni e degli scambi di materiale scritto
intende allargare altresì il gesto di svelamento della negoziazione aperta e plurima del senso, come avviene sul terreno e durante la scrittura,
anche all’atto della lettura, includendo chi condivide la costruzione del
significato. Desidera, inoltre, stemperare l’egemonia autoriale, moltiplicando l’autorità etnografica e testualizzando una circolarità interpretativa ex post, dopo l’esperienza di ricerca e le sue traduzioni scritte.
Non si aspira a un’impossibile morte dell’autore. Piuttosto si
intende esibire la sua ingombrante incidenza come soggetto vivo,
inserito in un tempo e in una molteplicità di ambiti, ruoli e posizioni.
La molteplicità delle forme di testualizzazione è consustanziale alla
poliformità dei gesti di inscrizione dell’identità autoriale di ricercatore. L’identità dello studioso è un processo che si snoda e riposiziona
costantemente attraverso le diverse modalità di messa per iscritto di
pratiche e teorie, di interpretazioni e intendimenti, di vissuti e argomentazioni.
Malighetti. Nel gioco fra codici disciplinari, intenzionalità, strategie metodologiche e attribuzioni identitarie, l’autorità fondata sull’appartenenza alla comunità scientifica autorizza l’etnografo sul campo e
legittima la sua funzione di autore: seleziona la pertinenza dei discorsi
I quaderni del CREAM , 2010, X
32
nei rapporti con i differenti interlocutori, ne determina la traducibilità
nel linguaggio disciplinare e nelle specifiche pratiche di scrittura
(Malighetti 2007, pp. 91-106). In tal senso l’accesso all’Altro è sempre mediato dalla propria ontologia, dalla propria appartenenza a una
comunità linguistica e storica (Ricouer 1965; Gadamer 1965), come
anche dai propri posizionamenti sia teorico-metodologici, sia eticopolitici, economici e spaziali. L’osservazione della partecipazione (Tedlock 1991) richiede di prendere in esame tutto quell’insieme complesso
di sentimenti, qualità e occasioni che fondano la specificità del metodo
di lavoro antropologico. La negoziazione sul campo é influenzata dalla
storia personale del ricercatore, dalla sua personalità, dal suo orientamento teorico, dal suo ruolo istituzionale, come anche dal suo coinvolgimento emotivo, politico e ideologico e dalle differenti circostanze che
incontra. Queste, a loro volta, sono determinate dalle caratteristiche
degli interlocutori, della comunità e del contesto generale.
Lazzarino. Si intende esibire l’ingombrante incidenza dell’autore
come soggetto vivo, inserito in un tempo e in una molteplicità di
ambiti, ruoli e posizioni. La molteplicità delle forme di testualizzazione è consustanziale alla poliformità dei gesti di inscrizione dell’identità autoriale di ricercatore. L’identità dello studioso è un processo che
si snoda e riposiziona costantemente attraverso le diverse modalità di
messa per iscritto di pratiche e teorie, di interpretazioni e intendimenti,
di vissuti e argomentazioni. Si aspira, altresì, a gettare uno sguardo
sulla frammentarietà dei luoghi di soggettivazione assunti dall’autore,
su come questi si riflettano nei momenti di oggettivazione scritturale,
nei contesti della professione e della sua legittimità e legittimazione.
Malighetti. A Manguinhos alcuni attivisti del CCAP, nel corso di
una riunione in cui fui invitato a illustrare il senso del mio lavoro,
attaccarono direttamente il mio posizionamento, la legittimità e il mio
diritto a fare ricerca e a parlare della drammatica situazione della
favela, appellandosi all’inconsistenza militante del mio impegno e
all’ambiguità dei miei interessi. A queste obiezioni contrapposi la
natura del mio contributo “pratico”, fondato necessariamente sul linguaggio teorico specifico della disciplina. Questo know-how fu
illustrato – in un modo apprezzato da alcuni per la sue potenziali quali-
I quaderni del CREAM , 2010, X
33
tà analitiche e di guida all’azione ma avverso da altri in nome di un
attivismo che si imponeva in modo immediato ed emergenziale –
come concentrato all’elaborazione di strumenti analitici miranti al
raggiungimento di una comprensione diversa rispetto all'immediato
intendimento degli attori sociali e fondata su tale eterotopia (Hastrup
1993; Malighetti 2008). La praxis si basa sul “punto di vista del
nativo” ma non è riducibile ad esso, ad una romantica pretesa di
uguaglianza empatica, ad un’imbarazzante assunzione della delega,
più o meno arbitraria, a rappresentare la parola degli interlocutori in
una difficile orchestrazione polifonica (Sluka 1989; Robben 1995;
Sheper-Hughes, Bourgois 2004), in un’oggettiva neutralità (Mahmood
2001) o in un imbarazzante linguaggio pidgin. Questo dovrebbe essere
tanto evidente nelle interviste alle vittime quanto a quelle ai carnefici
(Robben 1995; Dei 2008, p. 20; Malighetti 2008, p. 93). La qualità del
contributo antropologico, anche militante o al servizio della testimonianza, consiste precipuamente in una comprensione che traduca il
linguaggio privato dei nativi nel linguaggio pubblico e specializzato
della scienza, i “concetti vicini all'esperienza” nei concetti “distanti”,
le categorie interne in quelle esterne, le nozioni emiche nelle nozioni
etiche, i discorsi anormali nei discorsi normali, quelli non-standard in
quelli standard. Parafrasando Wittgenstein si potrebbe dire che l’importante è considerare non l’agire o il militare in astratto, ma l’agire o
il militare come, in modo da non sopprimere la rilevanza del farlo
come antropologo.
La tribalizzazione delle favelas
Malighetti. La favela è oggetto di stereotipi egemonici che lavorano congiuntamente e in modo apologetico alla marginalizzazione delle
vite dei favelados. Sono alimentati dalle immagini di violenza che la
identificano come un mondo a parte, confinato geograficamente e simbolicamente, dominato da poteri paralleli. Queste rappresentazioni che
attribuiscono alle favela l’epicentralità di tutte le forme di violenza della
città, legittimano, identificandola in termini discreti, la giurisdizione del
I quaderni del CREAM , 2010, X
34
narcotraffico come anche la repressione violenta e il superamento dei
principi del diritto da parte delle forze ufficiali dello Stato. La combinazione fra restrizioni materiali essenziali, l’implementazione di
politiche pubbliche speciali, la criminalizzazione del territorio, la
demonizzazione della povertà e la violenza esercitata dai poteri armati,
costituiscono dispositivi di confinamento e di apartheidizzazione delle
favelas, come territori di eccezione (Brasil Bueno et al. 2010).6
Lazzarino. La costruzione della favela come una sorta di isolato
etnico, appiattito su un omogeneo stile di vita criminale sostenuto dai
media e dallo Stato, è un dispositivo di confinamento strategico della
violenza e di riduzione della realtà sociale favelada a una criminalizzazione indiscriminata che si vorrebbe circoscrivere e contenere. Questo
iconismo che stigmatizza, territorializza e omogeneizza è funzionale a
un’oggettivazione alienante di ciò che si vuole rendere estraneo
(Defert 1996). La violenza di queste raffigurazioni stereotipate funge
da dispositivo di segregazione, destoricizzando e depoliticizzando.
Malighetti. Scontri con armi da guerra fra gruppi di narcotrafficanti
che controllano il territorio e fra i narcotrafficanti e le forze di polizia
contrassegnano la situazione. In generale, i numeri delle vittime della
violenza sono comparabili con quelli dei conflitti più conosciuti che
mobilitano l’apparato emergenziale degli organismi nazionali e internazionali (Dowdney 2003, pp. 80-119; Malighetti 2005, p. 28). I
diversi gruppi criminali, esistenti (Comando Vermelho, Terçero Comando, Amigos dos Amigos) sono fra loro in competizione per
accaparrarsi fette di mercato con la forza del proprio arsenale militare.7
6
“Il taxista ha esitato a credere che stessi andando dentro la favela di Manguinhos,
accompagnando con commenti fatalistici e umoristicheggianti la, per lui improbabile, mia
destinazione. Non ha voluto entrare, lasciandomi sul confine […] Canale di fognatura con una
puzza spaventosa, un posto di polizia che non bisogna nemmeno vedere, facce che ora
salutavano L. ora lo guardavano “molto seriamente”. Non ho notato nessuna meraviglia per la
mia presenza. O sanno che il CCAP ospita stranieri oppure proprio non vedono, non sentono
e non parlano. O più semplicemente il loro fatalismo li porta a fregarsene. […] Io dovevo
solamente adattarmi a non vedere e sentire e non farmi trovare in mezzo a un eventuale
tiroteiro [scontro a fuoco]” (Malighetti R. Diario, 12/12/2003).
7
Il narcotraffico presenta una struttura gerarchica ben definita, capillare sul territorio. Alla
base vi sono le sentinelle (fulgeteros e olheros) che costituiscono il livello di entrata nel giro.
I quaderni del CREAM , 2010, X
35
Il controllo del territorio è fondamentale ai fini del profitto: un
territorio più ampio significa più punti vendita, più popolazione passibile di estorsione e più consumatori dei servizi monopolizzati dal
crimine. L’unico ingresso a Manguinhos era controllato da macchine da
guerra (Deleuze, Guattari 1980) attraverso una pesante colonna di
metallo da sollevare e ricollocare, sotto il controllo vigile delle sentinelle, in modo da impedire il libero flusso di entrata e uscita. Gli spazi
vengono così difesi e marcati con l’imposizione di ostacoli fisici
costruiti dai gruppi criminali, rimozioni da parte della polizia, e altre
forme di appropriazione dei territori.8
Lazzarino. Il terrore, provocato dalla pervasività e imprevedibilità
della violenza e della morte, “oscura in modo sistematico i confini tra gli
spazi e i tempi della guerra e quelli della pace” (Appadurai 2005, p. 87;
Mbembe 2003). Lo stato di guerra quotidiana sembra strutturare l’ordinario intorno alla pratica e alla prospettiva della violenza e della
violazione. Se l’essere-per-la-guerra delle società primitive di Clastres
(1997) ha “l’effetto tattico” di instaurare lo scambio, in contesto
Non armati, avvisano, utilizzando lo scoppio di petardi (fulguetes), dell’arrivo della Polizia o
di gruppi nemici. Ad un livello superiore ci sono i venditori (vapores per la loro rapidità a
dileguarsi) alle bocas da fumo, piazzatte dove vendono direttamente cocaina e marijuana.
Successivamente la sicurezza (segurança), soldati di 12-16 anni, armati; il gerente local
(direttore locale) un giovane che gestisce lo smercio della droga e i suoi prezzi; il gerente
geral (direttore generale) che amministra la droga, i profitti, e paga i livelli inferiori; il dono
(proprietario) della favela che può comandare più favelas, e infine il Chefe (capo) del
comando che comanda vari donos e varie favelas (Dowdney 2003).
8
“L. mi ha portato a fare una passeggiata per la favela mentre decidevamo dove mettermi a
dormire. Mi racconta delle bande contrapposte per il controllo del territorio secondo logiche
di una mafia in via di sviluppo. Non vedere, non sentire e non parlare è la principale regola di
un gioco gestito con la politica del terrore. La divisione territoriale in bande […] impedisce di
pronunciare il nome delle favelas rivali […] Al ritorno L. mi ha suggerito di fare un’atra
strada, Av. dos Democraticos, grande e trafficata che delimita la favela, per evitare di farmi
trovare in mezzo a un eventuale tiroteio in stradine che rendono difficile schivare gli eventuali
proiettili. Al rientro in favela abbiamo visto un insolito posto di blocco della polizia in mezzo
alla gente che non faceva presagire nulla di buono. In realtà non è successo niente. L. racconta
che la strategia della tensione prevede anche un controllo del territorio che gestisce le dispute
e mantiene le regole del gioco. Avrebbero saputo presto della mia presenza e non avrei corso
alcun pericolo. La struttura gerarchica che si sta strutturando non ama gesti indipendenti fuori
dal suo controllo” (Malighetti R. Diario, 12/02/2003).
I quaderni del CREAM , 2010, X
36
favelado l’essere-per-la-violenza genera invece una competizione
feroce che pare autoalimentarsi indefinitamente tramutandosi in una
saga sanguinaria.
Analogamente alla situazione dei ghetti neri americani descritta da
Wacquant (2008), la “depacificazione della vita quotidiana e il deterioramento dello spazio pubblico” sono gli aspetti più drammatici
della favela. Anche nel ghetto, la violenza endemica della polizia, oltre
alla sua incapacità di garantire protezione, contribuisce a creare una
condizione di violenza e paura generalizzata e l’omicidio è fra le
prime cause di mortalità.9
Malighetti. L’esercizio indiscriminato della violenza omologa polizia
e narcotraffico, rendendoli sovrapponibili, ugualmente temibili e collusi.
Unica forma della presenza statale, le forze dell’ordine radicano e
accreditano presso la popolazione, la concezione delle istituzioni come
poteri arbitrari, corrotti e violenti. Adottano pratiche di esecuzioni sommarie e aggressioni agli abitanti, promuovendo un clima di terrore
congruente con le proprie strategie di concussione. Le forme di corruzione includono la compravendita di armi, lo scambio di prigionieri e
cadaveri, la suddivisione del profitto del narcotraffico e di altri beni
del patrimonio pubblico e privato.
Lazzarino. L’interventismo militare del potere pubblico soddisfa
una società civile ansiosa di punizioni esemplari che non superano la
9
“Mentre parlavamo sulla porta del CCAP è passata per la strada asfaltata ma dissestata e
piena di buche un’automobile della Polizia (un fuori strada Chevrolet) con il poliziotto a
fianco del guidatore che aveva la canna del fucile mitragliatore appoggiata sullo specchietto
pronta a far fuoco. Il salto dell’automobile in una buca ci avrebbe freddati tutti e quattro, L.,
io, una ragazza della fondazione Osvaldo Cruz e il maestro di Capoeira del Centro. Mi hanno
spiegato che questa non era un’inutile manifestazione di machismo militare, ma la conseguenza di una guerra che produce imboscate. Abbiamo poi saputo che quei due militari hanno
sparato nelle gambe a un ragazzino colpevole di aver avvisato i suoi “amici” con alcuni
petardi dell’arrivo della polizia. Il racconto della donna di servizio del CCAP diceva che i
poliziotti dopo avergli sparato hanno sollevato il ragazzo prendendolo per la gamba colpita in
una feroce tortura. Quando ho chiesto se questo avrebbe prodotto una risposta violenta dei
narco, mi hanno detto che ciò non sarebbe avvenuto immediatamente. Si trattava di un
episodio di una guerra che avrebbe causato, alla prima occasione e al primo incontro una
nuova sparatoria. L. mi diceva che il narcotraffico si sta organizzando per controllare il
territorio, in tutti i sensi” (Malighetti R. Diario, 12/02/72003).
I quaderni del CREAM , 2010, X
37
soglia dell’emergenza e dell’eccezionalità. Di fronte alla spettacolarizzazione della violenza prevalgono la condanna e lo scandalo con un
effetto di depoliticizzazione immediata. La violenza rumorosa va
ridotta, non interrogata. Questo contribuisce all’aumento della violenza, consegnando la favela alle attività delle bande criminali. La favela
oscilla fra eccezionalità rappresentazionali interne ed esterne che
vivono nel paradosso di essere contemporaneamente quotidiane e
speciali, basate sull’esercizio della violenza come strumento pervasivo
ed efficace di territorializzazione. In questo senso, la violenza, in
quanto pratica e discorso, può essere impugnata come dispositivo
egemonico e ideologico capace di radicare, circoscrivere e ordinare.10
In maniera non dissimile da quanto accade nei campi profughi, le
favelas sembrano condannate a un’ossimorica provvisorietà permanente in quanto zone definitivamente temporanee (Rahola 2003). Rispetto
ai contesti di rifugismo, però, qui non è la “sovranità mobile” (Pandolfi 2005) dell’umanitario a perpetuare un’eccezionalità territorializzata, bensì l’esercizio della violenza da parte del narcotraffico e
della polizia, alimentata dalla sua rappresentazione mediatica ufficiale.
Non solo in termini infrastrutturali, ma anche in quelli ancora più
concreti e politici di sopravvivenza, tale violenza radica le vite di
milioni di persone a un territorio che restituisce unicamente precarietà.
Malighetti. L’apparato extra ordinem delle leggi speciali nei confronti delle favelas produce una sovranità definibile, come sostiene
Carl Schmitt, come il potere di sospendere legalmente la validità della
10
“Nella pausa pranzo L. parlava ancora del narcotraffico. Diceva di essere curioso di vedere
quanti morti avrebbe prodotto il ritiro della Polizia, dopo alcuni giorni di occupazione, dalla
favela Morro de Lagartixa (dove si svolge gran parte delle attività del CCAP). Diceva infatti
che tale occupazione, avendo prodotto il ritiro e quindi il ritorno dei narcotrafficanti, causava,
come sempre in questi casi, delle forme di vendetta da parte dei narcotrafficanti per coloro che
sospettavano di aver collaborato con la Polizia. Alcune persone (anche commercianti) sono
state colpite in vario modo per aver offerto anche solo il bagno ai poliziotti. Innescava inoltre
un meccanismo di fuga da parte di coloro che sospettavano di essere i successivi ad essere
giustiziati” (Malighetti R. Diario, 18/02/2003). “È famoso il caso di un giornalista ucciso dai
vapores (sentinelle) […] YET qualche volta la struttura gerarchica non funziona. Il giornalista
era ben conosciuto, stava facendo il suo lavoro. Per questo ragazzi sono stati puniti e bruciati
nel microonda insieme al corpo giornalista” (Malighetti R. Diario, 20/02/2003).
I quaderni del CREAM , 2010, X
38
legge e i fondamenti giuridici, esercitando un dominio arbitrario senza
alcuna mediazione (Schmitt 1921; Agamben 2003). L’inversione del
rapporto tra regola e emergenza finisce con lo standardizzarsi e diventare una modalità consuetudinaria e mobile del contratto sociale
(Benjamin 1955). Introduce un effetto perverso di continuità e ubiquità dell’emergenza, congruente con le strategie dei poteri che possono
trarre profitto dall’universalizzazione di tale stato. I dispositivi emergenziali permettono, inoltre, di trasfigurare i problemi sociali in
questioni tecniche legittimate dalla performatività e dall’efficacia e
giustificano l’imposizione di norme arbitrarie in maniera totalizzante a
discapito di modalità alternative di intervento. Alimentano i meccanismi garanti l’ordine, la stabilità e la sicurezza, estendendo quella che
Giorgio Agamben definisce la zona grigia di operazioni militari
giustificate come operazioni umanitarie che sottraggono autonomia e
libertà agli attori civili (Benjamin 1955).
Mentre la legge pensa in termini di individui e di società, cittadini
e stato, il dispositivo dell’emergenza permette di ragionare in termini
di entità astratte, da identificare, censire e quantificare. La dimensione biopolitica evidenzia le drammatiche condizioni giuridico-politiche dei rapporti fra Stato e individui: in nome della sicurezza o dei
diritti umani, i cittadini sono trasformati in semplici corpi o nuda
vita (Agamben 1995).
Territori liberi
Malighetti. La violenza estrema e spettacolare è usata per produrre
quello che Appadaurai (1998) ha definito “adesione totale” e che
Gourevitch ha descritto, a proposito del genocidio in Ruanda come
“pratica di costituzione della comunità” (Gourevitch 1998). È una
tecnica per “immaginare una comunità” (Hayden 1996; Anderson
1983; Malighetti 2009) che permette di identificare concretamente le
astratte categorie identitarie, attribuite a un improbabile idem da governare e, nel contempo, ad un alter come nemico da pseudo-speciare
(Erikson 1966) e da mutilare: dell’umanità, dei diritti, della cittadinanza,
I quaderni del CREAM , 2010, X
39
della vita o anche di parti del corpo, esibite come segno tangibile della
negazione della sua devianza (Feldman 1991; Malkki 1995; Hayden
1996; Herzfeld 1997; Appadurai 2005; Mbembe 2003, p. 71).
Il potere totalizzante del narcotraffico usa l’identità come tecnologia di dominio centralizzato e per esercitare una sovranità eugenetica
contro le minacce provenienti da fattori esogeni ed endogeni (Daniel
1996; Desjarlais, Kleinman 1994; Nordstrom 1997; Tambiah 1996). Si
impone e supera quello dello Stato ridotto a potere parallelo a cui è
sottratto non solo il monopolio della forza. Tale potere configura
strategie che assumono le figure contrastive della chiusura e della
minaccia e implicano differenti modalità di katharsis che purifichino
dallo sporco interno e dalla contaminazione esterna impedendo il cambiamento (Remotti 1995; Appadurai 2005). La costruzione dell’alter
come minaccia comporta il sospetto verso ciò che potrebbe sfuggire al
controllo: la polizia e lo Stato, gli estranei e i devianti, sono considerati sovversivi rispetto al rapporto fra totalità e confine e divengono
i primi obiettivi della violenza.
Da un lato lo Stato accoglie le preoccupazioni di una parte della
società brasiliana riguardo al posto che dovrebbe ricoprire l’altra.
Come nel caso dei bambini di strada analizzati da Scheper-Hughes
(2002) la percezione delle favela risulta da una polarizzazione del
timore sociale che usa la svalutazione della vita umana. Invertendo il
nesso di vittimizzazione, le classi dominanti richiedono la tutela degli
interventi violenti da parte del potere pubblico.
D’altro canto i narcos ricorrono a forme di violenza esplicita per
acquisire un forte grado di agency nella gestione del potere che si
realizza per mezzo del terrore e che esprime, in termini foucaultiani,
una sovranità fondata sul biopotere di decidere la vita e la morte. Una
regolare esibizione di violenza è necessaria per funzionare economicamente e politicamente.11
11
“Ho conversato con X sui narcos, ragazzi cresciuti con lui e quindi suoi amici. Mi ha detto
che il capo, della favela Vila Turismo, (Y 22 anni) […] il primo giorno – prese informazioni
su di me, raccomandando a X di dirmi di stare attento alla Polizia […] X dice che la violenza
crudele è richiesta dal ruolo di controllo e di rispetto delle regole […] Esclude l’ipotesi che i
ragazzi possano prendere iniziative non decise al vertice. Tutto quindi è sotto controllo. Le
I quaderni del CREAM , 2010, X
40
Lazzarino. Secondo lo stesso principio che informa il discorso
identitario essenzialista e territorializzante, il paradigma dentro/fuori ha
un’utilità strategica molteplice, non ultimo di ordine politico, sia per
quei soggetti che decidono di pensarsi dentro, sia per chi decide di
appartenere al fuori (Spivak 1999). Il fatto che sia le rappresentazioni
esterne sia le auto-rappresentazioni delle pratiche all’interno di questa
arena di attori si articoli secondo la logica del dentro/fuori, è frutto di
una necessità ordinatrice di contenimento e occultamento delle transgressioni e contaminazioni costanti. Lo Stato si sforza di marginalizzare
e rinchiudere. Il narcotraffico, nella sua lotta costante per il controllo di
territori che fisicamente amministra e circoscrive attraverso l’esercizio
concreto del potere, radica la propria identità allo spazio del non-asfalto.
In questo gesto brutale di territorializzazione, incessantemente ribadito,
l’identità del narcotraffico si esibisce come immediatamente coincidente
e inscindibile da quella della favela. La manifestazione violenta del
potere, in entrambi i casi, concretizza con forza le categorie identitarie.
Sembra che il narcotraffico riesca anche a utilizzare il malessere
della popolazione, effetto di una lunga storia di discriminazione, per le
sue tecniche di assoggettamento. Dal diario emerge che le motivazioni
che portano a entrare nel narcotraffico sono evidentemente anche di
ordine sociale. Oltre al fatto che il narcotraffico operi attraverso i legami di parentela, esso promette e impone protezione, appartenenza a
una comunità nonché aiuti e benefici concreti. Si sostituisce a un
potere pubblico assente nelle sue manifestazioni non violente.12
attività principali sono rapine e traffico della droga. […] Qui in favela non si possono
trasgredire le regole, se non rischiando molto” (Malighetti R. Diario, 18/02/2003).
12
“Abbiamo avuto modo di incontrare il capo del narcotraffico che controlla 2 favelas […].
Un ragazzo di circa venti anni, molto razionale, in moto con una grande pistola nei calzoni
[…] Era naturalmente al corrente della mia presenza in favela. Sembra che apprezzino il
lavoro del CCAP, e quindi anche il mio. Come una sorta di “sindaco” comprende che molti
interventi del CCAP (soprattutto le infrastrutture, gli asili nido e le scuole) sono utili ai
membri del suo territorio, comprese le famiglie di narcos […]” (Diario, 14/02/2003), “[…]
Ieri andato a Baile Funk. Bambini armati (segurança). Grandi odori di erba e vendita di coca
(sacchetti impressionanti per le dimensioni). Una dose = 1 R$. Una birra = due R$. Molto a
buon mercato […] Venivano da tutti i posti. Bambino con fucile. Grasso e pieno di problemi.
Yet con mitragliatore” (Malighetti R. Diario, 23/02/2003).
I quaderni del CREAM , 2010, X
41
Malighetti. La risposta quasi esclusivamente militare da parte dei
pubblici poteri e la politica del confronto armato genera un forte odio
collettivo verso le forze dell’ordine e contribuisce a spingere i giovani
verso le organizzazioni criminali, identificate come mezzo per combattere l’ingiustizia. A volte giungono a provocare forme di solidarietà
e simpatia della popolazione nei confronti dei criminali, considerati
meno arbitrari delle Polizie nell’esercizio della violenza.
In quelli che i narcos chiamano territori liberi, il traffico esercita
potere legislativo, esecutivo e giudiziario, amministra possibilità di
lavoro e aiuti economici e gestisce anche il tempo libero con attività
ricreative. Recluta i propri membri garantendo un accesso rapido a
capitali materiali e simbolici: vestiti, droghe, armi, prestigio, potere e
popolarità. Tuttavia, l’accesso a questi beni è scarso ed effimero, dal
momento che non permette di mettere in atto un cambio di vita
radicale, accumulare risorse per intraprendere attività lecite. E la
prospettiva della morte è molto reale.13
La microfisica e l’invisibilità con cui la violenza si radica nella vita
sociale e nelle istituzioni possiedono una capacità generativa. Producono
relazioni sociali, pratiche, economie, politiche, habitus. Organizzano la
vita della comunità, diventa il nomos dello spazio politico, soprattutto
laddove il potere pubblico è presente solo nelle sue forme perverse
(Mbembe 2003, p. 51; Wacquant 1992; Bourgois 2008).14
13
“X aggiunge che Y (capo di Manguinhos), sebbene capo, non si arricchisce, vittima delle
truffe del traffico e dalla necessità di pagare tangenti alla Polizia (una volta che era stato preso
ha dovuto pagare 20.000 R$ per non essere portato in prigione) […] Mi spiega i percorsi della
droga e come i trafficanti di favela, a tutti i livelli sono veri e propri poveri diavoli, destinati a
rimanere tali, senza possibilità di progressione di carriera. Vengono arresati e poi smettono,
oppure vengono uccisi dalla polizia o dalle bande rivali, se non dagli ex-amici. I soldi
rimangono nelle mani dei grandi trafficanti che vivono a Ipanema e Copacabana […] Ha
accennato al fatto che l’identità dei trafficanti si fonda sul concetto di rispettabilità e non tanto
sui soldi” (Malighetti R. Diario, 20/02/2003).
14
“La favela di primo acchito mi ha ricordato un villaggio del nordeste. Case fatiscenti in
muratura, gente per le strade, botteghe (Malighetti R. Diario, 12/02/2003). “[…] Inizio a
muovermi con disinvoltura nelle favela che è un vero e proprio villaggio o una comunità.
Relazioni di vicinato, economia informale, solidarietà reciproca ma soprattutto diritto
consuetudinario e regole da rispettare. Ci si dimentica di essere a Rio. O, meglio, Rio è questo
per 1/3 della popolazione” (Malighetti R. Diario, 13/02/2003). “[…] inoltrandoci nel labirinto
I quaderni del CREAM , 2010, X
42
Lazzarino. Il frastuono carnale della violenza di cui la vita quotidiana in favela è pregna assorda lo sguardo muto della ragione occidentale e fa saltare le logiche binarie dell’ordine geo-politico della
modernità. Attraverso la violenza, nella complessificazione ad infinitum
delle questioni etiche e nella loro imbricazione totale in una quotidianità
problematica saltano le rassicuranti tassonomie di appartenenza, senso e
valore. La violenza, sotto un’ottica generativa, e soprattutto quella con
storica profondità, contribuisce a produrre nuove forme di significazione
di sé e della collettività che restano per lo più ignote.
La rumorosità della vita quotidiana in favela può essere considerata
esteticamente proporzionale alla brutalità assordante dei delitti che vi
si consumano. Allo stesso tempo, i vissuti di normalità possono essere
letti come riposizionamenti di resistenza dei soggetti nei confronti di
un regime di violenza territorializzante. L’opposizione della favela alla
realtà di violenza che ogni giorno la attende sembra possibile solo se
accompagnata da una violenza sonora equivalente. La violenza acustica evoca una volontà contro-egemonica che sorge in pratiche cariche di una vitalità eccessiva.
Malighetti. Banditi dai diritti, ostracizzati e discriminati dagli abitanti dell’asfalto, i favelados hanno storicamente trovato in favela
spazi di socialità, solidarietà e convivialità. Questo “ordine precario”
si fonda su forme di rimozione che permettono di vivere la quotidianità e di “normalizzare” la situazione attribuendo un senso che
tuttavia può crollare in ogni istante (Taussig 1989, p. 11; Vargas 2008,
di stradine della favela, un metro di larghezza a dividere case molto vicine. Case dotate di
tutto: la mia ha cortile interno […] Televisione a colori, impianto stereo […] prima di
venderlo aveva anche il computer (c’è ancora la stampante e il modem). Ho potuto vedere
come la società della favela sia estremamente stratificata al suo interno. Io vivo nella parte
migliore. L. mi ha portato fra le abitazioni di cartone e costruite con pezzi di legno arrangiati
come possibile, sulle rive di un fiume che è una fogna a cielo aperto che emana una puzza
nauseante […] Feste di compleanno, gente sulla porta di casa a cantare e suonare, i ragazzi del
narcotraffico con le moto ad alta velocità che tagliano pericolosamente le stradine suonando il
clacson ed esortando le persone di mettersi miracolosamente in salvo […] La vita è nella
strada: calcio, ecc. […] Un casino enorme” (Malighetti R. Diario,, 14/02/2003). “Ore 9:20 a
favela si sta svegliando e allora grande casino. Televisioni, stereo ecc, tutto sempre a canna
[…] Casino aumenta. Ora anche la vicina chiesa evangelica. Non riesco più a scrivere”
(Malighetti R. Diario, 23/02/2003).
I quaderni del CREAM , 2010, X
43
p. 218). Produce uno stato di “sdoppiamento del soggetto sociale” che
si manifesta anche nella simultanea presenza, negli attori sociali, sia
del desiderio, generalmente irrealizzabile, di abbandono delle favelas,
sia di un forte adattamento alla vita comunitaria.
L’analisi fornita dal piano di sviluppo urbanistico del complesso di
Manguinhos, deciso dal potere pubblico federale, indica che gli abitanti
della favela, sebbene considerino la paura della violenza il principale
motivo per desiderare il cambio di residenza, ritengono, nel contempo,
che la calma e la tranquillità del luogo sia il principale motivo per
continuare a vivere a Manguinhos. Riporta altresì che il 70% degli
abitanti è soddisfatto di risiedere nel luogo (Soares et al. 2010).
La centralità dei margini
Lazzarino. Contemporaneamente al suo uso come dispositivo al
servizio di una logica dentro/fuori territorializzante e identitaria, la
violenza è il fattore collante che consente, forza ed esalta gli sfondamenti dei confini e le sostituzioni fra i luoghi/soggetti15 in questione:
favela, antropologo, narcotraffico, polizia, CCAP. Essa si manifesta
come un regime di verità produttivo, un biopotere tecnico (Foucault
1976), oltre che un mito naturalizzante il cui significante offusca il
significato (Barthes 1957). Agisce in questo scenario composito e
mobile come l’“operatore totemico” di Lévi-Strauss (1962) o “la
casella vuota dell’oggetto = x” di Deleuze (1973). Il primo dilata il
senso di appartenenza al gruppo ristretto e permette di trascendere le
opposizioni. Il secondo consente alle serie di muoversi e di comunicare fra loro, attraversandole e circolandovi continuamente.
La violenza non informa e banalmente accomuna i campi, o serie,
15
Il termine luoghi/soggetti è usato per sottolineare la co-appartenenza dei due termini e la
dinamicità processuale che li contraddistingue. Permette di affermare che senza interazione
non vi è luogo e che le interazioni si danno sempre in una cornice spaziale, cornice che
individua inevitabilmente dei luoghi. Il binomio è stato inoltre formulato per designare gli
attori sociali colti in una dimensione spaziale inscindibile da quella personificata di soggetti
attivi. Sia l’antropologo, sia la favela, cosi come la cooperazione, il narcotraffico e la città
possiedono una corporeità mobile, metastatica e porosa, un’agentività e un ruolo
I quaderni del CREAM , 2010, X
44
che si intersecano e respingono, della favela, del narcotraffico, delle
autorità, dello studioso e del CCAP. Se questi ambiti, che la violenza,
come l’oggetto = x, percorre, “presentano degli spostamenti relativi”
l’uno rispetto all’altro, “ciò accade perché i posti relativi dei loro termini
nella struttura dipendono innanzitutto dal posto assoluto di ciascuno”, in
ogni momento, rispetto all’elemento della violenza “sempre circolante,
sempre spostato in rapporto a se stesso”. La violenza “nella sua
ubiquità, nel suo perpetuo spostamento, produce il senso in ogni serie,
e da una serie all’altra, e non cessa di spostare le due serie” (Deleuze
1973, p. 48-50) disegnando una temporalità storica profonda.
Malighetti. L’analisi della violenza può essere utilizzata, in modo
contrario alle ideologie egemoniche, per contraddire gli inefficaci
tentativi di imporre un ordinamento discreto e segregazionista e la
promozione di marginalizzazioni fondate su dualismi semplici (dentro-fuori, centro-periferia, globale-locale). Le forme di criminalità
esistenti possono essere considerate l’esito di antiche forme di
esclusione da diritti e da servizi che lo Stato non ha mai garantito né
realizzato per la maggior parte della popolazione. La precarietà delle
condizioni di vita, l’emarginazione e la povertà appartengono a
logiche economiche e politiche globali, comprensibili come violenza
strutturale (Farmer 2003).
Fondato sulla tratta degli schiavi, lo sviluppo capitalistico del Brasile si è costruito sulla frontiera fra esclusione e inclusione, garantendo
diritti e prosperità a quella parte minoritaria della popolazione che ha
accumulato ricchezze e privilegi attraverso lo sfruttamento della
maggioranza. Ai contingenti di ex-schiavi e ai migranti che arrivavano a
Rio de Janeiro a cavallo fra i secoli XIX e XX, era di fatto negata la
cittadinanza, così come ai protagonisti del consistente flusso migratorio
del dopo-guerra dalle aree del Nord e Nordest, precipitato delle
politiche di sviluppo a favore del Sud (Martins 2002). Questo esercito
industriale di riserva (Marx 1867), confinato inizialmente nelle parti più
alte dei morros e nelle periferie, svolgeva una funzione necessaria al
regime lavorativo, principalmente come mano d’opera a basso costo.
Le favelas storicamente hanno svolto un ruolo di ghetto, agglomerando individui indispensabili al funzionamento della città, soggetti
I quaderni del CREAM , 2010, X
45
integrati economicamente ma impediti all’esercizio della piena cittadinanza. L’esclusione dei diritti prodotta da un inclusione limitata alla
forza lavoro e alla sua precaria riproduzione biologica si è successivamente alimentata, come nei casi analizzati da Wacquant o da Bourgois a
proposito dei ghetti di Chicago e San Francisco, dell’assenza dello stato
sociale e del trionfo del neoliberismo (Wacquant 2008; Bourgois 2001).
Lazzarino. La violenza strutturale è anonima perché consustanziale
a una configurazione ampia e storicamente determinata di fattori socio-economici. Ancor più efficacemente, Bourgois parla di “sofferenza
socialmente strutturata” per accentuarne la genealogia strettamente
politica (Bourgois 2008). Eppure, come fa notare Vargas in relazione
al caso colombiano, non si può separare la violenza strutturale da
quella esplicita, esercitata dagli attori armati (Vargas 2008). La prima
comporta il perpetuarsi della seconda, quella dei tiroteios, così come
di quella invisibile e diffusa che impregna le soggettività. È un tipo di
violenza inserita nelle istituzioni e nelle strutture sociali che, pur
avendo un ruolo decisivo nella produzione della sofferenza, si sottrae
alla facile identificazione di una relazione univoca vittima-carnefice.
Malighetti. Le due forme di violenza non sono indipendenti, né
circoscrivibili in universi conchiusi e ben delimitati. Le traiettorie del
mercato della droga e delle armi pesanti, dominate da cartelli mafiosi
internazionali (Torres Ribeiro 2000; Bueno Brasil et al. 2010; Zaluar
1995) o i legami del narco-traffico con settori politico-economci per il
controllo delle risorse destinate allo “sviluppo” seguono logiche mercantili ed economico-finanziarie che superano la favela e il livello
municipale, e si connettono ai traffici internazionali leciti, compresi
quelli della cooperazione.16
Lazzarino. Il locale e il globale si interfacciano, annodandosi l’uno
all’altro per generare eventi di violenza concreti e vicini, che limitano
gli spostamenti, creano occlusioni, provocano travasi, determinano
16
“L. […] mi ha raccontato delle bande […] Sembra che cerchino di strutturarsi e
organizzarsi maggiormente a livello politico, alleandosi contingentemente con le forze sociali
che possono essere utili al loro benessere, se non anche ai loro disegni. Un’evoluzione
strategico-organizzativa del traffico che passa a un controllo e gestione del territorio più
efficace: vd. la mafia italiana e la cassa del mezzogiorno” (Malighetti R. Diario, 14/02/2003).
I quaderni del CREAM , 2010, X
46
luoghi. Il soggetto/luogo favela è invaso, attraversato e costituito da
forze transnazionali che lo mettono in relazione sia con i legami spaziotemporali che intrattiene con le proprie condizioni di origine, sia con le
arene mobili dei traffici illeciti e leciti, nazionali e internazionali. L’effetto “butterfly” della globalizzazione si manifesta prepotentemente nel
momento in cui gli stili di vita dei paesi più industrializzati determinano
la micro-geografia del terrore di territori lontani (Appadurai 2005).
Secondo una logica neoliberista di integrazione del mercato mondiale, la
delimitazione di territori interni corrisponde tout court a fette di mercato
globale. La politica di radicamento estremo e di controllo violento del
territorio è imbricata con le reti internazionali della droga.
Malighetti. Anche da un punto di vista prettamente spaziale le favelas di Rio mostrano tutta la loro “centralità”, collocandosi a ridosso
delle zone più ricche, come Copacabana, Ipanema, Leblon, Barra di
Tijuca, dove le classi dirigenti occupano abitazioni-bunker sorvegliate
costantemente da polizie private e usano automobili blindate.17
La violenza delle bande criminali e dello Stato invadono costantemente la città, producendo uno stato di sofferenza etico-politica (Baierl
2004) e di paura generalizzata (Souza 2008). I Comandos costituiscono confederazioni e reti di alleanze in conflitto fra loro e con le forze
dell’ordine che penetrano l’asfaltato, attraversano la città e la regione
metropolitana. Dagli anni Ottanta, sparatorie nelle aree ricche e balas
perdidas (proiettili vaganti) iniziano a diventare comuni, per intensificarsi ancora di più durante la decade seguente. Sono attaccati i
supermercati, incendiati gli autobus, negozi, fabbriche, scuole e
istituzioni sono obbligate a interrompere le proprie attività, le
università sono invase, stazioni della polizia e delle forze armate sono
aggredite, i loro arsenali saccheggiati
In questo senso il geografo Marcelo Lopes de Souza usa l’espressione fobópole, per designare lo spazio urbano che patisce uno stress
cronico a causa della violenza, della paura della violenza e del conseguente senso di insicurezza (Souza 2008, p. 40). La locuzione ribadisce
17
Su una popolazione di 5.851.914 abitanti Rio de Janeiro aveva nel 2000 620 favelas
con una popolazione di circa 1.092.958 abitanti, pari al 19% popolazione(Instituto
Brasileiro de Geografia e Estatística, IBGE 2000).
I quaderni del CREAM , 2010, X
47
che i problemi delle favelas non possono semplicemente venir marginalizzati, ordinati e circoscritti in ghetti separati e dai confini ben definiti e
conchiusi. Determinano la quotidianità di tutti i cittadini della metropoli.
Soprattutto ne mettono a rischio la sicurezza, codice supremo della vita
politica contemporanea, capace di persuadere della necessità di sacrificare le garanzie del diritto in modo manifestamente inefficace ma
significativamente congruente con gli interessi dei gruppi di potere.18
Lazzarino. Se si inverte la prospettiva che assume l’asfalto, ovvero,
la città, la modernità, la razionalità, la pacificazione, come punto di
vista privilegiato, la favela non si colloca più dentro la città, bensì la
città si fa periferia della favela. La violenza tiene insieme due
movimenti opposti e inseparabili, che si costruiscono reciprocamente:
l’eccezionalità e la pervasività. È evidente che la prima, con i suoi
effetti di ghettizzazione, è necessaria a sopportare l’impossibilità di
rimuovere la seconda. La vicinanza fisica, insieme alla lontananza
sociale, stride al punto da conferire sonorità all’interstizio abissale in
cui si genera una violenza che insieme elimina e ricalca le distanze.
Malighetti. La violenza nelle favela non configura forme economiche e politiche contrarie allo status quo. Né vi aspira. Sia i politici
che controllano gli interventi statali, sia i gruppi criminali che dominano gli spazi e spesso la cooptazione dei leader comunitari, non
18
“Campo da Golf di São Conrado attaccato alla favela di Rosinha, finestre dello Sheraton di
Ipanema di fronte alla finestre di una favela (Vidigal). Ipanema è accerchiata dalla favela
Pavão-Pavãozinho. Copacabana ha la sua favelina. La spiaggia, bellissima perché meno
popolata di São Conrado è frequentata da favelados che ti impediscono di fare il bagno
lasciando le proprie cose (ciabatte incluse) incustodite ecc […]. Le favelas minacciano la
tranquillità di tutte le spiagge e gli abitati. Scendono e impediscono (furti ecc.) la possibilità di
rimozione del problema e in particolare disturbano la vita delle classi privilegiate che devono
rifugiasi in case-bunker e limitare la propria libertà (anche di ostentare i propri consumi:
automobili, orologi ecc. ecc.). Favelas – non emarginate ma determinano la quotidianità e i
comportamenti di tutti. (paura ecc.). Vedi G. che non può andare in giro tranquillo con il suo
orologio e la sua macchina fotografica. ecc. ecc. Downtown deserto nel weekend – preda di
bande di ragazzi pronti ad assaltare i malcapitati, realizzando le fantasie anticipate dai film
hollywoodiani (Los Angeles anno 2009 ecc.). Rio modello di problemi emarginazione e
immigrazione – dentro la città – non circoscrivibili e ghettizzabili. São Paulo mi dicono sia
peggio […] Si comprende la violenza di qualcuno che vive accanto al campo da golf o ai
palazzi fortezza e non ha da mangiare” (Malighetti R. Diario, 23/02/2003).
I quaderni del CREAM , 2010, X
48
sembrano aver alcun interesse a modificare la situazione e trasformare
significativamente le relazioni sociali che costruiscono il territorio di
Manguinhos. Il loro controllo “liberista” delle forme economiche privatistiche e mercantili si oppone a progetti alternativi e a prospettive
partecipative e solidali. Da un lato, l’economia-politica del traffico di
droga e armi, i profitti e le relazioni fra i grandi finanziatori dell’asfalto, realizza una forma di capitalismo brutale fondato su feroci
modalità di sfruttamento della mano d’opera (Souza 1995). Dall’altro
lato, le strategie del terrore riescono a impedire che le contraddizioni
politiche ed economiche strutturali esplodano e a garantire un ordine
efficace nel contenere le possibilità di reazione alla condizione di
povertà e privazione. Permettono il controllo del territorio, gestiscono
le dispute e mantengono un mondo fondato sull’esclusione. A fronte
delle drammaticità delle condizioni di sopravvivenza di gran parte della
popolazione, gli interrogativi dovrebbero concentrarsi non tanto sulla
quantità di violenza, quanto sulle modalità del suo efficace contenimento. Il dominio esercitato attraverso il terrore disegna confini invisibili e
profondi nelle interazioni e nei comportamenti, segnando l’ambiguità
liminale di una violenza generalizzata dalla guerra fra le gangs che
creano – machiavellicamente – ordine, compattezza e unione.19
Lazzarino. Gli atti di violenza disegnano trincee territoriali, simboliche e psicologiche che determinano la circolazione e il riposizionamento continuo dei luoghi/soggetti. Attraverso gli atti di violenza la
favela, il narcotraffico, il CCAP, i corpi e le soggettività vedono
sfondati i propri confini ed eccedono il proprio posto: la favela straripa
nella città; il narcotraffico comprende ed eccede la favela, entra nell’intimità dell’antropologo, invade la cooperazione, collude con la polizia, si connette a scenari internazionali; il CCAP sta dentro la favela
oltrepassandola, oscilla con pragmatici compromessi fra la favela, il
narcotraffico e la cooperazione internazionale; il ricercatore si contami19
“Rocinha: favela di circa 150.000 abitanti, fra le più antiche, con una densità abitativa
impressionante. Favela vivissima. Casino, gente ovunque. Vita per la strada ecc. Motorette
ecc.[…] Rimangono a guardare dall’alto la ricchezza di coloro che arrivano in elicottero a
giocare a golf nello splendido scenario della Barra di Tijuca… Come fanno a non scendere e a
non chiedere di partecipare al gioco?” (Malighetti R. Diario, 22/03/2003).
I quaderni del CREAM , 2010, X
49
na con la favela, con il narcotraffico e la cooperazione, muovendosi
attraverso luoghi di interazioni che lo attraversano in modi che non
riesce a controllare. Il manifestarsi della violenza nelle azioni, nelle
pratiche, nei discorsi, negli spostamenti e nelle percezioni degli attori
sociali che la agiscono e la subiscono è, come l’oggetto = x, esorbitante
il suo posto ed eccedente la struttura. Sembra che ognuno si muova nella
negoziazione e nell’ambivalenza per accaparrarsi territori reali e simbolici, ampliando incessantemente lo spazio di manovra nelle aree di
confine porose ed elastiche, nella necessità di percorrere, evitare e
gestire la violenza.
Nelle pratiche quotidiane, i soggetti e i gruppi sociali si muovono
all’interno di quell’interstizio che il principio dentro/fuori riduce a
esile barra, lo dilatano rizomaticamente, in protuberanze e amorfismi
porosi, con ramificazioni transnazionali e travalicazioni intime. Ciò
non significa che vi sia confusione fra queste serie di luoghi/soggetti,
ma che semplicemente si creino forme di travaso, passaggi, contaminazioni e trans-formazioni attivate dalla violenza. La dinamicità, la
volontà strategica e il carattere relazionale di ognuno di questi luoghi
slabbrano continuamente i confini in giochi e strategie di sottrazioni e
appropriazioni geo-simboliche reciproche mai complete. Non sembra
esserci in nessun momento corrispondenza totale né separatezza totale,
ma legami metaforici e metonimici, che ammettono sostituzioni e
condensazioni (Deleuze 1973).
