i quaderni del cream
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO BICOCCA CENTRO DI RICERCHE ETNO-ANTROPOLOGICHE MILANO I QUADERNI DEL CREAM 2010 – X Trauben I quaderni del CREAM sono una pubblicazione a cura del Centro di Ricerche Etno-Antropologiche dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. Raccolgono articoli, note, recensioni e testi di conferenze e seminari tenuti nell’ambito delle attività del Centro e delle iniziative ad esso collegate: Corso di Laurea Specialistica in Scienze Atropologiche ed Etnologiche, Dottorato in Antropologia della Contemporaneità (DAC), Corso di Perfezionamento in Antropologia Culturale (COPAC), Laboratorio di Antropologia Visiva (LAV), Seminario di Antropologia del Medio Oriente e del Mondo Musulmano (SAMOMU), Seminario di Atropologia Teorica (SAT). Unidea-UniCredit Foundation, nell'ambito del proprio impegno nel campo della ricerca, sostiene le attività del CREAM. Direttore Roberto Malighetti Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione 'Riccardo Massa' Università degli Studi di Milano Bicocca Piazza dell'Ateneo Nuovo 1 20126 Milano © 2010 Trauben editrice s.a.s via Plana 1 – 10123 Torino fax 011.837193 www.trauben.it ISSN 1970-867X I quaderni del CREAM , 2010, X Indice 5 Ugo Fabietti, Claude Lévi-Strauss: profeta dei tempi moderni? 13 Roberto Moscat, La facoltà di Scienze della formazione: un profilo storico. 27 Roberto Malighetti, Runa Lazzarino, Violenza e limite. Conversazione sul lavoro di ricerca in una favela carioca. 59 Sergio F. Ferretti, Religiões de matrizes africanas no Maranhão. 75 Vânia Fialho, Pesquisando no Nordeste indígena brasileiro: processos coletivos e questões metodológicas. 91 Francesca Nicola, Essere Okapians a Port Moresby. Tradizioni di scambi e nuove ideologie del Sé in Papua Nuova Guinea. 115 Giancarlo Anello, Civiltà e diritti: archeologia della subalternità legale nel colonialismo giuridico italiano 145 Antonio Carlos Wolkmer, Pluralismo giuridico: fondamenti di una nuova cultura giuridica 181 Antonio De Lauri, Questionidi antropologia giuridica: una introduzione I quaderni del CREAM , 2010, X UGO E. M. FABIETTI CLAUDE LÉVI-STRAUSS: PROFETA DEI TEMPI MODERNI? I profeti, come è noto, non sono degli “indovini” ma uomini e donne che, in periodi di crisi, prospettano per la propria comunità un orizzonte di senso, non necessariamente ottimistico, entro cui si renda possibile pensare il presente e il tempo a venire. Perché, dunque, una figura come quella di Claude Lévi-Strauss potrebbe essere definita profetica? Senza mezzi termini diremo che affermazioni, dichiarazioni, interventi spesso inattuali e paradossali – come sono quelli di tutti profeti – si sono rivelati, ultimamente, di una sconcertante attualità. Come tutti i profeti, Lévi-Strauss esprime giudizi e prefigura situazioni che possono essere – come di fatto sono state – lette in maniera diversa e persino opposta. Forse, più che di eredità in divenire bisognerebbe parlare, a proposito di Lévi-Strauss, di “profezie in divenire”.1 Conosciamo tutti i motivi per cui Lévi-Strauss occupa un posto di primo piano, e per molti aspetti unico, nell’antropologia e nelle scienze umane del Novecento. Parentela, mito, totemismo, arte: non c’è quasi aspetto della cultura umana al cui studio Lévi-Strauss non abbia dato un contributo originale, fondamentale e spesso decisivo. Ma Lévi-Strauss ha anche contribuito più di altri a diffondere, almeno in certi anni, una immagine dell’antropologia che ha avuto grande successo: quella dell’antropologia come studio delle “società primitive”; dell’antropologia come rimorso dell’Occidente, e quindi evocatrice di quei tropici “tristi” magistralmente raccontati nel libro del 1955. Tristi tropici è lo spazio 1 Questo testo riproduce, nelle grandi linee, una relazione presentata al convegno Claude Lévi-Strauss. Un’eredità in divenire, tenutosi a Torino il 24 settembre, 2010. I quaderni del CREAM , 2010, X 5 della messa in scena della perdita e della nostalgia che – e dicendo questo non pensiamo di sbagliarci – costituiscono l’humus delle sue profezie. La tristezza infatti è quella dell’antropologo, egli stesso prodotto del rimorso dell’Occidente, il quale dovrebbe rendere partecipe il suo pubblico del proprio sentimento. Non si tratta della tristezza di coloro che vivono ai tropici, selvaggi, contadini o cittadini che siano. Piuttosto che gli “altri”, ad essere triste è Lévi-Strauss e Tristi tropici è, potremmo azzardare, un’espressione estetica raffinatissima di una concezione dell’antropologia che vede nell’altro più un oggetto di studio, che non un soggetto di cui cogliere – per riprendere un adagio malinowskiano – “il punto di vista e la sua visione del suo mondo”. Per Lévi-Strauss la comunicazione con l’alterità è possibile solo sul piano dell’astrazione, a livello di strutture inconsce, come ci ricorda spesso anche in Tristi tropici, dove pure il mondo dei “primitivi” è descritto con accenti che, per lo stile abituale di Lévi-Strauss, sono eccezionalmente carichi di pathos. Tristi tropici è in effetti il momento in cui il profetismo di LéviStrauss emerge in relazione a gran parte dei temi che poi ritorneranno nel corso degli anni successivi. Uno di questi è l’“allontanamento dell’uomo dalla natura”, un tema che egli declina nel libro in vari modi e nel quale avrà