Malighetti. La violenza, le strategie della tensione da essa innescate e il loro uso strumentale sono divenute centrali in tutte le società,
egemonizzando i discorsi politici. Conflitti regionali “a bassa intensità”, belligeranza che si definisce etnica o religiosa, terrorismo e violenza
di stato, scontri fra bande nelle metropoli occidentali, violenza mafiosa,
forme di macro e micro criminalità che penetrano all’interno della
famiglia, crimini di pace (Basaglia, Ongaro Basaglia 1975; SheperHughes 1997), superano le facili dicotomie ordinatrici e attraversano i
confini fra guerra e non guerra, così come fra normalità ed emergenza,
fra centro e periferia. Tale superamento possiede risvolti generativi e
innovativi che la vita della favela può efficacemente rivelare.
Lazzarino. Come suggerisce Mbembe in relazione alle figure so-
I quaderni del CREAM , 2010, X
50
vrane della modernità, “l’uso strumentale dell’esistenza umana e la
distruzione materiale delle popolazioni e dei corpi” costituisce un
nomos della politica attuale. Questo scenario, esattamente come nelle
favelas – e nell’etnografia della violenza – invita a non assumere la
“ragione” come “verità del soggetto”, ma a “guardare ad altre fondamentali categorie che sono meno astratte e più palpabili: come la vita e
la morte” (Mbembe 2003, p. 51), oppure, aggiungo, a prendere atto che
le categorie astratte, le strutture, si sciolgono nelle appropriazioni e nei
rimescolamenti delle relazioni sociali e dei processi di soggettivazione
empirici che agiscono i valori, le credenze e le appartenenze.
Malighetti. Vorrei concludere riconoscendo la centralità delle favelas
non solo attraverso la violenza. La loro importanza emerge anche nelle
proposte di modelli per pensare le forme di integrazione al di là delle
tecniche di governamentalità statale e delle pratiche di “normazione”
del narcotraffico. Da un lato le realtà dei favelados invitano ad analizzare la cittadinanza non astrattamente ma come spazio vissuto
(Holson, Appadurai 1996) e processo dialogico (Grillo, Pratt 2002) e
quindi attraverso la considerazione delle dinamiche di inclusione ed
esclusione inscritte nelle vite dei soggetti e luoghi in cui i diritti
vengono negoziati, realizzati o negati. Dall’altro, laboratori di forme
di umanità e di produzione culturale, come lo stesso CCAP, interpretano le possibilità aperte ai punti di vista degli esclusi per costruire
visioni e pratiche innovative, per pensare e realizzare le economie, per
trattare i bisogni fondamentali, per formare gruppi sociali. Riannodando i fili di una storia interrotta dalla schiavitù, dalla modernizzazione,
dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione selvaggia, cercano di
superare i fallimentari approcci assistenzialistici, i pericolosi interventi
emergenziali e le compassionevoli azioni umanitarie, a favore di iniziative integrate e multisettoriali fondate sul protagonismo e le
potenzialità alternative delle risorse umane locali. Si adoperano per
stimolare un processo endogeno di cambiamento e di far interagire la
popolazione della favela con differenti istituzioni della società civile
nazionale e internazionale e a mobilitare le istituzioni. Come nel caso
del CCAP, finalizzano le attività a mostrare il potenziale delle iniziative popolari alternative alle politiche neoliberiste. Educano i favela-
I quaderni del CREAM , 2010, X
51
dos alla cultura del diritto e della cittadinanza, tentando di sottrarne il
monopolio al narcotraffico e agli abusi della Polizia, e di realizzare
azioni di responsabilità civile contro lo Stato per obbligarlo a mettere
in pratica i principi costituzionali (Malighetti 2005, pp. 26-34). Rifiutano la propria fondazione in termini dicotomici ed essenzializzanti ed
esibiscono la complessità e la dinamicità della loro esperienza nelle
pratiche della vita quotidiana, sottratte a una singola logica di margine
ed articolate in arene in continua effervescenza in cui differenti visioni
del mondo, interessi e poteri si collegano e si contrappongono
(Appadurai 1996; Clifford 1997; Amselle 2001).
Bibliografia
Agamben, G., 1995, Homo Sacer I. Il potere sovrano e la vita nuda, Torino,
Einaudi.
Agamben, G., 2003, Stato di eccezione, Homo Sacer II, Torino, Bollati Boringhieri.
Amselle, J. L., 2001, Branchements. Anthropologie de l'universalité des cultures,
Paris, Flammarion; trad. it. 2001, Connessioni Antropologia dell'universalità delle
culture, Torino, Bollati Boringhieri.
Anderson, B., 1983, Imagined Communities. Reflections on the Origins and Spread
of Nationalism, London, Verso; trad. it. 1996¸ Comunità immaginate, Roma, Il
Manifesto libri.
Appadurai, A., 1996, Modernity at Large. Cultural Dimensions of Globalization,
Minneapolis-London, University of Minnesota Press; trad. it. 2001 Modernità in
polvere, Roma, Meltemi.
Appadurai, A., 1998, Dead Certainty. Ethnic Violence in the Era of Globalization,
“Public Culture”, n.10, 2, pp. 225-247.
Appadurai, A., 2005, Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione, Roma, Meltemi.
Avruch, K., 2001, Notes Toward Ethographies of Conflict and Violence, “Journal
of Contemporary Ethnography”, 30,5, pp. 637-648.
Baierl, L. F., 2004, Medo social: da violência visível ao invisível da violência. São
Paulo, Editora Cortez.
Barthes, R., 1957, Mythologies, Paris, Seuil; trad. it 1966, Miti d’oggi, Milano,
Lerici.
Basaglia, F., Ongaro Basaglia F., 1975, Crimini di Pace, Torino, Einaudi.
I quaderni del CREAM , 2010, X
52
Beneduce, R., 2008, Introduzione. Etnografie della violenza, “Antropologia”, n. 910, pp.5-47.
Benjamin, W., 1955, Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkamp, Verlag; trad. it.
1995, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi.
Borutti, S., ( a cura), 2007, Modelli per le scienze umane. Antropologia, scienze
cognitive, sistemi complessi, Torino, Trauben, pp. 91-106.
Bourgois, P., 2001, The Power of Violence in War and Peace, “Ethnography”,
2,1,pp. 5-34.
Bourgois, P., 2008, Sofferenza e vulnerabilità socialmente strutturate. Tossicodipendenti senzatetto negli Stati Uniti, “Antropologia”, n. 9-10, pp. 113-135.
Clastres, P., 1997, Archeologie de la violence, Paris, Edition de l’Aube; trad. it.
1998, Archeologia della violenza, Roma, Meltemi.
Clifford, J., Marcus, G. E., (a cura), 1986, Writing Culture, The Poetics and Politics
of of Ethnography, Berkley, University of California Press; trad. it. 1996, Scrivere
le culture, Roma, Meltemi.
Clifford, J., 1997, Routes, Harvard, Harvard University Press; trad. it. 2001, Strade,
Torino, Bollati Boringhieri.
Crapanzano, V., 1986, Il dilemma di Ermes in J. Clifford, G. E. Marcus, (a cura),
Writing Culture, The Poetics and Politics of Ethnography, Berkley University of
California Press; trad. it. 1996, Scrivere le culture, Meltemi, Roma, pp. 89-118.
Brasil Bueno, L., Campos, E., Madureira Santos, J. L., Monteiro Soares, F. L.,
Moura Lima, C., Oliveira, M., Soares, D., Souza, R., 2010, Território de Exceção
enquanto Limite e Possibilidade para a Gestão Democrática em Favelas da Cidade
do Rio de Janeiro, in C. Moura Lima, L. Brasil Bueno, Território, Partecipaçao
Popular e Saúde: Manguinhois em debate, Rio de Janeiro, Fundação Oswaldo
Cruz, pp. 37-50.
Daniel, V. E., 1996, Charred Lullabies: Chapters in an Anthropology of Violence,
University of Chicago Press, Princeton.
Defert, D., 1996, La violence entre pouvoirs et interprétations dans le ouvres de
Michel Foucault in F. Héritier, De la violence, Paris, Ed. Odile Jacob, pp. 89-121;
trad. it. 2005 La violenza tra poteri e interpretazioni nelle opere di Michel
Foucault, in F. Héritier, a cura, Sulla violenza, Roma, Meltemi, pp. 72-98.
Dei, F., 2005, Descrivere, interpretare, testimoniare la violenza, in id., (a cura),
Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, pp. 7-75.
Deleuze, G., 1973, À quoi reconnaît-on le structuralisme?, in Histoire de la
philosophie, Idées, Doctrines, vol. 8 - Le XXe siècle, Parigi, Hachette, pp. 299-335;
trad. it. 2001, Lo strutturalismo, Milano, Rizzoli.
Deleuze, G., Guattari, F., 1980, Mille Plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris,
Edition de Minuit; trad. it. 1987, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Roma,
I quaderni del CREAM , 2010, X
53
istituto della Enciclopedia Italiana.
Derrida, J., 1964, Violence et métaphysique. Essai sur la pensée d’Emmanuel
Levinas, “Revue de Métaphysique et de Morale”, vol. LXIX, 3 e 4, pp. 322-354 e
425-473; trad. it. 1982, “Violenza e Metafisica” in La scrittura e la differenza,
Torino, Einaudi, pp. 99-198.
Desjarlais, R., Kleinman, A., 1994, Violence and Demoralization in the New World
Disorder, “Anthropology Today”, n. 10, 5, pp.9-12.
Dowdney, D., 2003, A criança do trafico, Rio de Janiero, 7 Letras.
Erikson, E. H., 1966, Ontogeny of ritualization in man, London, Philos. Trans Roy.
Soc. n. 251.
Farmer, P., 2003, Pathologies of Power. Health, Human Rights and the New War
on the Poor, Berkeley, University of California Press.
Feldman, A., 1991, Formations of Violence: The Narrative of the Body and
Political Terror in Northern Ireland, Chicago, University of Chicago Press.
Foucault, M., 1976, La volonté de savoir, Paris, Gallimard; trad. it. La volontà di
sapere, Milano, Feltrinelli.
Gadamer, H.G., Wahreit un Methode, Tubingen, J.C.B. Mohr, 1965, trad.it. Verità
e metodo, Milano, Bompiani, 1987.
Geertz, C., 1983, Local Knowledge, New York, Basic Books; trad. it. 1988,
Antropologia Interpretativa, Bologna, Il Mulino.
Gourevitch, P., 1998, We wish to inform you that tmorrow we will be killed with
our families: Storie from Rwanda, New York, Farrar, Status and Giroux; trad. it.
2000, Desideriamo informarla che domani, Torino, Einaudi.
Grillo, R., Pratt, J., 2002, The Politics of Recognizing Difference: Multiculturtalism
Italian-Style, Farnham, Ashgate Publishing; trad. it. 2006, Le politiche del
riconoscimento delle differenze: multiculturalismo all'italiana, Rimini, Guaraldi.
Hastrup, K., 1993, The Native Voice and the Anthropological Vision, in “Social
Anthropology”, n.1, 2, pp. 173-186.
Hayden, R. M., Imagined communities and real victims, Self-determination and
ethnich cleansing in Yugoslávia, “American Anthropologist”, 23, 4, pp. 783-801;
trad. it. 2005, Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia
etnica in Iugoslavia, in F. Dei, (a cura), Antropologia della violenza, Roma,
Meltemi, pp. 145-182.
Héritier, F., 1996, De la violence, Paris, Ed. Odile Jacob; trad. it. 2005, Sulla
violenza, Roma, Meltemi.
Herzfeld, M., 1997, Cultural Intimacy: social poetics in the Nation-State, New
York, Routledge; trad. it. 2003, Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo,
Napoli, L’Ancora del Mediterraneo.
Holson, J., Appadurai, A., 1996, Cities and Citizenship, “Public Culture”, n. 8, pp.
I quaderni del CREAM , 2010, X
54
187-204.
Lévi-Strauss, C., 1962, Le totémisme aujourd'hui, Paris, Presses Universitaires de
France; trad. it. 1964, Il totemismo oggi, Milano, Feltrinelli.
Mahmood, C. K., 1996, Fight for Faith and Nation: Dialogues with Sikh Militants,
Philadelphia, University of Pennsylvenia Press.
Mahmood, C. K., 2001, Terrorism, Myth and the Power of Ethnographic Praxis,
“Journal of Contemporary Ethnography” 30, 5, pp. 520-545
Malighetti, R., 2004, Il Quilombo di Frechal. Identità e lavoro sul campo in una
comunità di discendenti di schiavi, Milano, Raffaello Cortina Editore.
Malighetti, R., 2005, Fine dello sviluppo: emergenza o decrescita, in id., a cura,
Oltre lo sviluppo. Le prospettive dell’antropologia, Roma, Meltemi, pp. 7-49.
Malighetti, R., 2007, Temporalità etnografiche: autorità autorizzazione autore, in
S. Borutti,(a cura), Modelli per le scienze umane. Antropologia, scienze cognitive,
sistemi complessi, Torino, Trauben, pp. 91-106.
Malighetti, R., 2008, Clifford Geertz. Il lavoro dell’antropologo, Torino, Utet.
Malighetti, R., 2009, Politiche multiculturali e regimi di cittadinanza, “Foedus”,n.
24, pp. 37-58
Malkki, L. H., 1995, Purity and Exile: Violence, memory and National Cosmology
among Hutu refugees in Tanzania, Chicago, University of ChicagoPress.
Martins, J., 2002, A sociedade vista do abismo: novos estudos sobre exclusão,
pobreza e classes sociais. Petrópolis, Ed. Vozes.
Marx, C., 1867, Das Kapital: kritik der politishen ekonomie, Berlin, Dietz; trad.it.
1967, Il capitale, Vol. 1 (2), Roma, Editori Riuniti.
Mbembe, A., 2003, Necropolitics, “Public Culture”, 15,1, pp. 11-40; trad. it. 2008,
Necropolitiche, “Antropologia”, n. 9-10, pp. 49-82.
Nordstrom, C., 1997, A different Kind of World Story, Philadelphia, University of
Pennsylvania Press.
Pandolfi, M., 2005, “Sovranità mobile e derive umanitarie: emergenza, urgenza,
ingerenza” in R. Malighetti, (a cura), Oltre lo sviluppo. Le prospettive
dell’antropologia, Roma, Meltemi, pp. 151-185.
Pratt, M. L., Fieldwork in common places, in Clifford e Marcus, 1986, pp. 27-50;
trad. it. 1998, Ricerca sul campo in luoghi familiari, in J. Clifford, G. E. Marcus, (a
cura), Scrivere le culture, Roma, Meltemi, pp. 33-80.
Rahola, F., 2003, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in
eccesso, Verona, Ombre Corte.
Remotti, F., 1995, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza.
Ricoeur, P., 1965, De l'interprétation. Essai sur Freud, Paris, Seuil; trad. it. 1966,
Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Milano, Il Saggiatore.
Robben, A., 1995, The Politics of Truth and Emotion Among Victims and
I quaderni del CREAM , 2010, X
55
Perpetrators of Violence in C. Nodstrom, A. Robben, (a cura), Fieldwork under
Fire. Contemporary Studies of Violence and Surviva, Berkley, University oif
California Press.
Scheper-Hughes, N., 1997, “Peace-Time Crimes”, “Social Identities”, n. 3, pp.
471-497.
Scheper-Hughes, N., 2002 Coming to our sense: anthropology and genocide in A.
L. Hinton, (a cura), Annihilating difference. The anthropology of genocide,
Berkeley, University of California Press, pp. 348-381; trad. it. 2005, Questioni di
coscienza. Antropologia e genocidio, in F. Dei, (a cura), Antropologia della
violenza, Roma, Meltemi, pp. 247-302.
Scheper-Hughes N., Bourgois P., (a cura), 2004, Violence in War and Peace. An
Anthropology, Oxford, Blackwell.
Schmitt, C., 1921, Die Diktatur, Munchen, Duncker e Humbkot; trad. it. 1975, La
dittaura, Roma-Bari, Laterza.
Sluka, J. A., 1989, Hearths and Minds, Water and Fish. Popular Support for the
IRA and INLA in a Northern Irish Ghetto, Greenwich, JAI Press.
Soares, D., Brasil Bueno, L., Campos, E., Madureira Santos, J. L., Monteiro Soares,
F. L., Moura Lima, C., Oliveira, M., Souza, R., 2010, Análise Crítica do Diagnóstico do Plano de Desenvolvimento Urbanístico do Complexo de Manguinhos
in C. Moura Lima, L. Brasil Bueno L., Território, Partecipaçao Popular e Saúde:
Manguinhois em debate, Rio de Janeiro, Fundação Oswaldo Cruz, pp. 17-36.
Souza, M. L., 1995, O narcotráfico no Rio de Janeiro, sua territorialidade e a
dialética entre ordem e demorde, “Cadernos de Geociências”, n. 13, pp. 161-171.
Souza, M. L., 2008, Fobópole: o medo generalizado e a militarização da questão
urbana, Rio de Janeiro, Bertrand Brasil.
Spivak, G., 1999, A Critique of Post-Colonuial Reason. Towards a History of the
Vanishing Present, Harvard, Harvard University Press; trad. it. 2004, Critica della
ragione postcoloniale, Roma, Meltemi.
Tambiah, S. J., 1996, Leveling Crowds: Ethnonationalist Conflicts and Collective
Violence in South Asia, Berkley, University of California Press.
Taussig, M., 1984, Culture of Terror–Space of Death: Roger Casament’s Putumayo
Report and the Explanation of Torture, “Comparative Studies in Society and
History”, n. 26, pp. 467-497; trad. it. 2005, Cultura del terrore, spazio della morte,
in F. Dei, (a cura), Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, pp. 77-123.
Taussig, M., 1989, Terror as Usual: Walter Benjamin’s Theory of History as a
State of Siege, “Social Text”, n. 23, pp. 3-20.
Tedlock, B., 1991, From Partecipant Observation to the Observation of
Participation, “Journal of Anthropological Research”, n. 47, pp.69-94.
Torres Ribeiro, A. C., 2000, Outros territórios, outros mapas, “OSAL”, n.16, pp.
I quaderni del CREAM , 2010, X
56
13-27
Vargas, C., 2008, La quotidianità e la guerra. Violenza statale e parastatale nel
conflitto colombiano, “Antropologia”, n. 9-10, pp. 215-235.
Wacquant, L., 1992, Décivilisation et démonisation; lamutation du ghetto noir
américain, in C. Fauré, T. Bishop,(a cura), L’Amerique des français, Paris, Edition
François Bourin, pp. 103-125; trad. it 2008, Decivilizzazione e demonizzazione. Il
rifacimento del ghetto nero in America, “Antropologia”, n. 9-10 (2008), pp. 83-112.
Zaluar, A., 1995, O Medo e os Movimentos Sociais, “FASE”, n.66, pp.24-32.
I quaderni del CREAM , 2010, X
57
SERGIO F. FERRETTI
1
RELIGIÕES DE MATRIZES AFRICANAS NO MARANHÃO
Denominação, difusão, estudos
O Estado do Maranhão está situado entre as regiões Norte e o
Nordeste do Brasil. Sua capital São Luís localiza-se próximo à linha
do Equador. No período Colonial fazia parte do Estado do Grão Pará e
Maranhão, unido diretamente a Portugal e esteve separado do Estado
do Brasil até quase a época da independência, em inícios do séc. XIX.
Por sua localização geográfica, até hoje o Maranhão mantém certo
isolamento em relação ao resto do país o que contribui para sua grande
diversidade cultural. O tráfico de escravos foi intenso entre meados do
séc. XVIII e no séc. XIX e hoje cerca de 70% da população é composta de afro-descendentes negros e mestiços.
A principal tradição religiosa afro-brasileira no Maranhão denomina-se Tambor de Mina. O termo tambor deriva da importância do
instrumento no culto e Mina do forte de El Mina, ou São Jorge da
Mina, antigo empório de escravos fundado por portugueses na costa
da África, por onde foram trazidos numerosos escravos para o Brasil e
para a Amazônia.
O Tambor de Mina se difundiu a partir de S. Luís pelo Maranhão e
por grande parte da Amazônia. Em muitos locais se cruzou com outras
manifestações religiosas e recebeu denominações específicas como
Terecô, no interior do Maranhão, ou Babassuê, no Pará, que possuem
1
Dr. em Antropologia, Professor da Universidade Federal do Maranhão
I quaderni del CREAM , 2010, X
59
especificidades locais. Na segunda metade do séc. XX se difundiu
com a ida de maranhenses para o Rio de Janeiro, S. Paulo, Brasília e
outros locais.
As tradições religiosas afro-brasileiras no Maranhão e o Tambor de
Mina, começaram a ser estudados somente em fins da década de 1930
após a passagem pos São Luís da Missão de Pesquisas Folclóricas
organizada por Mário de Andrade em 1938, mas foram pouco
analisadas até fins da década de 1970, quando haviam sido publicados
apenas dois estudos clássicos, pouco divulgados: o de Nunes Pereira e
o de Octávio da Costa Eduardo, (publicado em Nova York em 1948 e
até hoje não traduzido). Pierre Verger e Roger Bastide passaram
alguns dias no Maranhão e Bastide (1971; 1974) divulgou os poucos
estudos realizados até então.
Em fins da década de 1970 foi publicado pequeno trabalho de
Maria Amália Pereira Barreto (1977) e apenas a partir de meados da
década de 1980 é que começaram a ser publicados resultados de novas
pesquisas de Sergio Ferretti (1995; 1996), Mundicarmo Ferretti (1993;
2004) e de Rosário Carvalho (Santos e Santos Neto (1986). Nas
décadas de 1990 e na atual foram realizadas outras pesquisas, sobretudo por pesquisadores de fora que ainda são pouco divulgadas, como
a do norte-americano Daniel Halperin (1992; 1995), do belga Didier
de Laveleye (2002), do espanhol Nicolau Parès (1997), do carioca
Gustavo Pacheco (2004) e do beninense Hippolyte Brice Sogbossi
(2004), abordando diferentes aspectos das religiões afro-maranhenses.
Assim as religiões de origens africanas no Maranhão até hoje são mais
conhecidas por alguns especialistas, sendo ainda pouco divulgadas no
Brasil e mesmo no Maranhão.
Grupos de origem
Como outras religiões afro-brasileiras o Tambor de Mina se origina
de nações ou grupos étnicos distintos que deram origens a diversos
sistemas rituais. Diferentes grupos étnicos africanos vieram para a
Amazônia e para outras regiões do país. Para o Maranhão, (Costa
I quaderni del CREAM , 2010, X
60
Eduardo 1948: 7), sobretudo do Congo e de Angola, de várias etnias
entre os quais se destacam os Angico, Bengela, Cabinda, Cassange, do
Senegal, os Mandinga, Cacheo, Felupe, Bijago, Balanta, Nalu, Manjaro.
Também vieram negros da região da Costa dos Escravos, Mina, Jeje,
Nagô, Tapa e outros. Estas etnias estão entre as que são mais lembradas ainda hoje entre os antepassados de membros de algumas casas de
culto afro. Os Nagô e os Jeje são os únicos que foram mais conhecidos
e estudados no Maranhão, por terem deixado casas de culto em
funcionamento até os dias atuais.
Os Jeje do Maranhão procedem, sobretudo de Abomey, bem como
de Savalu e de Aladanu. Existe apenas uma casa de culto jeje no
Maranhão, a Casa Grande das Minas, ou Casa das Minas Jeje, ou
Querebentã de Zomadonu, que não possui casas filiadas e é
razoavelmente conhecida na literatura etnográfica. Foi o terreiro mais
estudado no Maranhão até hoje, possui grande prestígio, mas se
encontra em longa fase, quase secular, de declínio do número de
participantes e de rituais. A Casa das Minas parece ter sido o primeiro
terreiro que se implantou em São Luís, provavelmente na década de
1840 e a nosso ver foi quem criou o estilo do tambor de mina do
Maranhão, onde tradicionalmente só as mulheres entram em transe,
recebem e dançam com as entidades. Foi fundada pela rainha africana
Nã Agontimé, segundo Verger (1990), que veio para ajudar os escravos
a se libertarem da escravidão. É uma casa única e não possui filiais.
Os Nagô fundaram a Casa de Nagô, hoje também em declínio e da
qual derivaram a maioria dos terreiros de tambor de mina atuais.
Afirma-se que a Casa de Nagô (Nina Rodrigues 1977) descende dos
Nagô de Abeukutá, com influências dos Tapa e de outras procedências. O culto Nagô do Maranhão é diferente do Nagô de Ketu e de
outras procedências, muito conhecido no candomblé da Bahia e em
todo o Brasil. As entidades africanas cultuadas são mais conhecidas
como vodum do que como orixá e diversos voduns jeje são cultuados
junto com orixás Nagô.
A Cura ou Pajelança, de origem ameríndia, que cultua entidades
chamadas da água doce, está presente especialmente em algumas
regiões do Estado. Na capital diversos pais ou mães-de-santo do
I quaderni del CREAM , 2010, X
61
Tambor de Mina começaram como pajés e realizam periodicamente
rituais de Pajelança em seus terreiros. A Umbanda se implantou no
Maranhão a partir da década de 1950, quando pais-de-santo da mina
se transferiram temporariamente para o Sul e se diz que no Maranhão,
muitos terreiros de umbanda são cruzados com a mina. O candomblé
se difundiu no Maranhão a partir da década de 1980, algumas casas
seguem modelo de culto derivado da Bahia e existem terreiros de mina
que recebem influências do candomblé, principalmente na paramentação dos orixás e nos ritos de iniciação.
Entidades cultuadas
As entidades cultuadas no Tambor de Mina são muito numerosas e
variam com a linha e as casas.
Na Casa das Minas só são cultuados voduns sendo conhecidos
cerca de 45 e lembradas cerca de 15 tobossis que deixaram de ser
recebidas desde fins da década de 1960 com a morte das ultimas
iniciadas com esta categoria de entidades. Os voduns são entidades
espirituais que podem ser homens, mulheres, adultos, velhos e jovens
ou crianças. A maioria são homens, enquanto as vodunsis que os
recebem são exclusivamente mulheres. Os voduns se agrupam em
famílias, a saber: Família Real (de Davice), a Família de Quevioçô
(Nagô), cujos voduns são hóspedes e são mudos e a Família de
Dambirá (de Odam), os voduns da terra, que tratam das doenças de
pele. Há ainda duas famílias menores que são hóspedes, a de Savalunu
e a de Aladanu. Os voduns da Família Real se subdividem em dois
clãs: o de Zomadonu, o dono da Casa e a família de Dadarrô, o rei
mais velho. Nos outros terreiros de Tambor de Mina em geral as
entidades caboclas costumam também ser organizadas em famílias
como os voduns da Casa das Minas2
2 Na família de Davice os voduns mais conhecidos são: Toi Zomadonu, Toi Dadarro,
Toi Doçu, Toi Bedigá Nochê Sepazin e outros. Na família de Quevioçô estão os
voduns Nagô e muitos têm correspondência com os orixás do candomblé e entre eles
se destacam: Toi Quevioçô ou Badé Quevioçô (Xangô), Toi Liça, Toi Lôco, Toi
I quaderni del CREAM , 2010, X
62
As tobossis são entidades femininas infantis que eram recebidas
pelas vodunsi-gonjaí, que haviam se submetido a todos os rituais de
iniciação, o último dos quais foi realizado na Casa das Minas em
1913/14 e estas entidades vieram até fins da década de 1960, quando
faleceram as últimas gonjaís, não tendo sido realizados outros barcos
posteriores. Elas ainda são muito lembradas. Vinham em dias de festas
especiais, no fim do ano, no Carnaval e em São João e ficavam vários
dias em terra. Usavam roupas próprias, falavam em língua diferente,
davam nomes africanos às vodunsis, brincavam com bonecas e
comiam comidas especiais. Em outros terreiros de mina, especialmente na época do Carnaval, costumam ser recebidas entidades
feminina infantis denominadas de Senhoras ou Princesas que são
consideradas como tendo características semelhantes às tobossis jeje.
Na Casa de Nagô e em outros terreiros de mina Nagô, são recebidas diversas entidades entre voduns, orixá e caboclos. Vêm alguns
voduns como Xapanã, Eowá. Averequete, Badé ou Xangô, o dono da
Casa, Iemanjá, Iansã, Ogum, Oxossi, Nana, Xadatã, Vondereji e
outros. Muitos voduns são nobres ou gentis e têm nomes em português3. Na Casa de Nagô também são recebidas diversas entidades
caboclas4. Além destas entidades muitas outras são recebidas em
terreiros diversos do Maranhão5. Verificamos, portanto que há numeAverequete, Nochê Sobô (Iansã), Nochê Abe (Iemanjá) e outros. Na família da
Dambirá encontram-se os voduns: Toi Acossi, Toi Azili e Toi Azonce, que correspondem a Xapanã, Omolu e Obaluaé, Toi Lepon, Toi Poliboji, Nochê Boca, Toi
Boçucó, Nochê Eowá. Na família de Zavaluno: Toi Agongono e Toi Topa e na família
de Aladanu Toi Ajautó e Toi Avrejó.
3 Entre eles temos Bárbara Soeiro, D. João Soeiro, D. José Floriano, D. Luís Rei de
França, D. Pedro Angaçu, D. Miguel, Rei de Nagô, Rei do Kotelo, Rei do Junco, Rei
Sebastião, Dona Rosa de Lima, Dona Servana, Zezinho, Flor do Dia, Bossa Meméia,
Princesa Luzia e outros.
4 Como: Baiano, Caboclo da Bandeira, Caboclo Nobre. Caboclo Velho, Chica Baiana,
Corre Beirada, Guerreiro, João de Uma, João do Leme, Luizinho, Mariana, Preto Velho,
Sebastiãozinho, Surrupira, Tabajara, Tapindaré, Tupinambá e muitos outros.
5 Tais como entre outros: Rei dos Mestres, Dantã, Mãe Maria, Obaíla, Vó-Missã,
Caboclo Constantino, Frecheiro, Guarim, Ita, Guerreiro, Navalheiro, Mensageiro de
Roma, Pedrinho, Pombo do Ar, Príncipe Oliveiros, Rei Surrupira, Tombasse, Ubiratã,
Légua Boji Buá, Dona Douro, Floripes, Guerreiro de Alexandria, Guapindaia,
I quaderni del CREAM , 2010, X
63
rosas entidades recebidas nos diversos terreiros de Tambor de Mina,
muitas das quais também são cultuadas em terreiros de Umbanda.
Muitas estão organizadas em famílias e as principais são a família da
Turquia, de Dom Sebastião, de Gama, da Bandeira, de Codó, de João
de Lima e outras.
A família da Turquia inclui entidades que se encantaram na mina e
entre os quais muitos nomes aparecem na História de Carlos Magno e
os Doze Pares de França, amplamente difundida no imaginário ibérico
e brasileiro6. Outras entidades desta família têm nomes portugueses ou
indígenas7. Uma família muito interessante é a de Dom Sebastião,
inspirada no sebastianismo, outra das fontes do imaginário religioso
popular do Nordeste, muito difundido no Maranhão, onde se propagou
a lenda de que o rei se encantou nas areais da Praia dos Lençóis e
aparece como um touro com uma estrela de ouro na testa. Entre as
entidades desta família destacam-se Dom Sebastião, José Lealdino,
Princesa Iná, Princesa Flora, Princesa Jandira, Boi Barroso e outros.
Uma das características do Tambor de Mina é a ausência de Legba
e do jogo de búzios. Legba ou Exu é considerado como equivalente ao
demônio dos cristãos e não recebe invocações nem oferendas. Na Casa
das Minas as vodunsis dizem que não cantam para Legba e que os
voduns não permitem sua presença. Da mesma forma não existe jogo
de búzios, tanto na Casa das Minas quanto na Casa de Nagô e nos
demais terreiros tradicionais do Maranhão. Na mina tradicional a
adivinhação é feita por outros métodos como a consulta aos voduns,
vela acesa no quarto dos santos, interpretação de sonhos, por sinais
durante a festa do Divino e outros. Alguns grupos mais novos,
influenciados pelo Candomblé e pela Umbanda, nos últimos trinta
anos passaram a utilizar o jogo de búzios.
Itacolomi, Menino de Lera, Rei da Turquia, Tombo do Mar.
6 Ferrabrás de Alexandria, Burlante, Aquilital, Dona Douro, Dalera, Guapindaia,
Guerreiro de Alexandria. Jariodama, Mensageiro de Roma, Princesa Doralice, Pricesa
Flora (cfr Ferretti 2000, p. 318/319).
7 Guajajara, Iracema, Jaguarema, Japetequara, João da Cruz, João da Mata, João do
Leme, João de Fama, Jupareiro, Juracema, Maresia, Mariana, Tabajara, Tapindaré,
Ubirajara, Jarioldamo (cfr Ferretti 2000, p. 318/319).
I quaderni del CREAM , 2010, X
64
Rituais e festas nos terreiros
No Tambor de Mina há grande discrição sobretudo em relação aos
rituais de iniciação. Na maioria dos terreiros a maior parte dos
participantes recebe uma iniciação preliminar, sobre a qual pouco se
fala e poucas pessoas, duas a três em cada casa, recebem iniciação
completa. A iniciação completa das vodunsis-gonjaís na Casa das
Minas Jeje durava cerca de um ano e não era destinada a todas as
vodunsis, mas deixou de ser realizada há cerca de um século. Hoje as
vodunsis da Casa jeje são iniciadas apenas como vodunsi-he. Atualmente, em grupos mais novos costuma-se proceder a rituais de
iniciação similares aos do Candomblé Nagô, com saída de iaô e
paramentação das divindades.
Nos rituais do Tambor de Mina não se usam paramentos diferentes
para cada entidade. As vodunsis usam veste semelhante, denominada
de farda, com pequenas diferenças para algumas entidades, relacionadas com sexo, idade, etc. É comum numa festa usarem blusa branca
rendada e saia colorida na mesma cor. Na Casa das Minas as vodunsis
só se paramentam quando recebem sua entidade e imediatamente
colocam uma toalha rendada na cintura ou sob os seios. Lá também as
vodunsis só dançam quando estão em transe com o vodum. Nos
demais terreiros, todas entram paramentadas e vão colocando a toalha
quando recebem sua entidade. Na Casa das Minas cada vodunsi possui
apenas um vodum. Nos demais terreiros costumam possuir pelo menos um vodum e um ou vários caboclo e recebem até duas entidades
numa festa.
Na Casa das Minas os toques utilizam três tambores (huns) de
madeira de tamanhos diferentes, com couro amarrado numa das bocas
e tocados com as mãos e baquetas. Os toques são acompanhados pelo
ferro de uma boca (gan) e por cabaças pequenas. Tanto pelos instrumentos quanto pelos cânticos em língua jeje ou fon, os toque da Casa
das Minas são muito diferentes dos demais terreiros de mina. Na Casa
de Nagô e nos outros terreiros os toques são acompanhados por dois
tambores (batás) com couro nas duas bocas, amarrados com ferro e
deitados sobre cavaletes, tocados pelos abatazeiros. São acompanha-
I quaderni del CREAM , 2010, X
65
dos pelo ferro de uma boca, por cabaças grandes e pequenas. Nos
demais terreiros em alguns toques utiliza-se também um tambor longo
inclinado chamado de tambor da mata.
No Tambor de Mina não se costuma oferecer grande número de
animais. O bode é o alimento ritual da Casa das Minas e o carneiro, da
Casa de Nagô, mas há muitos anos deixaram de ser oferecidos. Na
Casa das Minas em algumas festas costumam oferecer um casal de
aves antes e depois das festas, acompanhado de comidas africanas
como acarajé, amió, agralá, abobó e outras, preparadas ritualmente
com métodos tradicionais. Durante a festa se costuma oferecer aos
participantes, mingau, café, mesa de doces com refrigerantes e algumas vezes uma refeição. É comum que as festas se iniciem assistindose pela manhã uma missa do santo do dia e a noite, antes do início dos
toques, se canta uma ladainha, geralmente em latim, diante do altar
com imagens de santos, seguida de cânticos do catolicismo popular.
O Arrambã ou bancada é um ritual típico do Tambor de Mina. É
realizado na quarta-feira de cinzas com o oferecimento de muitas
frutas e doces colocados em bandeja sobre esteiras, sendo distribuídos
pelas entidades e recebidos por todos os presentes. Trata-se de um
pedido de fartura, especialmente para o período da Quaresma, quando
não são realizados toques nos terreiros de Mina. O tambor de choro é
o ritual fúnebre que pode ser de corpo presente (zelim na Casa das
Minas) ou de corpo ausente (ou sirrum na Casa das Minas). É
realizado com toque de tambores, com as vodunsis cantando sentadas
em bancos ou esteiras enquanto se quebra lentamente um pote numa
bacia com água em que se joga areia, na qual se colocam moedas.
Na Casadas Minas o ano litúrgico começa com a festa de Santa
Bárbara no dia 4 de dezembro e as demais festas seguem o calendário
dos santos da Igreja, sendo comemorados principalmente no dia de
Reis, de São Sebastião, de São João, de São Benedito e de Cosme e
Damião. Além das festas específicas dedicadas aos voduns nos dias
dos santos de que são devotos, o Tambor de Mina se caracteriza pela
presença de diversas festas da cultura popular. Normalmente uma
entidade importante da casa aprecia e pede que lhe seja oferecido
determinadas festas em sua homenagem. Os participantes do Tambor
I quaderni del CREAM , 2010, X
66
de Mina pertencem à mesma classe social dos que organizam as
manifestações da cultura popular e muitas brincadeiras prestam homenagens a entidades dos terreiros que consideram como seu padrinho
ou protetor.
Uma das festas mais importantes é a Festa do Divino que é
realizada em quase todos os terreiros de Mina. Na Casa das Minas, na
Casa de Nagô e em algumas outras esta festa é organizada no domingo
de Pentecostes e tem vários dias de duração. É uma festa que atrai
muitos visitantes aos terreiros e atualmente tem recebido ajuda governamental com a perspectiva de incentivo ao turismo. Ao longo do ano
vão sendo realizadas festas do Divino em datas importantes nos
demais terreiros como no dia de Sant’Ana, no dia de São Luís, etc.
Outra característica desta festa é o toque de caixas por senhoras ou
caixeiras que entoam cânticos e toques em diversos momentos
importantes da festa. Normalmente o império do Divino é representado por crianças paramentadas e se oferecem refeições e belas
mesas de doces aos participantes. A festa do Divino que é um ritual do
catolicismo popular de origem portuguesa muito difundido no Brasil,
em São Luís é realizado e assumido principalmente pelos grupos de
tambor de mina.
O Bumba-meu-boi que é a festa da cultura popular mais difundida
no Maranhão também está presente na maioria dos terreiros de
Tambor de Mina e de Umbanda de São Luís. Muitas casas realizam
um ritual de batismo e outro de morte do boi ocasião em que se
oferecem alimentos aos participantes. Estas festas costumam ser
seguidas por toques de tambores. O boi ou boizinho de encantado está
assim presente em quase todos os terreiros de mina e de umbanda e
em muitas casas é oferecido em homenagem ao Rei Dom Sebastião,
que é recebido em transe, as vezes sob a forma de um touro, de acordo
com a lenda de que o Rei Dom Sebastião se encantou num touro que
mora na Ilha dos Lençóis. Mas em muitos terreiros o boi é oferecido
em homenagem a outras entidades.
Outra festa da cultura popular presente nos terreiros é o Tambor de
Crioula, oferecido a entidades diversas que apreciam esta brincadeira.
Muitos terreiros oferecem no dia 13 de Maio ou para outras entidades
I quaderni del CREAM , 2010, X
67
em datas variadas. Também é comum grupos de Tambor de Crioula,
de Bumba-meu-boi, de dança portuguesa, quadrilhas e de outras
brincadeiras, irem se apresentar em terreiros em homenagem a determinadas entidades espirituais.
Políticas culturais em relação às religiões afro-brasileiras
O Maranhão, como outras regiões do país, pretendeu ser branco e
europeizado, assim as religiões de origens africanas foram vistas como
superstição e atraso e em muitos momentos perseguidas pela polícia,
sobretudo até a primeira metade do séc. XX. Durante o Estado Novo
(1937/1945) os terreiros de mina foram proibidos de se instalar no
centro urbano tendo sido transferidos para a zona suburbana e rural.
Em São Luis somente a Casa das Minas e a Casa de Nagô, em função
de alianças conseguidas pelo povo-de-santo foram permitidas de permanecerem no local de origem.
Na década de 1940 (Barros 2007), começaram a surgir na imprensa
local artigos de intelectuais maranhenses valorizando as tradições afro
e a cultura popular, como fonte das origens culturais do Estado,
enquanto permaneciam as proibições e reclamações na imprensa
contra o fetichismo e o atraso destas práticas. Nas décadas de 1950 e
1960 estas tradições passaram a ser mais aceitas e começam a ser
mostradas a autoridades de passagem pela capital. A partir das
décadas de 1970 e 1980 entidades da área de cultura começam a dar
ajudas para a reconstrução dos prédios da Casa das Minas e da Casa
de Nagô em troca da doação de objetos para exposição em museus.
Em 1985, por ocasião da realização pela UNESCO em São Luís de um
colóquio internacional para o estudo de religiões de origens africanas
nas Américas, a Casa de Nagô foi tombada pelo Estado. Só em 1988,
nas comemorações do centenário da abolição da escravidão, foi
suspensa a obrigatoriedade da solicitação de licença à polícia para a
realização de atividades nos terreiros de culto afro.
A partir de meados da década de 1990, em função do interesse
cultural e do turismo, passaram a ser concedidas ajudas de órgãos de
I quaderni del CREAM , 2010, X
68
cultura para a realização de festividades nos terreiros como a festa do
Divino, o arrambã e comemorações do Natal. Em 1999 São Luís foi
tombada pela UNESCO como patrimônio cultural da humanidade e se
intensificou o interesse pelo turismo e pelas tradições da cultura
popular. Em 2003 a Casa das Minas foi o terceiro terreiro de culto
afro-brasileiro tombado como patrimônio nacional pelo Instituto do
Patrimônio Histórico e Artístico Nacional (IPHAN), após a Casa
Branca e o Opô Afonjá de Salvador. Em fins de 2007 o prédio da Casa
das Minas foi restaurado pelo IPHAN e atualmente se apresenta em
boas condições. A Casa de Nagô, como dissemos acima, desde 1985
foi tombada pelo Governo do Estado em reconhecimento por sua
contribuição à formação da identidade cultural maranhense, o que
fortaleceu o reconhecimento do Tambor de Minas como bem cultural.
Atualmente a Casa das Minas, a Casa de Nagô e alguns outros
terreiros de mina costumam ser incluídos nos roteiros turísticos na
perspectiva do desenvolvimento de um turismo cultural.
Outras manifestações culturais de origens africanas nos últimos
anos têm sido valorizadas pelas autoridades locais e federais. A dança
do Tambor de Crioula, em 2007 foi reconhecida pelo IPHAN como
patrimônio cultural brasileiro. Casas de culto afro e diversas manifestações da cultura popular têm despertado o interesse de estudiosos,
que têm redigido monografias, dissertações, teses e publicado livros e
artigos reconhecendo a importância da religião e da cultura popular
como patrimônio cultural.
As tradições culturais de origens africanas atualmente passam a ser
reconhecidas e valorizadas pelas autoridades, pelos meios de comunicação, pelos afro-descendentes e pela população em geral. Com o
crescimento dos movimentos negros passou a haver maior valorização
da cultura negra e os terreiros passaram a ser considerados como fator
de definição e de manutenção da identidade cultural.
Diversas casas de culto afro no Maranhão recebem grande número
de participantes, algumas chegam a ter mais de meia centena de
dançantes num toque. É curioso constatar, entretanto, que as duas
casas de culto mais antigas de São Luís, fundadas por africanos e que
implantaram o tambor de mina no Maranhão se encontrem atualmente
I quaderni del CREAM , 2010, X
69
num processo acelerado de declínio do número de participantes e
conseqüentemente da realização de rituais. Estas duas casas, que são
valorizadas e reconhecidas como matrizes da tradição religiosa africanas têm atualmente cada uma, menos de meia dúzia de filhas-desanto, em geral em idade avançada.
Afirma-se que os costumes destas casas são muito rígidos, que as
entidades cultuadas são muito exigentes, que suas práticas não estão
adaptadas aos dias atuais. Suas próprias filhas em geral não estimulam
a participação de seus familiares e a entrada de novos adeptos no
culto. Lamentavelmente seus cânticos e rituais estão desaparecendo.
Alguns consideram que estejam praticando um suicídio cultural.
Constatamos assim que as casas matrizes das religiões africanas no
Maranhão encontram-se em longo período de declínio e em vidas de
rápido desaparecimento.
Sincretismo e conclusões
O Tambor de Mina é considerado como elemento de definição e de
manutenção da identidade étnica dos negros, que constituem a maior
parte de seus participantes por preservar, cânticos, ritos e outras
tradições culturais trazidas por antepassados africanos.
Constatamos que no Tambor de Mina está muito presente o sincretismo com o catolicismo popular e em muitas casas verificamos a
presença de práticas ameríndias, do espiritismo, de esoterismos em
geral, como de elementos do Candomblé, da Umbanda e de outras
procedências. De acordo com muitos autores todas as religiões são
sincréticas. É claro que as formas de sincretismo variam e precisam
ser melhor conhecidas. O sincretismo é uma característica das culturas
e das religiões e precisa ser mais conhecido e analisado.
O sincretismo está presente na sociedade brasileira desde a vinda
dos colonizadores portugueses que trouxeram tradições culturais de
procedências diversificadas, que aqui se difundiram entre diferentes
etnias ameríndias e outras procedentes do continente africano que
também vieram com o resultado de múltiplos contatos. Embora a pala-
I quaderni del CREAM , 2010, X
70
vra sincretismo provoque mal estar entre muitos e seja considerada
pejorativa, pois consideram que implica em inautenticidade ou impureza, é uma realidade que não pode ser contestada em nossa sociedade multicultural.
Talvez outros prefiram utilizar outros conceitos que considerem
mais adequados. Não temos preconceito contra o uso da palavra
sincretismo. A maioria dos praticantes do Tambor de Mina, como de
muitas outras religiões de matrizes africanas têm dupla pertença
religiosa, se considera e se afirma como católica, encarando as tradições de afro como herança e obrigação familiar, como uma sina que
muitos não gostam de legar aos seus descendentes.
Quando a mãe-de-santo de um terreiro de mina vai a missa, tira as
sandálias ao receber seu vodum e comunga na igreja, não está sendo
menos autêntica do que quando a noite recebe no terreiro uma entidade
africana e canta para ela em jeje. No dia da procissão de São Benedito,
no momento em que o andor com sua imagem é abaixado para entrar na
nave, o vodum Averequete é recebido pela vodunsi dona Celeste e
abençoa os devotos que o acompanham. Antes dos toques do tambor, na
Casa das Minas, como nos outros terreiros, se canta uma ladainha em
latim, depois na Casa Jeje se canta em jeje para os voduns e para alguns
santos católicos, pedindo bênçãos para o início dos toques.
Constatamos que as religiões de matrizes africanas constituem uma
criação afro-brasileira ocorrida na diáspora, do lado de cá do Atlântico
Negro e não existem no continente africano da forma em que se
organizaram no Brasil.
Concordamos com Stephan Palmié (2007, p. 91), da Universidade
de Chicago, ao afirmar que alguns terreiros criam ficção estratégica
legitimadora da diáspora8. Assim, pais e mães-de-santo de terreiros de
Mina mais modernos, de São Luís, de Belém ou de São Paulo,
atualmente envolvidos como o chamado movimento de reafricaniza-
8 Como a obrigação ritual dos Doze Obas de Xangô, implantada na década de 1930
pelo babalaô Martiniano do Bonfim, junto com mãe Aninha no terreiro do Axé Opô
Afonjá de Salvador, então considerada como uma antiga instituição ioruba esquecida
no Brasil e que jamais existiu na corte do Alafin de Oyo.
I quaderni del CREAM , 2010, X
71
ção, paramentam seus orixás e voduns com trajes em tecidos caros e
contas em estilo importado da Nigéria.
Sabemos que muitas vezes as pesquisas dos antropólogos contribuíram para a valorização de alguns grupos ou casas de culto consideradas como mais tradicionais e que seus trabalhos são conhecidos e
estudados por pais e filhos-de-santo. Não concordamos, entretanto
com a afirmação difundia entre alguns pesquisadores de que os africanismos encontrados nos terreiros constituem construções de intelectuais para encobrir a dominação. “idéia que levada às últimas
conseqüências retiraria aos participantes destas religiões a possibilidade de elaborar, manter e conservar suas próprias tradições, o que
vem sendo feito no Brasil há mais de um século e meio por antigas
comunidade religiosas, independentemente da colaboração de intelectuais”, como afirmamos em 1991 (Ferretti 1995, p 66-67).
Constatamos que o sincretismo não descaracteriza a tradicionalidade mesmo dos grupos mais tradicionais, como a Casa das Minas, a
Casa de Nagô e outros terreiros cujo culto é sincrético e ao mesmo
tempo muito tradicional e autêntico, conservando cânticos, rituais,
formas de comportamento, alimentos e outros costumes trazido pelos
fundadores.
O Tambor de Mina se caracteriza pela valorização dos segredos e
mistérios do culto, que não são comentados nem revelados com
facilidade. Há grupos muito resistentes a mudanças e outros que
procuram inovar, com a preocupação de resgatar tradições africanas
que foram perdidas. O Tambor de Mina constitui assim manifestação
religiosa conservada principalmente por afro-descendentes, que resiste
a interferências ou inovações. Por isso mesmo esta religião é
considerada como fator de resistência cultural e de preservação da
identidade étnica de populações negras.
As casas antigas e mais tradicionais encontram-se em longo processo de declínio, mas continuam influentes. Comentam que suas
práticas religiosas são menos adequadas aos dias atuais e aos costumes
vigentes na sociedade que se modifica com grande rapidez. Por isso
alguns consideram que estas duas Casas realizam uma espécie de
suicídio cultural, o que consideramos discutível pois não se pode
I quaderni del CREAM , 2010, X
72
prever o futuro de uma religião. Ao mesmo tempo surgem novos
terreiros que são dinâmicos e se encontram em franca expansão,
apesar da concorrência intensa com práticas religiosas de outras
procedências.
Referências
Alvarenga, O., 1948, Tambor-de-Mina e Tambor-de-crioula. Registros
sonoros do folclore musical brasileiro, São Paulo, Discoteca Pública
Municipal.
Bastide, R., 1971, As Religiões Africanas no Brasil. Contribuição a uma
sociologia da interpenetração de civilizações, São Paulo, Pioneira/Edusp,
(Orig. 1961).
Bastide, R., 1974, As Américas Negras, São Paulo, DIFEL/EDUSP.
Barreto, M. A. P., 1977, Os Voduns do Maranhão, São Luís: FUNC.
Barros, A. E. A., 2007, O Panteon Encantado. Culturas e Heranças Étnicas
na Formação de Identidade Maranhense (1937-65), Salvador, UFBA/
CEAO/PMPGEEA, Dissertação de Mestrado.
Octávio da Costa, E., 1948, The Negro in Northern Brazil: a Study in
Acculturation, New York, JJ Augustin Publisher.
Ferretti, M. M. R, 2000, Desceu na Guma. O caboclo no Tambor de Mina,
São Luís, SIOGE, EDUFMA, (Orig. 1991).
Ferretti, M. M. R, 2001, Encantaria de “Barba Soeira”. Codó, capital da
magia negra?, São Paulo, Siciliano.
Ferretti, M. M. R, 2004, Pajelança do Maranhão no Século XIX. O Processo
de Amélia Rosa, São Luís, CMF/Fapema.
Ferretti, S. F., 1996, Querebentã de Zomadonu, São Luís, EDUFMA, 2ª Ed.
Revista, (Orig. 1983).
Ferretti, S., 1995, Repensando o sincretismo, São Paulo, EDUSP, (Orig. 1991).
Fihcte, H., 1989, Das Hause der Mina in São Luís de Maranhão. Materialen
zum Studium der Religionen Verhalterns. Zusamen mit Sergio Ferretti,
Franckfurt/M, 1989.
Halerpin, D. T, 1992, Analysis of an Afro-Brazilian Dance and Spirit
Possession Ceremony. Comparations with Dance Therapy, Philadelphia,
Hahnemann University, Diss. de Mestrado.
I quaderni del CREAM , 2010, X
73
Halerpin, D. T, 1995, Dancing at the Age of Chaos: an Ethnography of
Wildness and Ceremony in an Afro-Brazilian Possession Religion, Berkeley,
University of California, tese de doutorado.
De Laveleye, D., 2002, Peuple de la Monagrove. Appoche ethnologique d´un
espace social métissé (région de Cururupú-Mirinzal, Maranhão, Brésil),
Bruxelles, Université Libre, Thèse de Docteur.
Nunez Pereira, M., 1979, A Casa das Minas. O culto dos voduns jeje no
Maranhão, Petrópolis, Vozes, (Orig. 1947).
Pacheco, G., 2004, Brinquedo de Cura, Um estudo sobre a Pajelança
Maranhense, Rio de Janeiro, UFRJ/Museu Nacional/ PPGAS, Tese de
Doutorado.
Parès, L. N., 1997, The Phenomenology of Spirit Possession in the Tambor
de mina, London, University of London, SOAS, Tese de Doutorado.
Palmié, S., 2007, O trabalho cultural da globalização Ioruba, “Religião e
Sociedade”, Rio de Janeiro, ISER,, n. 1 (27), pp 77-113.
Rodrigues, R. N., 1977, Os Africanos no Brasil, São Paulo, Nacional, (Orig. 1905).
Santos, M. C., 1989, Santos, N., Manoel dos. Boboromina. Terreiros de São
Luís, uma interpretação sócio-cultural, São Luís, SECMA/SIOGE, (Orig.
1986).
Sogbossi, H Brice., 2004, Contribuição ao Estudo da Cosmologia e do Ritual
entre os Jêje no Brasil: Bahia – Maranhão, Rio de Janeiro, UFRJ/Museu
Nacional/ PPGAS, Tese de Doutorado.
UNESCO, 1986, Culturas Africanas. Documentos da Reunião de Peritos sobre
As sobrevivências das Tradições Religiosas Africanas nas Caraíbas e na América
Latina, São Luís do Maranhão, 24-28 de Junho de 1985, Paris, 1986.
Verger, P., 1990, Uma Rainha Africana mãe-de-santo em São Luís, São
Paulo, “Revista USP”, n. 6, pp.151-158, (Orig. 1952).
I quaderni del CREAM , 2010, X
74
VÂNIA FIALHO
1
PESQUISANDO NO NORDESTE INDÍGENA BRASILEIRO:
PROCESSOS COLETIVOS E QUESTÕES METODOLÓGICAS
As discussões que versam sobre a pesquisa social, concebendo-a na
sua vertente qualitativa, nos conduzem a importantes questionamentos
que vão muito além das escolhas de práticas e técnicas passíveis de
virem a compor o corpus de uma pesquisa.
Definir o que é possível se dar conta a partir das pesquisas nos leva
a questões de cunho epistemológico, da prática de pesquisa, assim
também como do trato das relações sociais, considerando suas especificidades e complexidades.
Alberto Melucci (2005), ao discutir o que vem a ser uma sociologia reflexiva, afirma que na discussão da pesquisa qualitativa, estão
em jogo três elementos: (a) os problemas teóricos e epistemológicos
que dizem respeito à definição mesmo do campo; (b) as práticas de
pesquisa que são introduzidas de modo empírico; (c) os processos
sociais sobre os quais estas práticas se concentram, que são, na
realidade, a mola principal que pressiona a busca de novas maneiras
de aproximar-se dos fenômenos.
Melucci continua tecendo as possibilidades e os limites da pesquisa
qualitativa e a entende como constituída das seguintes práticas sociais:
(a) práticas de pesquisa (de um corpo especializado); (b) práticas
de vários atores coletivos, grupos, movimentos, instituições que se
transformam em novos focos de estudo e estimulam a elaboração de
1 Professora da Universidade de Pernambuco – UPE e Professora do Programa de PósGraduação em Antropologia Federal de Pernambuco - UFPE.
I quaderni del CREAM , 2010, X
75
novos instrumentos de pesquisa; e (c) práticas ligadas às novas
questões que vêm do povo, no seu conjunto, pelos atores coletivos e
instituições e pelos consumidores de pesquisa.
De uma forma bastante explícita, o que é colocado como discussão
não é apenas a escolha de procedimentos para levantamento de dados,
mas de definir uma nova relação social da pesquisa, em que saber a
posição que ocupamos, enquanto pesquisadores, constitui elemento
fundamental.
Atentando para esses aspectos, optei neste texto, por priorizar uma
breve descrição da minha trajetória de pesquisa e, a partir dessas
experiências, tecer uma discussão sobre dois aspectos metodológicos
que considero fundamentais: a relação entre pesquisador e objeto e a
idéia de campo de pesquisa, além de expor os procedimentos em duas
pesquisas realizadas no nordeste brasileiro e que enfocam a questão
indígena. Por fim, irei me deter na problematização das escolhas
metodológicas feitas: seus limites e desafios e situar essas discussões
na categorização proposta por Habermas para o trata do conhecimento
que estão na base das ciências.
Enfatizo a importância da oportunidade de tratarmos das questões
de cunho epistemológico, pois socializar e problematizar os procedimentos metodológicos deve ser mais uma característica das pesquisas
qualitativas, considerando que, por princípio, nos afastamos de modelos que podem ser previamente validados. Temos, sim, necessidade de
problematizar tais procedimentos, considerando as especificidades que
cada um de nós enfrenta no campo.
Trajetória das pesquisas realizadas
Optei por fazer uma digressão, que, na verdade, possui um tom
biográfico, pois revisitar momentos do trabalho de campo, as questões
que dessa experiência emergiram, é também rememorar a trajetória
pessoal que fizemos enquanto pesquisadores com reflexões que
poderíamos até denominar de intimista.
I quaderni del CREAM , 2010, X
76
Tal digressão passa ainda a ter um caráter mais pessoal, ao
considerar que a temática que abordei nos dois momentos escolhidos –
no mestrado e no doutorado – foi a identidade, especificamente, a
identidade étnica, mas que repercutiu na reflexão que fiz sobre a
minha própria identidade, como pesquisadora e como agente social
dos contextos que estudava.
Foi me aproximando da realidade dos povos indígenas no Nordeste
que desenvolvi as tais pesquisas.
É interessante perceber que às sociedades indígenas são atribuídas
características que atendem bem às expectativas de um “objeto” de
estudo para as ciências sociais: grupos humanos num relativo grau de
isolamento, com fronteiras bem definidas para ser identificado como o
“outro” e ainda portadores de uma variada gama de sinais diacríticos
afeitos a toda boa etnografia, como rituais, um “complexo sistema de
parentesco e línguas estranhas”. Trata-se de um exercício de estranhamento para o qual, aprioristicamente, se entende que não há necessidade
de um esforço maior; até as dificuldades inerentes à clássica pesquisa
antropológica seriam as que correspondem ao modelo: como “entrar”
num campo com códigos tão distintos? Como compartilhar informações, quando o domínio da língua nativa é precário, quando não
inexistente? Essas dificuldades parecem fazer parte da mística da
pesquisa que envolve as sociedades indígenas e, assim, pesquisá-las
seria, indubitavelmente, fazer a clássica pesquisa sócio-antropológica...
A primeira das experiências, que passo a relatar agora, foi vivenciada durante o trabalho de campo entre os indígena da etnia Xukuru.
Um dos aspectos destacados na pesquisa foi a reflexão sobre o
papel do antropólogo e as relações que são construídas no campo e
que acabam determinando a construção do próprio objeto.
E é a partir desta noção de objeto de pesquisa que procuro iniciar
minhas considerações mais formais.
I quaderni del CREAM , 2010, X
77
Sujeito vs objeto de pesquisa, ação intersubjetiva e análise situacional
A pesquisa teve como foco o processo de territorialização dos
índios Xukuru localizados no agreste do Estado de Pernambuco. Esse
grupo indígena vivia, naquele período, um processo de reafirmação de
sua identidade étnica e de definição dos seus limites territoriais a fim
de consubstanciar o processo de regularização fundiária do ponto de
vista administrativo e legal.
Inicialmente, minha “entrada” na área indígena se deu sob os
auspícios da FUNAI, Fundação Nacional do Índio, considerando que
exercia a função de antropóloga do órgão indigenista oficial brasileiro,
e era a coordenadora do grupo de trabalho responsável pela identificação e delimitação2 da terra indígena Xukuru.
Após o período de campo da equipe de identificação e delimitação,
considerei que iria, enfim, iniciar um período de trabalho realmente
etnográfico vinculado à universidade, livre das amarras administrativas e enfatizando aspectos que ainda não haviam sido focalizados.
Com a proximidade do meio do ano, julguei pertinente acompanhar as
principais festas dos Xukuru: São João, 24 de junho, e Nossa Senhora
das Montanhas (ou Tamain, como é designada na linguagem própria
do Xukuru), no dia 02 de julho. Eram as referências religiosas mais
importantes e os rituais eram narrados a mim, anteriormente, como os
momentos em que todo o universo simbólico dos índios vinha à tona e
a “tradição” indígena se impunha de maneira mais veemente.
Sentia-me, finalmente, como uma antropóloga; participava de conversas informais, observava a preparação e ornamentação dos índios
para os rituais, começava a perceber um pouco mais do seu cotidiano.
Nunca tive a idéia de que eu seria ali um elemento neutro; a neutralidade axiológica pretendida por alguns campos científicos nunca conseguiu me seduzir. No entanto, não posso negar a minha surpresa ao
perceber a dimensão dessa interação na construção do que estudamos.
2 Primeira fase do processo formal de regularização de uma terra indígena. Consiste no
conjunto composto por estudos antropológicos, ambientais, fundiários e de definição
georrefenciada dos limites propostos para demarcação territorial.
I quaderni del CREAM , 2010, X
78
Bem, em meio á dança do Toré3 sobre a Pedra do Crajé4, uma das
que fazem parte e é sempre citada ao falar do universo simbólico dos
Xukuru, Chicão, cacique5 que havia assumido esse posto recentemente,
pede uma pausa para falar aos Xukurus ali presentes. No seu discurso,
enfatizava a importância do processo que viviam e enaltecia a
identidade indígena, num claro exercício de promoção da auto-estima
que vinha sendo tão abalada. Em meio à sua fala, Chicão destacou que
tinham que ter orgulho de ser índios e tanto eram índios que estava ali
uma antropóloga (Eu!), o que comprovava essa sentença.
Deste relato, partem as considerações sobre a idéia de objeto de
estudo.
De maneira generalizante, a partir dos Dicionários da língua
portuguesa Houiss e Aurélio, temos como significado para a palavra
objeto:
1. Tudo que é apreendido pelo conhecimento, que não é o sujeito do
conhecimento;
2. Tudo que é manipulável e/ou manufaturável;
3. Tudo que é perceptível por qualquer dos sentidos.
Matéria, assunto: o objeto de uma ciência, de um estudo.
3 O Toré é um elemento fundamental no sistema cosmológico xukuru. Enquanto manifestação comum entre os índios da região nordeste do Brasil, o Toré possui várias classificações e
significados. Entre os Xukuru, não podemos precisar exatamente a época em que se iniciou o
Toré, enquanto performance. O que podemos identificar é que os viajantes e pesquisadores
que estiveram na Vila de Cimbres (hoje, uma das principais aldeias xukurus), desde o início
do século XX, fazem referência à “dança do Toré” que é executada por descendentes
indígenas, durante as festividades nessa Vila. O significado do Toré para os Xukuru é
polissêmico, ou seja, em alguns momentos, o Toré é um ritual; em outros, uma brincadeira, ou
ainda uma dança que integra o ritual. Para maiores detalhes sobre o povo indígena Xukuru,
consultar: http://pib.socioambiental.org/pt/povo/xukuru.
4 Esse lajedo se encontra na entrada de uma das aldeias do território Xukuru. Conta-se que,
antigamente, quando os esses índios subiam a serra para as festas da vila, antes de entrar em
Cimbres, eles paravam nessa laje para descansar e iniciar o ritual do Toré. Além de servir
como marco inicial das performances nas festas, essa laje também era o momento de parada e
descanso, quando os Xukuru traziam algum morto para ser enterrado no cemitério de
Cimbres.
5 Título atribuído à liderança política de cada povo indígena. È uma categoria utilizada de
forma genérica, influenciada pelo modelo indigenista oficial.
I quaderni del CREAM , 2010, X
79
Na relação de conhecimento, o correlato do sujeito, isto é, o que é
conhecido, em oposição ao que conhece. O que é real ou realizável e
se torna motor da ação de um sujeito.
Como correlato temos para sujeito:
1. O indivíduo real, que é portador de determinações e que é capaz de
propor objetivos e praticar ações;
2. Na relação de conhecimento, o correlato objeto, isto é, o que
conhece, em oposição ao que é conhecido: o pensamento, a percepção,
a intuição, etc;
3. Agente, fonte de atividade.
Obviamente, a discussão de cunho epistemológico dessas duas
categorias, objeto e sujeito, merece um aprofundamento. No entanto, o
que apresentamos já é o suficiente para pensarmos sobre a relação
entre sujeito/objeto e o campo de pesquisa.
Durante o trabalho de campo, foi possível atentar para o fato da
presença do pesquisador contribuir para a elaboração do objeto da
pesquisa, vindo colocar em xeque a passividade à qual é associado o
“objeto”. Ficava claro que apenas uma concepção construtivista da
sociedade poderia dar conta dessas relações.
Experiências dessa natureza se deram durante a observação e a
participação em rituais numa outra parte da Terra Indígena, denominada Pedra D`Água. Durante os anos em que pude estar presente, o
contorno do ritual e mesmo o seu significado iam sofrendo alterações
e se atualizando com a dinamicidade inerente à vida social. O que
pode parecer óbvio para determinadas concepções, merece destaque
para que nos afastemos de noções pré-concebidas e de uma tentativa
de cristalizar, de frigorificar processos sociais e expressões culturais.
Nesse contexto, emerge o problema do distanciamento necessário
daquilo que pretendemos pesquisar. Ao mesmo tempo em que as
sociedades indígenas atendem à expectativa de constituírem populações bem delineadas, o campo não demonstra essa realidade.
Em meio a fluxos, teias e tramas, as identidades e os contornos são
fluidos, negociáveis, altamente mutáveis e, portanto, dinâmicos. Cai
por terra toda a possibilidade de lidarmos com o “outro” de uma
maneira sistêmica e bem estabelecida. Diferentemente de assegurar
I quaderni del CREAM , 2010, X
80
um ideal do nativo, as sociedades indígenas têm provocado os
pesquisadores a pensarem no mito que foi construído pelos próprios
pesquisadores.
Em suma, a relação entre pesquisador e pesquisado é constituída e
constitutiva do próprio campo pesquisado.
O desenvolvimento do trabalho de campo foi realizado com base
em dois referenciais que julguei apropriados para dar conta da complexidade que percebia. Optei pela análise situacional e pelos dramas
sociais, como forma de atribuir uma lógica ao processo que vivenciei
durante a pesquisa com os Xukuru.
A escolha por realizar uma “análise situacional” do grupo indígena
Xukuru, de acordo com as formulações de Max Gluckman (1987),
tanto se fez por uma questão metodológica de coleta de dados, como
de análise dos mesmos. Van Velsen (1987), sistematizando as idéias
de Gluckman, afirma que a “análise situacional” se refere à coleta
efetuada pelo pesquisador de um tipo específico de informações detalhadas e também de incorporar o “conflito” como sendo “normal” do
processo social (ivi, p. 348). Neste tipo de análise é dada maior ênfase
aos atores do que aos informantes; os registros de situações feitos pelo
pesquisador passam, agora, a fazer parte constituinte da análise e não
mera ilustração.
Sob esse ponto de vista, campo e situação social são partes integrantes que estão fortemente vinculadas.
Nas palavras de Oliveira (1988), “Toda análise situacional acaba
por delimitar (ainda que implicitamente) um campo, todo campo
supõe uma multiplicidade de contextos que poderiam ser decompostos
em situações sociais”.
Através do processo social, ou seja, de como se processam as ações
sociais em determinada situação, de acordo com Turner, podemos
perceber “a maneira pela qual os indivíduos realmente lidam com seus
relacionamentos estruturais e exploram o elemento de escolha entre
formas alternativas de acordo com as exigências de qualquer situação
específica (Van Velsen 1987, p. 371).
As situações vivenciadas pelos Xukuru foram analisadas como
constituindo uma série de “dramas sociais”, caracterizados como um
I quaderni del CREAM , 2010, X
81
“conjunto de harmônicos e desarmônicos processos, aparecendo em
situações de conflito, apresentando situações de crise que surgem
periodicamente na vida do grupo”; são situações de evidentes conflitos
constituídos por fases numa seqüência mais ou menos regular.
A partir desse tipo de abordagem, foram descritos três dramas
sociais na fase, aqui colocada como molecular, ou seja, como dando
início ao processo de mobilização pela afirmação da identidade
indígena: (a) A constituição do território Xukuru (relação com a
política indigenista e agentes do Estado), (b) A retomada da área
denominada Pedra D’água, em que se destaca a disputa por uma área
entre índios e pequenos agricultores e (c) A tensão existente entre duas
parcelas do território Xukuru, que denominei de “aldeias do leste” e
de “aldeias do oeste”, ou seja, tratava-se de uma tensão interna. Os
três casos foram escolhidos por ser possível identificá-los como
cruciais na definição das fronteiras étnicas existentes, caracterizados
por uma sucessão de fatos em situações de crise. A partir da etnografia
das três situações, os dados foram organizados e analisados tomando
como base a estrutura do drama social.
Cada drama foi analisado como uma unidade processual, representando uma seqüência de eventos sociais que, visto retrospectivamente
por um observador, pode ser mostrada como tendo uma estrutura. Para
esse tipo de análise, Victor Turner concebeu o drama social como
constituído de quatro fases: a eclosão do conflito; a crise da situação; a
consciência da situação com a mediação passando de mecanismos
informais para mecanismos formais e a definição da situação, seja na
forma de ruptura ou reintegração do grupo social. O importante dessa
perspectiva é perceber o drama social como um processo que mostra
vivamente como as tendências sociais operam na prática, no que se
baseiam socialmente as intenções das partes envolvidas e como os
conflitos entre pessoas ou grupos, em termos de normas comuns ou
em termos de normas contraditórias, podem ser resolvidos num
particular conjunto de circunstâncias (Fialho 1998).
I quaderni del CREAM , 2010, X
82
Problematizado os limites do campo de pesquisa
A segunda experiência escolhida buscou compreender as práticas
associativas indígenas e suas relações com os projetos de desenvolvimento no nordeste brasileiro. Com base na constatação da proliferação
do número de organizações indígenas no formato de associações, o
estudo analisou a reapropriação das ações e do discurso de “desenvolvimento” por três grupos indígenas no Nordeste Brasileiro: Kambiwá,
Pipipã e Xukuru, através de dados empíricos e documentais. O que se
configurava, à primeira vista, como novas articulações para ter acesso
a recursos, na verdade envolvia relações mais complexas que se
articulam com os movimentos de afirmação étnica e de constituição de
esferas de diálogo numa sociedade plural.
Tal pesquisa teve por objetivo entender a prática associativa entre
os índios e suas relações com as políticas no nordeste brasileiro num
tempo e num espaço em que as fronteiras étnicas se apresentam cada
vez mais fluidas, ao mesmo tempo – e contraditoriamente – em que a
etnicidade assume um papel importante na estruturação das relações
sociais.
A análise dos processos indicados, enfatizando as experiências dos
grupos indígenas no Nordeste brasileiro, não é tarefa muito fácil
diante da constante presença no imaginário popular desses grupos
como exóticos e distantes da realidade que nos cerca. O primeiro
desafio, então, consistiu em abordar a temática como profundamente
relacionada com as esferas mais amplas da análise social, ao invés de
optarmos por um recorte que distancie a realidade das sociedades
indígenas dos fluxos mais intensos que caracterizam o mundo na
atualidade. Considerei que havia necessidade de pensar na questão
indígena no Nordeste como inserida no contexto social mais vasto, e
não como algo que ficou cristalizado no tempo e no espaço, associado
a elementos essencialistas e naturalizados; tratava-se da compreensão
da articulação do plano local com o global.
A proposta passava pela necessidade de entender a possível relação
entre localismo e globalismo na emergência étnica no Nordeste. O
destaque foi dado aos grupos étnicos porque julgamos que através de-
I quaderni del CREAM , 2010, X
83
les estaríamos considerando conceitos fundamentais que se insinuam
no contexto da globalização: cultura, tradição e crença numa origem
comum, articulados politicamente na afirmação de identidades autônomas. Para essa abordagem, utilizei a concepção de identidade de
Boaventura de Souza Santos, apresentando-a como:
[...] resultados sempre transitórios e fugazes de processos de identificação.
Mesmo as identidades aparentemente mais sólidas [...] escondem negociações
de sentido, jogos de polissemia, choques de temporalidades em constante
processo de transformação, responsáveis em última instância pela sucessão
de configurações hermenêuticas que de época em época dão corpo e vida a
tais identidades. Identidades são, pois, identificações em curso (Santos 1997,
p.135; como também sugere Bauman 2001).
Operacionalmente, tratei as várias esferas de negociação como
"campos políticos intersocietários" (Oliveira 1988 e 1999), cuja unidade “resulta do confronto entre perspectivas antagônicas, do jogo de
manipulações de interesses e valores divergentes, de lacunas, ambigüidades e acavalamentos de significados" (Oliveira 1999, p. 23). Já tendo, corno primeiro passo, definido o "campo do conflito", de acordo
com o que destacou Melucci (1996, p. 4), procurei identificar como
certos agentes sociais atuam dentro dele.
Tratando-se de acompanhar a rede de constituição de relações e
negociações que legitimam um discurso indígena, a coleta de dados da
pesquisa se deu em espaços multifacetados; o que nos leva a colocar
ainda em questão a delimitação desse mesmo campo e a distância
entre pesquisador e o campo observado. Assim, é possível afirmar que
“Talvez deveríamos dizer que, num mundo interconectado, nós nunca
estamos realmente out of the field” (Gupta, Fergunson 1997, p. 35).
Estes mesmos autores, Gupta e Fergunson, na obra Anthropological Locations, apresentam uma discussão de extrema importância
sobre os limites e as concepções do trabalho de campo que tem servido
para caracterizar a prática antropológica. Apontando-a como uma
construção que se dá também num contexto que ainda carrega uma
conotação de geografia colonial, indicam a possibilidade de apropriação
da idéia de campo e de trabalho de campo de maneira variada e criativa.
I quaderni del CREAM , 2010, X
84
Para eles é claro que, ao contrário das tendências homogeneizadoras
enraizadas na história colonial e na história neocolonial, a prática do
“campo” e as definições da própria disciplina estão realmente distantes
dos centros hegemônicos de produção intelectual.
De acordo com essa preocupação, foi adotada na referida pesquisa
a perspectiva da multisited ethnography que tem como objetivo não
apenas problematizar os limites do campo em si, mas considerar a
variedade de lócus em que seria possível presenciar os diálogos,
entrevistar os sujeitos e observar os fluxos sociais, todos cuidados
metodológicos necessários para lidar com o tema estudado.
Estive, então, presentes em vários “fóruns” de negociação entre
índios os mais diversos agentes sociais: representantes de ministérios
do governo brasileiro e do Banco Mundial, gerentes bancários, técnicos de assistência técnicas e extensão rural, entre outros. Não tinha
sentido me restringir às fronteiras das áreas indígenas para entender
suas relações com as agências de desenvolvimento, quando esse
circuito de dá numa amplitude bem superior.
Diante da diversidade de situações enfrentadas para o trabalho de
campo, uma nova preocupação começou a se configurar para a
pesquisa: parecia que não poderia ser utilizado o mesmo modelo de
coleta de dados e as unidades de análise estavam se constituindo
também de maneira bem diferente. O “campo” era caracterizado pela
multiplicidade de oportunidades e situações e estas não ofereceriam as
mesmas condições. Assim, entre os Xukuru, devido aos graves conflitos que envolviam os projetos e as associações, optei pelos dados
registrados no diário de campo, enquanto que, entre os Pipipã
principalmente, priorizei a oportunidade de gravar muitas entrevistas e
depoimentos. É importante ressaltar que o modelo de coleta se
diferenciou de uma situação para outra.
Essa diversidade de situações e a ausência de uma linearidade nos
procedimentos de campo é bem enfatizada por Diana Nelson, que, nos
seus estudos sobre os indígenas na Guatemala, aponta a variedade de
situações de sua coleta de dados (Nelson 1999, p. 33). Geertz também
afirma que não existe uma receita generalizável para uma apropriada
metodologia.
I quaderni del CREAM , 2010, X
85
A descrição referente às dificuldades do campo é também pertinente ao observarmos que a incursão entre projetos e associações
estava sempre relacionada a aspectos mais subjetivos da organização
social das sociedades estudadas. Para apreender o seu sentido, foram
realizadas várias entrevistas, inumeráveis situações observadas, desde
fóruns locais a nacionais; muitas informações importantes foram
coletadas em conversações, muitas delas, informais, ocorridas dentro
de um carro, durante o deslocamento de uma área para outra, durante
conversas na “cozinha” da casa de entrevistados; nas salas de espera
de audiências no Ministério Público Federal em Recife e até em
shoppings centers e centros de convenções, nas ocasiões em que os
índios organizavam “feiras”, promoviam debates e mostravam os
resultados de suas articulações com várias instituições que estavam
propiciando sua visibilidade na sociedade, assim como indicando que
poderiam estar inseridos no mercado através do rótulo de “étnico”.
Problemas e desafios
As escolhas metodológicas nos impõem, anteriormente ao tratamento escolhido para coleta e análise dos dados, a necessidade de
adotarmos uma escolha epistemológica.
Discutir, então, aqui, metodologias qualitativas nos remete não
apenas à oposição qualidade/quantidade, mas, como já destacou
Melucci (2005), a uma discussão que põe em evidência a oposição
entre perspectiva construtivista e realismo ingênuo.
As escolhas metodológicas expostas neste texto nos levam também
à superação de uma conexão linear entre hipóteses e verificação das
hipóteses, modelo clássico da pesquisa científica, e nos conduzem ao
entendimento emergente e recorrente dos processos nos quais o
conhecimento é produzido através da troca dialógica entre “pesquisador” e “pesquisado”.
Para Geertz, com relação às ciências sociais, destinamos as mesmas ao fracasso se quisermos aplicar às práticas coletivas, qualquer
tentativa de utilizar definições do tipo “a essência e o acidental”, ou “a
I quaderni del CREAM , 2010, X
86
forma natural das coisas”, ou de colocá-las em alguma “latitude e
longitude” específicas do espaço acadêmico.
A explicação interpretativa deve se concentrar no significado que
instituições, ações, imagens, elocuções, eventos, costumes, ou seja,
todos os objetos que normalmente interessam aos cientistas sociais,
têm para seus proprietários. Apesar dessa simbiótica relação entre
pesquisador e pesquisado, Geertz afasta a visão romântica de que
temos que nos sentir como um “nativo” para entender o seu entendimento. A seu ver, o pesquisador não percebe e não é capaz de
perceber aquilo que seus informantes percebem. O que ele percebe, e
mesmo assim com bastante insegurança, é o “com que”, ou “por meios
de que”, ou “através de que” os outros percebem.
Obviamente, diante de tantos limites, o que nos resta como problemas, ou como desafios a serem enfrentados, podemos citar: (a) a
multiplicidade de perspectivas e de modelos metodológicos; (b) a
complexidade do campo da pesquisa qualitativa; (c) as relações
estabelecidas entre pesquisador e pesquisados; e (d) a dimensão ética
da pesquisa como prática social
Por fim, no intuito de fazer o recorte necessário para os devaneios
que a temática nos propicia, recorro a Habermas para concluir,
destacando a complexidade do campo de pesquisa social e da relação
com todos os sujeitos que o compõem.
Este autor emprega uma tipologia específica para as ciências:
Ciências “empírico-analíticas” – A predição e a explicação possuem uma
relação de simetria; leis universais fundamentadas empiricamente são combinadas com um conjunto de condições iniciais, que resultam em um conjunto
de covariâncias (previsíveis) de acontecimentos observáveis (Allum, Bauer,
Gaskell 2002, p. 31).
Ciências “histórico-hermenêuticas”, surgidas a partir de um interesse prático no estabelecimento de consenso. Para que a ciência
aconteça, é imperativo que haja compreensão intersubjetiva fidedigna,
estabelecida na prática da linguagem comum; e
Ciências Críticas que, segundo Habermas, vão além da históricohermenêutica; propõem um processo auto-reflexivo capaz de identiI quaderni del CREAM , 2010, X
87
ficar estruturas condicionadoras de poder como o resultado de uma
comunicação sistematicamente distorcida e de uma repressão sutilmente legitimada.
Ressalta-se que a perspectiva crítica só pode ser conseguida através
da aceitação de sua importância pelos que constituem seus objetos e a
recepção dos resultados da pesquisa pelo público pretendido, como
parte da “situação total da pesquisa”.
Enfim, ao final, minha proposta é ressaltar que a pesquisa social
requer um movimento constante de criação e reflexão e termino
afirmando, inspirada por Allum, Bauer e Gaskell (2002), que a prontidão dos pesquisadores em questionar seus próprios pressupostos e as
interpretações subseqüentes de acordo com os dados, juntamente com
o modo como os resultados são recebidos e por quem são recebidos,
são fatores muito mais importantes do que a escolha de uma técnica
empregada.
Referências
Allum, N. C, Bauer, M. W, Gaskell, G., 2002, “Qualidade, quantidade e
interesses do conhecimento: evitando confusões”, in M. W. Bauer, G.,
Gaskell, Pesquisa qualitativa com texto, imagem e som: um manual prático.
4, Petrópolis, Vozes.
Fialho, V., 1998, As fronteiras do ser Xukuru, Recife, Massangana.
Geertz, C., 1997, O saber local, Petrópolis, Vozes.
Gluckman, M., 1987, “Análise de uma situação social na Zuluândia
moderna”, in B. Feldaman-Bianco, (org.), Antropologia das sociedades
contemporâneas, São Paulo, Globo.
Gupta, A., Ferguson, J., 1997, Anthropological locations: boundaries and
grounds of a field science. Berkeley/Los Angeles/London, University of
California Press.
Marcus, G. E., 1998, “Ethnography in/of world system: the emergence of a
multi-sited ethnography”, in Ethnography trough thick and thin, Princeton,
Princeton University Press.
I quaderni del CREAM , 2010, X
88
Melucci, A., 2005, “Busca de Qualidade, ação social e cultura: por uma
sociologia reflexiva”, in Por uma sociologia reflexiva: pesquisa qualitativa e
cultura, Petrópolis: Vozes.
Nelson, D., 1999, A finger in the wound: body politics in quincentennial
Guatemala Berkeley and Los Angeles, University of California Press.
Peirano, M., 1992, A favor da etnografia, “Série Antropologia”, UNB, n.130.
Peirano, M., 1997, Onde está a Antropologia?, “Mana”, n. 3(2), pp. 67-102.
Van Velsen, J., 1987, “Análise situacional e o método de estudo de caso
detalhado”, in B. Feldman-Bianco, (org.), Antropologia das sociedades
contemporâneas, São Paulo, Globo.
Weber, S. Leithauser T., (Org.), 2007, Métodos Qualitativos nas Ciências
Sociais e na prática social, Recife/PE: Editora Universitária da UFPE.
I quaderni del CREAM , 2010, X
89
FRANCESCA NICOLA
1
ESSERE OKAPIANS A PORT MORESBY.
TRADIZIONI DI SCAMBI E NUOVE IDEOLOGIE DEL SÉ
IN PAPUA NUOVA GUINEA
Port Moresby: frontiera del desiderio e ambiente ostile
In Papua Nuova Guinea raramente si sentono parole gentili nei
confronti delle città, tanto che i giudizi negativi, incentrati su come sia
caro e pericoloso vivervi, costituiscono un tropo narrativo delle conversazioni quotidiane dei loro abitanti.
La maggior parte delle persone abbandona il proprio villaggio per
via del crescente impoverimento rurale (Connell 1997) e della
concentrazione urbana dei servizi (ospedali e scuole in primo luogo).
Quella economica, tuttavia, non è l’unica motivazione. Dalle interviste
che ho condotto all’interno della comunità di Okapians2 traferitisi a
Moresby, la capitale del Paese, è emerso come, specialmente per i
migranti più giovani, la ricerca di una vita fuori dal villaggio rappresenti un tentativo di superare una serie di limiti imposti alla loro
capacità di movimento (fisica ma anche sociale ed esistenziale) dai
parenti, dalla scuola e dalla tradizione. Questi limiti sono vissuti come
ostacoli alla crescita individuale e allo sviluppo di traiettorie di vita
personali e libere3. Da questo punto di vista la città rappresenta così
1
Dottoranda in antropologia della contemporaneità, Università degli Studi di Milano Bicocca.
2 Okapians è una delle categorie con cui si auto-designano e sono designati coloro che
migrano a Port Moresby dal distretto di Okapa, situato nella provincia delle Eastern
Highlands.
3 In particolare, le interviste che ho condotto rivelano come la minaccia più forte alla libertà
I quaderni del CREAM , 2010, X
91
una vera e propria “frontiera del desiderio” in cui poter sviluppare
progetti di vita personali svincolati dalle pressioni del villaggio.
Gli stessi centri però sono allo stesso tempo descritti come ambienti in cui è facile sentirsi “fuori luogo”, stranieri. Molte sono le
ragioni che concorrono alla loro percezione ambivalente di siti della
libertà e del pericolo (Schlor 1998). In primo luogo vi si è costretti a
confrontarsi, spesso per la prima volta, con lingue e culture diverse
dalle proprie, esperienza eccitante e destabilizzante allo stesso tempo4:
Franca, questo è come io vedo Moresby. È come una fermata del bus, con
gente di diverse culture e lingue tutte insieme. Hai capito? Moresby è come
una fermata del bus. In città sei sempre all’erta, non ti puoi rilassare, perché
non sai se quello che fai senza accorgertene può essere frainteso.
La composizione interna dell’ethnoscape (Appadurai 2001) urbano
si traduce in un sentimento di disorientamento e di perdita di stabilità.
L’espressione “Senza accorgertene” usata dal mio interlocutore è
indicativa della paura diffusa che l’eterogeneità linguistica e culturale
possa essere fonte di incomprensioni foriere di scontri violenti5.
A tutto ciò si aggiunge il problema del raskalism, il fenomeno
dilagante della delinquenza giovanile: con il calare della sera, soprattutto Port Moresby diventa una città in cui muoversi è molto pericoloso. Strade e fermate dei bus si spopolano velocemente. In giro solo
gangs di raskals e gruppetti di prostitute. Chi può si protegge in case
difese da filo spinato e guardie di sicurezza e se esce lo fa solo in
personale che il villaggio impone sia il matrimonio arrangiato dalla famiglia. I ragazzi migrati
da Okapa in città hanno sottolineato spesso di non sentirsi pronti per questo tipo di legame (e
per gli obblighi economici verso i parenti affini che comporta) e di volersi muovere
liberamente fino al momento in cui, stanchi di andarsene in giro, vorranno ristabilirsi al
villaggio. Pato, ad esempio, trent’anni, di cui gli ultimi quindici vissuti in città, mi ha
esplicitamene reso la seguente dichiarazione di intenti: “mi go raun inap na biain my
marit”(voglio andarmene in giro fino a quando mi pare, e solo dopo sposarmi).
4 In Papua Nuova Guinea si stima esistano più di ottocento diversi gruppi etno-linguistici.
Questa varietà culturale è rispecchiata nella capitale Port Moresby.
5 Una paura è che fraintendimenti e offese non intenzionali, ad esempio, possono portare ad
attacchi di stregoneria che, poiché commissionati da persone di culture diverse dalla propria e
dunque basati su logiche sconosciute, sono temuti più di quelli che avvengono al villaggio.
I quaderni del CREAM , 2010, X
92
macchina, seguendo una topografia specifica di luoghi sicuri, ristoranti, bar, hotel, nightclub. Al di fuori, di notte, la città è soprattutto dei
raskals, una presenza costante ma protetta dal buio, indeterminata
(Taussig 1992).
Eterogeneità linguistica, delinquenza, mancanza di alloggi, di
lavoro e di welfare sono poi esasperati da politiche urbane che invece
di affrontare i problemi tendono a scoraggiare il flusso migratorio
dalle zone rurali attraverso politiche di segregazione degli spazi
ereditate dal periodo coloniale: a causa della mancanza di nuovi alloggi e del costo altissimo dei pochi disponibili chi migra è costretto d
insediarsi in settlements (quartieri abusivi) sprovvisti di qualsiasi
servizio e ad appoggiarsi alla rete di parenti o di appartenenti allo
stesso gruppo etno-linguistico che già vi risiedono. Chiamati wantok
(dall’inglese one talk, una lingua), i parenti o compaesani in città
rappresentano così un vero e proprio gruppo primario di referenza e
una rete di sicurezza sociale (Strathern 1975).
Gli abitanti di Okapa che migrano a Port Moresby, non fanno
differenza. Appena arrivati si stabiliscono nei quartieri abusivi in cui
la comunità si distribuisce, cercando ospitalità fra i propri wantok.
Analizzando l'uso di questo termine si scopre che esso designa sia
“qualcuno che parla la stessa lingua, che è della stessa nazionalità, un
compatriota, un vicino, qualcuno che è dello stesso paese” (Mihalic
1983, p. 202), sia
…qualcuno con cui ti ubriachi, con cui ti fai dei favori, ti scambi i vestititi,
fai la doccia, oppure mangi assieme.
La convivenza di queste due accezioni linguistiche è significativa.
Non fotografa solo una pratica di solidarietà e di mutua assistenza
infra-familiare, ma illumina la concezione locale tradizionale della
natura dei rapporti di parentela o di appartenenza etnica, vivificati non
tanto da un legame di sangue o di condivisione dello stesso territorio,
quanto da un ciclo continuo di transazioni di beni e di favori, secondo
quello che Marshall Sahlins ha definito un “principio di reciprocità
generalizzata” (Sahlins 1965).
L'organizzazione economica degli Okapians a Port Moresby ne è
I quaderni del CREAM , 2010, X
93
una manifestazione visibile. La comunità è distribuita in sei diversi
settlements (Two Mile, Nine Mile, Six Mile, Morata e Badili e Hohola),
che hanno l'impatto visivo di un insieme non pianificato di capanne,
baracche e piccoli orti coltivati. In ognuno di essi hanno stabilito una
sezione mono-etnica separata spazialmente da altri agglomerati di
famiglie migrate da differenti villaggi e regioni del Paese.
La maggior parte delle famiglie di Okapians in città si mantiene in
primo luogo attraverso il commercio ambulante6 o il consumo diretto
di prodotti agricoli coltivati direttamente. Un’entrata finanziaria costante è però necessaria, e di solito almeno una persona per famiglia
ha un lavoro stabile. Mentre quasi tutte le donne lavorano come
domestiche, gli uomini trovano impiego come driver, maestri, giardinieri e guardie. Nonostante gli stipendi siano variabili, i salari sono
però condivisi, tanto che il criterio di distinzione economica delle
unità domestiche è più legato al numero di abitanti che la compongono
che al tipo di impiego che i membri svolgono.
Prendiamo in considerazione la storia di Mex. Nato ad Okapa
trent'anni fa, da tredici anni si è stabilito nel quartiere abusivo di Two
Mile. Ha sempre lavorato come autista per un imprenditore cinese, il
quale due anni fa ha deciso però di tornare a casa. Assistito da una rete
di wantok (non solo parenti stretti ma anche altri Okapians) Mex ha
potuto superare il momento di crisi. Trovato un altro lavoro, ha a sua
volta contraccambiato l’aiuto ricevuto ospitando migranti da Okapa
imparentati con coloro che l’avevano aiutato:
I miei wantok mi hanno aiutato con i soldi, il cibo e un posto dove stare.
Quando ho trovato un lavoro ho preso in casa i nipoti di Kapesye. Sono
venuti dal ples (dal villaggio) per studiare qui. Ci aiutiamo tra di noi. Ho tre
stanze disponibili per i miei wantok quando vengono in città.
Quella che Mex ha messo in pratica, e che informa le relazioni con
i wantok in città è una modalità di intendere e di costruire i rapporti
sociali che potremmo definire transazionale, in cui cioè le relazioni si
costruiscono attraverso scambi di beni o di favori che assumono la
6 In particolare scones, bibite, sigarette, noci di betel, kerosene.
I quaderni del CREAM , 2010, X
94
forma di doni e di contro-doni. È precisamente questa catena di
transazioni che crea la relazione e le dà sostanza. Non solo ogni atto di
mancata restituzione di un dono equivale alla volontà di interrompere
la relazione stessa, ma ad ogni relazione sociale corrisponda una
specifica modalità di transazione la quale a sua volta, in modo
circolare, determina la costruzione o il rafforzamento di uno specifico
tipo di relazione (Wagner 1977; Sahlins 1965). Dal punto di vista
tradizionale, per esempio, è fondamentale che le transazioni tra parenti
non si basino su modalità di scambio caratterizzate da un'esplicita
contrattazione economica, tipiche delle relazioni tra estranei. Con i
wantok, infatti, si mettono in atto relazioni presuntivamente altruistiche: l'ospitalità, l'aiuto, la generosità e l'obbligo del contro-dono
sono posticipate nel tempo e, almeno apparentemente, non assumono
tanto la forma di obbligazione, quanto piuttosto quella di un mutuo
soccorso.
Il loro carattere non vincolante è tuttavia solo apparente. Ogni
individuo conosce alla perfezione la fitta rete di scambi di beni e di
favori in cui è coinvolta la famiglia allargata cui appartiene, ed è
generalmente in grado di ricostruire la serie di favori che ha dato e
reso la generazione dei propri genitori, quella anteriore dei nonni e via
dicendo, fino a risalire ai fondatori del proprio clan. È sulla base di
questa complessa genealogia di mutue transazioni che ogni individuo fa
le proprie scelte. Ed è basandosi sullo stesso sistema di aspettative di
reciprocità che chi migra in città considera un diritto il fatto di trovare
nei wantok che già vi risiedono aiuto, ospitalità, protezione, assistenza
economica. Non sono però rivendicazioni accolte placidamente.
Attorno alla liceità o meno di riprodurre in città la stessa modalità
di relazione sociale del villaggio si consuma un'accesa disputa
politica, che coinvolge in special modo coloro che hanno acquisito
uno speciale status economico. A loro i wantok chiedono moltissimo:
assistenza economica, un lavoro, un tetto sotto cui dormire, richieste
che vengono a volte negoziate, a volte negate, quasi sempre negoziate
strategicamente attraverso una ridefinizione della tradizione e dei
doveri di reciprocità che comporta.