modo di ritornare spesso anche in altre occasioni. Significativa è una celebre intervista rilasciata nel 1979 dove dichiara di individuare il punto di non ritorno di questo allontanamento nell’umanesimo. L’umanesimo, in cui riconosce un momento di apertura verso le altre civiltà, è infatti all’origine di “tutte le tragedie che abbiamo vissuto, dapprima con il colonialismo, poi con il fascismo, infine coi campi di sterminio [in quanto queste cose] si presentano quasi come il suo prolungamento naturale”. L’umanesimo ha il suo erede nell’illuminismo che avrebbe condotto questo processo all’estremo, e persino il marxismo gli appare come, “un’astuzia della storia per promuovere l’occidentalizzazione accelerata dei popoli rimasti emarginati fino ad un’epoca recente”. Siamo dunque qui di fronte a una classica “messa in scena” dell’eterogenesi dei fini, un motivo certo non estraneo a qualunque profetismo. Un’apertura – quella dell’umanesimo nei confronti delle altre culture – che si traduce in una centralità dell’uomo il quale, da un I quaderni del CREAM , 2010, X 6 lato si allontana dalla natura, mentre dall’altro si avvia verso una forma di pensiero “astratto”, “radicale”, “livellante” suscettibile di creare, nella sua apparente “universalità”, altre e più crudeli differenze: razzismo, schiavismo, etnocidio, campi di sterminio, ideologie “inglobanti” e totalitarie. Lévi-Strauss profeta dei tempi moderni? Rispondiamo con una domanda: l’immagine dell’ineguaglianza come effetto di un eccesso di egualitarismo non è un tema – prima strisciante e poi conclamato – di alcune ideologie sociali che si sono imposte in questi ultimi decenni, e che presentano gli individui come “presi” in un tritatutto di regole astratte e apparentemente valide per tutti dal quale tuttavia le differenze riemergono come il prodotto dell’applicazione di quegli stessi parametri astratti e impersonali, da cui alcuni traggono vantaggi e altri no? Viene in mente la politica, naturalmente, ma anche la burocrazia, il potere anonimo di elite, caste e cosche che, dietro il paravento di una “democrazia” priva di reali contenuti, agiscono come se la regola, ormai staccata da questi ultimi,, fosse l’alibi universale. Un esempio basterà: la sacrosanta sentenza “La legge è uguale per tutti” non sarà che un vuoto mantra finché non sarà meditata, accompagnandola con la costatazione anche troppo banale – tanto banale che la si accetta come la pioggia o la malattia – secondo cui è la giustizia a “non essere uguale per tutti”. Come stupirsi se, di fronte a una macchina sociale che nel segno di una uguaglianza di diritto e facendosi scudo di essa non fa che riprodurre disuguaglianze e sperequazioni? Si spiegano così le molteplici richieste di riconoscimento che attraversano il nostro tempo. Riconoscimento del diritto degli individui a essere considerati come soggetti autonomi e con una dignità propria non sono certo una novità dei tempi moderni ma queste richieste si sono ormai trasfromate in un “sentire di massa” (almeno in Occidente) tanto da rimodellare la rappresentazione dei rapporti tra individui e istituzioni e tra individui stessi. Il tema del riconoscimento è legato, naturalmente, alla questione della differenza, e la questione della differenza investe, altrettanto naturalmente, il piano culturale. A tale riguardo Lévi-Strauss è relativista. Sempre in Tristi tropici scrive: “nella gamma di possibilità aperte alle società umane, ciascuna ha fatto una certa scelta e … le I quaderni del CREAM , 2010, X 7 scelte fatte dalle società umane si equivalgono; …nessuna società è profondamente buona e nessuna è assolutamente cattiva; […] offrono tutte certi vantaggi ai loro membri, tenuto conto di un residuo di iniquità che sembra più o meno costante”. Tuttavia, quando si tratta di contatto tra culture Lévi-Strauss entra in allarme. In Tristi tropici il tema del contatto tra culture assumeva innanzitutto la veste di un Occidente che avanza stritolando gli altri, colorandosi anche di tinte contraddittorie: più le culture restano isolate e meno si sviluppano; più comunicano tra di loro e meno conservano la propria identità. Quello che era un paradosso elaborato a partire dal rapporto tra l’Occidente e “gli altri”, con il tempo assume i carattere di una proposizione universale. Di qui il rifiuto di una “società mondiale”, foriera di quella omogeneizzazione culturale raffigurata dalla monocultura-barbabietola di Tristi tropici: “non c’è più nulla da fare …. l’umanità si cristallizza nella monocultura … la civiltà di massa, invaderà le nostre mense con la monocultura prodotta come la barbabietola”. Questo è un leit-motiv levi-straussiano, dal 1955 fino ai suoi ultimi interventi dove la società planetaria, fondata sull’universalismo, è presentata (ancora) come figlia dell’umanesimo e dell’illuminismo: dimensione quanto mai astrusa quella dell’universalismo, dal momento che tutta l’opera di Lévi-Strauss, pur protesa al suo raggiungimento, la presenta come pura dimensione astratta, e quindi non traducibile in qualcosa di concreto. Queste posizioni portano Lévi-Strauss a pronunciarsi a favore di misure che contrastino gli effetti (nefasti) dell’avanzata della società planetaria: controllo demografico, gestione dei contatti tra culture, conservazione dell’ambiente, ecc. lasciandoci però nel dubbio su chi, se