I leader di comunità in città e i migranti che si appoggiano a loro
I quaderni del CREAM , 2010, X
95
incarnano così in maniera particolarmente evidente dibattiti che sono
oggi centrali nella quotidianità di molti abitanti di Papua Nuova
Guinea. Moderni e tradizionali assieme e a seconda delle esigenze del
contesto, offrono un punto di vista strategico attraverso il quale esplorare la natura dei cambiamenti sociali in corso nel Paese.
Okapa Haus
All'interno della comunità di Okapians di Port Moresby colui che
gode di maggior prestigio è Keke, stabilitosi in città una quarantina di
anni fa e da circa trenta manager di una compagnia che gestisce i
trasporti portuali. Al contrario di quasi tutti gli altri Okapians non vive
in un quartiere abusivo, ma in una casa conosciuta come Okapa Haus,
che essendo stata originariamente costruita per i colonizzatori
australiani è fornita di servizi come acqua corrente ed elettricità, cosa
che la rende per tutti i wantok un luogo cui appoggiarsi nei frequenti
periodi in cui nei quartieri abusivi questi servizi mancano: una
quindicina di persone circa circola quotidianamente per la casa per
fare la doccia, guardare la televisione, mangiare un piatto di riso,
lavare i panni. Alla sera alcuni tornano nel proprio quartiere, la
maggior parte rimane a dormire su un telone disposto fuori dalla casa,
all’ombra degli alberi da frutto..
La fitta rete trans-locale (Vertovec 2001, p. 23) di cui è parte
Okapa Haus non include solo gli altri quartieri ma anche il villaggio:
Quando possono coloro che la abitano visitano Okapa, in special
modo in occasione di celebrazioni tradizionali, come matrimoni e
funerali. Ciò non avviene tutti gli anni: data la mancanza di strade del
Paese sono costretti a prendere l’aereo, che nonostante le “tariffe
wantok” che la compagnia di bandiera Airniugini riserva a coloro che
si recano al villaggio di origine, rimane un mezzo piuttosto costoso.
Di solito viene organizzata una colletta per mandare a rotazione
qualcuno in visita. Chi rimane organizza una cerimonia parallela in
città per il defunto o in onore della coppia di futuri sposi.
È però analizzando meglio la composizione stessa della famiglia
allargata che la natura multi situata della comunità di Okapiani appare
I quaderni del CREAM , 2010, X
96
evidente. In essa infatti è possibile distinguere due insiemi di persone:
da una parte il nucleo stabile e ristretto costituito da Keke, il
capofamiglia e proprietario temporaneo della casa, sua moglie Faggie e
i loro sei figli. Dall’altra un numero variabile di wantok provenienti dal
villaggio o dagli altri settlement. Chiamati “pasendia”7, vivono stabilmente a Okapa Haus per periodi più o meno lunghi. Alcuni vi risiedono
per anni, in baracche abusive costruite nello spiazzale adiacente alla
casa, un’area che costituisce un vero e proprio prolungamento domestico. Si tratta di Okapians economicamente poco auto-sufficienti, che
di tanto in tanto contribuiscono con generi alimentari acquistati, ma che
di fatto dipendono da Keke per la loro sopravvivenza.
La natura della leaderhip di Keke
Keke è percepito come un vero e proprio leader, come attesta
l’appellativo di “Big Shot”, traducibile con “pezzo grosso”. Un buon
stipendio, una casa moderna e un'automobile sono i segni visibili del
suo successo, che lo ha reso negli anni il punto di riferimento della
comunità sia dal punto di vista economico che politico. Oltre a
chiedergli contributi finanziari, infatti, gli Okapians di Moresby gli
affidano la risoluzione di dispute con altri gruppi etnici e in generale
le decisioni collettive più spinose.
Per rivolgersi direttamente a lui o all'interno delle conversazioni
informali Keke è chiamato invece “daddy”, (papà), espressione che
allude alle relazione di autorità e dipendenza stabilitesi con lui tipiche
delle relazioni filiali. Keke stesso ama utilizzare il termine per autodefinirsi, corroborando così l’immagine di un padre generoso che
dona in maniera compassionevole e disinteressata ai figli della sua
famiglia allargata. Se la relazione che sembra esistere tra Keke e i
pasendia è dunque apparentemente molto simile a quella dei leader
melanesiani tradizionali, i Big Men, per i quali l’ostentazione di
generosità è un elemento chiave nella costruzione della propria
7 Termine Pidgin English derivato dall’inglese passenger..
I quaderni del CREAM , 2010, X
97
leadership (Strathern 1971), il fatto che nessuno si riferisca a lui come
Big Men, quanto piuttosto come “pezzo grosso” o “papà”, dimostra
che il comportamento di Keke non è del tutto assimilabile a quello dei
leader tradizionali. Individui ambiziosi che acquisiscono un maggior
prestigio per ricchezza, generosità o abilità, questi ultimi sono infatti
obbligati a manifestare periodicamente la loro supremazia sociale
attraverso una redistribuzione dei beni precedentemente accumulati
grazie all'aiuto di quanti hanno convinto a collaborare. La loro
autorità, dunque, da una parte si costruisce attraverso dimostrazioni
pubbliche di liberalità, dall'altra, essendo strettamente vincolata al
consenso che è in grado di costruire, dipende necessariamente dalla
disponibilità altrui.
Definendo se stesso come padre Keke tende invece a rendere
opachi i rapporti di reciprocità con i parenti del villaggio e a mettere in
primo piano l'ideologia dell’“essersi fatto da solo”. Dà risalto a una
sola delle componenti che concorrono a definire l'autorità dei Big Men
tradizionali, la propria magnanimità, che astratta dalla fitta rete di
transazioni reciproche assume così le sembianze di un’erogazione di
favori unidirezionale svincolata da qualsiasi forma di dipendenza.
È un'ideologia del Sé inteso come individuo autonomo, autosufficiente, moderno che, già implicita nell’appellativo di “daddy”, è poi
continuamente performata da Keke attraverso una serie di strategie
pratiche e retoriche. Nei suoi racconti auto-biografici, ad esempio, il
peso del villaggio è sempre minimo:
Allora, scrivi bene quello che ti racconto, perché è la storia della mia vita, e
per te è interessante. Devi scriverlo nel tuo libro. Sono arrivato a Moresby
che ero un ragazzino, non sapevo neanche cosa fossero le mutande. (ride).
Ma ero furbo, ero veloce, volevo imparare tutto…
Significativamente il racconto inizia con l’arrivo in città e con lo
sviluppo delle proprie abilità manageriali, passando in silenzio la fase
dell’infanzia e delle relazioni sociali che gli hanno consentito di
stabilirsi e di sopravvivere in città. Seguendo un canovaccio piuttosto
diffuso tra le élites indigene urbane, il racconto di Keke prosegue
illustrando le tappe della sua carriera, partita investendo 30 toya
I quaderni del CREAM , 2010, X
98
(centesimi di kina, la moneta nazionale) per comprare un po’ di farina
da usare per cucinare scones (focaccine) da vendere al mercato. Con il
ricavato messo da parte in alcuni anni, Keke è riuscito ad aprire un
piccolo negozio e a comprare due camion, grazie ai quali ha iniziato a
lavorare nel business dei trasporti portuali. Questo gli ha permesso di
farsi un nome nell’ambiente e di essere assunto qualche anno dopo
nella compagnia per cui ancora oggi lavora.
Più che la sua storia, quella che mi racconta è la storia di sé, dei
suoi successi e dei suoi fallimenti come individuo indipendente dalle
relazioni sociali.
Sotto questa luce perfino la forma narrativa autobiografica assume
significato: di fronte alla mia richiesta di intervistarlo, Keke ha
espressamente indicato la volontà di strutturare le interviste sotto
forma di racconti auto-biografici: “ti racconterò la mia vita, ma tu non
interrompermi. Le cose devono essere raccontate nel modo giusto”.
Come ha messo in luce Goddard, la scelta della forma narrativa
autobiografica dimostra la volontà di presentare sé stessi come
soggetti che vivono e raccontano gli eventi dal punto di vista di entità
sociali individuali, autonome, ego-orientate, capaci di separarsi da ciò
che si sta raccontando (Goddard 2001). La retorica di Keke, sia nei
contenuti che nella forma utilizzata, propone dunque una precisa
ideologia dell’individuo come proprietario della propria persona e delle
proprie capacità, che nulla deve al la società, una particolare forma di
individualismo che lo scienziato politico Crawford Brough Macpherson
ha definito “possessive individualism” (Macpherson 1962, p. 3).
Negoziare la tradizione
L’affermazione di questa ideologia del Sé è però è, almeno in parte,
rifiutata da coloro che abitano al villaggio e dai pasendia di Hohola.
Le loro versioni alternative della biografia di Keke rappresentano il
suo successo come frutto di un investimento collettivo:
Keke ci ospita qui perché anche lui è stato adottato. Mio nonno Marabe lo ha
adottato quando è rimasto orfano. Gli ha pagato le tasse scolastiche, lo ha vestito
I quaderni del CREAM , 2010, X
99
e gli ha dato da mangiare. Poi lo ha anche mandato qui a Moresby da parenti, per
farlo andare a scuola. Keke deve tutto alla mia famiglia. Se non fosse stato per
mio nonno sarebbe ancora a piantare kaukau (patata dolce) a Moke.
Dal punto di vista di Puka, il giovane ospite di Okapa Haus che ha
pronunciato queste parole, la transazione di favori avvenuta fra il
proprio clan e Keke giustifica il proprio diritto a essere ospitato,
secondo le regole della tradizione che stabiliscono l'obbligo di rispondere a un dono (un oggetto, ma anche un favore) con un contro-dono.
Nel riferirsi alle aspettative di ospitalità, lo stesso Puka usa il termine
kastom, traducibile con cultura, consuetudine: “Keke ci ospita perché
è la nostra cultura, è il kastom”. È dunque sulla base di un ethos della
reciprocità che caratterizzerebbe la cultura melanesiana nel suo
complesso e che oltrepassa la generosità super-erogatoria di Keke che
Puka si ritiene in diritto di avanzare le proprie richieste.
Questi a sua volta non respinge del tutto le pressioni dei pasendia,
se non altro perché, come molti altri esponenti dell’emergente élite
urbana, progetta di tornare al villaggio una volta in pensione. È
consapevole che perché ciò possa accadere è fondamentale mantenere
buone relazioni con i parenti:
Il ples è sempre nella mia mente. Le relazioni con i wantok sono importanti.
Bisogna coltivarle come si coltivano le piante da frutto. Non è come il
kaukau, che lo pianti è viene su da solo. Con i wantok al ples devi stare
attento come con le piante di mango.
Oltre che a ritrasferirvisi, oltretutto, è interesse di Keke tornare al
villaggio non come una persona qualsiasi, ma con uno status privilegiato. La lontananza da casa non gli ha infatti permesso di partecipare
alla contesa locale per la leadership, e l’unico modo che ha per sperare
di non tonare ad Okapa come il ragazzino che se ne era andato, orfano
e semplice grassroot (una persona qualsiasi), è quindi di soddisfare
una serie di aspettative di generosità che siano in sintonia con il
carattere transazionale delle relazioni sociali e della leadership politica
tradizionale.
Due sono i modi in cui egli cerca di soddisfare tali richieste. Il
I quaderni del CREAM , 2010, X
100
primo consiste, come abbiamo visto, nell’accettare e nel mantenere
pasendia che si trasferiscono a Hohola. Il secondo coincide con il
finanziamento di numerosi rituali, per lo più funerali e matrimoni.
Keke li definisce “customary rituals” e rivendica un ruolo di guida
nella loro promozione, rappresentandosi così come un promotore del
kastom e un suo difensore dalla corruzione dalle influenze della
modernità.
L'uso che fa del termine è però differente da quello degli altri
membri della comunità di Okapians: per questi infatti, sia al villaggio
che in città, il concetto di tradizione e quello di kastom non sono
completamente sovrapponibili. Nel significato che attribuisce al termine Lea, anziana Okapiana migrata a Moresby una ventina di anni fa,
il kastom non si esaurisce solo nell’insieme dei costumi ereditati dal
passato, ma può anche riferirsi a un fenomeno culturale moderno,
abbracciando così un insieme di aspetti dei quali solo alcuni rientrano
nella categoria di tradizione (Martin 2006):
Una volta le donne, quando avevano le sik mun (il ciclo mestruale) stavano in
una piccola capanna e non potevano vedere nessuno. Oggi invece c’è un altro
kastom.
Piuttosto che con tradizione, il concetto di kastom nella sua
accezione diffusa sembra così sovrapponibile più che altro a quello di
“cultura”(Akin 2004).
Keke, al contrario, nel raccontarmi come da giovane, negli anni
Sessanta, il padre lo avesse messo in guardia dall’essere troppo
ambizioso e individualista, atteggiamenti potenzialmente forieri di
attacchi di stregoneria dovuti alla gelosia, usa le seguenti parole:
…io gli ho risposto che questa è una nuova era, è lo sviluppo. Mio padre era
povero. Io gli ho detto: padre, non voglio vivere come te. Anche se volessi
non posso: tu hai l’orto e mangi il kaukau (patata dolce) che coltivi. Io devo
vivere la vita moderna, con un pochino di kastom. Le metto insieme per fare
la mia forza.
Al contrario di Lea, Keke sente il bisogno di distinguere netta-
I quaderni del CREAM , 2010, X
101
mente il kastom dalla modernità (“Io devo vivere la vita moderna, con
un pochino di kastom”) e di sottolineare la sua abilità nel conciliare i
due aspetti (“Le metto insieme per fare la mia forza”). Consideriamo
poi questa sua ulteriore affermazione:
Torno spesso alla vita di villaggio. In questa settimana ho contribuito con molte
kina per le morti a Okapa. Sabato scorso è stata la volta di una donna a
Pusarasa. Sono automaticamente coinvolto. È il genere di legame tradizionale
che bisogna conservare. La mia attività con il kastom non ha mai fine, i legami
tradizionali devono sempre essere presenti e mi spingono fuori dall’ufficio.
Anche qui, al contrario di quanto avviene comunemente, Keke
ribadisce una netta divisione tra vita moderna e tradizionale, che
descrive come conciliabili ma distinte. Assimila il concetto di kastom,
che di solito è impiegato in senso molto generico, alla tradizione e,
ancora più nello specifico, lo circoscrive ai rituali tradizionali. La
retorica della preservazione della tradizione che mette in atto appare
così una strategia politica di negoziazione della propria leadership
all'interno della comunità, attraverso la ridefinizione dei doveri e dei
vantaggi che comporta: sottolineando la propria solerzia nel rispettare i
legami tradizionali, Keke ne fissa allo stesso tempo i confini. Questa
delimitazione gli garantisce così la possibilità di rifiutare le richieste dei
parenti avanzate in contesti sociali esterni rispetto alla sfera della
tradzione. Un esempio è il suo rifiuto di pagare le tasse scolastiche del
figlio maggiore di Paul, suo parente e da un paio d’anni residente a
Hohola: “questo non è kastom e non mi riguarda”.
L’individualismo come marcatore sociale
In un’occasione è capitato che Keke sgridasse la figlia più piccola
perché aveva frugato nella borsa di un parente per prendere della buai
(noce di betel). Questo episodio mi è subito sembrato degno di nota,
perché dissonante rispetto alla pratica quotidiana diffusa a Hohola di
prendere liberalmente qualcosa di “proprietà” di un altro membro
della famiglia senza preoccuparsi di chiedere il consenso.
I quaderni del CREAM , 2010, X
102
Oltretutto l'aneddoto riecheggia alcune descrizioni etnografiche
note all'interno della letteratura antropologica sui principi di scambio
tipici della Melanesia. Già Malinowski (Young 1979, p. 46), per
esempio, aveva descritto le tribolazioni con cui un capo delle Trobriands cercava di conservare qualcuna delle sue noci dalla rapacità
degli abitanti del villaggio, che si sentivano legittimati a prenderle in
continuazione e in gran quantità in virtù dell'obbligo dei Big Men di
dimostrare pubblicamente la loro generosità.
Nonostante il suggestivo rimando alla letteratura, appare evidente
come il problema di Keke fosse leggermente diverso: egli infatti non
si faceva remore a distribuire buai, ma d'altronde vietava alla moglie e
ai figli di fare altrettanto, fermamente deciso a non presentare se stesso come il genere di persona che vive in base alla cultura tradizionale
della condivisione. Si prenda in considerazione il commento di Keke
all'accaduto:
…è che mi da fastidio quando vedo qualcuno che fruga senza chiedere nelle
borse degli altri per prendersi le sigarette o la buai. Quando i parenti di
Feggie (la moglie) vengono in casa mia mi arrabbio se mia moglie chiede
loro sigarette o buai.
Il fatto che i parenti della moglie gli chiedessero in continuazione
noci da masticare non costituiva affatto un problema. Ciò che ai suoi
occhi appariva inaccettabile, invece, era che lo facessero la moglie o la
figlia. Entrambe le azioni sembravano infatti minacciare l’identità della sua famiglia, intesa in questo caso come nucleo famigliare ristretto
e parte di un’élite indigena emergente che fa dell’ideologia della
persona svincolata dalle reti di dipendenza reciproche tradizionali un
fattore di distinzione sociale.
Un pasendia di Hohola, a proposito dell’arrabbiatura di Keke,
commenta in modo significativo: “Lo ha fatto apposta. Ma è sbagliato
rifiutare di condividere la buai. È il kastom”. Nelle parole di questo
“ospite” di Keke gli scambi di noci riflettono in maniera archetipica la
cultura della mutua interdipendenza tipica di Papua Nuova Guinea, un
complesso di idee e di pratiche che informano la quotidianità della
maggior parte degli abitanti del Paese. L’espressione “Lo ha fatto
I quaderni del CREAM , 2010, X
103
apposta” suggerisce l’idea che Keke, con il suo comportamento, stia
esplicitamente criticando questa cultura, cercando di distanziarsene,
utilizzando l’ideologia del possessive individualism come marcatore
sociale, ossia come strumento per tracciare in maniera netta la separazione tra parenti del villaggio e se stesso, tra nucleo famigliare
ristretto e pasendia, fra modernità e tradizione.
Un ulteriore motivo che rende l'episodio delle noci particolarmente
interessante emerge se si tiene conto del fatto che la loro distribuzione
costituisce spesso una della fasi dei rituali di scambio tradizionali di
cui, come già detto, Keke è un solerte finanziatore. Nella sua ottica, in
questi specifici contesti “tradizionali”, e contrariamente alla dimensione quotidiana di Okapa Haus, le aspettative di scambi di noci sono
del tutto legittime, poiché incanalate entro linee guida che prescrivono
precisamente chi debba donare a chi a seconda dalle relazioni in gioco
durante l’evento.
Rovistando tra le borse, invece, i pasendia si rendono responsabili
di confondere i confini tra modernità e tradizione, mischiando
pericolosamente i due ambiti e perpetuando un ciclo senza fine di
reciprocità che Keke considera fastidioso e ideologicamente sbagliato,
tanto da descriverlo come un sintomo del malessere culturale che
affligge il Paese: “il nostro problema è una cultura del consumo. Non
produciamo niente, non creiamo niente. La gente sta seduta in cerchio
aspettando di essere imboccata e pensa che sia il kastom”.
Come hanno mostrato Errington e Gewertz in un interessante
lavoro della fine degli anni Novanta in cui analizzavano la nascita di
un sistema di classi sociali in Papua Nuova Guinea, nei discorsi delle
èlites urbane e politiche del Paese la retorica stigmatizzante verso
l’ethos della dipendenza è un modulo retorico centrale e funzionale al
proprio auto-mantenimento. La stessa retorica, per altro, informa
molte campagne di ONG indigene e straniere: si noti, per esempio, la
campagna sponsorizzata da DFID (Department for International
Development del governo inglese) sull’alfabetizzazione adulta, che
recita: “dai all’uomo un pesce e lo sfamerai per un giorno, insegnagli
come pescare e lo sfamerai per la vita”.
I quaderni del CREAM , 2010, X
104
L’affermazione di Keke è dunque esemplare di un sentire e di
un’ideologia comune tra le classi emergenti: in quest'ottica le richieste
di aiuto dei parenti al villaggio per le tasse scolastiche o per spese di
viaggio sono vissute non solo con noia, ma anche come minaccia alla
propria posizione sociale (Errington, Gewertz 1999, p. 29.) I Big Shots
infatti le considerano esemplari dell’incapacità della gente comune di
prendersi cura di sé. L’idea è ben resa dall’espressione “kaikai nating”
(mangiare a scrocco) con cui Keke descrive l’attitudine di molti
pasendia:
A volte torno a casa dal lavoro, e mi piacerebbe stare con la mia famiglia. Ma
la mia famiglia è grande, e io devo pensare a tutti, anche a quelli che
mangiano a scrocco.
La stessa implicita condanna morale è rintracciabile nell'affermazione della figlia Maggie:
…sarebbe diverso se ognuno avesse in mente le proprie priorità, lavorare
duro e mettere da parte i soldi, per esempio per trasformare le baracche in
legno in case fatte coi materiali moderni, e magari mettendo l’elettricità. Tutti
vogliono qualcosa da papà, ma nessuno fa niente.
Emerge in queste parole un’ideologia della responsabilità individuale basata sulla convinzione che ogni ineguaglianza persistente vada
messa in relazione all’esito di fallimenti personali e non a una mancanza
di corrette transazioni reciproche fra parenti. La retorica modernista di
Keke e di sua figlia narra la possibilità per ogni diligente cittadino di
essere ricompensato per il proprio talento e la propria tenacia. Disegna
un nuovo universo morale, in cui, purché lo vogliano, tutti hanno la
possibilità di ottimizzare le proprie potenzialità. Sempre Maggie,
chiacchierando dei suoi progetti lavorativi una volta terminato quello
che per noi corrisponde al liceo, mi rivela il desiderio di diventare
maestra e aggiunge:“Se dentro il tuo cuore lo vuoi veramente, e con
l’aiuto di Dio, otterrai il tuo risultato. Dipende solo da te”.
Focalizzandosi sulla responsabilità personale del successo e del
fallimento in quello che ideologicamente è definito come un sistema
I quaderni del CREAM , 2010, X
105
giusto e aperto, la retorica dell’impegno personale stigmatizza la
cultura della dipendenza e dell’elemosina, considerate fonte di tutti i
mali, dalla stagnazione economica e dalla corruzione al declino
morale, specialmente giovanile.
Ciò che di questa cultura della dipendenza sembra essere moralmente sbagliato, tuttavia, non è tanto il fatto che esista, quanto
piuttosto che non sia applicata nel giusto contesto. Le parole di Keke
confermano questa necessità di separare i confini tra vita tradizionale
e moderna: “Se non stai attento i parenti ammazzano i tuoi affari con
le richieste continue di soldi e di aiuto. Devi spiegare loro che tu sei
una cosa, e i tuoi affari sono un’altra cosa”.
Non sempre Keke riesce a tenere gli obblighi relazionali chiusi
dentro lo spazio del kastom, ma si sforza di farlo: da un lato cerca di
preservare l’idea di sé come prodotto delle relazioni in cui è coinvolto,
dall’altro propone un nuovo tipo di persona morale, un individuo
discreto che rivendica il diritto di godere in maniera privata ed
esclusiva dei frutti del proprio lavoro.
Accusato dai parenti al villaggio e dai pasendia in città di non fare
abbastanza, replica che la sua negazione di aiuto è legittima, dal
momento che le richieste avanzate avvengono al di fuori dei contesti
rituali. Marcando la separazione tra kastom e mondo moderno non
rifiuta del tutto la cultura della mutua interdipendenza, ma la negozia
incanalandola in specifici spazi e momenti. Fa dell'aspetto relazionale
solo un momento della propria personalità, il cui ambito di applicazione
è la sfera ben delimitata della tradizione. Nel proclamare l’importanza
di questo momento della propria persona crea allo stesso tempo lo
spazio per proporre una concezione alternativa di Sé e della socialità.
Dividuo e individuo
Il lavoro di Read (1967) sul concetto di persona e sulla moralità dei
Gahuku-Gama della Nuova Guinea ha aperto la strada a un ricco
filone di studi sulla Melanesia che, soprattutto negli anni Ottanta, ha
tratteggiato una rigida dicotomia tra aspetti relazionali e individuali
I quaderni del CREAM , 2010, X
106
della persona, facendone due modalità speculari di pensare il sé. In
questi studi la Melanesia veniva rappresentata come un’area culturale
talmente diversa da non possedere un’idea di persona comparabile a
quella occidentale. Per Read la concezione della persona dei Gahuku
Gama infatti “non si basa su alcuna chiara distinzione tra l’individuo e
lo status che occupa” (1967, p. 255). I Gahuku Gama, insomma, non
riconoscono l’esistenza di alcuna categoria etica di persona e
falliscono nell’isolare l’individuo dal contesto sociale e, eticamente parlando,
nel conferirgli un intrinseco valore morale a parte quello che gli è dato dallo
status (Ibidem).
A sua volta Leenhardt, in Do Kamo (1979), ha analizzato la natura
della persona in Melanesia, riducendola al ruolo assunto entro le
relazioni sociali che instaura:
He is unaware of his body, which is only his support. He knows himself only
by the relationships he maintains with others. He exists only insofar as he
acts his role in the course of his relationships. He is situated only with respect
to them. If we try to draw this, we cannot use a dot marked ‘self’ (ego), but
must make a number of lines to mark relationships. The empty space is him,
and this is what is named (Leenhardt 1979, p. 153).
Non si tratta di un settore di indagine ristretto alla Melanesia. In
aree culturali diverse altri studi hanno hanno negato la presenza di
un'idea di persona universale, ponendo l'accento più sull'alterità che
sulla continuità culturale fra noi e gli altri esotici. La volontà di
relativizzare il sé, non astraendolo dal contesto sociale e culturale che
si considera, è per esempio centrale in Clifford Geertz, che in uno
studio comparativo asserisce che:
La concezione occidentale della persona come universo cognitivo integrato,
unico, motivato da un centro dinamico di consapevolezza, da emozioni, discernimento e azione, organizzato in un’unità ben distinta dalle altre entità e
posizionata contro un background di natura e società, per quanto strano possa
sembrarci è, un’idea alquanto peculiare se considerata nel contesto più ampio
delle culture del mondo (1975, p. 48).
I quaderni del CREAM , 2010, X
107
Anche Dumont ha messo in guardia dal proiettare la nostra idea di
individuo in società altre. A proposito dell’India, ad esempio, ha
sostenuto come la giustizia consista nel mantenimento di una distanza
adeguata tra persone definite dal loro ruolo sociale (Dumont 1991, pp.
1,9). L’idea di persona indiana cui si riferisce sarebbe dunque relazionale e contestuale, profondamente diversa da quella occidentale.
È un approccio che, a partire dal lavoro di Marylin Strathern ha
riacquistato credito scientifico. In The Gender of the Gift, testo uscito
nel 1988, l'antropologa ha sostenuto che la persona melanesiana e il
tipo di socialità che ne deriva sono diametralmente opposti a quelle
occidentali, caratterizzate da un’opposizione tra individui e società
(1988: 12-13). La persona melanesiana coincide per l'antropologa con
“il sito plurale, composito e reificato delle relazioni che l’hanno
prodotta” (Ivi, 274). Diversamente dagli occidentali, che per l’antropologa agiscono per creare e mantenere relazioni risultando così gli autori
delle proprie azioni (Ibidem), negli individui melanesiani le relazioni
sono le condizioni per la loro azione (Strathern 1988, p. 305):
The separation between agent and the person who is the cause of his or her acts is
systematic, and governs the Melanesian perception of action. To act as one’s own
cause becomes an innovation on this convention (Strathern 1988, p. 273).
Numerosi altri antropologi hanno poi seguito la direzione di Strathern (Battaglia 2005; Iteanu, 1990). Robert Foster per esempio, in
uno studio sulla socialità e i riti funebri di Tanga afferma:
My interpretation of the two glosses ‘finishing’ (farop) and ‘replacing’ (pilis)
the dead draws on the model of personhood, agency and exchange informing
the New Melanesian Ethnography. For my analysis works within a set of
propositions that do not take for granted autonomous individuals (or groups of
individuals) acting as their own cause. I treat Tangan mortuary practices as a
form of collective action that constructs collective individuals, matrilineages, in
this case, out of composite person(Foster, 1995, p. 11).
Gli ultimi filoni dell'antropologia della Melanesia hanno invece
manifestato scetticismo verso questo tipo di analisi. Pur sottolineanI quaderni del CREAM , 2010, X
108
done i pregi, fra cui una decisa polemica contro la proiezione
etnocentrica di concetti occidentali in zone del mondo che hanno una
storia culturale non assimilabile alla nostra, hanno sottolineato il
rischio di esasperare la differenza reificandola in un'essenza culturale
sospesa nel tempo e indipendente dagli attori sociali e dai loro
differenti posizionamenti (classe, età, genere, status).
Alcuni autori hanno così sostenuto che in Melanesia esistono sia
culture relazionali che individualiste (Clay 1986; Harrison 1985;
Maschio 1994). Analizzando due culture della New Ireland, per esempio, Billings ha sostenuto come i Lavongai abbiano una sorta di attitudine all’individualizzazione, mentre i Tikana siano “group-oriented”
(Billings, 1987).
Un passo decisivo è stato compiuto da Edward Li Puma che ha
cercato di considerare queste due visioni del Sé non come essenze astoriche ma come due ideologie strettamente connesse ai processi
storici ed economici in cui si sono sviluppate. In Encompassing Othes
(1998), una monografia sull'impatto del cristianesimo, del capitalismo
e del colonialismo su alcune società melanesiane, ha voluto scardinare
la dicotomia tra persona occidentale e melanesiana sostenendo come
in tutte le culture vi siano aspetti individuali e relazionali, e come la
differenza stia nel dare importanza all'una o all'altra dimensione del Sé
a seconda del contesto: con l'ingresso di Papua Nuova Guinea nell’“ecumene globale” (Hannerz 2001) é in atto, egli sostiene, un’avanzata dell'individuo sul dividuo, in un processo di omogeneizzazione
culturale che investe in primo luogo le concezioni locali della persona
(Li Puma, 1998, p. 74).
Un'economia politica del Sé
La mia ricerca si pone in sintonia con quella di Li Puma nel
considerare le concezioni della persona come ideologie storicamente
determinate. Tuttavia il dibattito tra Keke e i pasendia attorno alla
liceità o meno di frugare nelle borse altrui per prendere noci di betel se
ne distanzia attorno a una questione a mio avviso cruciale: piuttosto
che un processo in cui l’ideologia dell’individualismo possessivo
I quaderni del CREAM , 2010, X
109
starebbe sostituendo il modello relazionale di persona morale, quello
che è in corso oggi in Papua Nuova Guinea è un dibattito aperto,
spesso una contesa politica, sull’applicabilità di diverse visioni morali
della persona in contesti sociali differenti.
Per i Big Shots come Keke interrompere rompere in maniera
drammatica i rapporti con il villaggio e con i propri wantok è una
strada impraticabile. In primo luogo il rischio di attacchi di stregoneria
dovuti alla gelosia è sempre dietro l'angolo. Inoltre la percezione
dell'ambiente urbano come ostile e pericoloso cui ho accennato all'inizio dell’articolo non vale solo per i grassroots (la gente comune), ma
anche (e forse ancora di più) per i “neo-ricchi”. Anche se, tornando a
casa la sera, vive quella dei pasendia come una presenza invadente,
Keke è perfettamente consapevole del fatto che, in una città in cui la
polizia è drammaticamente corrotta e violenta, la loro presenza è
l'unica garanzia di protezione e sicurezza per la propria casa e la
propria famiglia.
Cerca così di negoziare gli obblighi sociali tradizionali confinandoli all'interno di un perimetro ben delimitato. Al di fuori di quest'area
rituale, prende la distanza dai pasendia e dagli altri Okapians,
reclamando una diversa concezione dei rapporti sociali e dunque della
propria soggettività. Il suo è un uso strategico e posizionale della
rappresentazione di sé, una vera e propria economia politica della
soggettività la cui dimensione politica non sfugge alla comunità di
Okapians.
La natura della leadership che esercita, infatti, è continuo oggetto
di dibattito al villaggio e tra i pasendia, i quali sanno bene che il potere
con cui egli gestisce la propria generosità è ben diverso da quello dei
Big Men del passato. Ciò che costituisce oggetto di dibattito e di
contesa in particolare non è il fatto che Keke abbia aspiri ad affermare
se stesso come individuo. Nella letteratura, infatti i Big Men tradizionali sono spesso descritti come big head, individui che aggirano le
norme e le convenzioni sociali per acquisire potere personale. Robbins
(2004, p. 200), per esempio, mostra come tra gli Urapmin i leader
fossero spesso chiamati angry men, un appellativo che per chiunque
altro è un insulto, ma che applicato ai capi tradizionali riflette ammi-
I quaderni del CREAM , 2010, X
110
razione per la loro ostinazione individuale. Tuttavia la loro possibilità
di rompere le convenzioni del comportamento sociale adeguato per
rafforzare se stessi risiedeva tradizionalmente nel rispetto che avevano
costruito negli anni attraverso la partecipazione alla socialità del
villaggio e alle regole di reciprocità che imponeva, regole che non
erano confinate in momenti specifici, ma che informavano la quotidianità della comunità.
Consideriamo invece questo episodio: durante il discorso di
apertura di una cerimonia funebre svoltasi a Hohola Keke marca una
differenza trai funerali moderni e quelli del passato. Un tempo, spiega,
un Big Men avrebbe donato maiali raccolti nel clan. In questo caso
invece i maiali offerti sono i suoi, pagati con i soldi che ha guadagnato
lavorando. Quasi a rimproverare la mancanza di solerzia della comunità
nel donare maiali, Keke sottolinea l'importanza di rispettare gli obblighi
di reciprocità tradizionali, ma lo fa rimarcando il potere dei soldi.
Quella di Keke è un’autorità che non si basa sul coinvolgimento con le
reti di obblighi reciproci della vita quotidiana del villaggio, quanto
piuttosto, come sostiene un pasendia di Okapa Haus, sul money power,
un potere che “yu yet yu olim” (tieni solo per te).
Sia per Keke che per i pasendia, infatti, modernità e tradizione rappresentano due alternative possibili, da cui derivano identità complementari che abbracciano in maniera contestuale a seconda delle
differenti situazioni. Le soggettività che incarnano non sono né
interamente moderne né tradizionali, né relazionali né individuali.
Articolano, piuttosto, investimenti individuali tra un ventaglio dato di
possibilità (Hall 2002, p. 132), a seconda degli scopi e degli obbiettivi
contingenti e in funzione della risoluzione di problemi specifici.
Queste identità contemporanee mettono in evidenza il carattere dinamico, frammentario e congiunturale delle strategie di costruzione
dell'identità. Demoliscono le visioni sostanzialistiche che in esse vedono “essenze originarie”, siano esse dividuali o individuali, occultandone la dimensione di flusso e cambiamento e velandone i processi
di invenzione che ne sono alla base. Costringono a focalizzare
l’attenzione sulle dinamiche politiche delle identità (Malighetti 2007),
ossia sui complessi rapporti di forza che inducono attori sociali diver-
I quaderni del CREAM , 2010, X
111
samente posizionati, uomini o donne, anziani o bambini, appartenenti
a gruppi dominanti o subalterni, a creare, modellare e utilizzare
categorie come “tradizione”, “etnicità” e “cultura”. Ci obbligano così
a reinserire Papua Nuova Guinea nella contemporaneità, e a considerare il modo del tutto peculiare con cui i suoi abitanti sono uguali e
contemporanei a noi.
Bibliografia
Akin, D., 2004, Ancestral Vigilance and the Corrective Conscience: Kastom as
Culture in a Melanesian Society, “Anthropological Theory”, n. 4, pp. 299-324.
Appadurai, A., 2001, Modernità in polvere, Dimensioni culturali della
globalizzazione, Roma, Meltemi.
Battaglia, D., 2005, Rhetoric of Self-Making, Berkeley, Los Angeles-Oxford, The
Regents of the University of California.
Connell, J., 1997, Moving beyond post-development. Facilitating indigenous
alternatives for development, London, Routledge,
Dumont, L., 1991, Homo hierarchicus: il sistema delle classe e le sue
implicazioni, Milano, Adelphi,
Errington, F., Gewertz, D., 1999, Emerging class in Papua New Guinea: The
telling of difference, Cambridge, Cambridge University Press.
Foster, R. J., 1999, Social reproduction and history in Melanesia: Mortuary
ritual, gift exchange, and custom in the Tanga Islands, Cambridge, Cambridge
University Press.
Geertz, C., Geertz, H., 1975, Kinship in Bali, Chicago, University of Chicago Press.
Gnecchi Ruscone, E., Paini, A, 2009, Antropologia dell’Oceania, Milano,
Raffaello Cortina.
Goddard, M. 2001, From Rolling Thunder to Reggae: Imagining Squatter
Settlements in Port Moresby, “The Contemporary Pacific”, n. 13(1), pp. 1–32.
Hall, S., 2002, “Who needs identity?”, in C. Bianchi, C. Demaria, S.Nergaard, (a
cura), Spettri del potere. Ideologia identità traduzione negli studi culturali,
Roma, Meltemi, pp. 129-155.
Hannnerz, U., 2001, La diversità culturale, Bologna, Il Mulino.
Iteanu, A., 1990, The Concept of the Person and the Ritual System: An Orokaiva
View, “Man”, n. 25, pp. 35-53.
Knauft, B., 2002, (a cura), Critically Modern: Alternatives, Alterities,
I quaderni del CREAM , 2010, X
112
Anthropologies, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis.
Leenhardt, M., 1947, Do kamo: La personne et le mythe dans le monde
melanesien, Paris, Gallimard.
Levine, H.B., Levine, M.W., 1979, Urbanization in Papua New Guinea: a study
of ambivalent townsmen, New York, Cambridge University Press.
Li Puma, E., 2000, Encompassing Others: The Magic of Modernity in Melanesia,
Ann Arbor, The University of Michigan Press.
Macpherson, C. B., 1962, The political theory of possessive individualism:
Hobbes to Locke, London, Oxford University Press.
MalighettI, R., (a cura), 2007, Politiche dell’identità, Roma, Meltemi.
Martin, K., 2006, “A fishtrap for custom, Hownets work at Matupit. Paideuma”,
in J. Robbins, (a cura), Possessive Individualism and Cultural Change in the
Western Pacific, “Anthropological Forum”, n. 17 (3), pp. 299-308.
Mihalic, F., 1983, The Jacaranda Dictionary and Grammar of Melanesian
Pidgin, Marrickville, Jacaranda Press.
Oram, N. D., 1968, The Huli in Port Moresby, “Oceania”, n. 39 (1), pp.1-35.
Read, K., 1967, “Morality and the Concept of the Person among the GahukuGama”, in J. Middleton, Myth and Cosmos, New York, Doubleday.
Rew, A., 1974, Social Images and Process in Urban New Guinea: A Study of Port
Moresby, St. Paul-New York-Boston, West Publishing Co.
Robbins., J., 2004, Becoming Sinners: Christianity and Moral Torment in a
Papua New Guinea Society, Berkeley, University of California Press.
Ryan, D., 1989, Home Ties in Town: Toaripi in Port Moresby, “Canberra
Anthropology”, n. 12, pp. 19-22.
Sahlins., M.,1965, On the sociology of primitive exchange, in M. Banton, The
Relevance of Models for Social Anthropology, London, Tavistock, pp.139-236.
Schlor, J., 1998, Nights in the Big City: Paris, Berlin, London, 1840-1930,
London, Reaktion Books.
Sillitoe, P., 2000, Social change in Melanesia: development and history,
Cambridge-New York, Cambridge University Press,.
Strathern, A., 1971, The rope of moka: big-men and ceremonial exchange in
Mount Hagen, New Guinea, Cambridge, Andrew Strathern University Press.
Strathern, M. 1988, The Gender of the Gift: Problems with Women and Problems
with Society in Melanesia, Berkeley, University of California Press.
Strathern, M., 1975, No money on our skins: Hagen migrants in Port Moresby,
Canberra, “New Guinea Research Bulletin”, n. 61, Canberra.
Taussig, T., 1992, The nervous system, New York, Routledge.
Vertovec, S., 2001, Transnational Social Formation: Towards Conceptual CrossFertilization, Transnational Community Working Paper
I quaderni del CREAM , 2010, X
113
Ward, M.W., 1977, “Urbanisation. Threat or Promise?”, in R. J. May, Change
and Movement: Readings on Internal Migration in Papua New Guinea.,
Canberra, Australian National University Press, pp. 52–8.
Young, M.W. B., 1979, (a cura), 1979, The ethnography of Malinowski, London,
Routledge.
I quaderni del CREAM , 2010, X
114
ANTONIO DE LAURI
1
QUESTIONIDI ANTROPOLOGIA GIURIDICA:
UNA INTRODUZIONE
Diritto
Sebbene sia opinione diffusa2 che un’attenzione sistematica nei
confronti di questioni come la giustizia e i diritti umani rappresenti un
fenomeno piuttosto recente all’interno dell’impresa teorica e (ancor di
più) etnografica della disciplina antropologica, occorre però ricordare
che un certo tipo di influenza giuridica rimanda proprio agli albori
dell’antropologia sociale e culturale. Lo studio della parentela giocò in
questo senso un ruolo decisivo. I sistemi di parentela, tradizionalmente, erano stati oggetto di studio del diritto civile e del diritto penale,
affrontando, il primo, la questione della determinazione dei gradi di
parentela e dei processi di successione ereditaria dei beni; mentre il
diritto penale si occupava soprattutto delle liceità e dei divieti circa le
relazioni sessuali e matrimoniali tra parenti (Remotti 1982). La parentela, tuttavia, non costituiva un campo di studi autonomo nell’ambito
della tradizione intellettuale occidentale; fu quindi grazie all’antropologia che tale campo di studi acquisì centralità e autonomia all’interno della più generale attenzione per le strutture sociali. È degno di
nota il fatto che i cosiddetti fondatori dell’antropologia sociale e
culturale fossero in buona parte giuristi, o che comunque avessero
1 Dottore di ricerca in Antropologia della contemporaneità, Università di Milano –
Bicocca.
2 Si veda per esempio Goodale 2008.
I quaderni del CREAM , 2010, X
115
formazione e interessi legati all’ambito giuridico (ibidem).
Se vi è un certo accordo nel rintracciare nell’opera di Montesquieu3
un barlume di quella congiunzione tra diritto e antropologia che si
sarebbe affermata qualche secolo più avanti, altrettanto ve n’è nel
fissare verso la metà del diciannovesimo secolo una chiave di svolta
per gli sviluppi dell'antropologia culturale.
Dai tempi delle grandi scoperte e delle drammatiche conquiste, gli
europei appresero dell’esistenza di altre culture e altri sistemi di vita,
considerati “arretrati”, “selvaggi”, “primitivi”. I giuristi, dal canto
loro, si interessarono poco allo studio dei modelli normativi differenti,
almeno fino alla nascita del romanticismo, quando la scuola storica
cominciò a collegare il diritto alle particolari culture dei singoli popoli: furono le premesse per gli studi di autori come H. S. Maine
(1861), J. J. Bachofen (1861), L. H. Morgan (1851, 1871, 1877) e
altri4. Per l’utilizzo dell’espressione “antropologia giuridica” si dovette tuttavia attendere l’opera di Albert Hermann Post5, Grundriss der
ethnologischen Jurisprudenz, del 1891.
Bachofen, docente di diritto romano e magistrato presso il Tribunale penale di Basilea, viene ricordato soprattutto per le sue tesi sul
matriarcato. Studiando i sistemi di parentela, all’interno della prospettiva evoluzionista del tempo, egli ipotizzò una fase in cui le donne,
superando lo stadio dell’“eterismo”, in cui vigeva la tirannia sessuale
degli uomini, affermarono mediante l’istituzione della famiglia uno
stadio in cui si impose il matriarcato (“demetrismo”). In seguito, a
causa di una estremizzazione del potere femminile (“amazzonismo”),
vi fu una degenerazione del diritto materno e si passò ad un ulteriore
stadio caratterizzato dal diritto paterno. Secondo Bachofen, il diritto
materno rimase legato alla famiglia, mentre quello paterno sfociò
nell’idea di Stato. L’ipotesi circa l’esistenza di una filiazione matrimoniale, preceduta da un’epoca di indifferenziazione (una fase di
promiscuità primitiva), è stata ripresa altre volte in seguito, anche se
3 Si considerino per esempio le seguenti opere: Système des Idées (1716), De l'esprit des lois
(1748), La défense de «L'Esprit des lois» (1750). Su Montesquieu si veda Althusser 1995.
4 Si veda Sacco 2002.
5 Per un recente scritto dedicato all’opera di questo autore, si veda Lyall 2008.
I quaderni del CREAM , 2010, X
116
ormai può dirsi abbandonata. Non vi sono dati etnografici in grado di
confermare l’esistenza di questo stadio di promiscuità primitiva e sono
pochi coloro che ritengono plausibile un’epoca in cui si affermò il
matriarcato (Remotti 1982, Rouland 1992). Se quindi l’opera di
Bachofen fu poco incisiva per ciò che riguardava le sue tesi, più
rilevante fu il suo contributo dal punto di vista metodologico. Egli,
infatti, diffidente nei confronti dell’analisi filologica, che teneva in
considerazione solo fonti documentali, privilegiò un approccio più
comprensivo dedicandosi allo studio delle opere d’arte e della mitologia. La sua importante intuizione a proposito dei miti fu di
comprendere la capacità che questi hanno di svelare “verità” interiori
in grado di raccontare e descrivere la “realtà”. Si gettava così il seme
per un approccio giuridico-antropologico capace di “decrittare le
immagini e i simboli della scrittura” (Rouland 1992, p. 45), prendendo
le distanze da un’interpretazione prettamente testuale.
La produzione scientifica di H. Summer Maine fu caratterizzata da
un'impostazione piuttosto differente. Maine ricoprì nel tempo diverse
cariche importanti: professore di diritto civile a Cambridge e di diritto
romano a Londra. Dal 1869, professore di Historical and Comparative
Jurisprudence a Oxford. Per diversi anni Maine visse in India, dove fu
legal member del Consiglio del Viceré e vice-chancellor dell’Università di Calcutta. Importante fu anche il suo contributo nella codificazione del diritto indiano. L’esperienza in India ebbe del resto notevoli
conseguenze sull’opera di Maine, contribuendo all’elaborazione di
“una prospettiva di ricerca comparata (Comparative Jurisprudence)
che esplicitamente Maine intendeva affermare nel campo del diritto in
diretta analogia con la filologia comparata e la mitologia comparata”
(Remotti 1982, p. 12).
Unendo le conoscenze acquisite sulla società e sul diritto indiano
allo studio dei diritti europei (quello irlandese in particolare), Maine
elaborò le sue idee circa le evoluzioni del diritto, individuando tre
stadi di evoluzione: inizialmente gli uomini credono che il diritto
venga dagli dei, i quali usano i sovrani per dettare le loro leggi; in un
secondo stadio il diritto viene identificato con la consuetudine;
nell’ultimo stadio il diritto si confonde con la legge. All’interno di
I quaderni del CREAM , 2010, X
117
questo processo evolutivo, il diritto passa progressivamente dallo
status al contratto. Inoltre, mediante le sue analisi sul culto degli
antenati, Maine cercò “di dimostrare l’anteriorità della discendenza
patrilineare e della società patriarcale” (Rouland 1992, p. 44).
Come Bachofen, Maine elaborò le sue teorie nell’ambito della
prospettiva evoluzionista del tempo, sostenendo che solamente le
società europee avevano saputo dimostrate dinamismo nell’ambito
dell’evoluzione giuridica, mentre le altre società si erano dimostrate
“stazionarie”. Secondo l’autore, non tutte le società, infatti, avrebbero
conosciuto il progresso; opposte alle società stazionarie vi erano
quelle “progressiste” in cui, attraverso l’adozione di codici e leggi, si
era interrotto lo “sviluppo spontaneo” del diritto.
Mentre gli studi di Bachofen ebbero ben poca influenza sugli
sviluppi dell’antropologia sociale e culturale, l’opera di Maine giocò
al contrario un ruolo importante. Le influenze di quest’ultimo furono
certamente incisive anche sulla giurisprudenza, al punto che Leopold
Pospisil (1971) le paragonò a quelle di Einstein sulla fisica, Freud
sulla psicologia e Durkheim sulla sociologia.
Autore contemporaneo di Maine e Bachofen fu l’avvocato di
Edimburgo John F. McLennan, il quale introdusse (1865) termini quali
“sistemi di parentela”, “endogamia”, “esogamia”, che ancora oggi
costituiscono un punto di riferimento concettuale per molti antropologi. Alcune sue idee vennero poi riprese da Morgan, avvocato
newyorkese considerato tra i principali esponenti dell’evoluzionismo6.
Sebbene il metodo etnografico non fosse ancora stato coerentemente delineato, si può dire che Morgan, a differenza dei suoi predecessori
e contemporanei, abbozzò una sorta di ricerca sul campo, compiuta tra
gli indiani americani, soprattutto tra gli irochesi dello Stato di New
York. Il suo studio sugli irochesi (1851) offriva una descrizione articolata dell’organizzazione sociopolitica delle sei tribù che componevano
la federazione irochese. È interessante notare che questo lavoro non
nacque per ragioni che potremmo definire scientifiche, ma derivava da
una serie di lettere che Morgan aveva pubblicato qualche anno prima,
6 L’opera di Morgan ebbe un impatto decisivo anche sul pensiero di Engels; si veda in
particolare il suo Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des States del 1884.
I quaderni del CREAM , 2010, X
118
dopo aver vinto una causa giudiziaria rappresentando come avvocato
difensore gli indiani seneca, impegnati in una disputa con un gruppo di
speculatori circa il possesso delle loro terre. Questo aspetto della
biografia di Morgan è particolarmente interessante, soprattutto nell'ottica dello sviluppo, affermatosi con una certa rilevanza negli Stati Uniti,
della consulenza antropologica nei campi di applicazione del diritto.
Il 1871 fu una data importante per l’antropologia, poiché vennero
pubblicati Primitive Culture di E. B. Tylor e Systems of Consanguinity
and Affinity of the Human Family dello stesso Morgan. La valenza per
così dire “politica” che aveva interessato l’opera del 1851 lasciò il
campo ad un approccio più scientifico, dove Morgan prese in esame i
dati relativi ai sistemi di parentela degli indiani nordamericani
(ottenuti grazie a quattro ricerche condotte tra diverse tribù del Kansas
e del Nebraska) e una raccolta di dati sui sistemi di parentela di tutto il
mondo (realizzata tramite un questionario diffuso dalla Smithsonian
Institution). L’analisi di questi dati portò Morgan ad individuare in
America e in Asia, pur constatando le diversità tra i vari sistemi, una
simile logica di strutturazione dei sistemi di parentela, a differenza del
gruppo dei sistemi che Morgan chiamò Ariani, Semitici e Uralici,
caratteristici dei “popoli civilizzati”, che presentava invece un
differente principio di strutturazione (Fabietti 1991).
Si delineavano così due grandi gruppi di sistemi di parentela, che
presentavano modi radicalmente diversi di designare i parenti consanguinei. I due gruppi individuati da Morgan furono quello dei sistemi
“classificatori”, cui appartenevano sistemi di parentela come quello
irochese, e quello dei sistemi “descrittivi”, del tipo del sistema
europeo. Nei sistemi classificatori, i parenti consanguinei in linea
collaterale non vengono distinti a livello linguistico dai parenti in linea
diretta: i figli chiamano padre anche il fratello del padre e, coerentemente, chiamano fratelli i figli del fratello del padre. Nei sistemi
descrittivi, invece, i parenti consanguinei in linea collaterale vengono
distinti dai parenti in linea diretta (ibidem).
Gli scritti di Morgan – espressione dell'approccio evoluzionista di
quel tempo – furono poi fortemente criticati nel corso degli anni, ma è
comunque interessante porre in evidenza il valore paradigmatico dei
I quaderni del CREAM , 2010, X
119
suoi studi. Con tutti i limiti del suo tempo, l’opera di Morgan aprì
infatti ad una prospettiva di ricerca caratteristica anche delle fasi più
mature dell’antropologia. Sebbene Morgan privilegiasse i sistemi
descrittivi, egli conferì ai sistemi classificatori un indubbio valore
euristico. E proprio mediante l’opposizione tra sistemi classificatori e
descrittivi, Morgan mise in luce le caratteristiche di questi ultimi: “lo
studio dei sistemi delle altre società è dunque indispensabile per
percepire l’esistenza di qualcosa di analogo o di diverso nella nostra
stessa società” (Remotti 1982, p. 15). La visione dicotomica di
Morgan fu poi abbandonata negli studi successivi in favore di una
visione pluri-centrica, o persino a-centrica, in cui il sistema di parentela dello studioso altro non appare se non uno dei diversi tipi o
sottotipi tra i sistemi possibili (ibidem).
Probabilmente, Ancient Society (1877) rimane l’opera che più ha
contribuito a costruire la fama del suo autore, ugualmente in termini di
critica e di elogio. Per i seguaci di Boas, per gli eredi del funzionalismo
britannico e per gli strutturalisti, Ancient Society era il prodotto
dell’ideologia evoluzionista, diversamente da Systems of Consenguinity
and Affinity, che racchiudeva invece la portata scientifica del
contributo di Morgan. Dall’altra parte vi erano coloro che, sulla scia di
Marx ed Engels, lessero invece in Ancient Society un contributo
fondamentale alla “scienza della storia”. Ovviamente, entrambe le
opere di Morgan erano frutto del periodo storico in cui si inserivano:
se in Systems l’evoluzionismo operava in maniera discontinua ed era
apparentemente subordinato alla costruzione delle tipologie di
parentela, nell’opera del 1877 l’evoluzionismo veniva a costituire
l’orizzonte stesso di intelligibilità del progresso e dello sviluppo
storico (Fabietti 1991).
Tutta l’opera di Morgan deve inoltre essere considerata in relazione
alla “questione indiana”, piaga della memoria nordamericana, che in
quegli anni era al centro dei dibattiti e delle azioni politiche.
All’interno di quel processo evolutivo che per gli studiosi di quel
tempo scandiva le fasi dei gruppi sociali umani,
Morgan non pensò mai che le caratteristiche della società indiana del suo
tempo fossero identiche a quelle che tale società aveva prima dell’impatto
I quaderni del CREAM , 2010, X
120
con la società dei bianchi. La tendenza a dissociare l’Indiano come oggetto di
scienza dall’Indiano come oggetto di una violenza politica e culturale sarà
destinata a rappresentare invece un elemento diffuso all’interno dell’antropologia americana durante gli anni immediatamente successivi alla scomparsa di Morgan (ibidem, p. 45).
L'opera degli autori fin qui menzionati7 fu importante nel processo
di elaborazione del metodo comparativo, fulcro del ragionamento
antropologico. Fu proprio la prospettiva comparativa che aprì la strada
alla crescente capacità di relativizzare e contestualizzare i mondi
sociali e normativi che si schiudevano alla conoscenza. Già in Maine e
Morgan era infatti possibile rintracciare una “coscienza comparativa”
(Nader 2000) volta a spiegare il “reale” di fronte ai (e distante dai)
propri occhi. Con l’inizio del ventesimo secolo, la prospettiva evoluzionista fu rapidamente messa da parte, oggetto di una forte critica
da parte di studiosi come F. Boas (da molti considerato il padre del
relativismo culturale), R. Lowie e ancor di più poi B. Malinowski,
padre del funzionalismo in antropologia e massimo riferimento per
quanto riguarda l’adozione del metodo etnografico.
Lo stesso Malinowski si impegnò nell’analisi dei fenomeni normativi, innescando un lungo dibattito circa la natura e i metodi di
osservazione di tali fenomeni all’interno delle società “tradizionali”8.
Solo qualche decennio più tardi tale dibattito cominciò ad affievolirsi,
lasciando il posto al tema dominante del pluralismo giuridico (che
pure aveva le sue origini agli inizi del Novecento), che ancora oggi
interessa le analisi giuridico-antropologiche.
Nel libro Crime and Custom in Savage Society (1926), Malinowski
criticava l’analisi normativa – volta ad identificare il diritto con un
7 Non è possibile in questa sede dedicare spazio alle moltissime accuse che sono state
mosse nei confronti degli evoluzionisti. Senza dubbio, l’antropologia contemporanea non è
stata avida di critiche nei confronti del suo stesso passato.
8 Espressioni quali “società semplici”, “società complesse”, “società primitive” e così via
sono state nel tempo problematizzate e abbandonate negli studi antropologici. L’utilizzo di
tali espressioni, in questa sede, è dovuto al fatto che gli autori menzionati facevano ricorso
a tali termini; dunque è solo nel tentativo di riportare il loro pensiero che le suddette
espressioni compaiono in queste pagine.
I quaderni del CREAM , 2010, X
121
corpus di regole sociali vincolate ad un sistema sanzionatorio –
insistendo sulla funzione del diritto, piuttosto che sulle modalità di
espressione dello stesso. Per Malinowski, il diritto non doveva essere
necessariamente associato all’esistenza di una sanzione imposta da un
potere centrale, poiché ciò concerne solo alcuni tipi di diritto, in
alcune società. Nell’idea malinowskiana, il diritto assumeva in primo
luogo una funzione di reciprocità, la quale garantirebbe la coesione
della società. In altre parole, la coesione e l’ordine della società non
deriverebbero dall’imposizione di un’autorità, in grado di usare la
forza, quanto piuttosto da obblighi (vincolanti) reciproci. In questa
prospettiva, sarebbero le relazioni sociali, e non le istituzioni e le
norme, a plasmare il comportamento degli individui. Attraverso la sua
esperienza di ricerca tra i trobriandesi, Malinowski individuò nella
reciprocità il meccanismo di mantenimento dell’ordine, rilevando allo
stesso tempo la propensione dell’individuo – tanto nelle società
“civilizzate” quanto in quelle “primitive” – a fare i propri interessi e
ad essere soggetto a dinamiche psicologiche e sociali molto complesse
(in questo modo l’antropologo spiegava per esempio i malfunzionamenti negli scambi commerciali tra le popolazioni della costa e
quelle dell’interno).
In breve, come ha sottolineato la Moore (1969), nella prospettiva di
Malinowski è la reciproca dipendenza insita nelle relazioni sociali che
conferisce effettività alle norme; il diritto, in quest’ottica, viene a
coincidere con il processo generale del controllo sociale.
Malinowski superò quindi l’idea di una sottomissione automatica
dell’individuo al costume, problematizzando la questione degli “obblighi vincolanti” in termini etnografici.
Le intuizioni di Malinowski lasciarono ampi margini di riflessione
nell’ambito dell’antropologia giuridica9, anche se la definizione di
diritto da lui offerta fu poi criticata, soprattutto a causa della sua
eccessiva genericità.
In seguito, diversi autori cercarono di operare una restrizione del
campo del diritto. A. R. Radcliffe-Brown (1952), interessato all’analisi
9 In uno scritto pubblicato postumo, Malinowski (1942) sottolineava il fondamentale ruolo
che l’antropologia poteva giocare nello studio del diritto.
I quaderni del CREAM , 2010, X
122
dei rapporti sociali che costituiscono la struttura sociale, si dedicò
all’individuazione delle leggi e dei meccanismi che garantiscono la
continuità sociale. All’interno di questa generale prospettiva, Radcliffe-Brown insistette sulla possibilità di coercizione delle sanzioni
giuridiche; il controllo sociale sarebbe così garantito mediante l’uso
della forza da parte di un’autorità costituita, all’interno di una società
politicamente organizzata. Non tutte le società, dunque, possiedono un
diritto: quando a certi obblighi non corrispondono sanzioni giuridiche,
questi obblighi devono essere considerati come questioni di costume;
alcune società “semplici” non hanno un diritto, ma tutte le società
hanno costumi a cui corrispondono certe sanzioni.
Nella medesima prospettiva si mosse S. F. Nadel (1947), il quale
sostenne appunto che per poter parlare di diritto è necessario che vi sia
l’uso della forza. Ma questo aspetto, da solo, non presuppone l’esistenza di un diritto: se la sanzione priva di forza rimanda al costume,
l’uso della forza senza pubblico consenso non dà il diritto. Anche
Edward A. Hoebel fece ricorso al concetto di forza per definire i
fenomeni giuridici, e più precisamente al concetto di “forza fisica”.
Secondo l’autore di The Law of Primitive Man, “una norma sociale
diventa giuridica se la sua inosservanza o la sua infrazione viene
contrastata regolarmente – di fatto o sotto forma di minaccia – con
l’applicazione della forza fisica di coercizione da parte di un individuo, o un gruppo, che possiede il privilegio socialmente riconosciuto
di agire in tal modo”10.
Alcuni anni dopo, R. Redfield (1967) proseguì anch’egli il
percorso avviato da Radcliffe-Brown sostenendo che il diritto consiste
nella possibilità che lo Stato ha di applicare sistematicamente la forza,
allo scopo di garantire determinate regole di condotta. Il diritto, nella
prospettiva di Redfield, non è presente in tutte le società in maniera
uniforme: nelle società cosiddette “preletterate” il diritto è presente in
forme rudimentali, in quanto “anticipazioni” del diritto così come si è
sviluppato nelle società “complesse”. Le società preletterate variano
significativamente, presentando forme differenti di consuetudini e
10 Hoebel 1954, cit. in Remotti 1982, pp. 32-33. Per approfondimenti sul contributo di
Hoebel per l’antropologia giuridica si veda anche Motta 1994.
I quaderni del CREAM , 2010, X
123
comportamenti, che lasciano presagire (“anticipano”) le istituzioni
giuridiche delle società complesse (Remotti 1982). Per quanto potesse
risultare interessante l’apertura di Redfield all’idea di variabilità/pluralità delle istituzioni giuridiche, la sua impostazione sembrava
soffrire in un certo modo di alcuni strascichi delle teorie evoluzioniste.
In questo senso, la prospettiva di Redfield riportava alla mente
posizioni passate: il diritto “pienamente sviluppato” delle cosiddette
società complesse (Stato-centriche) finiva col diventare il punto di
riferimento privilegiato dell’antropologo.
Più articolata fu l'analisi di Pospisil (1971), secondo il quale il
diritto corrisponde a “principi di controllo sociale istituzionalizzato,
astratti da decisioni prese da un’autorità giuridica (giudice, capo,
padre, tribunale, consiglio di anziani), principi che si intende applicare
universalmente (a tutti i casi “uguali” in futuro), che coinvolgono due
parti legate da una relazione di obligatio e che sono accompagnati da
una sanzione di natura fisica o non fisica” (ivi, p. 95). Secondo
Pospisil, infatti, sarebbero quattro gli attributi che definiscono il diritto: l’autorità, l’intenzione di applicazione universale, l’obligatio, la
sanzione. L’autorità giuridica consiste nel potere che un individuo, o
un gruppo di individui, ha di indurre o costringere la maggioranza dei
membri dello stesso gruppo sociale a conformarsi alle loro decisioni
(ibidem, p. 44). Il secondo aspetto, vale a dire l’intenzione di applicazione universale, è ciò che distingue l’autorità giuridica da quella
politica. A differenza di quest’ultima, infatti, l’autorità giuridica,
prendendo una decisione, intende che questa sia applicabile a tutti i
casi simili o “identici” che si presenteranno in futuro. Importante
sottolineare il criterio dell’intenzione, che non rimanda necessariamente ad una regolare e consuetudinaria applicazione di una regola o
di un principio (ibidem, p. 79). L’analisi comparativa interculturale di
Pospisil lo portò, in questa direzione, ad individuare una terza
caratteristica del diritto, un attributo che egli definì obligatio, il quale
fa riferimento alla relazione socio-giuridica tra le parti coinvolte in
una disputa, per cui la decisione afferma allo stesso tempo i diritti di
una parte e gli obblighi dell’altra. Secondo Pospisil, l’espressione
latina obligatio sarebbe più adatta di quella di “obbligo” poiché
I quaderni del CREAM , 2010, X
124
rimanda precisamente allo iuris vinculum, il legame che unisce i
doveri di una persona ai diritti di un’altra (ibidem, pp. 81-82). Il
quarto attributo è quello della sanzione, un criterio che ha giocato un
ruolo importante nelle diverse teorie giuridiche, al punto che in alcuni
casi si è teso ad identificare il diritto stesso con la sanzione. Pospisil
mise in discussione il fatto che la sanzione potesse da sola definire un
fenomeno sociale come il diritto; di certo, non ne costituisce un
criterio esclusivo. La sanzione, infatti, può essere ritrovata anche in
molte decisioni politiche ad hoc, senza che vi sia però l’intenzione da
parte dei leader di applicare tali decisioni e sanzioni a situazioni simili
future. In questo senso, perché una decisione associata ad una sanzione possa essere considerata giuridica, è necessaria la presenza dell’attributo identificato nell’intenzione di applicazione universale. Inoltre,
superando l’idea di Hoebel (1954), che associava il diritto all’esercizio
della forza fisica, Pospisil riconobbe che vi sono diversi tipi di
sanzioni che possono essere applicate, di natura economica, psicologica,
sociale (come l’ostracismo, la riprovazione pubblica, etc.). Nel suo
scritto, Pospisil sottolineava infatti che se avesse accettato l’idea per cui
una sanzione deve necessariamente essere fisica, per sua natura, allora
molti dei casi da lui osservati tra i kapauku, i nunamiut, i tirolean, non
avrebbero potuto esser considerati dei legal cases. Ma, ancor più
importante, in tal caso non si sarebbe potuto affermare che il diritto è un
fenomeno universale (ibidem, pp. 87-89).
Come ha evidenziato Remotti (1982), la definizione di diritto
offerta da Pospisil godeva di una notevole “estensione etnografica”,
era cioè adattabile, in maniera efficace, ad una pluralità di contesti.
In questa breve ricostruzione storica relativa all'identificazione e
all'analisi del diritto, va ricordato che un primo sistematico tentativo di
indagare le dinamiche del diritto in seno ad un tribunale non
occidentale si ebbe con Max Gluckman, che nel 1955 pubblicò The
Judicial Process Among the Barotse, un testo che conteneva, tra il
resto, due importanti elementi innovativi: uno che rimandava alla
prospettiva e all’apertura teorica, l’altro alla metodologia di ricerca.
Questo lavoro rappresentò un importante punto di svolta. Nel testo
veniva offerta per la prima volta una scrupolosa descrizione di un
I quaderni del CREAM , 2010, X
125
tribunale di una società non occidentale, attraverso un’indagine
condotta dall’autore sulle procedure specifiche del tribunale dei
barotse (Rhodesia settentrionale, poi Zambia). L’analisi di Gluckman,
a differenza di quella di Llewellyn e Hoebel (1941), si fondava su uno
studio di casi attuali osservati direttamente. Fu nell’ambito di questo
studio che Gluckman presentò il criterio dell’“uomo ragionevole”, a
partire dal lavoro svolto dai giudici barotse nell’affrontare casi
particolarmente delicati.
Come ricordato da Sally Falk Moore (2001), Gluckman era
interessato a comprendere “due Afriche” in una volta sola, quella del
passato e quella presente. Il padre della Scuola di Manchester leggeva
le società africane alla luce dei processi coloniali, delle grandi migrazioni, dell’influenza cristiana, delle trasformazioni economiche che
tali società avevano vissuto. Il suo studio rappresentava dunque il
primo tentativo di indagare una corte coloniale africana al lavoro. Fino
ad allora, il diritto in Africa era stato generalmente presentato come un
set di regole consuetudinarie, espresse da capi o altre autorità. Le
cosiddette regole consuetudinarie costituivano teoricamente i principi
guida delle corti coloniali, anche se il diritto consuetudinario esprimeva, in sostanza, una versione talmente alterata delle pratiche indigene da risultare come un’apposita costruzione coloniale, o quantomeno
come una conseguenza del colonialismo. Questa convinzione cominciò ad essere sempre più accettata negli anni a seguire – significativi
per esempio i lavori di autori come Fallers, Colson, e poi Snyder,
Chanock (Moore 2001, p. 97-98).
Quando Gluckman scrisse The Judicial Process Among the Barotse,
il diritto consuetudinario era considerato un’espressione della tradizione indigena. Soffermandosi sulle dispute e sulle decisioni, Gluckman
focalizzò la sua attenzione sulle regole e il ragionamento. Proprio a
partire dai casi direttamente osservati, Gluckman fece dunque ricorso
all’idea di ragionamento giuridico fondato su principi logici riscontrabili in ogni sistema giuridico. Diverse critiche vennero mosse nei
confronti di tale assunto, visto da molti come un tentativo di
occidentalizzare il diritto dei barotse: un artificio retorico dell’antropologo che non corrispondeva all’effettiva prassi giudiziaria dei barotse.
I quaderni del CREAM , 2010, X
126
Secondo la Moore (2001), tuttavia, ciò che molti critici non seppero
cogliere era che l’interpretazione universalistica di Gluckman implicava
un posizionamento politico: l’antropologo intendeva dimostrare che i
sistemi giuridici indigeni africani potevano essere considerati razionali
– in termini weberiani – tanto quanto i sistemi occidentali. Gluckman
cercava infatti di evidenziare le somiglianze tra società semplici e
complesse nell’agire attraverso il diritto (1955, p. 224). I contesti
possono cambiare, ma la logica che soggiace al ragionamento rimane
la stessa. In questo senso, attraverso la comparazione tra pensiero
giuridico africano e occidentale, Gluckman cercò di esprimere il suo
messaggio di uguaglianza (Moore 2001, p. 98).
Se l’analisi comparativa di Gluckman fu orientata a cogliere le
somiglianze, quella di Bohannan (1957) fu invece indirizzata ad
esplicitare le differenze, operando una distinzione in primo luogo tra
sistema indigeno e sistema analitico. Il primo, secondo Bohannan, si
compone delle categorie indigene (folk, quelle che è compito dell’antropologo svelare), mentre il secondo è costituito dalle particolari categorie dell’antropologia, attraverso le quali è possibile operare un’analisi comparativa. Per poter afferrare il sistema indigeno, e le categorie
che lo costituiscono, è necessario, in questa prospettiva, comprendere
e analizzare i termini indigeni. Come è stato osservato, “quando
Bohannan afferma che è metodologicamente scorretto impiegare termini – e quindi concetti – del nostro sistema giuridico nella descrizione di un altro sistema giuridico, non fa altro che esprimere la difficoltà
di tradurre i contenuti di un sistema culturale nelle categorie di un
altro sistema”11 (Remotti 1982, p. 42).
Anche in questo senso, l’approccio di Bohannan era diverso da
11 Secondo Simon Roberts, l’enfasi posta da Geertz sull’interpretazione rappresentò un
deciso superamento del progetto etnografico di Bohannan. L’idea geertziana delle
interpretazioni di interpretazioni farebbe vacillare l’integrità del modello folklorico come
unica possibilità per un estraneo di trovare un appiglio per capire “quello che sta
succedendo”. Per Roberts, Geertz faceva riferimento ad un’idea di “significato” non
pienamente comprensibile nell’opposizione folklorico/analitico. Se pensiamo al combattimento dei galli di Geertz, “la richiesta implicita nella formulazione di Bohannan, di una
differenziazione tra la lettura balinese del combattimento dei galli e l’interpretazione
dell’etnografo, viene ignorata” (2000, p. 242).
I quaderni del CREAM , 2010, X
127
quello di Gluckman, più interessato, quest’ultimo, alla congiunzione
tra idee (locali) e rappresentazioni (della società in cui si vive). Il
lavoro di questi antropologi si inserì all’interno di un campo di studi
che, a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, appariva
piuttosto articolato, caratterizzato da animati confronti, soprattutto per
quanto riguardava la sponda anglofona del dibattito antropologico.
Lo stesso Bohannan va ricordato per l'analisi da lui svolta sul
rapporto tra diritto e consuetudine. Secondo Bohannan (1965), lo sforzo per delimitare, o definire, il diritto, conduce il più delle volte a
cadere in certe trappole difficilmente evitabili. Innanzitutto, affermava
l'antropologo, bisogna distinguere tra il diritto e il costume. Tutte le
istituzioni sociali sono segnate dalla presenza di costumi e, questi
ultimi, possiedono molte delle caratteristiche che si ritrovano nelle
definizioni che sono state date di diritto. La differenza tra costume e
diritto, piuttosto, è da rintracciarsi nel fatto che, mentre il costume
continua ad inerire solamente alle istituzioni che governa, il diritto
viene ricreato in un più specifico e riconoscibile contesto – vale a dire
in un contesto di istituzioni giuridiche che, almeno ad un certo livello,
si distinguono da tutte le altre istituzioni (ivi, p. 34).
Così come il costume include le norme, ma in ultima analisi è
qualcosa di più grande e più definito delle norme stesse, allo stesso
modo il diritto include il costume, rimandando però anch’esso a qualcosa di più grande e più definito. Prendendo spunto da Kantorowicz,
Bohannan scriveva che il diritto possiede una caratteristica aggiuntiva,
quella della “giustiziabilità”, intendendo con ciò che le regole sono
soggette ad una reinterpretazione da parte di una istituzione giuridica
della società, in modo tale che i conflitti tra istituzioni non giuridiche
possano essere risolti da un’“autorità” estranea ad esse (ibidem, p.35).
Punto centrale nella prospettiva di Bohannan è l’idea di “doppia
istituzionalizzazione” del diritto e delle istituzioni giuridiche. Queste
ultime presentano due aspetti che non condividono con le altre
istituzioni sociali: 1) dispongono di modi regolamentati mediante i
quali possono interferire nel malfunzionamento (e nel funzionamento)
delle istituzioni non giuridiche, al fine di risolverne i problemi; 2) in
relazione a ciò, le istituzioni giuridiche dispongono di due tipi di
I quaderni del CREAM , 2010, X
128
regole: quelle che regolano le attività dell’istituzione giuridica stessa
(“adjectival law”) e quelle che si possono considerare come sostituzioni, modificazioni o riaffermazioni delle regole delle istituzioni non
giuridiche nei confronti delle quali vi è un interesse da parte delle
istituzioni giuridiche (“substantive law”). Questi sono aspetti basilari
che tutte le istituzioni giuridiche condividono. Molti altri aspetti
possono essere individuati, come per esempio il fatto che le istituzioni
giuridiche possono divenire, nel vero senso del termine, “innovative”
(ibidem, p. 35).
Alla luce di tali considerazioni, una semplice distinzione può
essere fatta tra diritto e costume. I costumi sono fatti di norme e di
regole circa il modo in cui le persone devono comportarsi affinché le
istituzioni possano perseguire i loro obiettivi e la società perdurare.
Tutte le istituzioni elaborano costumi, ma, in alcune società, alcuni
costumi vengono reistituzionalizzati ad un altro livello, ossia vivono
una riaffermazione in relazione agli scopi più precisi delle istituzioni
giuridiche. Quando ciò succede, il diritto può essere visto come un
costume che ha subito una riaffermazione tale da aprirsi alle attività
delle istituzioni giuridiche. Secondo Bohannan, Malinowski ebbe un
importante intuizione nel riconoscere l’importanza dei principi di
reciprocità, ma non si rese conto di una distinzione fondamentale: la
reciprocità è alla base del costume, la doppia istituzionalizzazione è
alla base del diritto (ibidem, pp. 35-36).
Pluralismo giuridico
Sono svariate le definizioni di pluralismo giuridico che sono state
offerte. Con lo sguardo rivolto al passato, vale la pena di soffermarsi
sull’Olanda degli inizi del Novecento, quando si sviluppò la Adat Law
School, fondata da Cornelis Van Vollenhoven, il quale teorizzò l’idea
di “comunità autonoma”, con riferimento a quei gruppi (clan,
famiglie, villaggi) che, inclusi all’interno di una stessa società,
“secernono il proprio diritto”. Gli studiosi della Adat Law School
svolsero le loro ricerche in Indonesia (che aveva subito le conquiste
I quaderni del CREAM , 2010, X
129
olandesi a partire dal XVII secolo), contribuendo all’elaborazione di
una prospettiva pluralistica del diritto. Il lavoro prodotto in seno alla
Adat è da molti considerato un riferimento fondamentale per gli studi
sul pluralismo giuridico12. Generalmente, vi è stata la tendenza a
definire pluralismo giuridico la condizione per cui più sistemi giuridici
coesistono nello stesso “campo sociale”.
Secondo Vanderlinden, il pluralismo giuridico è “l’esistenza, in
seno a una determinata società, di meccanismi giuridici diversi che si
applicano a situazioni identiche”13. Per Van den Berghe, il pluralismo
giuridico corrisponde
al carattere, o all’insieme dei caratteri, di società o di diversi gruppi sociali
e/o culturali che coesistono all’interno di una stessa società organizzata e
sono resi interdipendenti da un sistema economico comune, ma mantengono
un grado di autonomia più o meno importante e possiedono un insieme di
strutture istituzionali distinte nelle altre sfere della vita sociale, e specialmente nei campi della vita familiare, degli svaghi e della religione14.
Come ha ricordato Sally E. Merry (1988, p. 869), l’odissea intellettuale del pluralismo giuridico va dalla “scoperta” di forme giuridiche
presso gli indigeni di remoti villaggi dell’Africa e tribù della Nuova
Guinea ai dibattiti circa le pluralistiche qualità del diritto nelle società
capitalistiche. Il pluralismo giuridico, per la Merry, costituisce un punto
centrale del processo di riconcettualizzazione della relazione tra diritto e
società. In riferimento a tale concetto è dunque evidente come vi siano
svariate posizioni: un “pluralismo ‘radicale’, policentrista, non cerca né
la separazione né un’eventuale riduzione all’unità dei diversi ordini
giuridici. È diritto ciò che gli uomini considerano tale” (Sacco 2007, p.
84). Al di là delle varie sfaccettature che esso può assumere, per Santos
(1987) il pluralismo giuridico deve essere inteso come un concetto
fondamentale per una visione postmoderna del diritto.
La dimensione plurale del diritto è stata letta da Pospisil (1967)
12 Si veda per esempio Rouland 1992.
13 Cit. in Rouland 1992, p. 76.
14 Cit. in Rouland 1992, p. 77.
I quaderni del CREAM , 2010, X
130
mediante la concettualizzazione dei “livelli giuridici” che operano
all’interno di una medesima società, teorizzando la presenza di
sottogruppi gerarchicamente organizzati che coesistono in una stessa
società, ognuno dei quali presenta un proprio sistema giuridico. Nel
suo Legal Levels and Multiplicity of Legal Sistems in Human
Societies, Pospisil affermava che, tradizionalmente, il diritto è stato
concepito come tipico di una società considerata nella sua interezza.
Come conseguenza logica, una determinata società si pensava contenesse un solo sistema giuridico in grado di controllare il comportamento di tutti i suoi membri. Se gli studiosi non avessero investigato i
sistemi di controllo sociale che operano nei sottolivelli di una società,
ai diversi sottogruppi non sarebbe stata riconosciuta la possibilità di
regolare il comportamento dei propri membri attraverso sistemi di
regole applicati a specifiche situazioni dai leader di tali sottogruppi
(ivi, p. 3). Ogni sottogruppo funzionante di una società possiede un
proprio sistema giuridico che è differente, almeno per certi aspetti, dai
sistemi giuridici degli altri sottogruppi. Dal momento che i sistemi
giuridici formano una gerarchia che riflette i gradi di inclusività dei
corrispettivi sottogruppi, la totalità dei sistemi giuridici dei sottogruppi dello stesso tipo (per esempio: famiglia, lignaggio, comunità)
corrisponde a ciò che Pospisil chiama “livello giuridico”. Un individuo è simultaneamente membro di diversi sottogruppi (un kapauku
della Nuova Guinea, per esempio, è membro della sua household, del
sottolignaggio, del lignaggio, della confederazione politica, laddove
ognuno di questi sottogruppi è politicamente e giuridicamente organizzato), di conseguenza è soggetto a tanti sistemi giuridici quanti
sono i sottogruppi cui appartiene. Dunque, il diritto in una data società
si differenzia tra i sottogruppi dello stesso tipo (dello stesso grado di
inclusività). Inoltre, il diritto presenta discrepanze anche tra sottogruppi di diverso tipo (con un differente grado di inclusività), al punto
che un individuo può essere soggetto a svariati sistemi giuridici
perfino in contraddizione tra di loro (ibidem, p. 9).
Sally Falk Moore (1973) ha proposto dal canto suo la categoria di
“campi sociali semiautonomi”, forse più efficace, rispetto a quella di
“sottogruppi” di Pospisil, per evidenziare la caratteristica relazionale
I quaderni del CREAM , 2010, X
131
dei sistemi di riferimento di ordine normativo. Questa condizione di
semiautonomia può essere spiegata riprendendo il caso posto da
Pospisil di un’organizzazione criminale, che avrebbe la capacità di
creare e applicare regole proprie. Per la Moore, per quanto una tale
organizzazione possa fondarsi sulle sue proprie regole, deve comunque
confrontarsi con le leggi dello Stato e di conseguenza non può agire in
completa autonomia. Concentrandosi su una dimensione orizzontale
del pluralismo giuridico, la Moore (1973) ha recuperato, all’interno
della sua riflessione, l’attenzione posta da Malinowski (1926) sugli
obblighi vincolanti. I campi sociali semiautonomi hanno la capacità di
generare regole e indurre (o costringere) alla conformità; ma, allo
stesso tempo, sono inseriti in un sistema sociale più ampio che di fatto
tende ad invaderli. Citando Max Weber, la Moore afferma che tali
campi sociali possiedono un “ordine giuridico”. Dunque, un’indagine
sui campi sociali semiautonomi mostra come i vari processi che
inducono a generare internamente regole efficaci siano spesso anche
forze che dettano le modalità mediante le quali è possibile conformarsi
(o no) alle regole giuridiche dello Stato (ibidem, p. 721). Di
conseguenza, i campi sociali semiautonomi e i loro confini sono definiti
in termini processuali, vale a dire per la caratteristica di poter generare
regole e indurre o costringere alla conformità (ibidem, p. 722).
Presentando la prospettiva critica di John Griffiths, Rouland (1992)
ricorda che esistono due tipi di pluralismo giuridico: quello concesso
dallo Stato e quello che sfugge al controllo statale. Il primo appare
come un pluralismo di facciata e non contrasta con politiche unitarie e
centralizzatrici. In breve, se il pluralismo può essere considerato
avversario dello Stato, quest’ultimo ha essenzialmente due modi per
reprimerlo: eliminandolo completamente, oppure riconoscendone ufficialmente alcune (e solo alcune) manifestazioni. Fin quando lo Stato
rimane l’arbitro del gioco, le forme di diritto non statale rimangono
subordinate all’ordine imposto dal diritto statale.
Già Pospisil (1971) aveva messo in evidenza quella tendenza a
guardare al diritto dello Stato come al riferimento primario, quasi
onnipotente, cui gli individui si affidano per la loro protezione e in
relazione al quale cercano di conformare i propri comportamenti. In
I quaderni del CREAM , 2010, X
132
altre parole, diceva Pospisil, si assume generalmente che il centro del
potere che controlla la maggior parte dei comportamenti dei cittadini
si delinei ad un livello che coinvolge la società nella sua interezza.
In merito alle tesi di Pospisil, Griffiths critica tuttavia la visione
gerarchica dei livelli giuridici, che porterebbe a riconoscere l’esistenza
di un sistema giuridico proprio della società globale, derivato dalla
sovrapposizione dei diversi livelli giuridici. La presunta unicità del
sistema giuridico sarebbe dunque favorevole alla valorizzazione del
ruolo dello Stato, unitario per sua stessa natura (Rouland 1992).
Griffiths ha messo in discussione anche la posizione di Vanderlinden, colpevole a suo avviso di confondere la diversità giuridica con
il pluralismo giuridico (ibidem, pp. 82-83). La semplice esistenza di
regole differenti applicabili a situazioni identiche, a seconda dei vari
gruppi sociali, non corrisponde ad un pluralismo giuridico, poiché tali
regole sono tollerate (o derivano da) un unico ordinamento giuridico,
quello dello Stato (ibidem, p. 83).
Pur riconoscendole diversi meriti, anche la Moore secondo Griffiths avrebbe dato eccessivo peso all’azione del diritto statale nei
confronti dei campi sociali semiautonomi, trascurando le relazioni
esistenti tra campi non statali (ibidem, p. 83). A ben vedere, la Moore
non si è limitata a parlare di “diritto”, ma piuttosto di “campi
normativi” che, all’interno di un quadro di continue interazioni, sono
soggetti a reciproche influenze e cambiamenti, perlopiù non controllabili e imprevedibili.
La prospettiva critica di Griffiths tende a vedere pressoché ovunque un eccesso di statalismo e non stupisce dunque che le sue definizioni si offrano come una rottura radicale tra diritto e Stato. Il diritto,
infatti, può fare a meno dello Stato; in altre parole, per Griffiths, il
“diritto è l’autoregolamentazione di un campo sociale semi-autonomo”15 e il diritto statale, quindi, non è che una delle manifestazioni
possibili del diritto.
L’approccio critico di Griffiths – pur rischiando di sfociare in un
ipercriticismo teorico – contiene interessanti intuizioni e soprattutto un
15 Cit. in Rouland 1992, pp. 83-84.
I quaderni del CREAM , 2010, X
133
significativo posizionamento, in particolar modo in riferimento alla
messa in discussione dell’ideologia del centralismo giuridico. Proprio
in questo senso, Griffiths (1986) afferma che tale ideologia ha rappresentato il maggiore ostacolo all’elaborazione di una teoria descrittiva
del diritto (ivi, p. 3). Ma Griffiths si spinge oltre, dichiarando: “Il
pluralismo giuridico è un fatto. Il centralismo giuridico è un mito, un
ideale, una rivendicazione, un’illusione” (ibidem, p. 4).
Dunque, l’individuazione di un pluralismo giuridico in senso
debole (soggetto al controllo statale) risulta fondamentale nell’ottica
di Griffiths, non solo a livello analitico, ma anche per poter osservare
tanto le dinamiche e le forze che agiscono in una determinata società
quanto le diramazioni che l’ideologia centralista consente.
Ora, gli studi sul pluralismo giuridico hanno senz'altro aperto la
strada a rielaborazioni concettuali di notevole importanza nel “discorso sulla società”, sebbene si siano raramente preoccupati di problematizzare l’idea stessa di un pluralismo specificatamente giuridico
(Roberts 2000). Problematizzare significa del resto abbandonare determinati assunti di partenza. In particolare, è l’arbitraria collocazione di
confini entro lo spazio sociale che si dovrebbe interrogare criticamente. Simon Roberts si chiedeva: “fino a che punto dovremmo pensare allo spazio sociale in termini di ambiti/campi/ordini/discorsi/
sistemi co-esistenti, più o meno distinti?” (2000, p. 230).
Se per esempio la critica di Griffiths (1986) verso l’egemonia dell’ideologia centralista ha posto l’attenzione su un punto fondamentale,
questa ha pur sempre teso a leggere il pluralismo giuridico in termini
di “contenuto”, laddove il contenitore era dato dalla forma politica che
il centralismo presuppone: lo Stato. Del resto, come ha affermato
anche Mahmood Mamdani, esiste un linguaggio specifico dello Stato
moderno, anche nella sua variante coloniale, ed è proprio il linguaggio
del diritto (2001, p. 653).
Tuttavia, se il linguaggio del diritto tende a fondersi inevitabilmente con i termini dell’organizzazione politica statale, è altresì vero
che l’estensione del campo giuridico espressa nei processi di legal
transplant, nei movimenti transnazionali di rivendicazione e di
resistenza, nella diffusione dei diritti umani e nell’emersione su scala
I quaderni del CREAM , 2010, X
134
planetaria di istanze normative locali, ha ormai reso evidente in primo
luogo come il diritto (in qualunque modo lo si voglia definire) non si
dà esclusivamente all’interno dei confini nazionali, né esclusivamente
nei rapporti ufficiali tra Stati.
Ancor più importante, il pluralismo, nella sua accezione normativa,
non rimanda solamente all’esistenza di diversi ordini giuridici all’interno di un presunto campo sociale, né al solo fatto di poter
riconoscere in ultima analisi un ordine giuridico valido per tutti, ma
concerne invece la possibilità di pensare le soggettività cui gli
ordinamenti giuridici fanno riferimento in termini plurali, fino al
punto di riconoscere la capacità che gli individui hanno di pensarsi al
di fuori degli ordini giuridici stessi che vengono posti in essere. Il
riferimento a questa capacità di pensarsi al di fuori del diritto non
intende negare le contingenze concrete e le forze continuamente riprodotte nell'esperienza sociale. Si vuole ora semplicemente ribadire
che così come il diritto statale corrisponde ad una particolare strutturazione dell’ordine normativo – la quale presuppone una particolare
visione del mondo –, allo stesso modo lo Stato corrisponde ad una tra
le forme possibili di organizzazione politica. E se l’individuo può
pensarsi – cioè, è pensabile – al di là dello (o a prescindere dallo)
Stato, allo stesso modo può pensarsi al di fuori del diritto, non in
termini di devianza, ma in termini di molteplice appartenenza: in
questo senso si può far riferimento non semplicemente all’idea di
pluralità, ma a quella di pluralismo. La possibilità di pensarsi al di
fuori del diritto è da intendersi quindi come una sovra-interpretazione,
una chiave di lettura per osservare criticamente la processuale
configurazione dei sistemi normativi come “dati di fatto”.
Riccardo Motta (2000), rifacendosi all’opera di autori come Macdonald e Rocher, ha posto l'attenzione su un ulteriore punto.
Accogliendo l'idea di pluralismo a partire dagli schemi pluralistici
“critici”, appare più evidente il significato che questo assume nelle
strategie di rivendicazione e lotta per i diritti. La teoria critica di
Macdonald fa per esempio riferimento agli orientamenti ed alle
strategie individuali, ma per Motta non esclude i gruppi. Lo stesso
Macdonald ha riproposto una riflessione sul concetto di istituzione,
I quaderni del CREAM , 2010, X
135
estendendolo anche alle cosiddette comunità informali e prendendo in
considerazione le norme implicite che queste elaborano. Così, l’autore
ha individuato le istituzioni latenti che sfuggono alla dicotomia “legalità – comunità”. Affermando l’esistenza di istituzioni latenti, ai soggetti collettivi protetti da legalità ufficiale viene negata la possibilità di
collocare “fuori legge” i gruppi dissenzienti, secondo quanto vorrebbe
lo schema di un dualismo egemone e conflittuale16 (ibidem, p. 193). Il
problema da affrontare, per Motta, è dunque quello delle istituzioni
incompatibili e delle reazioni collettive di intolleranza reciproca. In
questo senso, “seguendo la teoria delle norme implicite, delle istituzioni latenti e del pluralismo giuridico critico, le origini degli
antagonismi si localizzano a monte del diritto esplicito” (ibidem, p.
193). I percorsi che da qui si aprono conducono non solo a riflettere su
un’antropologia politica dei diritti, ma spingono anche a ripensare il
discorso sull’ideologia, emerso dagli studi sul pluralismo come
irriducibile ad una lettura univoca del “dall’alto verso il basso”17.
La concezione del pluralismo in termini normativi, piuttosto che
“giuridici”, potrebbe innanzitutto risultare più adatta tanto per
descrivere l’intersezione tra pratiche sociali, valori rappresentati ed
esperiti quanto per sottolineare la rilevanza extra-giuridica di taluni
fenomeni socio-normativi.
Il diritto, del resto, è plurale (e mutevole) per sua stessa natura.
Plurale, ovviamente, non significa onnicomprensivo né tantomeno
universalmente valido: come ha scritto Supiot, “ancora meno dell’idea
di Legge, l’idea di Diritto non può ambire all’universalità” (2006, p.
223). Allo stesso tempo, Geertz ricordava però che il “diritto può non
essere una onnipresenza incombente nell’universo (...), ma non è
16 Teubner ha per esempio affermato che “il pluralismo giuridico riscopre il potere
sovversivo dei gruppi soppressi”, cit. in Roberts 2000, p. 230.
17 Simon Roberts ha scritto: “Il diritto non potrebbe più essere trattato in modo non
problematico (...); né l’“ordine” potrebbe essere rivendicato come prodotto esclusivo di un
movimento dall’alto al basso, dal centro alla periferia (...). Ancora, lo spostamento verso
questioni di “confine”, che il pluralismo giuridico comporta inevitabilmente, ha stimolato
una serie di discussioni importanti. Queste conversazioni hanno articolato la “differenza” in
una serie di termini (...) tutti incentrati sulle questioni di cambiamento e permeabilità”
(2000, pp. 229-230).
I quaderni del CREAM , 2010, X
136
neanche (...) una collezione di strumenti ingegnosi per evitare dispute,
difendere interessi e appianare controversie” (1988, p. 219).
Certamente, come opportunamente sottolinea Fuller (1994), il
diritto può essere anche inteso come sistema di repressione, ma questo
aspetto in realtà non fa altro che confermare un assunto di base, cioè
che il diritto dipende dalla visione del mondo che gli individui e i
gruppi elaborano. Il diritto, in questo senso, risulta funzionale nel
supportare una “verità”, quella del mondo che è socialmente chiamato
a giustificare.
Di fronte al carattere multiforme del diritto, alcuni giuristi
rispondono operando delimitazioni del campo giuridico, altri cercando
di ampliarlo. Carbonnier, per esempio, critica “la grande illusione del
pluralismo. Esso crede di avere filmato il combattimento tra due
sistemi giuridici, ma ciò che mostra è un sistema giuridico alla prese
con l’ombra di un altro”18. Per Carbonnier, in breve, le teorie pluraliste
cadono nell’errore di
sovraqualificare certi fenomeni che si trovano al limite del giuridico. In realtà
o questi sono integrati nel sistema giuridico globale (...) e la distinzione è
dunque illusoria. Oppure esistono fatti giuridici dissidenti (...), non integrati
nel diritto statale, ma in questo caso non si tratta che di un infra-diritto (anche
se coloro che lo praticano lo considerano un vero diritto), perché a tali regole
manca il criterio della giuridicità, cioè la costrizione organizzata e l’eventualità del giudizio19.
Come sottolinea Rouland (1992), la posizione di Carbonnier
rischia di appiattirsi su distinzioni dicotomiche (diritto e infra-diritto,
giuridico e infra-giuridico), che difficilmente riescono a restituire la
dovuta complessità dei fenomeni normativi. Ugualmente, l’enfasi
posta sulla “costrizione organizzata” ricorda quelle definizioni di
diritto che si fondavano sull’idea di sanzione.
Se per riuscire a descrivere in maniera efficace un ordine normativo o i meccanismi di controllo sociale in una società occorre necessa18 Cit. in Rouland 1992, p. 84.
19 Cit. in Rouland 1992, p. 85.
I quaderni del CREAM , 2010, X
137
riamente rimandare alla forma dello Stato (e dell'ordinamento giuridico), resta da chiedersi quale sia la valenza di una tale definizione in
relazione a quelle realtà che mettono in crisi l'identificazione stessa
dello Stato come esclusivo ordine di riferimento normativo e politico.