non un governo o comunque le varie società o culture sulla base di un accordo “planetario”, dovrebbe proporre e agire da un punto di vista che non può, almeno in questo caso, non essere che “concretamente universale”. Forse il profetismo di Lévi-Strauss si rivela con maggiore enfasi nella polemica da lui condotta sul tema della libertà. Certamente, scrive in Tristi tropici, l’uomo neolitico non era più libero di oggi. Tuttavia, “ventimila anni di storia sono andati perduti … Non c’è più nulla da fare”. È vero che “nel neolitico – egli prosegue – l’uomo si è I quaderni del CREAM , 2010, X 8 messo al riparo dal freddo e dalla fame; ha conquistato la possibilità di pensare; [ma] lotta male contro le malattie, che probabilmente i progressi nell’igiene non hanno fatto altro che scaricare … su altri meccanismi: grandi carestie e guerre di sterminio, il cui compito è di mantenere un equilibrio demografico al quale le epidemie contribuivano in una maniera non più spaventevole delle altre”. Sembra, insomma, che più abbiamo guadagnato, più abbiamo perduto. Il tema della futilità, altro grande motivo di tutti profetismi, ci sospinge così verso il sentimento che la libertà astratta non sia altro che una illusione. Tra il 1976 e il 983 Lévi-Strauss torna con un saggio proprio su questo tema: Riflessioni sulla libertà. Qui Lévi-Strauss afferma chiaramente che la libertà non può essere costruita a partire dalla natura morale dell’essere umano. Questo perché non esiste una morale universale, per cui le stesse libertà sono diverse, a seconda delle epoche e in relazione a contenuti fifferenti. La libertà di un ateniese del tempo di Pericle non è, insomma, quella di un europeo della seconda metà del Novecento. La libertà di un padrone non è la stessa libertà di uno schiavo (che qualche libertà pur ce l’ha). Lévi-Strauss si mostra iperrelativista anche su questo punto, mentre l’idea di libertà nata con la modernità sarebbe assolutista in quanto “imposta” a partire da principi astratti e universali. In conseguenza di ciò, gli stessi diritti umani debbono essere fondati non sulla morale, ma sulla natura dell’uomo in quanto essere vivente (i diritti dell’uomo finiscono, a giudizio di Lévi-Strauss, quando si rischia di mettere a repentaglio la vita di altre specie). Il rischio di una libertà fondata su principi universali e astratti è infatti duplice: o la dottrina universalista della libertà evolve verso forme di partito unico, oppure si avvia sulla strada di quella “libertà devastatrice” sotto la cui influenza le idee si combattono tra loro sino a “perdere ogni sostanza”. Forse che, come diceva paradossalmente Montesquieu, “dopo essere stati liberi grazie alle leggi, si vorrà essere liberi contro di loro”? Eccoci di fronte a un altro tema che dipende a sua volta da una visione dell’agire umano come esposto al rischio dell’effetto perverso: tema che, pur non essendo tipico del profetismo, si presta senza dubbio a letture profetiche. Così, quando si tratta di spiegare come debba essere intesa la libertà, Lévi-Strauss trova I quaderni del CREAM , 2010, X 9 l’antidoto all’astrattezza illuminista nella superstizione. Le superstizioni non sono le convinzioni del credulo, ma le forme di attaccamento ai “tenui legami, [alle] solidarietà minute che evitano all’individuo di essere stritolato dalla società globale, e a questa di polverizzarsi in atomi intercambiabili e autonomi … che tengono ognuno in un suo particolare modo di vivere, in un suo territorio, in una sua tradizione, in una sua forma di credenza o non-credenza”. A parere di Lévi-Strauss, se si ritiene che la libertà abbia un fondamento razionale la si condanna a “recedere dal suo contenuto” relativo, oltre che dal suo fondamento, il quale è “irrazionale”. È infatti il suo “fondamento irrazionale” – sostiene Lévi-Strauss – che assicura la sopravvivenza della libertà: quei minuscoli privilegi, quelle minuscole disuguaglianze irrisorie che “senza compromettere l’uguaglianza generale permettono dall’individuo di trovare punti d’ancoraggio nelle sue vicinanze … la libertà reale fatta di lunghe abitudini … in una parola delle usanze”. Riferite alle sue vedute sul progresso umano queste affermazioni sembrano dirci che la libertà, per LéviStrauss, non la si può mai veramente conquistare. E che, tutt’al più, si rischia sempre di perderla. I pronunciamenti paradossali di Lévi-Strauss su umanità e natura, sul contatto tra culture e sui fondamenti della libertà sembrano essere l’altra faccia di una riflessione che ha invece puntato tutto sulla razionalità e l’astrazione. In questo senso, e da un certo punto di vista, i temi dell’eterogenesi dei fini, della futilità e degli effetti perversi potrebbero essere letti, paradossalmente, come gli antidoti di un eccesso di astrazione e di formalizzazione dispiegata nell’analisi di miti, strutture di parentela, classificazioni totemiche e altro ancora: astrazione e formalizzazione che si rivelano poveri strumenti allorché si tratta di affrontare tematiche che sono tuttavia centrali nella vita spicciola delle società, e alla cui carenza si sopperisce con l’adozione di “posture antimoderne” non estranee alla sensibilità culturale di Claude Lévi-Strauss. O forse sarebbe più semplice dire che, come avviene nel caso di tutti i profeti, anche i pronunciamenti di Lévi-Strauss si prestano a letture diverse, spesso opposte perché lontani dall’offrire soluzioni ai problemi che enunciano, denunciano o stigmatizzano. I temi del relativismo, del I quaderni del CREAM , 2010, X 10 contatto tra culture e la questione della libertà non sono d’altronde suscettibili oggi di letture doppie e quasi sempre contraddittorie? Il contatto tra culture è tema di discussione tra coloro che si preoccupano della sopravvivenza dei popoli “marginali”, che da tale contatto sono minacciati nella loro stessa esistenza fisica. Ma è anche al centro delle preoccupazioni di coloro che, in questo contatto, vedono una minaccia alla propria identità e “intimità culturale”, e che reagiscono con comportamenti che vanno dal malumore a operazioni di notevole violenza, anche se solo simbolica (come fece un paio di anni fa un sindaco lombardo promettendo ai suoi concittadini un “bianco natale” – cioè una caccia agli immigrati non in regola per poterli espellere dal territorio comunale). Lévi-Strauss può, coi suoi pronunciamenti sulla questione del contatto tra culture, essere d’ispirazione agli uni come agli altri, e se molti etnologi e attivisti nel campo della promozione dei diritti delle minoranze hanno colto un senso nelle sue parole, una certo populismo di destra (ma non solo) ne ha colto un altro, che è esattamente opposto al primo. Una cosa è la protezione degli indios, “fragili e impotenti vittime della civiltà delle macchine” (come Lévi-Strauss li chiamò una volta); altra cosa è una concezione delle culture che ne fa degli isolati a rischio di contatto e di degenerazione, concezione che può rivelarsi, se caricata di un significato “politico-elettorale”, una vera e propria macchina di costruzione dell’altro come “straniero”. Il relativismo è certo una buona cosa ma, collegato con questa prospettiva, si presta facilmente a operare esclusioni fondate sull’idea di intraducibilità e incomunicabilità tra culture. Così, in questa lettura del contatto culturale, e della relatività dei valori culturali, l’altro è tale finché rimane nel suo spazio e le sue immagini sono quelle –rassicuranti – trasmesse dagli antropologi o dai turisti. Ma diventa straniero quando la sua presenza tra noi può rivelarsi “viscosa” – come dice Baumann riprendendo una metafora sartriana – un ineliminabile “altro da noi” come l’extra-comunitario, il clandestino, il rom: figure evocatrici più della “precarietà del noi” che non della presenza degli “altri tra noi”. E c’è infine la questione della libertà. Come negare, oggi, la presenza di discorsi che pretendono di mettere al centro l’individuo con la sua dignità, i sui diritti, le sue necessità e le sue libertà contro I quaderni del CREAM , 2010, X 11 teorie sociali e filosofiche accusate e di astrattezza e di autoritarismo? Ora, se questi “discorsi” possono inclinare verso una maggiore attenzione per la persona “concreta” come contrapposta a un individuo “astratto”, essi possono anche nascondere proprio ciò che, di quell’idea astratta di libertà, è il prodotto: una vecchia conoscenza, in fondo, l’homo economicus nelle sue molte sfaccettature. Un individuo “privato” in quanto (illusoriamente) “privo” di un contesto sociale, che persegue i suoi fini “utili”, ai cui occhi l’interesse pubblico finisce per confondersi con il proprio (o viceversa), e che inveisce contro le regole e le leggi viste come impedimenti al “diritto alla propria realizzazione”. Aveva forse torto Lévi-Strauss quando, allarmato, citava il paradosso di Montesquieu: “dopo essere stati liberi grazie alle leggi si vorrà essere liberi contro di loro?” Una lettura di Lévi-Strauss come “profeta dei tempi moderni” è quindi possibile. E forse nessuno meglio di Susan Sontag lo intuì quando descrisse l'antropologo, in un saggio del 1963 a lui dedicato, come colui che “non soltanto porta il lutto del freddo mondo dei primitivi, ma ne è anche il custode. Gemendo tra le ombre, lottando per distinguere l’arcaico dallo pseudoarcaico – scrive Sontag – egli esprime un moderno pessimismo, eroico, diligente e complesso”. I quaderni del CREAM , 2010, X 12 ROBERTO MOSCATI 1 LA FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE: UN PROFILO STORICO 2 I hear and I forget, I see and I remember, I do and I understand. (Confucio, originale non in inglese) La scuola si rivela obsoleta perché non sa tenere conto del dinamismo e della complessità indotti dallo scontro e dalla commistione di culture molteplici e differenti, limitandosi ad atteggiamenti di apertura e tolleranza. (Riccardo Massa, Cambiare la Scuola) You may say I’m a dreamer, But I’m not the only one... (John Lennon, Imagine) Grazie davvero per avermi invitato a tenere questa relazione. Devo però premettere che non essendo uno storico e non avendo tenuto in questi tredici anni un diario non riuscirò a tener fede al titolo che mi è stato proposto. Cercherò invece di sviluppare alcune considerazioni articolate in quattro punti: 1. Le Origini della Facoltà viste da un sociologo; 2. Il contesto sociale (e politico ed economico) oggi; 3. A cosa serve (dovrebbe servire) la scuola post-obbligo e in particolare l’Università oggi; 4. Insegnare oggi. L’intento prevalente è quello di inquadrare – partendo dalle origini e lo sviluppo della nostra Facoltà – la condizione complessiva (eco1 Professore di sociologia dell’educazione, Università degli