Allo stesso tempo, occorre chiedersi quali implicazioni vi siano
nell’estendere concetti e logiche tradizionalmente impiegati per descrivere il diritto e l’ordine giuridico in certe società e fasi storiche a
fenomeni sociali di differente natura. Il tentativo di ampliare il campo
giuridico, assimilando discorsi altri, pone da questo punto di vista
altrettanti dilemmi di natura politica. Rimane dunque un problema di
fondo che Roberts riassume così:
Nell’insieme, la mia opinione è che sia inevitabilmente problematico tentare
di fissare un concetto di diritto che vada oltre le forti autodefinizioni di diritto
statuale20. Dove il progetto è quello di recuperare “discorsi soppressi”,
dovremmo cominciare quel processo nei suoi termini propri, piuttosto che
dire loro che cosa “sono”. Questo significa resistere alla tentazione di
cooptarli in quell’ampliato campo che un pluralismo esplicitamente giuridico
implica (2000, p. 243).
Vanderlinden, nel 1989, suggeriva di sostituire il termine “campo
sociale” con quello di “network sociale”, più adatto, quest’ultimo, a
comprendere le continue relazioni tra individui e gruppi senza necessariamente legarsi ad una dimensione territoriale. Nella prospettiva di
Vanderlinden, tuttavia, il network non costituisce il centro nevralgico
dell’analisi. È piuttosto l’individuo, in quanto punto di convergenza
dei molteplici ordini normativi che necessariamente ogni network
include, ad essere al centro della sua attenzione (ivi, p. 151). Secondo
Vanderlinden, la distinzione tra diritto e non-diritto nelle società
occidentali è utile, anche se l’insistenza di alcuni sul ruolo dominante
(o esclusivo) di un solo legal regulatory order appare quantomeno
discutibile. L’individuo, in quanto membro di differenti network
sociali, è soggetto ad un processo dialettico in cui ordini giuridici in
20 La stessa Merry si chiedeva: “perché è così difficile trovare una parola per il diritto non
statale?” (1988, p. 878).
I quaderni del CREAM , 2010, X
138
competizione esercitano il proprio potere su di esso, cercando allo
stesso tempo di rendersi autonomi da tutti gli altri ordini (ibidem, p.
151). L’individuo, per certi versi, rappresenta il campo di battaglia sul
quale si scontrano i diversi ordini giuridici. Il concetto di pluralismo
giuridico non ruota quindi attorno ad un sistema giuridico dato, ma
attorno al “soggetto di diritto”, intendendo con ciò non solo che
l’individuo è detentore di diritti e doveri, ma anche che egli è soggetto
ad un sistema giuridico (ibidem, p. 152). A questo punto, pur
cogliendo l'enfasi posta da Vanderlinden sull’individuo, lo sguardo
antropologico indurrebbe a problematizzare l'affermata categoria di
soggetto di diritto, liberando quindi le forme della soggettività in
istanze extra-giuridiche. Uno spostamento paradigmatico sembrerebbe
porsi in tal senso: dal soggetto di diritto al soggetto oltre il diritto. Non
si intende in questa sede dibattere circa le implicazioni filosofiche
connesse a questi aspetti. Si vogliono piuttosto evidenziare gli spazi di
indagine aperti per ulteriori elaborazioni antropologico-giuridiche.
Pensare l'individuo al di là del diritto non implica né una riduzione
dell’ambito normativo ad una matrice tecnicamente giuridica, né
tantomeno la volontà di estendere in maniera indefinita il campo
giuridico ad altri fenomeni sociali. E ancora, non induce ad assumere
una visione essenzialista di diritto (Tamanaha 2000). Pensare l'individuo oltre il diritto implica gettare luce sulle ombre ai confini del
giuridico. Significa ribadire l’artificiosità di tali confini e interrogare il
processo di formalizzazione che li accompagna: chi e come stabilisce
tali confini? A quale fine? In che misura le rivendicazioni sociali
possono divenire questioni di diritto?
Oltre il diritto, in breve, giace la possibilità di una sua ricomposizione, dove l'impalcatura ideologico-giuridica collassa su stessa
mettendo in luce il processo di naturalizzazione21 che le è proprio; ed è
a partire da questo indispensabile percorso di ricomposizione che
l'esperienza normativa sembrerebbe trovare possibilità di riaffermazione in forme dinamiche, interculturali (Ricca 2008, 2011).
21 L'affermazione del diritto è contraddistinta da processi di stabilizzazione storicamente e
culturalmente determinati. Prodotto dell'interazione e ad essa nuovamente orientata, ogni
istanza normativa è in tal senso processuale e socialmente negoziata.
I quaderni del CREAM , 2010, X
139
Le problematiche cruciali dell'antropologia giuridica odierna non
sono in ultima analisi riconducibili alle tradizionali trappole classificatorie (cos'è il diritto? Cos'è il pluralismo giuridico?) che a lungo
hanno tenuto occupati gli studiosi. Oggi, per dirla in altre parole, la
questione principale non è capire cos'è il diritto in una prospettiva
antropologica, quanto comprendere che ruolo può assumere l'antropologia nel decifrare e usare le trasformazioni normative contemporanee
alla luce dei processi di soggettivazione delle istanze normative e di
metamorfosi culturale. I riferimenti simbolici e pratici che forniscono
senso a tali trasformazioni non rimandano ad una dimensione “locale”
né semplicemente multiculturale, ma piuttosto interculturale, dove i
livelli di simultaneità degli accadimenti planetari, i gradi di intrusività
delle politiche transnazionali, e la proliferazione di “verità giuridiche”
richiedono da parte dell'antropologo abilità creative più che descrittive.
È in queste direzioni che il ruolo pubblico dell'antropologia si
declina nelle circostanze concrete che derivano dal particolare rilievo
che assume oggi la questione della consulenza antropologica nei
campi di applicazione del diritto.
Concludere infine con alcune questioni aperte sembra il modo più
efficace per provare a restituire l'articolazione dei dibattiti attuali.
Tentando di non operare una “banalizzazione del diritto” – presentandolo cioè univocamente come sistema, calato dall'alto, di controllo e
repressione – è necessario infatti evidenziare aspetti più complessi e
dinamici. In quest'ottica, ci si chiede: quali logiche soggiaciono alla
strutturazione dei sincretismi normativi contemporanei? Come si
riconfigura il pluralismo normativo nei contesti contraddistinti da
intensi flussi di immigrazione? Che ruolo assume il diritto nel
processo di riformulazione della sovranità degli Stati-nazione? In che
misura il diritto può divenire piattaforma di riferimento per la
convivenza interculturale?
I quaderni del CREAM , 2010, X
140
Bibliografia
Althusser, L., 1995, Montesquieu, la politica e la storia, Manifestolibri, Roma.
Bohannan, P., 1957, Justice and Judgment among the Tiv, Oxford University Press,
New York.
Bohannan, P. 1965, “The Differing Realms of the Law”, American Anthropologist,
Vol. 67, 2, pp. 33-42.
Fabietti, U., 1991, Storia dell'antropologia, Zanichelli, Bologna.
Fuller, C., 1994, “Legal Anthropology: Legal Pluralism and Legal Thought”,
Anthropology Today, Vol. 10, 3, pp. 9-12.
Geertz, C., 1988, “Conoscenza locale: fatto e diritto in prospettiva comparata” in
Id., Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna.
Gluckman, M., 1973, “Limitations of the Case-Method in the Study of Tribal Law”,
Law and society Review, Vol. 7, 4, pp. 611-642.
Gluckman, M., 1955, The Judicial Process among the Barotse of Northern
Rhodesia, Humanities Press.
Goodale, M., 2008, “Antropologia, immaginazione morale e pratica etica”,
Antropologia, n. 11, Meltemi, Roma, pp. 75-90.
Griffiths, J., 1986, “What is Legal Pluralism?”, Journal of Legal Pluralism, 24, pp.
1-56.
Hoebel, E. A., 1954, The Law of Primitive Man, Harvard University Press.
Layish, A., Review, Islamic Law and Society, Vol. 1, 1, pp. 139-140.
Llewellyn, K. N., Hoebel, E. A., 1941, The Cheyenne Way: Conflict and Case Law
in Primitive Jurisprudence, University of Oklahoma Press, Norman.
Lowy, M. J., 1973, “Rebuttal to Pospisil”, American Anthropologist, Vol. 75, 4,
1173-1174.
Lyall, A., 2008, “Early German Legal Anthropology: Albert Hermann Post and His
Questionnaire”, Journal of African Law, Vol. 52, 1, pp. 114-138.
Main Summer H. J., 1861, Ancient Law, Murray, Londra.
Malinowski, B., 1942, “A New Instrument for the Interpretation of Law –
Especially Primitive”, Lawyers Guild Review, II, pp.1-12.
Malinowski, B., 1926, Crime and Custom in Savage Society, Routledge & Kegan
Paul, Londra.
Malinowski, B., 1968, La vita sessuale tra i selvaggi, Feltrinelli, Milano.
Mamdani, M., 2001, “Beyond Settler and Natives as Political Identities:
Overcoming the Political Legacy of Colonialism”, Comparative Studies in Society
and History, Vol. 33, 4, pp. 651-664.
McLennan, J. F., 1865, Primitive Marriage, Adam & Charles Black, Edimburgo.
Merry, S. E., 1988, “Legal Pluralism”, Law and society Review, Vol. 22, 5, pp.
I quaderni del CREAM , 2010, X
141
869-896.
Moore, S. F., 2001, “Certainties Undone: Fifty Turbulent Years of Legal
Anthropology, 1949-1999”, The Journal of the Royal Anthropological Institute, Vol.
7, 1, pp. 95-116.
Moore, S. F., 2000, “L’etnografia del presente e l’analisi del processo” in R.
Borofsky, L’antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma.
Moore, S. F., 1969, “Law and Anthropology”, Biennal Review of Anthropology,
pp. 252-300.
Moore, S. F., 1973, “Law and Social Change: The Semi-Autonomous Social Field
as an Appropriate Subject of Study”, Law and Society Review, Vol. 7, 4, pp. 719746.
Moore, S. F., 1978, Law as Process. An Anthropological Approach, Routledge &
Kegan Paul, Londra.
Moore, S. F., 1990, Review, Man, Vol. 25, 2, pp.368-369.
Morgan, L. H., 1877, Ancient Society, World Publishing, New York.
Morgan, 1871, Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family,
Smithsonian Institution.
Morgan, L. H., 1851, The League of Ho-de-no-sau-nee, or Iroquois, Sage and
Brother, New York.
Motta, R., 2000, “Istituzioni incompatibili e pluralismo” in A. Facchi, M. P.
Mittica, a cura, Concetti e norme. Teorie e ricerche di antropologia giuridica,
Franco Angeli, Milano.
Motta, R., 1994, L'addomesticamento degli etnodiritti. Percorsi dell'antropologia
giuridica teorica e applicata, Unicopli, Milano.
Nadel, S. F., 1947, The Nuba: An Anthropological Study of the Hill Tribes in
Kordofan, Oxford University Press, Londra.
Nader, L., 1979, “Disputing without the Force of Law”, The Yale Law Journal, Vol.
88, 5, pp. 998-1021.
Nader, L., 2000, “La coscienza comparativa” in R. Borofsky, L’antropologia
culturale oggi, Meltemi, Roma.
Pospisil, L., 1971, Anthropology of Law: a Comparative Theory, Harper and Row,
New York.
Pospisil, L., 1985, “Law”, Quaderni fiorentini, XIV.
Pospisil, L., 1967, “Legal Levels and Multiplicity of Legal Systems”, The Journal of
Conflict Resolution, Vol. 11, pp. 2-26.
Pospisil, L., 1959, “Multiplicity of Legal Systems in Primitive Societies”, Bulletin
of the Philadelphia Anthropological Society, Vol. 12, 3, pp. 1-4.
Post, A. H., 1891, Grundriss der ethnologischen Jurisprudenz, Oldemburg-Leipzig.
Radcliffe-Brown, A. R., 1952, Structure and Function in Primitive Society,
I quaderni del CREAM , 2010, X
142
Macmillan, Londra.
Redfield, R., 1967, “Primitive Law” in P. Bohannan, 1967, a cura, Law and
Warfare: Studies in the Anthropology of Conflict, The Natural History Press, New
York.
Remotti, F., 1982, Temi di antropologia giuridica, Giappichelli, Torino.
Ricca, M., 2008, Dike meticcia. Rotte di diritto interculturale, Rubbettino, Soveria
Mannelli.
Ricca, M., 2011, “Antropologi, volgete lo sguardo. Diritto interculturale e
consulenza antropologica”, in corso di pubblicazione.
Roberts, S., 2000, “Contro il pluralismo giuridico. Alcune riflessioni sull’ampliamento del campo giuridico” in A. Facchi, M. P. Mittica, a cura, Concetti e
norme. Teorie e ricerche di antropologia giuridica, Franco Angeli, Milano.
Roberts, S., 1976, “Law and the Study of Social Control in Small-Scale Societies”,
Modern Law Review, Vol. 39, 6, pp. 663-679.
Rouland, N., 1992, Antropologia giuridica, Giuffrè, Milano.
Sacco, R., 2007, Antropologia giuridica, Il Mulino, Bologna.
Santos, B. de Sousa, 1987, “Law: A Map of Misreading. Toward a Post Modern
Concept of Law”, Journal of Law and Society, 14, pp. 279-302.
Santos, B. de Sousa, 2006, “The Heterogeneous State and Legal Pluralism in
Mozambique”, Law and Society Review, Vol. 40, 1, pp. 39-75.
Supiot, A., 2006, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del diritto,
Mondadori, Milano.
Tamanaha, B. Z., 2000, “A Non-Essantialist Version of Legal Pluralism”, Journal
of Law and Society, Vol. 27, 2, pp. 296-321.
Vanderlinden, J., 1989, “Return to Legal Pluralism: Twenty Years Later”, Journal
of Legal Pluralism, 28, pp. 149-157.
I quaderni del CREAM , 2010, X
143
GIANCARLO ANELLO
1
CIVILTÀ E DIRITTI:
ARCHEOLOGIA DELLA SUBALTERNITÀ LEGALE
NEL COLONIALISMO GIURIDICO ITALIANO
Introduzione
Le società politiche europee sono caratterizzate, rispetto al passato,
da una spiccata variabilità religiosa, etnica, culturale, economica e
sociale. Al loro interno si riscontrano continui flussi di gruppi sociali,
famiglie, persone provenienti da zone del mondo differenti.
È stato osservato come queste dinamiche sociali, una volta convertite in processi di insediamento, possano dare origine, seppure in
luoghi diversi, ad un analogo di quella complessa umanità generatasi
in seno alle società coloniali dei secoli XXVIII-XX (Bhabha 1994). La
similitudine tra le attuali democrazie pluriculturali e la condizione
degli stati coloniali non è nuova, e ha trovato adeguata analisi nel
postcolonialismo e nei cd. cultural studies (Hall 2006; Mellino 2005;
Young 2001). I recenti processi di insediamento producono oggi
condizioni di multiculturalità2 forzate, per alcuni aspetti assimilabili a
quanto avvenuto nel passato coloniale in Africa o in Asia. Persino la
definizione letterale di colonialismo3 contenuta nei dizionari sembre1 Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Parma.
2 I termini “multiculturalità” e “pluriculturalità” vanno considerati sinonimi e indicano una condizione di mero fatto, vale a dire la sussistenza su un medesimo territorio
di gruppi di persone aventi matrici culturali differenti.
3 La definizione che del termine colonialismo si trova nell’Oxford Dictionary lo
connota come “un insediamento in una nuova terra (…) un gruppo di persone che si
insedia in una località nuova e costituisce una comunità soggetta o comunque legata al
I quaderni del CREAM , 2010, X
145
rebbe poter essere adeguata a descrivere le dinamiche di spostamento
delle persone che migrano oggi in Europa (Loomba 1998, p. 18). Gli
odierni contesti statali costituiscono nuovi laboratori viventi che gli
scienziati sociali si sforzano di osservare, studiare, descrivere, regolamentare; e nei quali i processi democratici sono chiamati ad affrontare, ogni giorno, sfide dai contenuti imprevedibili. Queste fenomenologie vengono definite come postcoloniali, da un lato in ragione delle
affinità degli attuali processi rispetto ai vecchi; dall’altro perché la
caratteristica di questi processi si sposta dai luoghi o dalle istituzioni
in cui essi si svolgevano in epoca coloniale alle persone, o ai gruppi
che li promuovono, cioè all’ambito della soggettività umana e della
sua tutela.
In tal senso, la sfera pubblica, non quella privata, costituisce in
prima battuta la principale zona di contatto tra persone di religione,
lingua, etnia, nazionalità e cultura diversa. E nella sfera pubblica si
stabiliscono quelle relazioni attraverso le quali gruppi e persone di
cultura differente si incontrano, o si scontrano, spesso facendo base su
posizioni di partenza diverse (Pratt 1992, p. 6).
Di fronte ad assetti sociali in profondo mutamento sembra altresì
ragionevole interrogarsi sulle dinamiche di adattamento della democrazia e sull’effettività delle categorie giuridiche fondamentali che
sembrano più radicalmente investite dalla concorrenza di sistemi
giuridici e culturali. In un contesto non meno scabroso di quello coloniale, le democrazie occidentali scoprono di dover fare i conti anche
con forme di culture antagoniste, formate da persone che si mobilitano, rivendicando diritti e avanzando istanze, a volte in sintonia con
gli schemi giuridici degli ordinamenti occidentali; altre volte in
contrasto, o al di fuori di essi. Ciò, comprensibilmente, suscita preoccupazione e talora allarme nei cittadini autoctoni, ma instilla anche
un dubbio profondo, ovvero che il discorso democratico non possa
dirsi effettivamente universale, ma abbia il proprio habitat all’interno
di un contesto culturalmente omogeneo, precipuamente quello occipaese di origine; la comunità che si è così formata e che consiste dei coloni originari,
dei loro discendenti e successori fino a quando questi mantengono un legame con la
terra di origine”.
I quaderni del CREAM , 2010, X
146
dentale. Alla luce di queste nuove problematiche, il valore stesso della
democrazia correrebbe il rischio di svelarsi d’un tratto , suo malgrado,
fortemente provincializzato, cioè ridotto a prodotto culturale di una
parte minoritaria, benché elitaria, del mondo.
Rispetto alla tematica qui affrontata, il dominio del diritto sembra
difettoso. La questione del governo di una soggettività pluri-culturale
si segnala per una laboriosità esasperata dall’intersezione multilaterale
di pretese e di comportamenti giuridicamente rilevanti. Questi problemi non riguardano solo conflitti tra norme disciplinati dal diritto
internazionale pubblico e privato, ma investono direttamente l’interpretazione e l’applicazione delle norme di diritto interno. In molti casi
gli stranieri interpretano, o chiedono di interpretare, diritti e doveri,
istituti giuridici, divieti e sanzioni in maniera difforme da quella
consueta, così da poterli “sintonizzare” con gli universi culturali e
giuridici di provenienza. La forza della loro contestazione è tanto
maggiore quanto più ampia, articolata e profonda è la tradizione
culturale e giuridica a cui queste interpretazioni si rifanno.
Rispetto ad un quadro così problematico, ci si può chiedere quale
vantaggio possa derivare dall’uso dell’armamentario critico del postcolonialismo e quale giovamento si possa trarre dall’analisi retrospettiva del passato coloniale italiano e dei suoi sistemi giuridici di
governo. In altre parole, per quali motivi si dovrebbe scegliere di
leggere le questioni attuali poste dalla “condizione multiculturale”
nella prospettiva dell’esperienza storica coloniale.
Una prima motivazione, cui si è già fatto cenno, può trarsi dalle
analogie sociali e giuridiche che si sono prodotte e si producono nei
due ambiti, quello passato e quello odierno, in ragione della sopravvenuta condizione di pluri-culturalità. In particolare, è istruttivo riflettere su contesti giuridici estremamente differenziati, come quello
coloniale, in cui erano portati a convivere sistemi di diritto tradizionali
autoctoni e di importazione straniera; ed ancora, analizzare i meccanismi di differenziazione normativa in un sistema giuridico in cui
percezione e focalizzazione delle differenze, anche se per motivi
ormai discutibili, risultavano basali, diffusi, discriminanti. Ciò conduce inoltre, e quasi per riflesso, a scandagliare il percorso giuridico di
I quaderni del CREAM , 2010, X
147
rilevanza della differenziazione personale alle origini dell’individualismo liberale, suggerendo nuovi strumenti e prospettive per una sua
analisi critica. Un’indagine di questo genere appare peraltro utile per
monitorare, tra le pieghe delle dinamiche democratiche e normative
attuali, l’eventuale pericolo di fenomeni di subalternità culturale tra
gruppi sociali, che possono anche tradursi in processi di subordinazione giuridica a tutti gli effetti.
Una seconda ragione può a questo punto collegarsi alla precedente.
Nei sistemi giuridici coloniali il bilanciamento tra uguaglianza e
differenza era articolato in modo formalmente inverso rispetto a quello
praticato dalle attuali istituzioni democratico-costituzionali: se negli
assetti contemporanei il valore dell’uguaglianza impronta di sé il
sistema costituzionale, i regimi coloniali erano invece esplicitamente
costruiti sul valore della diversità. La rilevazione e il mantenimento
delle differenze costituiva anzi obiettivo primario di quegli apparati,
condizionandone ogni estrinsecazione, sia formale sia sostanziale.
Come si mostrerà tale obiettivo veniva perseguito, giuridicamente, con
strategie e meccanismi a volte consapevoli e riconoscibili, a volte
nascosti e irriflessi. Ma la differenziazione razziale e culturale strideva
cronicamente e clamorosamente con i principi di libertà e di realizzazione individuale, che pure caratterizzavano la tradizione liberale e
quindi l’impalcatura dello stato italiano pre-fascista.
Anche oggi, le profonde differenziazioni in corso nell’ambito delle
odierne società multiculturali corrono il rischio di rendere l’operatività
dei principi giuridici fondamentali, di libertà, uguaglianza, dignità e
autonomia opachi, o non pienamente integrati in un sistema di diritti
autenticamente pluralistico. È inevitabile che rispetto alle prospettive
di frammentazione culturale le norme che garantiscono i diritti di
libertà e, in special modo, la libertà di religione, debbano fungere da
asse critico fondamentale di ogni andamento democratico. È un dato
storicamente acquisito, e che assume ogni giorno nuova evidenza, la
centralità che la libertà religiosa riveste nell’economia dei diritti di
libertà, e, a monte, l’importanza che le libertà giuridiche hanno in un
sistema politico pluralista.
I quaderni del CREAM , 2010, X
148
Per questi motivi, sollecitare la memoria sui meccanismi giuridici
di produzione e di mantenimento della diversità nel passato, può
essere utile per interrogarsi sul grado di uguaglianza garantito, oggi,
dagli ordinamenti occidentali di matrice liberale.
La libertà religiosa nel diritto coloniale
Nel sistema giuscoloniale italiano l’uguaglianza non era certo considerata un valore comune a cittadini e sudditi indigeni; né la differenza culturale poteva essere accreditata come un bene giuridico in
senso proprio e di per sé tutelabile. Il cardine della variabilità individuale poteva però essere rintracciato nella libertà; ed in specie, quello
della variabilità culturale nella libertà di religione, che in astratto non
fu mai formalmente negata agli indigeni. Tale ideologia, che tanta
rilevanza attribuiva all’ideale della libertà personale, aveva una matrice precisa, quella del liberalismo italiano. Tale nesso di derivazione
valeva anche per la libertà di religione (Ruffini 1992). Lo spirito del
diritto liberale ha permeato profondamente le costruzioni dottrinali
della libertà di religione (Tedeschi 2002). Tale concezione considerava il diritto di libertà del cittadino soprattutto come un diritto pubblico subiettivo, vale a dire come garanzia giuridica azionabile nei
confronti sia degli altri individui, sia dello stato, e volta a salvaguardare la sfera privata e l’esercizio in essa della pratica religiosa. Questa
garanzia, concretamente, si risolveva nell’impedire l’intervento dello
stato all’interno di una sfera giuridica riservata all’individuo. Ruffini
considerava le disposizioni in materia di libertà di coscienza e di
divieto di discriminazione come le norme fondanti il diritto in parola.
Ad esempio, citava l’articolo unico della legge 19 giugno 1848 come
la pietra angolare del sistema di libertà religiosa in Italia. Esso stabiliva: “La differenza di culto non forma eccezione al godimento dei
diritti civili e politici ed all’ammissibilità alle cariche civili e militari”.
La libertà di religione si poneva a difesa della soggettività giuridica
individuale, la cui pienezza non poteva essere limitata dalle scelte
personali in materia di culto. Una simile accezione della libertà reli-
I quaderni del CREAM , 2010, X
149
giosa era il frutto della riflessione sulle dinamiche religiose nel
circuito, per così dire, interno, cioè legate al quadro storico-politico
dello stato liberale. In questo contesto la libertà religiosa, sebbene
fosse chiamata a disciplinare due forti antagonismi, quello dello Stato
verso la Chiesa e quello dell’individuo verso lo Stato (Allegretti 1989;
De Ruggiero 1941), doveva dar conto di rapporti tra cittadini aventi
lingua, etnia, valori, cultura omogenea. Il dissidio religioso si poneva,
cioè, tra cittadini cattolici e non cattolici, tra cristiani o protestanti, tra
chierici e laici, accomunati tuttavia da una elevata partecipazione,
anche spirituale, agli ideali e alla prospettiva politica nazionale. Si può
assumere che i cittadini italiani, sebbene si sentissero differenti per
convinzioni in fatto di religione, non si reputassero gli uni con gli altri
diversi per cultura o civiltà. Non vi fu in nessun caso, neanche nei
momenti in cui il contrasto tra le istituzioni liberali e i dissidenti
cattolici fu più serrato, la necessità di teorizzare la “dissidenza” di
matrice religiosa in termini di radicale opposizione identitaria (Sanetti
1997). Inoltre la formula politica del liberalismo che trovava
attuazione in Italia fu caratterizzata dalla leadership ideologica della
classe borghese. Questa era tuttavia espressione abbastanza fedele
della sola media e grande proprietà terriera, ed il suo programma
politico era assai distante da concezioni radicalmente rivoluzionarie e
popolari. Le problematiche connesse alla frammentazione religiosa e
culturale in realtà, ove vi furono, rimasero limitate e marginali rispetto
al processo di definizione di un’ideale, quello di libertà, il cui asse
centrale fu legato alla ricerca di una reciproca indipendenza, del potere
dello stato dalla chiesa, in un primo momento e del potere della chiesa
dallo stato, successivamente.
Di diverso tenore furono le questioni sollevate dalla libertà religiosa nelle colonie. Qui la dottrina percepì chiaramente come la differente componente culturale delle popolazioni indigene ponesse problemi
concettuali relativi all’estensione stessa della categoria giuridica
(Solmi 1913; Bertola 1937). La presenza nelle colonie di gruppi religiosi e culturali estremamente eterogenei costituì un banco di prova
severo per l’approccio liberale al governo della diversità. In quell’esperienza storica si ravvisano i primi casi in cui gli esponenti del
I quaderni del CREAM , 2010, X
150
pensiero liberale, politici e giuristi, si trovarono a dover fronteggiare
una situazione di radicale pluri-culturalità, portando con sé, come
patrimonio ideologico, quei principi di libertà che, almeno formalmente, costituirono la ragione dell’autonomia dei popoli indigeni nella
normativa coloniale.
L’impatto con la diversità religiosa e culturale delle colonie indusse
quella generazione di studiosi a riflettere sulle forme e sul contenuto di
alcune categorie generali del pensiero liberale, in particolare sul valore e
sulla connotazione stessa della libertà di religione. Ci si chiese, in
particolare, se la sovrapposizione normativa tra sfera religiosa e sfera
politico-giuridica potesse determinare un ampliamento delle fattispecie
tutelabili tramite il diritto di libertà religiosa. E le risposte furono divergenti. Per alcuni autori tali posizioni giuridiche potevano assumere,
nel contesto delle colonie, un contenuto più ampio rispetto a quello
delineato nell’ordinamento nazionale (Jannaccone 1939). Altri, pur
opponendosi ad una maggiore latitudine della libertà religiosa nelle
colonie rispetto al diritto interno e alla possibilità di dare rilevanza alle
norme tradizionali dei diritti religiosi tramite essa, non poterono comunque evitare di interrogarsi quantomeno sulla differenza tra il valore e la
portata della libertà religiosa nei sistemi coloniali rispetto al diritto
interno. Così, pur ritenendo che nelle politiche coloniali il principio
della libertà religiosa fosse semplicemente equiparabile ad un generico
principio di rispetto alla religione, riusciva loro difficile negare che la
tradizione culturale religiosa potesse influenzare l’interpretazione dei
valori alla base della tutela della libertà di coscienza, riportando le
valutazioni di Arnaldo Bertola, proprio
…in considerazione peculiare dell’importanza religiosa che presso le popolazioni indigene tali elementi tradizionali possono assumere. E ciò specialmente per le popolazioni musulmane, presso le quali il fattore religioso, che,
com’è noto, permea tutta la loro vita individuale e sociale, è sentito con
particolare intensità (Bertola 1937).
Certamente alcuni di questi studiosi cercarono di dare risposte ai
loro interrogativi partendo dalla ricerca etnografica. Dalla lettura della
dottrina dell’epoca emerge, ad esempio, una buona conoscenza del
I quaderni del CREAM , 2010, X
151
sistema del diritto islamico (Juynboll 1916) e della differenziazione tra
gruppi e sottogruppi all’interno cultura musulmana. Tale consapevolezza, peraltro, investiva non solo le osservazioni sulle abitudini e sui
riti dei locali, ma contemplava anche le distinzioni tecnico-giuridiche
relative all’appartenenza all’una o all’altra delle quattro scuole giuridiche islamiche tradizionali (Bertola 1944).
Nonostante una certa sensibilità manifestata dai nostri giuristi
verso queste tematiche, il giudizio complessivo nei confronti delle
politiche della diversità adottate dal colonialismo italiano rimane negativo: non si riuscì infatti a far corrispondere ad una corretta analisi
sociologica e giuridica dell’esperienza religiosa e sociale delle popolazioni indigene una riflessione ed una piattaforma giuridica effettivamente compatibile con i principi del liberalismo.
Va altresì sconfessato il luogo comune secondo cui il colonialismo
italiano, sebbene territorialmente poco esteso, non sia stato altrettanto
invasivo e violento di quello posto in essere da altre nazioni europee.
Il processo di espansione territoriale fu sostenuto dalla classe dirigente
della nazione e si presentò come un’operazione di consolidamento del
dominio borghese, sia a livello ideologico, sia di prestigio, avente
anche il fine di fornire un incentivo per l’economia nazionale e di
collocamento di una certa borghesia impiegatizia e commerciale
parassitaria, cioè non legata alle attività produttive (Rochat 1978). Il
perseguimento di questi precisi interessi in colonia concorse non poco
al sovvertimento dei principi dello stato di diritto, rendendo vane le
valutazioni circa il significato e l’estensione della libertà di religione e
le disposizioni che regolamentavano le diversità religiose e culturali,
causa di una sistematica discriminazione. Tali profonde deroghe al
sistema di diritto liberale non potevano non lasciare tracce sulla tenuta
complessiva del sistema. Su queste occorre adesso spostare l’attenzione e riflettere sulle modalità di relazione tra diritto italiano e diritti
indigeni nei territori coloniali.
I quaderni del CREAM , 2010, X
152
Sintassi dell’esclusione della giuscolonialistica italiana.
Il principio di “civiltà”, cardine di una differenza duale
Esigenze di ortodossia storiografica (Topolski 1973) imporrebbero
di determinare cronologicamente un periodo temporale da prendere in
esame. Tuttavia il carattere non precipuamente storiografico di questa
indagine, che guarda al passato solo per acquisire maggiore consapevolezza circa le categorie giuridiche del presente, può sopportare
qualche “accomodamento”. Cosicché sarà possibile racchiudere grosso
modo (cioè con alcune eccezioni sporadiche) i limiti temporali di
questo studio tra l’anno 1882 e il 1919. La data iniziale corrisponde al
passaggio nella proprietà dello Stato italiano del territorio della baia di
Assab (in Dancalia, una regione dell’Eritrea), volto a costituire il
primo nucleo territoriale delle colonie italiane. Dello stesso anno è la
prima legge in materia coloniale4.
Nel 1919, invece, a seguito della conquista della Quarta sponda, la
Libia, si provvide alla concessione degli Statuti libici per la
Tripolitania e la Cirenaica, con i quali si concluse un percorso che,
progressivamente, aveva portato alla concessione a quei territori, per
mezzo degli Statuti appunto, di una limitata autonomia normativa.
Inoltre tale limite temporale coincide con l’ultimo atto di amministrazione della colonia astrattamente ispirato ai principi di governo
dello stato liberale, poiché dopo questa data, con la presa di potere da
parte del partito fascista, la politica coloniale cambiò registro e fu
improntata ad un rigoroso imperialismo. Da allora in poi le idee e le
politiche razziali influenzarono l’attività coloniale ben più marcatamente di quanto non fosse accaduto in precedenza (Labanca 2002;
Steiner 1936; Woolbert 1932).
La politica di espansione coloniale ha avuto, ovviamente, una sua
peculiare proiezione nell’ambito giuridico. L’esperienza italiana,
sebbene limitata per estensione geografica e per durata temporale,
produsse un apparato di norme appositamente elaborate per il governo
delle colonie; si cercò altresì di estendere le norme di diritto interno
4 Legge 5 luglio 1882, n. 857.
I quaderni del CREAM , 2010, X
153
anche ai territori coloniali. Questa indagine non ha come oggetto
l’analisi dell’apparato normativo coloniale in sé (Mondaini 1941;
Cucinotta 1933). Prendendo spunto da alcune fattispecie emblematiche, si vuol proporre una riflessione sui modi con cui quel sistema
affrontò il tema della diversità umana e, in termini giuridici, il tema
della differenza religiosa e culturale. Ciò voleva dire, in alcuni casi,
dover valutare le caratteristiche oggettive e soggettive del contesto
coloniale al fine di estendere ad esso i principi e le norme del dritto
statale; in altri casi, conferire rilevanza alle norme di diritto locale a
base consuetudinaria e religiosa.
Va sottolineato come, almeno nel periodo in esame (1882-1919), le
ideologie propriamente razziste non caratterizzarono totalmente l’impianto giuridico coloniale, sebbene contribuissero allo sviluppo dei
suoi contenuti e della sua sintassi. Parallelamente al razzismo ideologico operarono cioè altri paradigmi interpretativi basati sull’osservazione sociologica di differenze religiose, scientifiche, linguistiche,
economiche tra europei e indigeni. Proprio a causa di questa pluralità
di approcci, il panorama normativo coloniale italiano presenta alcune
difficoltà di valutazione. Oltretutto tale sistema, nelle sue articolazioni, si presentava complessivamente disorganico. Data la limitata
estensione territoriale della colonia, infatti, esso non fu elaborato
avendo alla base un progetto o un’idea generale in materia di sistema
di governo. Esso, piuttosto, venne progressivamente formandosi in
seguito ad iniziative isolate volte a soddisfare esigenze di amministrazione, ogni qualvolta si manifestassero con una qualche urgenza.
Di conseguenza nella stessa legislazione coloniale poteva notarsi
una profonda contraddizione tra la necessità di contemperare il
dominio e il rispetto, almeno formale, della religione e delle tradizioni
giuridiche indigene. Molte disposizioni cercavano di bilanciare queste
opposte esigenze. Da una parte, fu comune per i giuristi affermare che
il principio “religioni libere nello Stato sovrano” costituisse la formula
che indicava “l’attitudine dello Stato italiano nelle nuove regioni
dell’Africa settentrionale” (Solmi 1913); e che la “libertà più larga
nella pratica lecita dei culti”, il “rispetto degli usi e dei costumi
locali”, costituissero i criteri fondamentali del diritto pubblico nel
I quaderni del CREAM , 2010, X
154
dettare le linee direttive del nuovo ordinamento (Cicchitti-Suriani
1926). D’altra parte, si assumeva che il divario di civiltà tra stato
colonizzatore e comunità colonizzata potesse giustificare limitazioni
all’esercizio dell’autonomia delle popolazioni locali. Perciò le norme di
principio che disciplinavano il rapporto tra la cultura religiosa indigena
e la cornice dell’ordinamento coloniale erano redatte rispettando uno
schema bipartito, nel quale ad una prima generica affermazione di
riconoscimento delle tradizioni giuridiche locali e di libertà religiosa
seguiva un’altrettanto vaga clausola di limitazione legata al rispetto
della civiltà metropolitana5, oppure si usava l’espressione pressoché
equivalente di “spirito della legislazione” (Romano 1918). Non si può
non notare il paradosso in virtù del quale le disposizioni formalmente
redatte per affermare il rispetto delle tradizioni giuridico-religiose
indigene costituissero nei fatti il limite più pervasivo all’estrinsecazione
dell’autonomia dei colonizzati. Tale eterogenesi dei fini era basata,
appunto, sulla funzione culturalista della clausola di civiltà (Appadurai
1996). Tale clausola era cioè in grado di imprimere una data direzione
alla mobilitazione di un intero corpo di funzionari amministrativi,
orientando in modo analogo anche l’interpretazione delle norme
giuridiche della colonia. Occorre vagliare in che modo ciò avvenisse. Si
può dire che la clausola di civiltà operasse su due livelli il primo emerso
e politico, il secondo sommerso e culturale. Il primo dei due è stato
5 L’art. 3 della legge 5 luglio 1882, n. 857, Provvedimenti per il territorio di Assab
(Africa Orientale Italiana) stabiliva: Rispetto agli individui della popolazione
indigena, saranno rispettate le loro credenze e pratiche religiose. Saranno regolati con
la legislazione consuetudinaria finora per essi vigente il loro stato personale, i rapporti
di famiglia, i matrimoni, le successioni, e tutte le relazioni di diritto privato, in quanto
però quella legislazione non si opponga alla morale universale ed all’ordine pubblico,
né ad essa sia derogato da espresse disposizioni.
Nel R. D. 2 luglio 1908, n. 325 (decreto reale risultante dalla delega legislativa 24
maggio 1903) sui domini coloniali in Eritrea si leggeva: Ai sudditi coloniali ed agli
assimilati si applica la legge consuetudinaria della propria razza in quanto sia
compatibile con lo spirito della legislazione e della civiltà italiana.
L’art. 21 della legge 6 luglio 1933, n. 999 sull’ordinamento organico per l’Eritrea e la
Somalia affermava: è garantito il rispetto delle religioni e delle tradizioni locali, in
quanto non contrastino con l’ordine pubblico delle colonia e con i principi generali
della civiltà.
I quaderni del CREAM , 2010, X
155
ampiamente evidenziato dalla ricerca storica e non è il caso di
dilungarsi su di esso. La clausola di civiltà fondava cioè la definizione e
la legittimazione del colonialismo stesso: il dominio dello stato
colonizzatore veniva fissato e giustificato mediante il dato fattuale del
divario di civiltà (Costa 2004-2005). Tale constatazione veniva quindi
posta alla base dei processi di definizione primaria delle istituzioni
giuridiche (Mancini 1893-1897). La colonia era infatti quel “territorio di
civiltà inferiore subordinato politicamente ad un determinato Stato, dal
quale è geograficamente distinto”. Essa differiva dalla madrepatria
poiché “nella metropoli risiedono gli organi sovrani dello Stato, dai
quali emana la sua volontà, mentre gli organi della colonia non hanno
che un potere subordinato” (Cucinotta 1933, p. 3).
Viceversa, rispetto all’attività ermeneutica del singolo operatore
tale clausola funzionava in profondità, essendo basata su una logica
differenziale rigida, strutturalmente duale, legata all’inclusione o all’esclusione della tradizione giuridica o religiosa locale (Nuzzo 20042005). Il funzionario coloniale, posto di fronte alle istituzioni del
diritto straniero, aveva la possibilità di riassumere l’indubitabile differenza esistente tra esse e la propria cultura giuridica in due modi:
poteva considerare l’istituto giuridico del diritto indigeno marginalmente differente, oppure totalmente incompatibile con la propria
cultura giuridica. Nel primo caso egli avrebbe cercato di dirimere le
dissomiglianze facendo affidamento su una base comune; sarebbe
stato portato a valutare le prassi, gli istituti, i comportamenti stranieri e
a reinterpretare le differenze marginali, a considerare la norma
giuridica richiamata comparabile a quelle del diritto metropolitano e
pertanto comprensibile, spiegabile, applicabile in tutto o in parte. Nel
secondo caso sarebbe stato portato ad ignorare le differenze, preferendo il ritorno alla propria, sicura tradizione normativa. Avrebbe così
concluso che la norma o la tradizione richiamata fossero estranee alla
propria civiltà e del tutto irriducibili ad una comparazione, ad una
sussunzione in termini giuridici, in sintesi destinate ad essere
totalmente irrilevanti. Se convinto della propria superiorità culturale –
cosa che avveniva nella gran parte dei casi , il giurista coloniale non
sarebbe stato tenuto a compiere alcuno sforzo per interpretare, dare
I quaderni del CREAM , 2010, X
156
valore ed eventualmente applicare le norme indigene che non era in
grado di comprendere in prima battuta.
Ma ciò che qui si vuole mettere in evidenza è soprattutto che il
pregiudizio culturalista condizionava non solo l’interpretazione delle
norme richiamate dei diritti indigeni, bensì anche le norme di diritto
italiano che dettavano i criteri di coordinamento tra i due sistemi
normativi. Si è visto come queste norme fossero strutturate in maniera
bipartita, e che ad una prima enunciazione della libertà religiosa e
della rilevanza degli usi e dei costumi di solito seguiva una limitazione
basata sulla compatibilità con i principi di civiltà giuridica: nell’interpretazione di queste norme, nonostante esse ammettessero in linea di
principio il riconoscimento di tradizioni diverse, sarebbe per lo più
prevalsa l’applicazione del limite di civiltà, in modo da ribadire
sottotraccia la superiorità inderogabile della cultura europea. In tutti i
casi, il confronto tra tradizioni giuridiche diverse si svolgeva in una
prospettiva non-dialettica, basata su uno schema di operatività rigidamente duale, volto ad ammettere o ad escludere (senza ulteriori
valutazioni o opzioni intermedie) il rinvio a norme giuridiche diverse
(JanMohamed 1985). Ed in effetti i funzionari locali cercavano in vari
modi di disapplicare le norme locali tutte le volte in cui ciò fosse stato
loro possibile, oppure di modificarle, più o meno nascostamente, per
rendere giustizia sostanzialmente attraverso norme italiane.
Alle norme di principio inoltre si affiancarono progressivamente
tutta una serie di tecniche di redazione e di controllo, come le
condizioni locali6 di applicazione (Cucinotta 1940); di interpretazione,
6 La dottrina dell’epoca ebbe modo infatti di riflettere sulla natura giuridica delle
condizioni locali nel diritto coloniale. Si individuava in esse un vero e proprio
principio generale del diritto. Esso, si chiariva, era stato fin dai primi momenti
osservato nella normazione e nell’attività di giudizio degli organi coloniali. La ragione
della sua importanza consisteva nel fatto che attraverso di esso si poteva dare concreta
rilevanza giuridica alle circostanze, fisiche e morali, nelle quali i cittadini e gli
indigeni vivevano assieme nelle colonie. Al tempo stesso quel principio rendeva conto
del divario esistente tra ambiente giuridico metropolitano e coloniale.
Le condizioni locali furono prevalentemente interpretate come condizioni generalizzate di esclusione: la loro sussistenza, cioè, costituiva motivo di inapplicabilità tout
court del diritto metropolitano nella colonia; in presenza di rilevanti differenze, aventi
I quaderni del CREAM , 2010, X
157
come la cripto-occidentalizzazione del diritto islamico (Costa 20042005); o, ancora, di consulenza, come la pratica di affiancare ai
giudici i giusperiti locali, con funzione consultiva. In tutti questi casi
l’operatività culturalista di queste rimedi agiva in maniera diffusa,
anche se ad un livello profondo7.
In questi casi invece che escludere del tutto le norme religiose
applicabili si preferì modificarle in tutto o in parte. Per quello che
riguarda i processi di ibridazione nell’attività di recezione/applicazione delle consuetudini locali occorre riferire della tecnica di
“islamizzazione del diritto” elaborata da Guglielmo Ciamarra8. Questo
autore, temendo il dogmatismo della legislazione coloniale, cioè che le
leggi, anche quelle speciali, potessero produrre norme inaccessibili ai
popoli indigeni delle colonie, sosteneva la necessità di tradurre nel
diritto islamico i principi normativi (legislativi) interni, attraverso
l’opera della giurisprudenza; affermava quindi:
La giurisprudenza, anziché portare alla codificazione di una consuetudine già
affermata, porrà invece le basi di nuove consuetudini, e le condurrà,
lentamente, inconsciamente, verso nuove forme di istituti giuridici.
natura oggettiva (derivanti dall’ambiente fisico della colonia, come la mancanza di
organi e di uffici) o soggettiva (quali quelle riguardanti la razza, i costumi, la religione),
la norma di diritto interno formalmente valida, perché ad esempio estesa specificamente
al territorio della colonia, non sarebbe stata applicata al caso concreto.
7 Nel caso di sentenze che adattavano le norme locali ai principi di diritto statale, tali
decisioni della giurisprudenza venivano escluse dal controllo attraverso successivi
gradi di giurisdizione. Ad esempio, ogni soluzione che il giudice di merito avesse dato
quanto all’inapplicabilità od alla modificazione della legge per effetto delle condizioni
locali era esclusa dal controllo della Corte di cassazione. Amplificando il significato
delle differenze locali e facendole prevalere sui principi liberali dello stato di diritto, si
riteneva pertanto che la Corte di cassazione difficilmente sarebbe stata in grado di
riformare la soluzione data dai giudici di merito. Questi infatti erano sui luoghi,
avevano familiarità ed erano in grado di valutare le necessità, le condizioni della vita
locale, i costumi e le tradizioni degli indigeni assai meglio della Suprema Corte.
8 Guglielmo Ciamarra (1876-1934) fu giurista, diplomatico e professore universitario:
in particolare insegnò Diritto e legislazione coloniale nelle Università di Roma e
Napoli. Fu titolare di alcuni incarichi diplomatici e di reggenza (Somalia italiana,
Tripolitania) e addetto al contenzioso diplomatico del Ministero degli esteri.
I quaderni del CREAM , 2010, X
158
Il metodo individuato dall’autore prevedeva che la legislazione si
traducesse in consuetudini locali attraverso l’operato della giurisprudenza creatrice. A tal fine sarebbe quindi stato necessario:
conoscere a fondo le istituzioni dei popoli soggetti, indagare sottilmente le
loro tradizioni, rendersi conto delle loro condizioni attuali, studiare accuratamente il corso della evoluzione da essi fin’oggi subita, per dedurne la scelta
di quegli elementi del carattere delle istituzioni dei popoli civili di cui è
possibile profittare, al fine di agevolare e perfezionare l’assimilazione. (…)
Una buona ed efficace penetrazione del diritto, non può prescindere dal
principio che la forza moralmente obbligatoria della legge come applicazione, sia pure frammentaria e parziale di un diritto diverso, deve insinuarsi
nella coscienza degli indigeni (Ciamarra 1910).