Studi di Milano Bicocca 2 Testo presentato per la prima volta il 14/10/2010, in occasione della Conferenza della facoltà d Scienze della formazione presso l’Università di Milano-Bicocca. I quaderni del CREAM , 2010, X 13 nomica, sociale e politica) entro la quale l’istruzione secondaria superiore e in particolare l’università sono chiamate ad operare e dalle quali sono influenzate. L’analisi non sarà solo descrittiva ma, come si vedrà, tenterà di indicare una possibile evoluzione alternativa a quella oggi prevalente nei paesi maggiormente sviluppati. Le Origini della Facoltà viste da un sociologo Per quel che riguarda la dimensione personale sono stato attratto dalla nascente facoltà per le sue finalità: formare delle figure professionali ritenute (da me) centrali per la società, e per le modalità di perseguire le finalità: attraverso la fornitura ai futuri insegnanti/formatori di una conoscenza articolata dei diversi aspetti relativi alle loro professioni di tipo sociale, filosofico, economico, psicologico, linguistico, e che comprendeva le “scienze dure”, oltre che ovviamente pedagogico. Ricordo con emozione la cena a casa di Riccardo Massa dei founding fathers and mothers della Facoltà. Il vantaggio cruciale di questa idea multiculturale e disciplinare si è manifestato all’entrata in vigore della riforma degli ordinamenti didattici dove il processo di adeguamento delle risorse interne alle nuove strutture delle “classi” e dunque dei corsi di laurea è stato facilitato dalla presenza di risorse molteplici (altrove le acrobazie ingegneristiche sono state ad alto rischio e a basso coefficiente di efficacia). L’altro vantaggio è stato rappresentato dal clima che Riccardo ma non solo ha instaurato fra i componenti la nuova facoltà. Clima che forse è esagerato definirei comunità accademica ma che comunque ha consentito di fronteggiare difficoltà tradizionali e nuove senza traumi particolari e pur in una situazione così pluridisciplinare. Oltre ai meriti dei componenti l’avere comuni finalità legate a figure professionali abbastanza ben identificate ha certo aiutato a non instaurare il clima di “separati in casa” così tipico, ad esempio, delle Facoltà di Scienze politiche. Ha consentito inoltre di sviluppare una disponibilità a innovare gli approcci alle diverse tematiche e a combinare diverse ottica su temi come l’insegnamento “dentro e fuori la scuola”. Le stesse presidenze che si sono succedute hanno rappresentato diverse espressioni della comune origine politico- I quaderni del CREAM , 2010, X 14 culturale. Naturalmente si poteva-potrebbe fare di più e meglio: ci sono sempre percorsi da completare. Il contesto socio-politico-culturale nel quale si muove l’università e dunque la Facoltà Il cambiamento è accelerato, parliamo di società post (industrialetaylorista-moderna) nella quale cambiano i modi di produzione, la struttura e le dinamiche sociali, il tipo e la diffusione della conoscenza. È probabilmente giusto definire la nostra come la “società del rischio” che Ulrich Beck già nella metà degli anni Ottanta definiva come un processo di rottura della modernità: una modernità che si sta liberando della sagoma della società industriale classica per darsi una nuova forma: la forma di quella che chiamo ‘società (industriale) del ‘rischio’. Ciò richiede (a noi testimoni del processo) un difficile bilanciamento delle contraddizioni tra continuità e rottura della modernità, che sono riflesse nella contrapposizione tra modernità e società industriale e tra società industriale e società del rischio (Beck 2000, p.14). Società detta del rischio nel senso che: l’accrescimento del potere del ‘progresso’ tecnico-economico è messo sempre più in ombra dalla produzione di rischi…con la loro universalizzazione, con la critica da parte dell’opinione pubblica e l’analisi (anti)scientifica, i rischi emergono dalla latenza e acquistano un significato nuovo e centrale per i conflitti sociali e politici. Essi non possono più essere circoscritti a luoghi o gruppi come avveniva nel XIX secolo e nella prima metà del XX secolo con i rischi relativi al lavoro di fabbrica o ad un’attività professionale, e mostrano invece una tendenza alla globalizzazione che comprende produzione e riproduzione, sfugge ai confini nazionali e in questo senso produce minacce globali sovranazionali indipendenti dall’appartenenza di classe con un’inedita dinamica sociale e politica (Ivi, p.18). Il presupposto per poter pensare questo mutamento è una revisione dell’immagine della società industriale. Nelle sue linee di fondo quella industriale è una società a modernità dimezzata, comprendente in sé I quaderni del CREAM , 2010, X 15 tratti di contro-modernità che sono costruzione e produzione della società industriale (stessa). Il quadro strutturale della società industriale si basa su una contraddizione tra il contenuto universale della modernità, diritti civili, uguaglianza, differenziazione funzionale, metodi argomentativi e scetticismo e la struttura delle sue istituzioni in cui questi principi possono essere realizzati solo in forma parziale e selettiva. Ciò vuol dire che la società industriale affermandosi si destabilizza(p. 20). Lo stesso Antony Giddens parlando della globalizzazione ne Il mondo che cambia segnala come L’impotenza che proviamo non è segno di fallimento individuale, ma riflette l’inadeguatezza delle nostre istituzioni: è necessario ricostruire quelle che abbiamo, o crearne di nuove, perché la globalizzazione non è un incidente nelle nostre vite di sempre. È il cambiamento delle condizioni stesse della nostra esistenza; È il modo in cui oggi viviamo. Come si manifesta l’effetto della globalizzazione nell’istruzione? A causa delle trasformazioni economiche, culturali e sociali delle società post-industriali gli assunti più comuni sul ruolo dell’istruzione sono ora posti in discussione. Il potere dello stato-nazione è minacciato dallo svilupparsi di un’economia globale che ha eliminato tutti gli strumenti chiave impiegati per controllare il destino economico delle nazioni (Halsey 1997). È necessario dunque richiamare alcuni aspetti del contesto di riferimento: (a) Intanto si parla di Globalizzazione neo-liberista, vista come un ritorno alle vecchie idee pre-keynesiane. Secondo Pierre Bourdieu è definibile come rivoluzione conservatrice che restaura il passato riuscendo a trasformare la regressione in progresso. Alcune sue caratteristiche sono il decentramento, l‘accento sugli standard (qualità degli studenti e dei docenti), un nuovo clima di concorrenza mondiale, lo sforzo di ridurre la spesa pubblica nell’istruzione (come degli altri servizi pubblici) in parallelo con misure di privatizzazione. Le stesse riforme per l’equità vanno interpretate certamente nell’ottica della I quaderni del CREAM , 2010, X 16 riduzione delle diseguaglianze educative, viste peraltro come mezzo per eliminare lo spreco dei talenti. (b) Caratteristica peculiare di questa globalizzazione è poi data dal fatto che non esiste qualcosa che si possa chiamare “contesto sociale non regolato” (da cui l’enfasi sui meccanismi di governance): le regolazioni sono opera degli stati o di organizzazioni create dagli stati (organizzazioni internazionali: OCSE, GATT, World Bank, FMI, Organizzazione mondiale del Commercio). La “global economy” in sostanza è costruita politicamente (c) All’interno del rapporto tra neo-liberismo e istruzione nasce poi la teoria delle scelte pubbliche tra le quali caratteristiche si segnala lo sforzo di introdurre la concorrenza tra le istituzioni formative; dal canto loro i consumatori (le famiglie) scelgono e pagano il prezzo attraverso buoni di consumo (vouchers) e si schierano in tal modo contro il supposto potere di gestione dei “providers”(gli insegnanti che andranno pagati a prestazione e in generale le amministrazioni pubbliche e i burocrati). Assai spesso, in tali situazioni, gli interessati al servizio seguono la strategia dell’exit invece di quella della voice (Hirschman), accettano senza protestare e si sviluppano inevitabilmente scuole per ricchi e scuole per poveri. Sisviluppa quella che è stata anche chiamata la “commercializzazione della cittadinanza” (Crouch) nella più generale ristrutturazione dei sistemi di welfare secondo le linee teoriche che vanno sotto il titolo del New Public Management-NPM. (d) Si sviluppa altresì una tendenza contraddittoria verso il decentramento e/o la ricentralizzazione dei sistemi formativi: (i) da un lato, si attribuiscono maggior potere alle famiglie e alle comunità locali = più partecipazione e democrazia ma dall’altro (ii) si sviluppa un maggior controllo dei curricoli per l’aumento della competitività nazionale, enfasi sugli standard, responsabilizzazione delle istituzioni scolastiche e contenimento dei costi di funzionamento: quali effetti di tali provvedimenti sulla qualità della formazione? (e) Cresce inoltre la privatizzazione della scuola attraverso vari modalità: “Charter Schools”scuole sotto contratto/in appalto (autonome) – Buoni-scuola (voucher) (che potrebbero del resto avere – se forniti alle famiglie indigenti – effetti compensativi degli svantaggi I quaderni del CREAM , 2010, X 17 iniziali per evitare scuole segregate), moltiplicazione di università private, specie per l’istruzione a distanza. (f) Si diffondono dunque elementi di mercato nel finanziamento delle università comprendenti il controllo ex-post dell’allocazione e uso delle risorse (un modo per trasferire alle università l’amministrazione della scarsità!). L’intento è quello di costruire rapporti con l’economia privata. Ne deriva quel fenomeno che è stato chiamato “capitalismo accademico” (gli accademici trasformati in imprenditori sussidiati dallo stato). Per questa via si prefigura la fine dell’università come comunità di studiosi, mentre la gestione (il management) si sostituisce alla governance. A cosa serve (dovrebbe servire) la scuola post-obbligo e in particolare l’Università oggi Come spiegarsi innanzitutto il subitaneo e largamente imprevisto successo di un’iniziativa di quattro ministri di paesi europei (Francia, Germania, Inghilterra e Italia con chiara identificazione del ruolo cruciale dei ministri di Francia, Claude Allegre e Italia, Luigi Berlinguer) che ha dato vita al “Processo di Bologna”? (evento tra l’altro parallelo alla nascita della Facoltà!) In realtà, il modello europeo d’insegnamento superiore proposto dalla Commissione ministeriale francese presieduta da Jacques Attali (1998)3 segnalava l’urgenza di ridurre le differenze tra i sistemi formativi dei paesi europei, considerando l’evoluzione dell’economia mondiale (incipiente globalizzazione) e la dimensione politica