E che in effetti tali processi di occultamento del diritto locale fossero esperiti dai giudici e dai funzionari italiani della colonia lo
dimostra quanto affermava Attilio Brunialti, il quale commentando il
sistema delle istituzioni giudiziarie eritree affermava:
Con provvida disposizione furono rispettate le pratiche e le credenze religiose
degli indigeni, i quali da tradizioni secolari conservano quell’assieme di riti,
che per loro è senza dubbio la cosa più sacra ed insieme la più cara, ed il più
potente mezzo di coesione. Fu pure saggiamente disposto che gli indigeni
regolassero colla loro legislazione consuetudinaria lo statuto personale, i
rapporti di famiglia, i matrimoni, le successioni e tutte le relazioni di diritto
privato, purché tali atti non fossero contrari alla morale universale ed
all’ordine pubblico, né ad essi fosse derogato da espresse disposizioni,
sempre in nome del re d’Italia (Brunialti 1897-1902).
Sennonché, commentando l’introduzione di una norma che stabiliva la presenza di mufti e qadi accanto al presidente del tribunale di
Massaua e del procuratore del re con compiti consultivi9, diceva
trattarsi di una
9 Art. 19 del Regio decreto 10 febbraio 1900.
I quaderni del CREAM , 2010, X
159
Saggia disposizione che tende a far completamente sparire, senza che gli
indigeni se ne accorgessero, le loro istituzioni, abituandoli alle nostre
(Brunialti 1897-1902).
Gli esempi appena citati parrebbero dimostrare come l’operatività
del principio di civiltà possa essere valutata in profondità, non solo
rilevandone la funzionalità nel regolare i rapporti di forza tra lo stato
colonizzatore e la colonia, ma sottolineandone anche la portata culturalista, meno appariscente ma più pervasiva in termini di esperienza
giuridica. Rispetto alla gestione della giustizia nei casi concreti, tale
clausola veniva in soccorso al funzionario di governo coloniale ogni
qualvolta effettivamente diverso fosse equiparabile al non noto, perché
non conosciuto o non conoscibile.
La storia delle fonti del diritto indigeno in effetti fornisce non
poche conferme a riguardo. Sicuramente, uno dei limiti all’effettività
del rinvio alle leggi locali fu la scarsa conoscenza che i funzionari
italiani avevano di esse. Tra le fonti della tradizione normativa abissina andava annoverato, ad esempio, il noto testo Fetha Nagast, o
“Legislazione dei Re”10, del quale per qualche decennio non si ebbero
traduzioni in lingua italiana: la prima edizione dell’opera, in lingua
originale, fu del 1897 e fu dovuta all’iniziativa di un orientalista
italiano, Ignazio Guidi. Di gran lunga successivi furono i compendi,
per così dire, di natura tecnica in grado di orientare il giudizio
dell’operatore coloniale (Guidi 1897; Rossi Canevari 1936). Sulla
base di queste premesse non è difficile ipotizzare che per molti anni,
di là da quanto stabilivano le norme di principio, nei tribunali di
arbitrato (Labanca 1993) non si disponesse di conoscenze adeguate
sulle fonti di diritto locale e si procedesse acriticamente mediante la
non applicazione delle norme richiamate, cercando piuttosto di far
prevalere le logiche giuridiche metropolitane.
10 L’art. 34 del Regio decreto 2 aprile 1899, n. 134 prevedeva l’applicazione da parte
da una Commissione di notabili locali, rispetto a certe competenze, delle norme del
Corano e le norme del Fata Negesti e Fata Mogarè, per quanto possibile, in armonia ai
generali principi del diritto italiano.
I quaderni del CREAM , 2010, X
160
D’altro canto, neanche quando furono disponibili i primi testi
tradotti l’atteggiamento manicheo dei colonialisti mutò. Ed il rinvio
alle consuetudini locali fu considerato, non di rado, di ostacolo al
processo di modernizzazione da parte degli stessi orientalisti che si
occuparono del recupero dei testi normativi originali. Nella Prefazione
al Compendio del Fetha Nagast si ribadiva che la conoscenza delle
leggi locali fosse strumentale ad un loro progressivo abbandono. Da
un lato si lodavano le antiche tradizioni locali e se ne auspicava la
conoscenza e il rispetto:
Perché è da pensare che anche nei primi tempi del nostro contatto con
l’Etiopia sarà doveroso e prudente da parte nostra, come del resto suol
avvenire in simili imprese, permettere a quelle popolazioni Abissine, già
detentrici e custodi di tradizioni antichissime, di amministrarsi secondo le
loro leggi e secondo i costumi loro, sia pure in quanto quella loro civiltà non
sia incompatibile con la nostra.
Dall’altro si suggeriva di commentare i dettami del “codice” abissino alla luce del diritto italiano:
È però anche facile pensare come la conoscenza del loro diritto potrà sempre
meglio servire alla nostra penetrazione, e, in particolare misura, ai commissari civili regio-imperiali, nonché a tutti quei funzionari che dovranno
trovarsi in immediato contatto con le nuove popolazioni applicando e facendo
osservare le leggi locali, sostituibili appena lentamente e gradatamente col
giure d’una maggiore civiltà, quella d’Italia e di Roma (Rossi Canevari 1936,
pp. XIV-XV).
La clausola di civiltà, in questo modo, operava nel secondo dei
sensi sopra indicati, cioè quello “sommerso” e culturale in senso stretto, poiché serviva sostanzialmente a mistificare le difficoltà oggettive
di integrare le differenze delle tradizioni giuridiche venute a contatto.
Ciò avveniva sia quando tale divergenza fosse stata motivata dalla
mancata conoscenza della tradizione straniera, come nel caso delle
fonti locali consuetudinarie; sia nel caso in cui quella apparisse
estremamente complessa, come avveniva per il diritto islamico. In
I quaderni del CREAM , 2010, X
161
quest’ultima evenienza si ravvisava una incompatibilità tra i due sistemi
giuridici, quali universi di discorso articolati e irriducibili gli uni a gli
altri. Questo preciso processo, basato su un deficit culturale invece che
su di un indirizzo di dominio politico, impedì, ad esempio, che fosse
portato a termine il progetto di codificazione del diritto eritreo.
Tecniche multiprospettiche di governo della differenza, improntate
ad una ibridazione creativa del diritto locale, furono marginalmente
proposte e puntualmente abbandonate. Ad esempio, in rari casi, nel
prosieguo dell’esperienza di governo della colonia, fu prevista la
possibilità di creazione (da parte del giudice) di nuove norme sulla
base dell’adattamento alle differenti condizioni, come nel caso di una
disposizione adottata nel 1917 in Libia11. Esattamente si richiedeva al
giudice coloniale, nell’adattare le leggi alle condizioni locali, di fissare
la norma che meglio avesse disciplinato i rapporti controversi,
apportando alle leggi quelle modificazioni che, se egli fosse stato il
legislatore, avrebbe stabilito per regolare gli stessi rapporti di diritto.
Tale norma restò in vigore fino al 1928: negli ordinamenti giudiziari
successivi non fu più riprodotta.
É ovvio che la premessa sulla superiorità culturale occidentale, la
tendenza a confrontare ponendo l’accento su una diversità incolmabile
più che su una differenza marginale e l’adozione generalizzata di una
logica duale di rappresentazione dell’alterità culturale producessero
effetti negativi sulle politiche normative del “rispetto” dell’alterità
culturale e religiosa: furono rese vane tutte le norme apparentemente
liberali del sistema giuscoloniale; si produsse una serie di effetti a
catena volti a cancellare l’applicazione delle pratiche giuridiche tradizionali indigene per il solo fatto di essere poco note o eterodosse; si
legittimò il riconoscimento di effetti giuridici a quelle sole tradizioni
che fossero, per ragione o per avventura, simili agli istituti giuridici
metropolitani.
In via interlocutoria venendo alla pluriculturalità d’oggi, potrebbe
notarsi che gli effetti di esclusione giuridica possono non essere
11 Cfr. Art. 1 delle norme complementari dell’ordinamento giudiziario per la
Tripolitania e la Cirenaica approvato con R. Decreto luogotenenziale 15 aprile 1917,
n. 938.
I quaderni del CREAM , 2010, X
162
un’esclusiva di norme del passato costruite attorno alla clausola di
civiltà: questi effetti possono essere dovuti ad una interpretazione
culturalista di alcune clausole generali presenti anche negli ordinamenti attuali. Essi appaiono infatti strutturalmente legati alla logica
duale sé/altro e ad una condizione oggettiva di differenza culturale e
sono concretamente riproducibili, a volte in maniera non intenzionale,
per effetto di quelle disposizioni che sanciscono spazi condizionati di
rilevanza o strategie di integrazione relative a differenze di genere,
religiose, culturali, razziali (Anello 2007; Mezzadra 2008).
Differenziazioni e ambiguità del sistema coloniale: i temi
della giurisdizione e della cittadinanza
Tornando alle logiche liberali, sembra che la modalità di riproduzione delle differenze culturali nel dominio del diritto coloniale fu
del tutto inadeguata, da un punto di vista empirico, ideologico e
culturale. L’enorme complessità delle diverse culture e tradizioni
“viventi” nel territorio della colonia fu ridotta ad una netta scansione
duale, inclusiva/esclusiva: si distinse ciò che era rilevante giuridicamente, perché culturalmente ortodosso, da costumi, usanze, diritti
sconosciuti, incomprensibili, ritenuti incivili e perciò giuridicamente
“irricevibili”. Ciò che si trovava di là dal limite della civiltà finiva in
modo indifferenziato ed appiattito nell’ambito dell’incommensurabilità con il diritto. L’attività di governo della colonia fu condizionata da
questo sistema manicheo di differenziazione, oltre che da una indubbia, anche se non prevalente, componente razzista. Parte delle
ambiguità e delle contraddizioni rilevate e rilevabili nell’esperienza
giuscolonialista italiana, rispetto allo spirito del liberalismo, appare
però riconducibile all’incapacità della dottrina dell’epoca di rappresentare, di dare valore e di interpretare adeguatamente la complessità
delle differenze culturali tra indigeni e coloni. Come si è accennato, la
logica duale di valutazione delle diversità fu pervasiva, cioè si
riprodusse in tutti i gangli del sistema coloniale, caratterizzandolo.
Non è questa la sede per valutare se tale caratterizzazione muovesse
I quaderni del CREAM , 2010, X
163
dal vertice del sistema di dominio o dalla base, cioè se fosse
prevalente la volontà di subordinazione del colonizzatore nei confronti
delle culture ritenute subalterne o, invece, l’inadeguatezza dei funzionari mandati in colonia nell’interpretare le differenze culturali: probabilmente vi fu un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Tuttavia questa
scansione, pur costituendo la struttura logica del rapporto tra dimensione giuridica metropolitana e coloniale, non era adeguata a regolarne
compiutamente tutte le possibili, complesse interazioni. Perciò le
strategie basate sulla logica duale del divario di civiltà contribuirono a
generare quell’impressione, anche oggi condivisa, di ambiguità
propria della giuscolonialistica italiana.
Diverse furono le proiezioni e le contraddizioni riconducibili all’insufficienza dello schema di differenziazione a base duale. Qui si
accennerà solamente ai casi più evidenti, come quelli relativi agli
ambiti della giurisdizione e della cittadinanza.
A) La più immediata estrinsecazione di queste logiche fu l’instaurazione, accanto alla giurisdizione ordinaria, della giurisdizione speciale militare destinata di fatto a prevalere sulla prima per i primi anni
di organizzazione di governo del territorio coloniale (Rosoni 20042005). In esecuzione della delega prevista nella legge del 1882 al
Governo, si affidarono i più ampi poteri al comando militare, e questa
sistemazione sarebbe cessata, affiancata nel frattempo da organismi
solo formalmente misti, solo nel 1900, in particolare con la legge
organica del 1903.
Certamente, la limitata estensione della colonia disincentivò per
molto tempo una riforma organica della giustizia, sicché venne
provveduto ad essa mediante una sovrapposizione di provvedimenti
occasionali, di rado coordinati tra di loro. La conseguenza di questa
distinzione fu che nel contesto coloniale l’esercizio della giustizia si
basò su criteri di opportunità pragmatico-politica (necessari all’esercizio dei poteri di governo) che sul dominio della legge. A tale situazione fecero corona molte, correlate, difficoltà di controllo da parte
degli organi centrali in ordine ai criteri dell’amministrazione coloniale. Ma anche rispetto ad un sistema di questo genere furono debita-
I quaderni del CREAM , 2010, X
164
mente rilevate le ampie deroghe ai principi dello stato di diritto.
Queste venivano censurate quando fossero state conosciute dagli
organi metropolitani di controllo.
Tra i primi atti che ravvisarono questa ennesima antinomia vi fu il
parere del Consiglio di Stato, il 26 ottobre 1891, sul progetto di
riordino delle strutture giudiziarie in Eritrea da parte del generale
Oreste Baratieri12. In tale documento il Consiglio di Stato si dimostrò
pienamente cosciente del fatto che in colonia sussistesse e si amplificasse sempre di più la contraddizione tra le “teorie” del diritto
liberale e la pratica e continua estensione del potere militare. Ma esso
si limitò a commentare che il piano di Baratieri sarebbe stato pur
sempre preferibile ad una condizione di vuoto normativo e giurisdizionale. Si auspicava pertanto che tale piano di riordino potesse avere
vigore solamente temporaneo in attesa di un futuro assetto definitivo
della giustizia nella colonia. In casi come questo, pertanto, le magistrature centrali giustificavano la permanenza della giurisdizione
militare in virtù della situazione di straordinaria extraterritorialità che
appariva sussistere nella colonia. Di fronte a riserve così deboli, anche
in questa circostanza, si avallò la delega all’autorità militare del potere
nella colonia. Il riassetto definitivo della giustizia, auspicato dal
Consiglio di Stato, sarebbe stato realizzato da Baratieri tre anni
dopo13, sempre all’insegna di principi già sperimentati e codificati
dell’“ingerenza” dei militari.
B) Il regime giuridico degli statuti personali, bipartito tra cittadini e
sudditi, diede luogo all’applicazione della logica duale di regolamentazione delle differenze con la massima nitidezza. Tale tema è un altro
tra quelli approfonditamente studiati, e a specifiche trattazioni si fa
rinvio per una visione completa dell’argomento (Costa 2001; Capuzzo
1995). Qui, più limitatamente, si vuole riflettere su alcuni aspetti della
logica di rappresentazione giuridica delle differenze, individuali e
culturali, attraverso la gerarchia tra status di cittadino e status di
suddito (e dei loro “assimilati”). In questo caso la logica duale di
12 Oreste Baratieri fu generale e Governatore dell’eritrea.
13 R. D. 22 maggio 1894, n. 201.
I quaderni del CREAM , 2010, X
165
rappresentazione delle differenze si organizzava attorno alla più semplice polarizzazione del soggetto, quella sé/altro. L’intuitiva chiarezza
di questa scansione per la mentalità dell’epoca fece sì che per diversi
decenni dalla fondazione della colonia non fosse sentita la necessità di
codificare tale differenziazione giuridica in una apposita disposizione.
Questa gerarchia fu cioè costruita attorno alla distinzione, più
palese agli occhi degli europei, tra coloni e indigeni, rappresentata
proprio dalla diversità complessiva di cultura. Questa pretesa diversità
fu posta alla base della definizione dello stato giuridico. La dottrina
dell’epoca si limitava infatti a trattare la questione in modo tautologico, poiché la distinzione dello status personale veniva riconnessa
all’appartenenza culturale degli individui e da questa appartenenza si
faceva poi discendere il sistema di diritto materialmente applicabile
all’individuo, se quello italiano, quello sharaitico, o quello consuetudinario.
Un autore si esprimeva chiaramente in proposito:
Il criterio di personalità della legge si riconnette indiscindibilmente non solo
con quello specifico di pertinenza alle varie razze, stirpi, religioni, degli
abitanti della colonia, ma anche ed innanzitutto con quello generico di stato
giuridico dei medesimi, che ne è il presupposto non solo agli effetti del diritto
per essi vigente ma anche agli effetti della legge in ogni altro campo
(Mondaini 1941, vol. I, p. 273).
La logica basata sulla non appartenenza alla civiltà europea era
considerata così chiara e funzionale che rimase dominante anche nel
momento in cui si provvide a redigere appropriate disposizioni volte a
dare una definizione della “sudditanza”. E difatti poteva essere definito suddito, colui il quale, prima di tutto, non fosse cittadino.
L’art. 2 dell’ordinamento giudiziario dell’Eritrea14, norma che diede la prima definizione della condizione personale di sudditanza,
veniva perciò redatta in termini negativi: tale qualità dipendeva
innanzi tutto dal fatto di non essere cittadino italiano, suddito o cittadino di altro stato europeo. A tale presupposto di base ne seguivano
14 R. D. 2 luglio 1908, n. 325.
I quaderni del CREAM , 2010, X
166
altri secondari e concorrenti di natura positiva. Si richiedeva che la
persona fosse nata in colonia, appartenesse a tribù o stirpi della colonia medesima, appartenesse ad altra popolazione africana, risiedesse
da due anni in colonia o avesse prestato servizio stabile nell’amministrazione pubblica. Rispettava lo stesso ordine logico il successivo
art. 2 dell’ordinamento giudiziario della Somalia15, in base al quale era
considerato suddito coloniale l’individuo che non essendo cittadino
italiano o cittadino di stato straniero riconosciuto fosse stato nativo
della colonia o fosse appartenuto a tribù o stirpi di essa.
Conseguentemente, veniva regolata la posizione dell’assimilato, la
cui condizione dipendeva dal fatto di appartenere a popolazioni che
non fossero equiparabili a quelle europee, cioè non avessero un grado
di civiltà simile a quello europeo. La nozione di civiltà, cioè, si caratterizzava come una sorta di ideoscape argomentativo, cioè come una
concatenazione concettuale, dipendente dall’ideologia della nazione
dominante, i cui elementi erano profondamente collegati gli uni con
gli altri, in una struttura tale da non mutare anche qualora uno di essi
fosse cambiato o assente.
La caratura superiore della civiltà europea non poteva infatti essere
messa in crisi neanche quando un suo elemento costitutivo, quello
della religione, fosse mutato nel percorso soggettivo dell’indigeno.
Così, ad esempio, in caso di conversione dalla religione musulmana a
quella cristiana. L’elemento religioso era certamente il marcatore
principale della diversità culturale tra indigeni e coloni. Ma lo stereotipo della appartenenza culturale, in senso più ampio, era così stabile
che non poteva entrare in crisi neanche nel caso in cui un indigeno
avesse deciso di convertirsi. La dottrina dell’epoca si interrogò in
effetti se una tale evenienza potesse avere influenza oltre che sullo
stato personale dell’indigeno, anche sulla sua condizione giuridica di
“sudditanza”. Il giurista Ernesto Cucinotta ebbe modo di riflettere
sulla questione, riassumendola in questi termini:
È interessante ora considerare quale effetto dispieghi sulla condizione giuridica degli indigeni delle nostre colonie la loro conversione a religioni diverse
15 R. D. 7 luglio 1910, n. 708.
I quaderni del CREAM , 2010, X
167
da quella professata: argomento non contemplato da alcuna disposizione
legislativa. (…) i casi di cambiamento di religione non sono frequenti (…).
Mette, quindi, conto di esaminare tale questione, la quale, però – s’intende
facilmente – non ha importanza qualora l’indigeno rinunzi ad una religione
propria di una popolazione che gode nella colonia di un determinato statuto
personale per abbracciarne un’altra alla quale corrisponda un altro statuto
personale, come, ad esempio, se un musulmano della Libia si converta alla
religione israelitica o viceversa. In questo caso, infatti, non si ha che un
trapasso da uno statuto all’altro, ma l’indigeno rimane sempre cittadino
italiano libico e come tale conserva il proprio statuto personale. Diverso,
invece, è il caso in cui, ad esempio, un musulmano abbracci la religione
cattolica, perché qui, appunto, sorge la questione se la conversione operi sul
suo statuto personale. Evidentemente essa non ha alcuna efficacia sulla
condizione giuridica. L’indigeno musulmano divenuto cattolico rimarrà
sempre suddito coloniale o cittadino italiano libico. I casi in cui può essere
concessa la cittadinanza metropolitana sono tassativi e non consentono
interpretazioni di sorta. D’altra parte le credenze religiose non hanno più, per
il nostro diritto, alcuna influenza sulla capacità di diritto delle persone fisiche,
ed il cattolico, l’israelita, il musulmano, l’affiliato ad una gema’ah o ad una
corporazione religiosa godono di tutti i medesimi diritti civili, benché
diversa, in taluni casi, sia la loro condizione giuridica, quali cittadini o
sudditi, rispetto alle nostre leggi ed alle nostre giurisdizioni. La conversione,
quindi, e l’abbandono della religione non alterano lo statuto personale del
convertito (Cucinotta 1933).
In una fattispecie come questa emergeva, in maniera immediata e
prepotente, la prevalenza del fattore culturale (cioè di una diversità
interpretata come un blocco monolitico) su quello dello status giuridico della differenza, interpretabile in maniera graduale come un
fascio di elementi distintivi. Quel che più sorprende è che in un caso
come questo la cultura potesse essere considerata come un fattore a se
stante, quasi di natura materiale, rilevabile separatamente dalla
religione. La diversità culturale tra i due soggetti, cittadino e suddito,
si considerava radicale e oggettiva, connessa all’appartenenza ad un
certo gruppo etnico-culturale (anche se in questo caso si trattava di
una eccezione al principio generale dello status giuridico come status
religioso). Può destare sconcerto, cioè, che l’opposizione tra il sé, la
I quaderni del CREAM , 2010, X
168
soggettività culturale europea, e l’altro, cioè l’indigeno africano o
assimilato, potesse essere così cristallizzata in un complesso di fattori
culturali che anche il mutamento di religione, probabilmente la
matrice principale della identità culturale indigena, non potesse avere
alcun rilievo nel modificare uno statuto personale, altrimenti sovradeterminato.
Tuttavia il sistema della cittadinanza progressivamente mutò, in
maniera tale da rendere meno rigida la gerarchia di partenza. In
particolare, dopo la conquista della Libia, con l’ordinamento statutario
del 1919 venne abrogata la “sudditanza” e venne creata una forma
speciale di cittadinanza italiana della Tripolitania e della Cirenaica.
Malauguratamente, anche in questo caso non ci si allontanò dalla
logica delle distinzioni duali, poiché poteva aspirare a tale formula
superiore di cittadinanza16 l’indigeno che avesse raggiunto il più alto
grado di partecipazione all’apparato culturale e assiologico italiano.
Con l’assimilazione egli sarebbe stato giudicato, per così dire, tanto
diverso (dai suoi simili) da riuscire a surclassare completamente il
divario di civiltà.
Le esemplificazioni della logica di diversità/differenza basati su
una rigida distinzione duale potrebbero continuare, dal momento che
essa contrassegnava e saturava i rapporti culturali nella società
coloniale italiana. La dottrina più recente, alla luce di un approccio
postcoloniale, ha riscontrato altri contesti interpretati alla luce di
queste regole. In tutti questi casi non mancavano le contraddizioni
normative: c’è chi ha parlato di una opposizione in relazione al fattore
tempo utilizzato nei discorsi imperialisti, chi ha enfatizzato i termini
dell’esclusione nello spazio urbano della città coloniale (Triulzi 20042005). Vale la pena chiedersi, di là dai contenuti e dalle discriminazioni coloniali, se, rispetto a contesti, sì differenziati, ma nella realtà
estremamente variabili, distinzioni basate su logiche così rigide e
formalizzate siano mai in grado di rendere l’enorme potenziale della
persona umana e della sua variabilità.
16 Si adottava una concezione premiale della cittadinanza: cfr. la formula della
“cittadinanza italiana con statuto personale e successorio musulmano” prevista
dall’art. 5 del D. M. 12 aprile del 1939.
I quaderni del CREAM , 2010, X
169
L’esperienza coloniale e il retaggio della concettualizzazione delle differenze
Ripensare il liberalismo attraverso la lente dell’esperienza giuridica
coloniale torna utile soprattutto adesso che le dinamiche giuridiche
attuali sono investite dai dilemmi della pluri-culturalità. Tale circostanza pone cioè nuove questioni agli ordinamenti giuridici, sia
sollecitando risposte tempestive ai problemi di tutti i giorni, sia
suggerendo l’opportunità di riflettere, per così dire in profondità, sulle
radici stesse delle categorie di base delle tradizioni giuridiche occidentali. Interrogativi di questo genere coinvolgono inevitabilmente tematiche giuridiche di ampio respiro come la sovranità dello stato, la
cittadinanza, l’esercizio della funzione giurisdizionale, i diritti fondamentali e queste appaiono a loro volta sempre più connesse con le
categorie correnti di identità, cultura, religione, differenza e alterità. È
preoccupante dover ammettere che, rispetto a questa particolare
prospettiva, l’eredità storica del liberalismo sembra non poter offrire
risposte adeguate e sufficienti. La rivisitazione del passato coloniale
impone, al contrario, nuove domande. Potrebbe osservarsi, ad esempio, che la cultura giuridica liberale, una volta chiamata ad operare in
contesti culturali fortemente diseguali, si sia sottratta ad un confronto
con le logiche e le dinamiche della differenza più radicale; che essa
non abbia tentato di declinare la libertà secondo moduli giuridici
alternativi a quelli europei; che abbia risolto le ambiguità e le
antinomie attraverso una rigorosa sintassi dell’esclusione dell’altro. E
ciò, probabilmente, in virtù di un approccio improntato più all’esigenza di dominare politicamente e giuridicamente le popolazioni extraeuropee, piuttosto che ad una loro integrazione nel sistema e nei valori
della madrepatria. Nondimeno appare doveroso prendere coscienza di
questa sorta di interruzione storica nell’applicazione dei principi
liberali, quindi chiedersi se la tradizione del liberalismo sia davvero in
grado di reggere le fondamenta stesse delle democrazie costituzionali
odierne. Sembrerebbe cioè che il patrimonio giuridico del liberalismo,
una volta formatosi lungo i solchi dell’esperienza storica del nazionalismo europeo, sia stato tenuto “alla larga” da ogni ipotesi di
I quaderni del CREAM , 2010, X
170
applicazione dialettica in contesti culturalmente meno simili ed
accoglienti, escludendosi così a priori ogni ipotesi di verifica della
validità delle sue coordinate culturali rispetto a tradizioni normative
diverse. Ci si può chiedere, ancora, se la riassunzione di questa
verifica sia diventata, oggi, indifferibile; e, qualora se ne ammetta
l’urgenza, se non sia il caso di interrogarsi sulle difficoltà peculiari di
questa operazione. Ove le si volesse dare corso, ciò andrebbe fatto tra
le pieghe ermeneutiche degli ordinamenti odierni, eventualmente
riconsiderando i modi di declinare le differenze, ma senza mettere in
discussione gli esiti più maturi del liberalismo nelle democrazie
costituzionali, cioè i fini e i valori di libertà su cui queste si fondano.
Certamente questo tentativo di riorientare gli itinerari teorici del
pensiero liberale andrebbe espletato attraversando in concreto la questione della differenza culturale nelle società contemporanea. Si tratta
di una specificazione non inutile poiché se osservazione e senso
comune spingono a rilevare che molte situazioni sociali (se non tutte),
le popolazioni, gli stati, i gruppi, sono di fatto estremamente differenziati (Ricca 2008, p. 45 ss., Said 1985, p. 38 ss.), molti approcci di
politica del diritto continuano a sottovalutare questa evenienza e a
presupporre la base sociale dei destinatari delle norme giuridiche culturalmente omogenea. Invece è in atto una frammentazione culturale
dovuta a flussi migratori sempre più massicci, condizione che
dovrebbe costringere ad una estrema cautela nei confronti dei processi
di verifica, tutela e regolamentazione delle differenziazioni giuridiche.
Una differenza culturale di base di gruppi alloctoni può condizionare
profondamente, ad esempio, l’interpretazione degli istituti giuridici, il
modo di intendere categorie, condizioni di operatività e finalità delle
norme legali. Conseguentemente la condizione di meticciato della
base sociale potrebbe essere considerata come una variabile in grado
di incidere sulle valutazioni di prognosi dell’efficacia e quindi sulla
produzione delle disposizioni normative. Un’adeguata considerazione
di questo tipo di variabile culturale renderebbe opportuno lo studio e
la conoscenza delle matrici culturali dei gruppi di individui stranieri
presenti sul territorio.
I quaderni del CREAM , 2010, X
171
Lo studio delle esperienze coloniali insegna molto a questo
proposito. La condizione di insufficiente dimestichezza, da parte dei
funzionari coloniali, degli apparati normativi, religiosi, etici e giuridici
degli indigeni fu la prima causa di mancata comprensione tra autorità
di governo e soggetto di diritto indigeno. Ciò portò spesso all’acritica
reiezione delle pretese normative dei colonizzati, di disconoscimento
degli usi e costumi locali, e di subordinazione delle popolazioni indigene, sulla base di ragioni di natura culturale, ancor prima che
politica e normativa.
Alla luce di quella esperienza, la pluri-culturalità di molte realtà
statali offre un incentivo allo studio delle tradizioni giuridiche
extraeuropee: tale competenza risulta necessaria non solo per motivi di
conoscenza, di valutazione e di comparazione scientifica, ma per
ulteriori ragioni – si può dire – di economia endo-ordinamentale. I
processi di insediamento di gruppi culturali non autoctoni importano,
in prima battuta, una tensione inedita nei confronti degli itinerari di
interpretazione delle norme di diritto interno. Il patrimonio culturale
degli stranieri, radicato in sistemi e tradizioni giuridiche antiche e
complesse, può indurre un individuo a chiedere interpretazioni differenti di principi, norme e provvedimenti giuridici propri della
tradizione occidentale. Tali differenti interpretazioni, in alcune condizioni, possono essere legittimate e tutelate all’interno degli ordinamenti democratici attraverso gli strumenti di garanzia del pluralismo.
Ma solo una conoscenza adeguata delle matrici di differenziazione
culturale, delle premesse giuridiche di esse, delle loro finalità, può
consentire agli organi dello Stato, in sede legislativa, amministrativa e
giudiziaria, una valutazione consapevole, ponderata e corretta delle
proposte di interpretazione presentate da parte di soggetti aventi una
cultura giuridica diversa.
All’interno di queste dinamiche di affermazione culturale e giuridica un ruolo di primaria importanza rivestono i diritti fondamentali.
Oggi, come formalmente nel periodo coloniale, la libertà religiosa
rimane un indice primario di legittimazione delle scelte di differenziazione etica e giuridica dell’individuo. Tutte le disposizioni strumentali
alla libertà di religione, in prima linea quelle che vietano ogni forma di
I quaderni del CREAM , 2010, X
172
discriminazione, costituiscono presidio e avamposto per il riconoscimento di diritti, prassi, opzioni etico-giuridiche alternative a quelle
più diffuse all’interno di un certo ambiente statale. L’individuo “di
cultura straniera” può chiedere di interpretare le disposizioni circa il
diritto di famiglia, il diritto penale, il diritto pubblico, in armonia con
le proprie convinzioni religiose. Differenti interpretazioni e, di conseguenza, diverse pretese appaiono quindi legate a doppio filo ad indici
tecnico-normativi riscontrabili in ordinamenti giuridici di tipo religioso o consuetudinario propri dei paesi di origine del soggetto straniero. Cosicché le norme di libertà diventano i riferimenti costituzionali principali per avanzare simili istanze di riconoscimento e di tutela.
Ma ancora oggi, così come avveniva nei contesti coloniali, tali
prescrizioni normative si prestano ad essere eluse in virtù di fattori di
(carente) precomprensione culturale, invece che sulla base di valutazioni meramente tecniche. Questi fattori operano in modo non
dissimile a quanto non avvenisse nel sistema della colonia. Si è visto
come le politiche del colonialismo agissero su sistemi giuridici
disorganici, tendenzialmente ambigui, in cui differenze estremamente
complesse tra popolazioni ed individui venivano artificiosamente
ridotte all’interno di uno schema interpretativo a base duale. Quest’ultimo veniva applicato a settori disparati dell’amministrazione coloniale (ad es. sovranità, giurisdizione, cittadinanza) e poteva portare
ad esiti diversi, sebbene opportunamente coerenti con le strategie di
dominio politico necessarie al caso specifico. Il più delle volte questo
schema innescava effetti di esclusione nei confronti dei diritti degli
indigeni, per quanto questi fossero astrattamente riconosciuti nelle
norme in materia di libertà religiosa. Tale riduzione stabiliva nel suo
complesso una sorta di appiattimento degli schemi giuridici avanzati
dai sudditi delle colonie, determinando una semplificazione indebita
dei loro significati, nonostante questi a volte si richiamassero a
tradizioni giuridiche radicate e complesse, basate sulle consuetudini o
sulla religione del luogo. La sintassi dell’esclusione poteva prodursi in
maniera diretta, come nel caso di disposizioni razziste, oppure in
maniera indiretta attraverso i processi di bilanciamento dell’interpretazione in senso culturalista. Questa specifica strategia veniva spesso
I quaderni del CREAM , 2010, X
173
dissimulata attraverso metodologie di argomentazione e di interpretazione complesse, capaci di negare o costituire opportunamente le
“differenze”, a seconda del risultato politico che l’organo giudiziario o
amministrativo intendeva raggiungere.
Come descritto, questa logica manichea agiva ambiguamente persino sull’asse costituito dalle norme di libertà religiosa, in maniera tale
che a volte le convinzioni di fede erano considerate significative e
producevano effetti giuridici (come nel caso delle condizioni locali di
applicazione, cosiddette soggettive, che escludevano l’applicazione
della norma astrattamente applicabile); in altri casi esse erano considerate giuridicamente irrilevanti perché sopraffatte da constatazioni
culturali(ste) di ordine oggettivo (come per il caso di mutamento di
religione del suddito, considerato evento trascurabile nel procedimento di concessione della cittadinanza). Il risultato comune a queste
“tattiche interpretative” era proprio quello di incidere negativamente
sulla rilevanza ermeneutica delle culture indigene.
Simili risultanze circa l’operatività dei meccanismi differenziali
coloniali devono far riflettere sul tema e sulle dinamiche della disciplina giuridica della diversità culturale. Spesso la regolamentazione
giuridica della differenza non è condizionata solamente dalle disposizioni che sanciscono divieti antidiscriminatori. La disciplina giuridica
di questioni estremamente sfaccettate e irrelate come l’etnia, l’orientamento religioso o sessuale, l’identità culturale (Hall 2006b) si rispecchia comprensibilmente in un ambito normativo più ampio rispetto a
quello nominalmente dedicatole, cosicché oltre ai divieti esso possa
comprendere anche le norme che si occupano di formare, riconoscere
e salvaguardare i gruppi culturali, razziali, o religiosi e le norme
destinate a scandire le relazioni tra questi gruppi (Harris 2000). Ciò
costituisce un fattore di complessità nell’analizzare gli effetti giuridici
delle politiche differenziali.
Inoltre si è visto come il tenore della precomprensione culturale
possa condizionare tanto la redazione delle disposizioni normative,
quanto a cascata processi di interpretazione delle norme, e i procedimenti giurisprudenziali di controllo del sistema normativo. Nella
attuale condizione di multiculturalità è oltremodo difficile assicurare
I quaderni del CREAM , 2010, X
174
che strategie di autotutela culturale non si traducano in processi, consapevoli o meno, di esclusione o discriminazione. Anche una valutazione di questo genere fa parte di quanto emerge dall’archeologia del
colonialismo giuridico italiano, ed è attribuibile quale retaggio, va
ribadito, non solo della volontà di dominio dell’epoca, ma anche ad
una certa riluttanza della dottrina liberale ad affrontare, pur essendone
consapevole, la sfida posta dall’alterità culturale più evidente.
Prima di concludere occorre riflettere su un ultimo punto. Dall’analisi delle disposizioni coloniali emerge come la differenza giuridica possa essere non solo oggetto di rilevamento e di constatazione
oggettiva, ma anche prodotta giuridicamente a partire da una determinata ideologia e da una concezione di fondo della soggettività giuridica (Marramao 2008; Olssen 2004). In molti casi, anche rispetto alle
teorie politiche attuali, le proiezioni giuridiche delle differenze
individuali o di gruppo possono essere specchio di una concettualizzazione aprioristica e artificiosa. Si può cioè teorizzare a livello politico
una specifica idea di differenza e agire giuridicamente per crearla,
reiterarla, addomesticarla. Da un punto di vista più ampio, va poi
riaffermato che le differenze nei sistemi sociali, oltre che a manifestarsi in via di fatto, possono essere oggetto di rappresentazione. Ogni
differenziazione implica una determinazione: posto che si può cogliere
una differenza tra cose solo nella misura in cui esse hanno in comune
ciò in virtù del quale differiscono, si può opportunamente scegliere di
accentuare o attenuare l’importanza di tale margine differenziale.
Alcune volte differenze di fatto parziali o occasionali vengono consolidate attraverso la loro reiterazione all’interno di sistemi politici o
normativi. In altri casi, non troppo rari, le differenze vengono create
dal nulla, cioè costituite mediante la norma, anche quando in effetti
esse non esistono. Infine, come si è visto, esse possono essere teorizzate
in modi diversi: in maniera netta, marcata, duale o plurale; o in maniera
graduale, sfumata, controvertibile, diffusa. Cioè si può scegliere se posare l’accento sulla diversità tra gli individui o le culture e rappresentare
le differenze esistenti tra di essi come confini invalicabili o si può
pensare ad una differenza composita, processiva o graduale quale
margine di espressione delle potenzialità infinite insite nell’individuo.
I quaderni del CREAM , 2010, X
175
L’esperienza coloniale dimostra, ad esempio, come l’adozione di uno
schema di distinzione netta abbia prodotto risultati giuridici il più delle
volte imprecisi, sostanzialmente discriminatori, determinando di fatto
l’irrilevanza della maggior parte delle statuizioni originali, eterodosse,
proteiformi dei diritti di origine religiosa o consuetudinaria. Queste
possibili polivalenze, proprie del concetto stesso di differenza, comportano conseguenze di cui non si può non tenere conto nell’attività di
redazione normativa, ma soprattutto implicano un alto tasso di responsabilità politica nel predisporre trattamenti differenziali tra gruppi e
individui, siano essi cittadini o stranieri.
Simili considerazioni impongono la rivalutazione dell’eredità
stessa del liberalismo in ordine alla reale metabolizzazione di queste
problematiche all’interno dei consueti schemi tradizionali, anche
rispetto agli esiti più maturi che essi hanno avuto nelle democrazie
costituzionali. Il progressivo trapasso in Occidente da un tipo di
società in cui vigeva il principio e il valore della differenza a quella in
cui prevale il principio dell’uguaglianza (Harris 2000) ed oggi il
cambiamento in senso multiculturale della società dovrebbero spingere verso una rinegoziazione delle tecniche normative di rappresentazione e di modulazione delle differenze. Insomma, appare necessario
riformulare la nozione di differenza culturale e ponderare la sua
rilevanza in ambito giuridico, non potendosi fare solo affidamento su
criteri distintivi netti ed oppositivi, ma valutando la diversità sempre
più come una dissomiglianza opaca, complessa e graduale. Una operazione così ispirata consentirebbe di teorizzare, tutelare, mantenere le
differenze qualora fossero la conseguenza delle scelte operate dall’individuo all’interno di una griglia di norme capaci di rappresentare
pluralisticamente e legittimamente le diverse opzioni a disposizione
del soggetto di diritto. Una differenza giuridica intesa in termini di
grado, cioè come una peculiare condizione di transazione tra uno stato
personale ed un altro, potrebbe essere tutelata solo ove inserita all’interno di un orizzonte di norme e di valori più ampio, come un
ordinamento giuridico comprensivo delle differenti opzioni culturali.
Al contrario delle continue esclusioni operate dai giuristi coloniali,
simili modalità di riconoscimento della differenza potrebbero tradursi,
I quaderni del CREAM , 2010, X
176
almeno in prospettiva, in una virtuosa dinamica di inclusione delle
scelte dell’individuo rispetto ad un sistema pluralistico potenziato in
senso interculturale, nel segno di un ulteriore, più avanzato stadio di
concretizzazione degli ideali liberali.
Bibliografia
Allegretti, U., 1989, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo e
assolutismo nello stato liberale, Bologna, il Mulino.
Anello, G., 2007, Organizzazione confessionale, culture e Costituzione, Soveria
Mannelli, Rubbettino.
Appadurai, A., 1996, Modernity At Large: Cultural Dimensions of Globalization,
Minneapolis, University of Minnesota Press; trad. it., 2001, Modernità in polvere,
Roma, Meltemi.
Baez, B., 2004, The Study of Diversity: The "Knowledge of Difference" and the
Limits of Science, “The Journal of Higher Education”, N.3, vol. 75.
Bertola, A., 1937, Estensione e applicazione del concetto di libertà religiosa nel
diritto ecclesiastico coloniale, “Archivio Giuridico”, CXVIII.
Bertola, A., 1944, Diritto coloniale, Torino, Giappichelli.
Bhabha, H. K., 1994, The Location of Culture, London, Routledge; trad. it., 2001, I
luoghi della cultura, Roma, Meltemi.
Brunialti, A., 1897-1902, “Colonia Eritrea”, in Digesto italiano, vol. VII, parte II,
Torino, Unione Tipografico Editrice.
Cantalupo, R., 1929, L’Italia musulmana, Roma, Italia d’oltremare.
Capuzzo, E., 1995, Sudditanza e cittadinanza nell’esperienza coloniale italiana
dell’età liberale, “Clio”, n. 1.
Cazzetta, G., 2004-2005, Predestinazione geografica e colonie degli europei. Il
contributo di Attilio Brunialti, “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno”, n. 33/34, t. I.
Ciamarra, G., 1910, L’islamizzazione del diritto moderno a mezzo del diritto
giudiziario indigeno, “Rivista di diritto coloniale”, n. 5.
Cicchitti-Suriani, A., 1926, Il problema religioso nella legislazione coloniale
italiana, “Rivista coloniale”, n. 21.
Costa, P., 2001, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Roma-Bari, Laterza,
vol. 3.
I quaderni del CREAM , 2010, X
177
Costa, P., 2004-2005, Il fardello della civilizzazione. Metamorfosi della sovranità
nella giucolonialistica italiana, “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno”, n. 33/34, Tomo I.
Cucinotta, E., 1933, Diritto coloniale italiano, Roma, Foro italiano.
Cucinotta, E., 1940, Le condizioni locali nel diritto coloniale, “Rivista di diritto
coloniale”, XXXV.
De Ruggiero, G., 1941, Storia del liberalismo europeo, Bari, Laterza.
Guidi, I., 1897, Il “Fetha Nagast” o “Legislazione dei Re”. Codice ecclesiastico e
civile di Abissinia pubblicato da Ignazio Guidi, Roma, Tipografia della Casa
Editrice Italiana.
Gupta, A., Ferguson, J., 1992, Beyond "Culture": Space, Identity, and the Politics
of Difference, “Cultural Anthropology”, Vol. 7, No. 1, Space, Identity, and the
Politics of Difference.
Hall, S., 2006a, Il soggetto e la differenza, Roma, Meltemi.
Hall, S., 2006b, Politiche del quotidiano: culture, identità e senso comune, Milano,
il Saggiatore.
Harris, A. P., 2000, Equality Trouble: Sameness and Difference in TwentiethCentury Race Law, “California Law Review”, n. 6, vol. 88, Symposium of the Law
in the Twentieth Century.
Hobsbawm, E. J., Ranger, T., 1992, The Invention of Tradition, Cambridge,
Cambridge University Press; trad. it., 2002, L’invenzione della tradizione, Torino,
Einaudi.
JanMohamed, A. R., 1985, The Economy of Manichean Allegory: The Function of
Racial Difference in Colonialist Literature, “Critical Inquiry”, n. 12, p. 1.
Jannaccone, C., 1939, Corso di diritto ecclesiastico coloniale italiano, Milano,
Giuffrè.
Juynboll, T. W., 1916, Manuale di diritto musulmano secondo la dottrina della
scuola sciafeita, Milano, Vallardi.
Labanca, N., 1993, In marcia verso Adua, Torino, Einaudi.
Labanca, N., 2002, “Colonialismo”, in Dizionario del Fascismo, Torino, Einaudi,
Torino, vol. I, p. 309.
Loomba, A., 1998, Colonialism/postcolonialism, London-New York, Routledge;
trad. it., 2006, Colonialismo/postcolonialismo, Roma, Meltemi.
Mancini, P. S., 1893-1897, Discorsi parlamentari di Pasquale Stanislao Mancini
raccolti e pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, Roma, vol. VIII,
p. 444.
Marramao, G., 2008, La passione del presente, Torino, Bollati Boringhieri.
Mellino, M., 2005, La critica postcoloniale: decolonizzazione, capitalismo e
cosmopolitismo nei postcolonial studies, Roma, Meltemi.
I quaderni del CREAM , 2010, X
178
Mezzadra, S., 2008, La condizione postcoloniale, Verona, Ombre Corte, Verona.
Mondaini, G., 1941, La legislazione coloniale italiana nel suo sviluppo storico e nel
suo stato attuale (1881-1940), Milano, Istituto per gli studi di politica
internazionale, vol. 2.
Nuzzo, L., 2004-2005, Dal colonialismo al postcolonialismo: tempi e avventure del
“soggetto indigeno”, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico
moderno”, n. 33/34, tomo I.
Olssen, M., 2004, From the Crick Report to the Parekh Report: Multiculturalism,
Cultural Difference, and Democracy: The Re-Visioning of Citizenship Education,
“British Journal of Sociology of Education”, n. 2. vol. 25,
Pratt, M. L., 1992, Imperial Eyes: Travel Writing and Transculturation, London,
Routledge.
Ricca, M., 2008, Dike meticcia, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Rochat, G., 1978, “Colonialismo”, in Il mondo contemporaneo. Storia d’Italia,
Firenze, La Nuova Italia.
Romano, S., 1918, Corso di diritto coloniale, Roma, Athenaeum.
Rosoni, I., 2004-2005, L’organizzazione politico-amministrativa della prima
colonia eritrea (1880-1908), “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno”, n. 33/34, tomo II.
Rossi Canevari, R., 1936, Fetha Nagast (Il Libro dei Re). Codice delle leggi
abissine con note e riferimenti al diritto italiano, Milano, Istituto Tipografico
Editoriale.
Ruffini, F., 1992, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bologna, il
Mulino.
Said, E., 1985, An Ideology of Difference, “Critical Inquiry”, n. 12:1.
Sanetti, M., 1997, Politica e religione nell’italia liberale: il Patto Gentiloni, “Diritto
ecclesiastico”, 1.
Seton-Watson, C., 1988, L’Italia dal liberalismo al fascismo, Roma-Bari, Laterza,
vol. I.
Solmi, A., 1913, Lo Stato e l’islamismo nelle nuove colonie italiane, “Rivista di
Diritto Pubblico”, I.
Steiner, A. H., 1936, The Government of Italian East Africa, “The American
Political Sciences Review”, n. 5, vol. 30.
Tedeschi, M., a cura, 2002, La libertà religiosa, 3 voll., Soveria Mannelli,
Rubbettino.
Topolski, J., 1973, Metodologia historii, Warszawa, Panstwowo Wydawnictwo
Naukowe; trad. it., 1975, Metodologia della ricerca storica, Bologna, il Mulino.
Triulzi, A., 2004-2005, La colonia come spazio di esclusione, “Quaderni fiorentini
per la storia del pensiero giuridico moderno”, n. 33/34, tomo I.
I quaderni del CREAM , 2010, X
179
Woolbert, R. G., 1932, Italian Colonial Expansion in Africa, “The Journal of
Modern History”, n. 3, vol. 4.
Young, R. J. C., 2001, Postcolonialism: an Historical Introduction, OxfordMalden, Blackwell; trad. it. 2005, Introduzione al postcolonialismo, Roma,
Meltemi.