dell’internazionalizzazione, con riduzione delle autonomie e peculiarità degli stati-nazione. I governi europei (alcuni più degli altri) avvertono in quel momento l’opportunità di omogeneizzare i propri sistemi formativi. Poco dopo l’Unione Europea sviluppa una politica che mira a creare un’Area di formazione superiore (European Higher Education Area, EHEA) ed una della ricerca (European Research Area, ERA). Quest’ultima nasce con il chiaro scopo di rendere l’economia della conoscenza europea maggiormente competitiva a livello mondia3 Rapport de la commission présidée par Jacques Attali (Attali 1998). I quaderni del CREAM , 2010, X 18 le (“strategia di Lisbona”) ed evidenziando dunque l’urgenza di sviluppare una dimensione continentale in una dialettica tra potenze economiche globali che non forniscono più spazi autonomi alle singole nazioni del continente. Gli elementi che fungono da motori del cambiamento erano del resto presenti da tempo e riguardavano i rapporti delle università con il territorio, e, in particolare, l’uso della ricerca scientifica per lo sviluppo delle economie attraverso l’innovazione, sia secondo la relazione detta delle “tre ellissi” tra le università e suoi partners pubblici e privati, sia con il consolidamento del “triangolo della conoscenza” derivante dall’integrazione tra istruzione, ricerca e innovazione. La tendenza prevalente è dunque caratterizzata dalla crescente internazionalizzazione dell’istruzione superiore e della competizione tra economie nazionali, fondata in buona misura sullo sviluppo della conoscenza e le sue applicazioni. Questa forma di “quasi-mercato” si manifesta sia a livello di paesi (dunque di sistemi formativi) sia a livello di singoli atenei e trova espressione nella crescente diffusione di graduatorie e classificazioni degli atenei le cui ricadute hanno effetto anche sui sistemi universitari: si pensi ai programmi si accorpamento a livello territoriale delle università francesi (i PRES), o ai progetti di eccellenza (Exzellenzinitiative) del governo federale tedesco. Ne derivano una serie di ulteriori conseguenze come l’introduzione di forme di valutazione delle performances delle istituzioni formative e di accreditamento delle stesse che testimoniano di una trasformazione del rapporto tra università e stato e che modificano in parte il funzionamento della vita accademica e i ruoli degli universitari. Il nodo che sta, non da oggi a mio avviso, al fondo del dibattito sui sistemi formativi e dell’istruzione superiore in particolare si identifica in un punto poco considerato nel nostro paese ma centrale che riguarda le funzioni dell’istruzione superiore. Nelle considerazioni precedenti il tema era abbastanza evidente e si concentrava sul rapporto tra istruzione e la cosiddetta “economia della conoscenza”. Ma per valutare il significato e le funzioni dell’università nel mondo contemporaneo esiste anche l’ottica della “società della conoscenza”. Per evidenziarne la rilevanza occorre muovere da alcuni dati di fatto. I quaderni del CREAM , 2010, X 19 La conoscenza è più diffusa di sempre nella società e dunque non è più riservata alle élites. La relativa democratizzazione della conoscenza si è poi accompagnata alla crescente contestabilità delle affermazioni della conoscenza. Ne deriva che l’auto-legittimazione delle tradizionali élites della conoscenza diventa meno certa. Come sostiene Beck, nella “società del rischio” la cultura della expertise entra in crisi con la crescente richiesta pubblica di accountability della scienza e della tecnologia (Beck 2000). Un’ulteriore conseguenza della sua diffusione risiede nel fatto che la conoscenza generale non può più essere separata dalla conoscenza professionale. Questa trasformazione sta alla base della tesi della riflessività secondo la quale nella modernità la conoscenza è sempre più relativa all’applicazione della conoscenza a se stessa piuttosto che ad un altro obiettivo. Viviamo dunque in una società della conoscenza nel senso che gli attori sociali hanno maggiori capacità di auto-interpretazione e di azione, proprio perché conoscenza generale/generica e conoscenza professionale sono meno separate (Giddens 1991; 1994; 1996). Partendo da tali assunti si è sviluppata un’ipotesi interpretativa delle nuove funzioni attribuibili all’università nella società della conoscenza (Delanty 2001). Ipotesi che si può riassumere secondo queste linee. Se l’università non deve degenerare in forme di consumismo tecnocratico in virtù del quale gli studenti diventano meri consumatori di conoscenza e l’università stessa una corporazione burocratica transnazionale che si legittima attraverso il principio tecnocratico dell’eccellenza (destino che le è inevitabilmente riservato secondo alcuni studiosi: Readings 1996) essa deve scoprire per se stessa un ruolo diverso. E un nuovo ruolo come una nuova identità stanno infatti emergendo per l’università che ruotano attorno alla democratizzazione della conoscenza: intendendo per democratizzazione la partecipazione di un sempre maggior numero di attori nella costruzione sociale della realtà. Su questa base l’università oggi può diventare il luogo più importante della interconnettività della società della conoscenza. Vi è infatti una tale proliferazione di diversi tipi di conoscenza che non vi sono possibilità di unificare gli uni e