I quaderni del CREAM , 2010, X
180
ANTONIO CARLOS WOLKMER1
PLURALISMO GIURIDICO:
FONDAMENTI DI UNA NUOVA CULTURA GIURIDICA2
Introduzione
Tra le discussioni sulle trasformazioni della società globale alla
fine del XX secolo e inizi del XXI secolo, bisogna segnalare quella sul
significato e sul grado di efficacia del modello di normatività occidentale. La prima condizione per un processo di trasformazione nelle
società del capitalismo periferico (o società cosiddette “post-coloniali”), per tradizione instabili e conflittuali, presuppone la ricostruzione
democratica della società civile, la ridefinizione delle funzioni dello
Stato e l’implementazione di un sistema di regolamentazione adeguato
alle carenze e alle necessità dei nuovi soggetti emergenti.
In questo nuovo millennio, il modello classico di legalità positiva e
dell’amministrazione della giustizia statale, basate sui valori liberaliindividualistici, attraversa una profonda crisi che tocca i suoi fondamenti, il suo oggetto e le sue fonti di produzioni. L’esaurimento di
questa legalità logico-formale che è servita a legittimare (sin dal Settecento) gli interessi della tradizione giuridica capitalistico-borghese,
può aprire lo spazio per una discussione sulle condizioni di rottura e
allo stesso tempo sulle possibilità di un progetto di emancipazione basato non più sulle idealizzazioni formalistiche e sulle rigidità tecniche,
1 Professore Ordinario al Centro di Scienze Giuridiche dell’Universidade Federal de
Santa Catarina (Brasile).
2 Traduzione di Ricardo Sontag, Gruppo di Ricerca in Storia della Cultura Giuridica,
Universidade Federal de Santa Catarina (UFSC).
I quaderni del CREAM , 2010, X
181
ma su presupposti che partano delle condizioni storiche attuali e dalle
pratiche reali.
I modelli culturali e normativi che hanno giustificato il mondo di
vita, l’organizzazione sociale e i criteri di scientificità sono divenuti
insoddisfacenti e limitati, aprendo così lo spazio per il ripensamento
dei loro disegni di riferimento e di legittimazione. In questo senso è
possibile dire, in campo giuridico, che la struttura normativa del Diritto
positivo formale moderno è poco efficace e non riesce a soddisfarei
bisogni della globalizzazione delle attuali società periferiche, attraversate da forme diverse di riproduzione del capitale, da gravi contraddizioni sociali e da flussi che riflettono tanto le crisi di legittimità quanto
una crisi nella realizzazione effettiva della giustizia3.
Da queste premesse nasce la necessità di proporre una discussione
sulla “crisi dei paradigmi” dominanti e sulle rotture dei modelli di
riferimento perché, come osserva correttamente Thomas S. Kuhn, le
crisi sono una pre-condizione necessaria per l’emergenza di nuove
teorie e nuovi riferimenti (Kuhn 1975).
Pensare e rendere effettivo un altro modello di regolamentazione
significa dare priorità alle aspirazioni più immediate della società
civile, attraverso l’articolazione di un progetto culturale demitizzante
ed emancipatore. Tale processo, nella sua dimensione pedagogica, ha
la funzione strategica di preparare, a livello sociale e politico, gli
orizzonti di un paradigma alternativo del Diritto. La proposta di
giuridicità pensata nella quotidianità presente si basa infatti su una
particolare forma di pluralismo in grado di riconoscere e legittimare le
normatività extra ed infra statali, generate dalle carenze e dai bisogni
di nuovi soggetti sociali, e capace di raccogliere le rappresentazioni
legali delle società emergenti contrassegnate da strutture di eguaglianze precarie e polverizzate da conflitti permanenti.
Si afferma così la proposta di un tipo specifico di pluralità giuridica, aperta, flessibile, partecipativa e democratica, sintesi di una
molteplicità di interessi individuali e collettivi.
3 Per una visione più approfondita cfr. Wolkmer (2006).
I quaderni del CREAM , 2010, X
182
Tali preoccupazioni si ritrovano nell’opera Pluralismo Jurídico:
fundamentos de uma nova cultura do direito del professore e giusfilosofo brasiliano Antonio Carlos Wolkmer, docente del Centro de
Ciências Jurídicas dell’Universidade Federal de Santa Catarina.
Quest’opera in cinque capitoli e 322 pagine è nata a partire dalla tesi
di dottorato presentata in Brasile nel 1992, pubblicata in portoghese
nel 1994 e in lingua spagnola nel 2006 (Wolmer 2006). Recuperando
la tradizione della cultura giuridica latinoamericana, il nucleo centrale
dell’opera consiste nella difesa di un nuovo pluralismo giuridico
chiamato “comunitario-partecipativo”, poiché impegnato epistemologicamente in una visione interdisciplinare, relazionale e complessa. Il
suo intento si inscrive da questo punto di vista all'interno dell'ambito
di riflessione contemporaneo della cosiddetta “teoria giuridica critica”,
impegnata nel pensare nuove direzioni paradigmatiche per la teoria del
diritto, intesa come possibilità di emancipazione strumentale a servizio
della giustizia, dell’effettività dei diritti umani e dell'attribuzione di
significato della vita umana. Quella che segue è l'illustrazione di
alcuni momenti essenziali dell’opera:
1. Pluralismo giuridico: natura e profilo;
2. Pluralismo giuridico come espressione conservatore della società
globale;
3. Pluralismo giuridico come progetto emancipatore;
4. Pluralismo giuridico e nuove pratiche sociali di legittimazione.
Pluralismo giuridico: natura e profilo
La tematica del pluralismo giuridico attraversa diversi momenti
della storia occidentale, medievale, moderna e contemporanea, in una
complessa molteplicità di interpretazioni che evidenziano l'esistenza
di una pluralità di realtà e di campi sociali con particolarità specifiche.
Se è vero che innumerevoli dottrine possono essere identificate con il
pluralismo di rango filosofico, sociologico o politico, il pluralismo
giuridico non fa eccezione, tanto da comprendere in sé varie tendenze
con origini differenti e profili singolari, le quali compongono un
I quaderni del CREAM , 2010, X
183
complesso di fenomeni autonomi ed elementi eterogenei, cui si sono
appoggiato conservatori, liberali, moderati e radicali, ma anche da
spiritualisti, sindacalisti, corporativisti, istituzionalisti, socialisti.
Questa pluralità ci rinvia al mondo medievale, dove la decentralizzazione territoriale e la molteplicità dei centri di potere configuravano
in ogni territorio un ampio spettro di manifestazioni normative concorrenti, che includevano consuetudini locali, fori comunali, statuti delle
corporazioni d’ufficio, dettati reali, diritto canonico e diritto romano.
È cosa certa che la decadenza dell’Impero Romano Occidentale e lo
stabilirsi in Europa dei popoli nordici abbia determinato il consolidarsi
dell’idea per cui ad ogni individuo è applicato il Diritto del popolo cui
appartiene e della sua comunità locale in cui vive. Con la cosiddetta
“personalità delle leggi” si è stabilito che ai diversi ordine sociali sarebbe corrisposta una naturale pluralità giuridica. In questo quadro
Norbert Rouland identifica quattro situazioni legali: un “diritto signorile” fondato nella assunzione militare; un “diritto canonico” basato
sui principi cristiani; un “diritto borghese” basato sull’attività economica e, infine, un “diritto reale”, caratterizzato dalla propensione a
incorporare le altre pratiche regolatorie in nome della centralizzazione
politica (Rouland 1988).
La statalizzazione del diritto avrebbe dunque avuto luogo con
l’emergenza in Europa della razionalizzazione politica centralizzatrice
e con la subordinazione della giustizia alla volontà statale sovrana.
Attraverso i secoli XVII e XVIII l’assolutismo monarchico e la
borghesia trionfante hanno pian piano scatenato un processo di
uniformità burocratica che ha cancellato la struttura medievale delle
organizzazione corporative, riducendo il pluralismo legale e giudiziario. Anche se è possibile trovare i fondamenti teorici iniziali della
cultura giuridica monistica nell’opera di autori come Hobbes, è stata la
Repubblica Francese post-rivoluzionaria a decretare l'uguaglianza dei
vari sistemi legali e a disporne l'integrazione in una legislazione
comune. Un esame più attento rivela infatti che la solidificazione del
“mito” monista, cioè, della centralizzazione, è risultata dalle riforme
I quaderni del CREAM , 2010, X
184
amministrative napoleoniche e dalla promulgazione di uno unico
codice civile finalizzato a regolare tutta la società4.
La consolidazione della società borghese, la piena espansione del
capitalismo industriale, l’ampio dominio dell’individualismo filosofico
e del liberalismo politico-economico e l'affermarsi del dogma del
centralismo giuridico-statale hanno scatenato una forte reazione da parte
delle dottrine pluraliste della fine dell’Ottocento e del Novecento.
Sembra infatti non esserci dubbio che, nei primi decenni del
Novecento, il pluralismo insito nelle riflessioni dei giusfilosofi (Gierke,
Hauriou, Santi Romano e Del Vecchio) e dei sociologi del diritto
(Ehrlich, Gurvitch) sia rinato come alternativa al formalismo normativista statale. Non meno importante è il riemergere del pluralismo
negli anni Cinquanta e Sessanta ad opera di ricercatori empirici
nell’ambito dell’antropologia giuridica (Griffiths 1986).
Dinnanzi al suo significato odierno, però, occorre precisare cosa
sia il pluralismo, quali le sue cause determinanti, le tipologie e le
obbiezioni. Per cominciare si può chiamare pluralismo la molteplicità
di pratiche esistenti in uno stesso spazio socio-politico che interagiscono con consensi e conflitti, ufficiali o no, e che hanno la loro ragione
d’essere nelle necessità esistenziali, materiali e culturali5.
Una volta identificato il concetto, si può esaminare qualcuna delle
cause che ne hanno determinato l'insorgenza. Nell’esaminare più
attentamente il fenomeno, come dice il professore di Coimbra Boaventura de Sousa Santos, si scopre che la nascita del pluralismo legale
si situa in due contesti concreti: a) “origine coloniale”; b) “origine
non-coloniale”. Nella prima situazione il pluralismo si svolge nei
paesi che sono stati dominati economicamente e politicamente, e perciò obbligati ad accettare i modelli giuridici della metropoli (colonialismo inglese, portoghese, ecc). L’unificazione all’amministrazione
della colonia ha reso possibile la coesistenza nello stesso spazio del
“diritto dello Stato colonizzatore e dei diritti tradizionali autoctoni,
coesistenza che spesso è stata causa di “conflitti ed accomodazioni
precarie” (De Sousa Santos 1988).
4 Sui miti della cultura giuridica moderna cfr Grossi (2001) e Tarello (1988).
5 In questa direzione cfr Wolkmer (2001).
I quaderni del CREAM , 2010, X
185
Oltre il citato contesto coloniale, Boaventura de S. Santos sottolinea nell’ambito del pluralismo giuridico d’origine “non-coloniale”
tre situazione diverse. In primo luogo vi sono i paesi con cultura e
tradizione giuridiche proprie, che alla fine hanno adottato il Diritto
europeo come mezzo di modernizzazione e di consolidamento del
regime politico (Turchia, Etiopia, ecc.). In secondo luogo è da menzionare la situazione in cui determinati paesi, dopo aver sofferto
l’impatto di una rivoluzione politica, hanno conservato per un po' di
tempo il loro antico Diritto, anche se abolito dal nuovo Diritto rivoluzionario (repubbliche islamiche incorporate dalla antica URSS).
Infine, vi sono alcune popolazione indigene o native non decimate in
toto e sottoposte alle leggi coercitive degli invasori, che sono riuscite a
ottenere l’autorizzazione per mantenere e conservare il loro Diritto
tradizionale (popolazioni autoctoni dell’America del Nord ed Oceania,
ecc. (Ivi, pp. 74-75).
Analizzando la natura della giustizia come riflesso dell’applicazione del Diritto nella società brasiliana degli anni Settanta e Ottanta, il
giurista brasiliano Joaquim A. Falcão introduce la tesi secondo la
quale la causa diretta del pluralismo giuridico deve essere rintracciata
nella crisi di legalità di un ordine politico centralizzato. Al contrario
del pensiero di varie correnti del pluralismo, Joaquim A. Falcão
sostiene che nei paesi del Terzo Mondo come il Brasile l’emergenza di
situazioni paralegali, parallele o extra-legem, incentivate, accettate o
non dallo Diritto ufficiale, sia collegata direttamente con la variabile
della legittimità del regime politico (Falcao 1984, pp. 81-85).
Da parte sua, il ricercatore belga Jacques Vanderlinden nel suo
saggio-sintesi sul pluralismo giuridico, segnala che le due principali
cause generiche del pluralismo sono la “ingiustizia” e “inefficacia” del
modello dell’“unicità” del Diritto. (Vanderlinden 1972).
È possibile avanzare nella discussione sulla possibilità di pensare
un'interpretazione diversa del pluralismo osservando come la specificità di questo concetto non stia nella negazione o nella minimizzazione del Diritto ufficiale, quanto nel riconoscimento che esso non è
che una delle varie forme giuridiche che possono esistere nella società.
Infatti il pluralismo legale comprende non solo le pratiche indipen-
I quaderni del CREAM , 2010, X
186
denti o semi-autonomi rispetto al potere statale, ma anche le pratiche
normative ufficiali/formali e quelle non-ufficiali/informali. La pluralità coinvolge la coesistenza di ordini giuridici diversi che possono
avere, come non avere, relazioni tra loro. Il pluralismo può includere
sia pratiche normative autonome e autentiche generate da diversi forze
sociali, sia manifestazioni legali plurali e completamente riconosciute,
incorporate e controllate dallo Stato (Belley 1986; Delmas-Marty
2006; Bergel 2005).
La complessità e il quadro ampio dei fenomeni di pluralismo legale
rendono possibile varie proposte di classificazione. Anche se non vi è
consenso tra coloro che studiano le “modalità” del pluralismo giuridico bisognerebbe segnalare un fenomeno di distinzione e di sovrapposizione in atto nelle società dal capitalismo periferico. É qui che si
crea la dualità tra un “pluralismo giuridico statale” e un “pluralismo
giuridico comunitario” (Rodriguez 1991). Il primo si identifica con il
modello riconosciuto, permesso e controllato dallo Stato, al cui interno
si ammette la presenza di numerosi “campi sociali semi-autonomi”
rispetto al potere politico centralizzatore. Questo in virtù della molteplicità di sistemi giuridici istituiti verticalmente e gerarchicamente
secondo diversi gradi di efficacia, e in cui si attribuisce all’ordine
giuridico statale una positività maggiore. Davanti ad esso i diritti non
statali sono una funzione residuale e complementare, minimizzabili o
incorporabili nella legislazione statale. L’ambito del “pluralismo
giuridico comunitario” è invece lo spazio delle forze sociali e dei
soggetti collettivi con identità proprie ed autonome che sussistono
indipendentemente dal controllo statale.
Infine, riguardo alle “obbiezioni” fatte contro il pluralismo giuridico, bisogna elencare le critiche degli autori di profilo teorico, tanto
tradizionale quanto innovatore. Parte delle critiche sono attribuibili
all’ambigità dello stesso pluralismo giuridico, che può presentarsi sia
come una strategia globale progressista che come un progetto
conservatore. Dunque se dietro al pluralismo si può ritrovare Gurvitch
o, dall’altra parte, Proudhon, nell’elenco monista ci sono pensatori
come Hegel e Marx. La relatività di queste posizioni rinforza l’idea
secondo la quale, secondo Norberto Bobbio, la proposizione teorica
I quaderni del CREAM , 2010, X
187
del pluralismo può nascondere tanto ideologie rivoluzionarie di
ordinamenti che contribuiscono per la “progressiva liberazione degli
individui e dei gruppi oppressi dal potere statale”, quanto ideologie
reazionarie interpretabili come “episodio della disgregazione oppure
della sostituzione dello Stato e, così, come un sintomo di una imminente ed incomparabile anarchia” (Bobbio 1981).
Sinteticamente, l’introduzione del pluralismo comporta oggi non
soltanto ammetterne la complessità, l'ambiguità e i limiti, ma anzitutto
l'ipotesi che esso possa funzionare come un'ideologia strumentale
“conservatrice” o “emancipatoria”.
Pluralismo giuridico come espressione conservatrice della
società globale
Quello auspicato per il terzo millennio non sarà più né il pluralismo corporativista medievale né quello liberal-individualista delle
minoranze esclusiviste, discriminartici e disaggreganti. Tale pluralismo borghese, difeso fino alla prima metà del secolo XX, è anche la
principale strategia del nuovo ciclo del capitalismo mondiale, che
suppone processi quali la decentralizzazione amministrativa, l'integrazione dei mercati, la globalizzazione e accumulazione flessibile del
capitale, la formazione di blocchi economici, le politiche di privatizzazione, l'informalizzazione guidata dei servizi, la regolazione sociale
riflessiva e sopranazionale, ecc6.
Di conseguenza, il dibattito si rivela opportuno in particolar modo
quando si pensa alla costruzione di una società pluralista, democratica
e partecipativa, all'interno di società marginalizzate come quelle
dell’America Latina, che convivono da molto con l’intervenzionismo,
la dipendenza e l’autoritarismo.
Perciò è prioritario distinguere il pluralismo come progetto democratico di emancipazione delle strutture sociali dipendenti da un’altra
pratica pluralista, che consiste invece nel proporre un’alternativa agli
6 Per l’esame più attento del Diritto nei tempi di globalizzazione e neoliberalismo il
rimando è ad Arnaud (1999), Faria (2001), Marques-Neto (1996).
I quaderni del CREAM , 2010, X
188
intenti “neocolonialisti” dei paesi centrali del globalismo neoliberale
avanzato. Questo tipo conservatore di pluralismo, vincolato spesso a
progetti culturali della “post-modernità”, non è che una truffa per
nascondere la concentrazione violenta del capitale nel “centro”
(emisfero nord) escludendo del tutto la “periferia” (emisfero sud) e
radicalizzando le disuguaglianze sociale, lo sfruttamento e la miseria.
Questo tipo di pluralismo esprime, come avverte il giurista
colombiano Germán Palacio, condizioni di possibilità che sono in
rapporto diretto con il processo di globalizzazione del capitalismo
attuale, come: “a) la crisis del modelo fordista-keynesiano y la globalización de la acumulación por especialización flexible; b) el
desarrollo del neoamericanismo; c) el debilitamiento de los estados
nacionales latinoamericanos junto con los procesos de descentralización administrativa; d) la crisis del trabajador de masa y las nuevas
luchas sociales” (Palacio 1993).
Il pluralismo conservatore di oggi si contrapone radicalmente al
pluralismo democratico qui proposto. La differenza tra il primo e il
secondo sta sostanzialmente nel fatto che il il primo impedisce
l’organizzazione dei diversi attori sociali nascondendone la vera
partecipazione, mentre il secondo cerca di promuovere e stimolare la
partecipazione multipla di nuove identità sociali, riconoscendo al
contempo le differenze delle identità collettive insorgenti.
Allo stesso modo è possibile distinguere l’antico pluralismo (di
matrice liberale) dal pluralismo identificato con le nuove esigenze
storiche e trasformazioni sociali.
Mentre il pluralismo liberale è stato atomistico nel senso che
consacrava una struttura privata di individui isolati in una scena
mercatologica per raggiungere i suoi specifici obbiettivi economici, il
nuovo pluralismo è comunitario-integratore, dal momento che unisce
gli individui, i soggetti e i gruppi organizzati attorno a bisogni e
obiettivi comuni (Wolkemer 1993, pp. 241-242).
Ciò comporta la creazione, come ci ricorda Carlos Nelson Coutinho,
di un pluralismo di “soggetti collettivi” fondati su una nuova sfida:
costruire una nuova egemonia di equilibrio tra la “predominanza della
volontà generale (...) senza cancellare il pluralismo degli interessi
I quaderni del CREAM , 2010, X
189
particolari” (Coutinho 1990). Oltre tutto l’egemonia del pluralismo di
“soggetti collettivi” fondata in ampi processi di democratizzazione, di
decentralizzazione e di partecipazione, ha ancora bisogno di recuperare
alcuni principi della cultura politica occidentale, quali i diritti delle
minoranze, il diritto alla diversità, all’autonomia e alla tolleranza.
Pluralismo giuridico come progetto culturale emancipatore
L’odierna ripresa del pluralismo come progetto di “giuridicità
alternativa” vuole da un lato superare le modalità (predominanti) del
pluralismo identificato con il modello neoliberale e con le pratiche de
de-regolamentazione sociale, dall’altro lato edificare un progetto
politico-giuridico basata sulle pratiche sociale insorgenti in modo da
soddisfare quei bisogni essenziali che rendono possibile una vita
umana con dignità.
La proposizione del pluralismo giuridico come proposta alternativa
agli spazi periferici del capitalismo latino-americano presuppone
l’esistenza e l’articolazione di alcuni requisiti, come: a) la legittimità
dei nuovi soggetti sociali; b) l’implementazione di un sistema di
soddisfazione giusta dei bisogni umani; c) la democratizzazione e
decentralizzazione di un spazio pubblico partecipativo; d) la difesa in
sede pedagogica d’una etica della alterità; e) la consolidazione dei
processi conducenti ad una razionalità emancipatoria (Wolkmer 2001).
Centrale è la questione dei nuovi soggetti sociali, che occupa un
posto centrale nel nuovo paradigma. Protagonista non più l’antico
soggetto privato, astratto e metafisico della tradizione liberale-individualista cartesiana che, come soggetto della conoscenza a priori si
adattava alle condizioni dell’oggetto e alla realtà globale istituita. In
opera vi è ora un soggetto vivo, attuante e libero, che partecipa, si
autodetermina e trasforma la globalità del processo storico-sociale.
Dunque il “nuovo” e il “collettivo” si configurano nei termini di
identità umane sempre esistite, secondo i criteri di classe, etnia, sesso,
età, religione o bisogni, ma secondo un orientamento che ha reso
possibile il loro passaggio da soggetti inerti, dominati, passivi e
I quaderni del CREAM , 2010, X
190
spettatori a soggetti emancipati, partecipi e creatori della loro propria
storia. In questo senso la caratterizzazione di un soggetto inteso come
identità che implica il “nuovo” e il “collettivo” privilegia, nella pluralità dei soggetti, i movimenti sociali più recenti, che possiedono la
capacità di costruire forme differenziate di cittadinanza, ponendosi
dunque come fonti di una nuova legittimità7.
È attraverso l’emergere di nuovi soggetti collettivi di giuridicità
che si giustifica l’esistenza di un complesso “sistema di bisogni”. Tale
“sistema di bisogni umani” è il secondo presupposto nell’elaborazione
paradigmatica del pluralismo comunitario partecipativo.
Nel suo senso più generale, i bisogni coinvolgono esigenze di
valore, beni materiali ed immateriali. Il complesso dei “bisogni
umani” che può variare da una società all’altra favorisce un ampio
processo di socializzazione segnato da scelte quotidiane sui “modi di
vita” e “valori” come la libertà, la vita, la giustizia, ecc.
Le condizione economiche generate dal sistema produttivo concentrato nel grande capitale finanziario impediscono la soddisfazione dei
bisogni umani essenziali, imponendo al contrario la costruzione di un
sistema di falsi bisogni che non possono essere mai soddisfatti
completamente8.
Lo svolgimento congiunturale e strutturale del capitalismo dipendente nei continenti come l’America Latina favorisce l’interpretazione
dei “bisogni” come prodotti delle carenze primarie, della lotta e dei
conflitti generati dalla divisione sociale del lavoro e dalle esigenze di
beni e servizi vincolati alla vita produttiva.
Certamente le condizioni di vita sperimentate dalle diverse classi
popolari del Terzo Mondo, in sostanza quelle condizioni che
impediscono la soddisfazione dei bisogni identificati con la sopravvivenza e sussistenza, producono rivendicazioni che chiedono ed
affermano diritti. Non c’è dubbio che le situazioni di privazione,
carenza ed esclusione costituiscano la ragione dell’emergenza della
necessità del diritto a una vita dignitosa. Insomma i diritti obiettivati
7 Cfr. Dalton (1992), Tarrow (1997), Melucci (2002), Russel, Kuechler (1992).
8 Cfr. Heller (1985; 1986).
I quaderni del CREAM , 2010, X
191
dagli agenti di una nuova cittadinanza collettiva esprimono l’intermediazione tra bisogni, conflitti e domande.
Il terzo presupposto per articolare un “pluralismo comunitario”
consiste nel rendere possibili le condizioni per l’implementazione
d’una politica democratica che possa guidare e allo tempo stesso
riprodurre uno spazio comunitario decentralizzato e partecipativo.
Tale scopo non sembra essere molto facile nelle strutture sociale
post-coloniali con un alto grado d’instabilità politica come quella brasiliana, giacché queste sono contaminate profondamente da una
tradizione centralizzatrice, dipendente ed autoritaria.
Sembra chiaro che la rottura con questo tipo di struttura istituzionale presupponga un certo numero di trasformazioni nelle pratiche,
nella cultura e nei valori dei modi di vita quotidiano di queste società.
Oltre alla sovversione al livello di pensiero, dei discorsi e dei
comportamenti, bisognerebbe riordinare lo spazio pubblico individuale e collettivo, al fine di ritrovare forme di azione umana che
attraversino le questioni “comunitarie”: “politiche democratiche di
base”, “partecipazione e controllo popolare”, “gestione decentralizzata”, “potere locale o comunale”, “rispetto ai diritti umani”, “riconoscimento delle identità e delle differenze culturali” e “rivalorizzazione
della vita umana con dignità”9.
Quello che ci importa nella riordinazione politica dello spazio pubblico con il conseguente processo di consolidazione della democrazia
partecipativa di base è scoprire una nuova società pluralista marcata
dalla convivenza dei conflitti e delle differenze, che vanno intesi come
presupposti per un’altra legittimità, basata sui bisogni essenziali di
nuove socialità collettive.
Bisogna poi sottolineare una quarta condizione per la creazione di
un diritto pluralista: la formulazione di un’etica dell’alterità. Lo svuotamento della cultura borghese-capitalista a carattere individualista ci
ha portato a una crisi dei valori e a una crisi dell’etica moderna. Si
osservano così oggi le conseguenze di un’etica “post-moderna” basata
9 Cfr. Villasante (1984; 1995), Villoro (1998), Olive (1999), Beuchot (2005).
I quaderni del CREAM , 2010, X
192
sull’individualismo, sul potere, sulla competizione selvaggia, sull’efficienza produttiva, sulla frammentazione nichilista, sul relativismo, ecc.
L’etica della alterità non è composta da ingegni “ontologici” e da
giudizi universali a priori destinati a essere poi applicati alle situazioni
vissute, ma traduce concezioni di valore che emergono dalle lotte
stesse, dai conflitti e dagli interessi dei nuovi soggetti insorgenti in
permanente affermazione, reinvenzione e resistenza.
L’etica dell’alterità è in definitiva un’etica antropologica della
solidarietà che parte dei bisogni dei gruppi esclusi e si propone di
generare una pratica pedagogica capace d’emancipare i soggetti
oppressi, privati di giustizia e sfruttati. Volendo essere un’etica
coinvolta con la dignità dell’“altro”, trova i suoi elementi teorici sia
nelle pratiche sociali quotidiane, sia nei presupposti d’una filosofia
critica del Diritto e da Politica che sia sostanzialmente liberatrice10.
L’ultima condizione necessaria per fondare un nuovo paradigma di
giuridicità si riferisce all’elaborazione di una razionalità emancipativa,
elaborata a partire delle pratiche sociali, delle carenze e dai bisogni
vitali.
Il modello tradizionale di razionalità “tecnico-formale” è soppiantato dal modello di razionalità critico-dialettico di razionalità emancipatoria generata in seno ai rapporti sociali e alla vita concreta. Non
una “ragione operazionale” pre-determinata e sovrapposta alla vita,
finalizzata formalisticamente a trasformare lo spazio comunitario, ma
una ragione che parte dalla dignità della vita umana e dai suoi bisogni
storici11. Sinteticamente, bisognerebbe rifondare una razionalità come
espressione di un’identità culturale che si faccia portatrice dell’esigenza di affermazione la libertà, la giustizia e l’emancipazione.
Pluralismo giuridico e nuove pratiche sociali di legittimazione
Si può osservare come il fenomeno “pratico-teorico” del pluralismo accolga in sé l’emergenza forme molteplici di materializzazione
10 Cfr. Dussell (1986; 1998; 2001).
11 Cfr. Caldera (1984), Habermas (1997; 2004).
I quaderni del CREAM , 2010, X
193
del Diritto. La produzione e l’applicazione dei diritti che provengono
delle esigenze e dalle pratiche sociali comunitarie indipendenti dagli
organi o dalle agenzie di Stato rompono con la configurazione mitica
secondo la quale il Diritto è emanato solo della norma cogente statale
e consentono di passare a una concezione consensuale del Diritto
come “accordo”, prodotto dei bisogni, conflitti e rivendicazioni delle
forze sociali nello spazio politico.
Fino ad ora un complesso di indizi conferma l’implementazione
crescente di nuovi meccanismi di auto-regolazione dei conflitti e di
risoluzione di interessi emergenti. Questo comporta un avanzamento
democratico, che anche senza cancellare le manifestazioni giuridiche
statali avanzi verso una legalità plurale non più fondata sulla
razionalità formale aprioristica, ma sulla giusta soddisfazione dei
bisogni d’una vita vissuta con dignità.
La diversità dei modelli plurali e democratici di giustizia ci porta
così verso lo svolgimento di alcune pratiche giuridiche non-convenzionali e informali. Non propriamente un “uso alternativo del
diritto” , ma piuttosto un processo di costruzione e riaffermazione di
altre forme di esperienze giuridiche. Appare evidente come l’obbiettivo più importante della trasformazione giuridica non sia, come ci fa
sapere il giurista colombiano Germán Palacio, la sostituzione di una
normatività ingiusta con un’altra più favorevole, quanto identificare e
avvicinare il Diritto ai gruppi maggioritari (forse si è sbagliato e
intende minoritari? O maggioritari in senso numerico?) e privi di
giustizia della società (Palacio 1993). Le pratiche giuridiche alternative non appaiono sempre omogenee, identiche ed armoniche. Per
Germán Palacio, l’espressione generica di giuridicità alternative può
essere capita nelle forme del Diritto indigeno, del Diritto di transizione
sociale o del Diritto insorgente. Il Diritto consuetudinario delle
comunità indigene è il diritto nativo di resistenza che sussiste anche
sotto le minacce egemoniche dei paesi coloniali. Il Diritto di transizione sociale è quello vissuto dalle società che sono passate attraverso
una processo rivoluzionario (il Portogallo nel tempo della rivoluzione,
il Nicaragua sandinista, ecc.). Infine, il Diritto insorgente creato dagli
oppressi in funzione dei suoi interessi e bisogni ed espresso nelle sue
I quaderni del CREAM , 2010, X
194
pratiche di giustizia comunitaria in vari paesi dell’America Latina
(Colombia, Bolivia, Ecuador, Peru, ecc.)12.
Dunque le multiple e specifiche pratiche della cosiddetta pluralità
alternativa coinvolgono un processo politico più ampio, che deve
essere riconosciuto come espressione di un nuovo tipo di pluralismo
giuridico associato alle forme di resistenza e di reinvenzione permanente di nuovi diritti.
Certamente i criteri che concretizzano pratiche alternative di produzione e regolazione suppongono l'informalizzazione, la decentralizzazione e la democratizzazione dei procedimenti, fattori che esplorati
e stimolati costituiscono mezzi adeguati per rendere operative le
domande di giustizia e per adeguare conflitti collettivi negli spazi
societari caratterizzati da instabilità costanti e crescenti trasformazioni
sociali.
Insomma i primi passi verso la direzione di una società latinoamericana pluralista, democratica e solidale sono già visibili. In questo
contesto la funzione di una teoria giuridica critico-pedagogica è fondamentale come strategia per creare, in un primo momento di ridefinizione di paradigmi, le condizione epistemologiche e politico-metodologiche di una giustizia materiale effettiva. Lo scopo dichiarato è quello
di rendere possibile, in un orizzonte non troppo lontano, la globalità
d’uno spazio pubblico veramente democratico capace di ritrovare
un’altra egemonia, sintesi di una “volontà generale” in cui plurimi
interessi individuali coesistano in un’uguaglianza fondata sul rispetto
per le diversità etniche e culturali. Tale filosofia giuridica della
pluralità e dell’alterità, oltre che un individualismo sistemico e
sintonizzato con i bisogni fondamentali (libertà, giustizia, vita degna)
di nuove socialità storiche, rende possibile la scoperta di un Diritto
che rivela e legittima sopratutto la dignità dell’Altro. È il diritto che
incorpora il paradigma della dignità della vita umana, capace di
trasformarsi nello strumento più vivo e autentico dell’umanizzazione.
12 Cfr. Lopez (2000; 2003), Ribeiro, Strozemberg (2001), Jumpa, Mallol, Barcenas
(2002).
I quaderni del CREAM , 2010, X
195
Bibliografia
Arnaud, A.J., 1999, O Direito entre Modernidade e Globalização, Lições de
Filosofia do Direito e do Estado. Rio de Janeiro, Renovar.
Barcenas, F. L., 2002, Constituciones, Derecho y Justicia en los Pueblos
Indígenas de América Latina, Lima, Pontifícia Universidad Católica del Peru.
Belley, J.G., 1986, L’État et la Régulation Juridique des sociétés globales. Pour
une problématique des pluralisme juridique, “Sociologie et Sociétés”, n. 1(18),
pp. 11-32.
Bergel, J. L. (Dir.), 2005, Le Plurijuridisme. Actes du VIII Congrès de
l’Association Internationale de Méthodologie Juridique, Aix-en-Provence,
P.U.D’Aix-Marseille.
Beuchot, M., 2005, Interculturalidad y Derechos Humanos. México: Siglo XXI,
UNAM, 2005.
Bobbio, N., 1980, Contribuición a la Teoria del Derecho, Valencia, Edición de
Alfonso Ruiz Miguel.
Caldera, A. S., 1984, Filosofia e Crise. Pela Filosofia Latino-Americana,
Petrópolis, Vozes, 1984.
Coutinho, C. N., 1990, “Notas sobre o Pluralismo”, Conferência apresentada
no Encontro Nacional da Associação Brasileira de Ensino de Serviço Social.
Dussel, E., 1986, Ética Comunitária, Petrópolis, Vozes.
Dussel, E., 1998, Ética de la Libertación en la Edad de la Globalización y de la
Exclusión, Madrid, Trotta; México, UNAM.
Dussel, E., 2001, Hacia una Filosofía Política Crítica, Bilbao, Desclée de
Brouwer.
Delmas-Marty, M., 2006, Le Pluralisme Ordonné, Paris, Éditions du Seuil.
Ehrlich, E., 1986, Fundamentos da Sociologia do Direito, Brasília, UnB.
Falcao, J., 1984, (org), Conflito de Propriedade – Invasões Urbanas. Rio de
Janeiro, Forense, pp. 81-85.
Faria, J. E., 2001, El Derecho en la Economía Globalizada, Madrid: Trotta.
Gilissen, J., 1972, (Dir.), Le Pluralisme Juridique, Bruxelles, Editions de
l’Université de Bruxelles.
Griffiths, J., 1986, What is Legal Pluralism?,“Journal of Legal Pluralism”, n. 24.
Grossi, P., 2001, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffrè.
Habermas, J., 1997, Direito e Democracia: entre faticidade e validade (v. 2).
Rio de Janeiro, Tempo Brasileiro.
Habermas, J., 2004, O Futuro da Natureza Humana, São Paulo: Martins
Fontes.
I quaderni del CREAM , 2010, X
196
Heller, A., 1996, Teoría de las Necesidades en Marx, Barcelona, Barcelona,
Península.
Heller, A., 1985; Una revisión de la teoría de las necesidades, Barcelona,
Paidós/UAB.
Kuechler, M., 1992, (Comp.), Los Nuevos Movimientos Sociales, Valencia,
Ediciones Alfons El Magnànim/IVEI.
Kuhn T., S. A, 1975, Estrutura das Revoluções Científicas, São Paulo,
Perspectiva.
Lopez, M., 2000, et al, Justicia Comunitária y Jueces de Paz, Las Técnicas de
la Paciência. Bogotá, IPC-Corporación Region.
Marques Neto, A., 1996, (et al), Direito e Neoliberalismo. Elementos para uma
Leitura Interdisciplinar, Curitiba, EDIBEJ.
Melucci, A., 2002, Acción Colectiva, Vida Cotidiana y Democracia, México, El
Colégio de México.
Olive, L., 1999, Multiculturalismo y Pluralismo, México, Paidós.
Palacio, G., 1993, Pluralismo Jurídico, Bogotá, IDEA/Universidad Nacional,
pp. 19 e 21.
Romano, S., 1946, L’Ordinamento Giuridico, Firenze, ed. Sansoni.
Rodriguez , M. E., 1991, Pluralismo Jurídico. El Derecho del Capitalismo
actual ?, “Nueva Sociedad”, n. 112, Venezuela, pp. 91-101.
Rouland, N., 1988, Anthropologie Juridique, Paris: PUF.
De Sousa Santos, B., 1988, O Discurso e o Poder. Ensaio sobre a sociologia
da retórica jurídica, Porto Alegre, Sérgio A. Fabris,pp. 73-74.
Strozenberg, P., 2001, Balcão de Direitos. Resolução de Conflitos em Favelas
do Rio de Janeiro, Rio de Janeiro, Mauad.
Tarello, G., 1988, Cultura Giuridica e Politica del Diritto, Bologna, Il Mulino.
Tarrow, S., 1997, El Poder en Movimiento. Los Movimientos Sociales, la
Acción Colectiva y la Politica, Madrid, Alianza Editorial.
Thome, J., 1992, “Notes on Legal Pluralism” in Beyond Law. Mas alla del
Derecho, Bogotá, ILSA, pp. 75-102.
Torres, F., 1980, “Pluralismo”, in N. Bobbio (org), Le ideologie e il potere in
crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e terza forza,
Firenze, F. Le Monnier.
Vanferlinden, J., 1972, Le Pluralisme Juridique, in J. Gilissen (Dir.), “Le
Pluralisme Juridique”, Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, pp. 22-26.
Villasante, T. R., 1984, Comunidades Locales: análisis, movimientos sociales y
alternativas, Madrid: IEAL.
Villasante, T. R.,1995, Las Democracias Participativas, Madrid, HOAC.
Villoro, L., 1998, Estado Plural, Pluralidad de Culturas, México, Paidós.
I quaderni del CREAM , 2010, X
197
Wolkmer, A. C., 1993, O Pluralismo Jurídico: Elementos para um Ordenamento Alternativo, “Crítica Jurídica”, México: Inst. Invest. Jurídicas/UNAM, n.
13, pp. 241-242.
Wolkmer A. C., 2001, Pluralismo Jurídico. Fundamentos de uma Nova Cultura
no Direito, ed. São Paulo: Alfa-Omega, pp. 207-254.
Wolkmer A.C., 2006, Introducción al Pensamiento Jurídico Crítico, ed. ILSA,
Bogotà; México, Facultad de Derecho de San Luis Potosí.
I quaderni del CREAM , 2010, X
198
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO BICOCCA
CENTRO DI RICERCHE ETNO-ANTROPOLOGICHE MILANO
I QUADERNI DEL CREAM
2004 – I
Jack Goody, The Taliban, the Bamiyan and Us. The Islamic Other.
Emanuela Guano, A passeggio per la Boca. Geografia simbolica ed esperienza dello spazio in un
quartiere di Buenos Aires.
Sergio F. Ferretti e Mundicarmo M. R. Ferretti, La trance nelle religioni afro-brasiliane del Maranhão.
Mauro Van Aken, Dances out of Place: Palestinian Dabkeh in the Jordan Valley (Jordan).
Maria Grazia Riva, Aspetti “formativi” della cooperazione allo sviluppo.
Marco Sanlorenzo, La malattia e i suoi attori tra la popolazione Bara.
2004 – II
Tullio Seppilli, La funzione critica dell’antropologia medica:temi, problemi, prospettive.
Romano Mastromattei, Il governo ombra del Nepal.
Ildàsio Tavares, La liturgia della sopravvivenza negra.
Roberto Malighetti, Emergenza come fine dello sviluppo. Le alternative dei favelados di Rio de Janeiro.
Manuela Tassan, La cultura dell’ambiente nelle politiche di sviluppo della FAO.
2005 –III
Marc Augé, Culture et religion.
Ugo Fabietti, Foucault, l’antropologia, l’Islam.
Denis Gay, The Policy of the Religious Centre in Bombay. Toward a Gujarati Community of
Madagascar.
Cecilia Guidetti, Maternità e migrazione.
Alessandra Gribaldo, Natura e tecnologia: la riproduzione nell’era delle biotecnologie.
Lorenzo Bonoli, La conoscenza dell’alterità tra urto e sorpresa.
2005 – IV
Alberto Sobrero, Descrivere il mondo per dettagli. Letteratura e scienza sociali in Balzac.
Silvia Barberani, Morti e riti di memoria in una comunità della Grecia.
Livia Napoleoni, Le guerre dimenticate: la guerriglia maoista in Nepal e la questione femminile.
Fabrizio Floris, Non-luoghi, città e ville nue.
Federica Riva, Donne, ambiente e politiche dello sviluppo nel Garhwal.
Roberto Malighetti, Merleau-Ponty's concept of the body.
2006 – V
Vincent Crapanzano, Lo scenario: oscurando il reale.
Ugo Fabietti, Sulle idee di 'esotico' e di 'esotismo': lo sguardo di un antropologo.
Mariella Pandolfi and Philippe Rousseau, Looking for Anthropos. With a little help from Pirandello’s
infinity absurdity.
Roberto Malighetti, Identities in the Quilombo of Frechal. Fieldworking in a Brazilian rural black
community.
Hashem Sedqamiz, Il tempo delle cose, il tempo degli uomini: percezione della temporalità e forme di
vita a Shiraz.
Setrag Manoukian, Cose di casa: modalità di esposizione e costruzione dei sessi a Shiraz.
2007 – VI
Editoriale di Roberto Malighetti
Renato Rosaldo, Clifford Geertz: interpretazione, voce, etiche.
Ugo Fabietti, La scomparsa di Clifford Geertz (1926-2006).
Alberto Gasanti, Pluralismo giuridico e pluralismo culturale. I diritti di cittadinanza.
Patrizio Warren, Agricoltura e ruralità nelle culture nazionali postcoloniali. Un'analisi comparativa.
Lucia Rodeghiero, Riesumazioni e definizione del suolo nazionale nella ex-Jugoslavia.
Lorenzo D'Angelo, Corpo, legge, verità. Le verità della tortura e le torture della verità.
Elisa Galli, Dai discorsi alle rappresentazioni dello sviluppo. Due progetti nel Somaliland.
2007 – VII
Luisa Faldini, Words and writing. The metabolisation of tradition in Brazilian condomblé.
Claudia Mattalucci, L'âme des peoples à évangéliser. L'usage missionnaire de quelques outils
ethnologiques.
Patrizio Warren, Pax italica. Il punto di vista degli attori locali su PRODERE a Chalatenango e nell'Ixil.
Marie-Christine Lammers, Anatomia della sofferenza. Una visione contemporanea dell'ambiguità
della passione a Douala.
Daniela Cherubini, La rielaborazione identitaria del movimento associativo di donne gitane in
Andalusia. La prospettiva "intersezionale" nell'analisi dei processi di produzione, riproduzione e
ridefinizione dell'identità etnica.
Rossana Borretti, Violenza, emozioni e incorporazione. Etnografia di un'esperienza di malattia.
Alessandra Micoli, La stanza della memoria. La città narrata in un ecomuseo
2008 – VIII
Ibrahima Sow, Génétropisme et sanctions de l'imaginaire.
Pablo Rodríguez Ruiz, Tiempos, espacios y contextos del debate racial actual en Cuba.
Mundicarmo Rocha Ferretti, Cura e pajelança em terreiros do Maranhão (Brazil).
Manuela Tassan, Le identità della natura. Alcune questioni teorico-metodologiche nello studio
antropologico della natura
Matteo Alcano, Farmaci allo specchio di Venere. Alcune considerazioni sulle terapie antiretrovirali e
sulla riappropriazione del corpo femminile.
Bruno Barba, The Magic of World. Problems of Methodology in Anthropology.
2009 – IX
Ugo Fabietti, Diversità delle culture e disagio della contemporaneità
Antonino Colajanni, Lo sviluppo visto dalle periferie del mondo. Analisi antropologiche delle
nozioni locali dello sviluppo
Sebastião Moreira Duarte, Odorico Mendes e l’identità europea del Brasile
Roberto Malighetti, Regimi multiculturali e pratiche di cittadinanza
Silvia Barberani, L'incontro turistico tra equivoci e malintesi
María Elizabeth Alejandrina Domínguez Ángel, Tradición y globalización. ¿Consumismo en el
carnaval de Chiautempan, Tlaxcala?
Manuela Tassan, Categorie a confronto: ‘natura’ e ‘ambiente’ nel dibattito antropologico
Matteo Canevari, Figure dell’ibridazione e figure del nulla. Georges Bataille tra etnografia e
nichilismo
LE PUBBLICAZIONI DEL CREAM
(CENTRO DI RICERCHE ETNO-ANTROPOLOGICHE - MILANO)
1. Silvia Barberani, Sulla frontiera del Mediterraneo. Turismo e memoria a
Kastellorizo (Egeo orientale)
2004, ISBN 888839866X, pp. 248 (esaurito)
2. Beyond Borders. Anthropological and Historical Approaches to Ethnic
Relations in Postsocialist Europe, ed. by D. Torsello and L. Rodeghiero.
Davide Torsello, Shifting Boundaries. Trust in the Interethnic Relations between
Slovaks and Hungarian in a Slovakian Village. László Öllös, Constitutional
Symbolism and National Conflicts in Slovakia. Károly Tóth, The Development
of the Hungarian Civic Organizations in Slovakia after 1989. Lucia Rodeghiero,
National Culture and Identity Politics: the Case of Slovenia. Roberto Valle,
Mythopoeia and Antropology of the Finis Jugoslaviae.
2006, ISBN 8888398724, pp. 75 - € 10,00
3. Sara Zambotti, La scuola sintonizzata. Pratiche di ascolto e immaginario
tecnologico nei programmi dell’Ente Radio Rurale (1933-1940)
2007, ISBN 978888990923, pp. 114 - € 14,00
4. Modelli per le scienze umane: antropologia, scienze cognitive, sistemi
complessi, a cura di Silvana Borutti.
Maurice Bloch, Truth and Sight; Claude Calame, Modèle du code et modèle
herméneutique: une “anthropopoiésis” génétique? Francesco Remotti, Perché
gli antropologi non possono fare a meno della complessità? Silvana Borutti, Che
cosa l’antropologia può aspettarsi dal concetto di complessità? Ugo Fabietti, On
the meaning and role of “discovery”in anthropological research. Roberto Malighetti, Temporalità etnografiche: autorità, autorizzazione, autore. Eleonora
Montuschi, Transdisciplinarietà e oggetti sociali. Luca Vanzago, Transdisciplinarietà e oggetti sociali. Risposte a Eleonora Montuschi. Flavio Cassinari, Il tempo nelle scienze umane. Tre prospettive. Irene Maffi, Per una difesa dell’incontro
etnografico come fonte della comprensione tra culture.
2007, ISBN 978-88-89909 256, pp. 172 (esaurito)
5. Simona Vittorini, Rituals, Symbols and Politics of Indian Nationalism
2009, ISBN 9788889909461, pp. 260 - € 18,00
Stampato presso Maja - Torino

Documentos relacionados