gli altri. Se quindi l’università non può ricostruire l’unità distrutta della conoscenza può tuttavia I quaderni del CREAM , 2010, X 20 aprire vie di comunicazione tra questi diversi generi di conoscenza: in particolare tra conoscenza come scienza e conoscenza come cultura. Per riuscire in una simile impresa l’università deve fornire espressione al nuovo elemento unificante che sta emergendo e cioè la comunicazione. L’università dovrà, secondo questo approccio che recupera molto dell’opera di Habermas, creare luoghi di comunicazione e di pubblico dibattito nella società. Infatti, è o può diventare luogo di dibattito pubblico tra cultura comune e cultura di esperti. Questo tenendo altresì conto che sta crescendo uno spazio nella produzione e nella comunicazione della conoscenza: se l’università perde d’importanza nell’esclusività della produzione e dell’applicazione della conoscenza (per il proliferare di altre fonti) ne guadagna nella sua comunicazione. In questo suo nuovo operare l’università si propone allora come luogo della conoscenza costruita riflessivamente all’interno di una società caratterizzata dall’incertezza, dal caos e dalla supercomplessità (Barnett 1990; 1999). In tal senso una finalità centrale dell’università potrebbe essere quella di fornire di senso una realtà in continuo cambiamento, rendendo le persone capaci di vivere con maggior efficacia la sfida dei nuovi problemi etici. Dunque se svolgerà un ruolo critico e sarà in grado di orientare i modelli culturali della società, l’università si assumerà il compito un tempo affidato allo stato e prima ancora alla chiesa, sviluppando la cultura civica, cioè le regole dell’appartenenza alla comunità sociale e alla comunità culturale. La crescente importanza di quest’ultima dimensione è infatti da porre in relazione alla centralità della “cittadinanza culturale”, tema del riconoscimento di gruppi sociali diversi e di gruppi di diritti diversi (Delanty 2001, p.155). Se si accetta la rilevanza di questa dimensione si può convenire che l’università può diventare (sotto certi aspetti e in determinate circostanze lo è già adesso) l’istituzione maggiormente in grado di legare le richieste del mondo economico, la tecnologia e la domanda di cittadinanza. Mentre è infatti vero che la nuova produzione di conoscenza è dominata dalla strumentalizzazione della conoscenza stessa e quindi il ruolo tradizionale dell’università è indebolito, questa è oggi nella I quaderni del CREAM , 2010, X 21 posizione di servire le finalità sociali più di un tempo in cui altre finalità erano premianti. Ma a questo punto un problema di fondo si pone: sino a qui – almeno da quando lo stato-nazione ha utilizzato l’università – i fini della stessa sono stati predisposti da entità esterne invece che dall’università stessa che quindi non utilizza appieno le sue risorse (Ivi, p.158). Sarebbe pertanto importante che l’università recuperasse quella dimensione cosmopolita che le è stata propria alle origini e che oggi con l’internazionalizzazione sempre maggiore della conoscenza e del suo utilizzo ritorna in primo piano. E dunque anche in questa prospettiva si evidenzia la indispensabilità dell’autonomia degli atenei. L’altro problema di fondo è ovviamente legato al riconoscimento da parte del mondo politico e di quello accademico della rilevanza di queste funzioni dell’università. Insegnare oggi Non è certo mio compito indicare a questo uditorio cosa e come insegnare nell’università oggi (ognuno deve fare il proprio mestiere, come si diceva una volta a Milano:“offelé fa el to mesté!”). Tuttavia mi è capitato in mano un numero della rivista “European Journal of Education”(n.1/2010) dedicato interamente al tema “Knowledge, Globalisation and Curriculum” che suggerisco di leggere e dal quale ho tratto un paio di spunti che indico qui di seguito: A livello internazionale i costruttori di curricoli e i ricercatori si trovano a doversi confrontare su cinque temi cruciali: 1. Come i curricoli devono rispondere alle pressioni economiche globali? 2. Una politica curricolare in che misura e come può affrontare i temi dell’ineguaglianza e delle persistenti ridotte acquisizioni conoscitive degli studenti svantaggiati? 3. Nonostante generali pressioni di tipo globalizzante, sino a che punto i curricoli nei diversi paesi devono continuare a riflettere specifiche tradizioni e finalità nazionali? I quaderni del CREAM , 2010, X 22 4. Le pressioni economiche globalizzanti suggeriscono/impongono curricoli più integrati per tutti gli studenti o curricoli che chiaramente distinguono tra coloro destinati all’istruzione superiore e coloro che molto probabilmente lasceranno la scuola per un’occupazione? 5. In che modo le politiche formative interpretano la base conoscitiva dei curricoli? Si viene infatti considerando come sia sempre più anacronistico fondare i curricoli su settori conoscitivo/disciplinari separati da confini ben definiti e, se così è, quali possono essere i nuovi princìpi fondativi dei curricoli? Questi interrogativi sono espressione dell’impatto della globalizzazione sui curricoli che comprendono l’enfasi posta sull’abilità di fare piuttosto che di conoscere, sull’essere flessibile, evitare i confini disciplinari, produrre cittadini competenti e in grado di autoregolarsi. Emerge altresì la tendenza a riunire nello stesso quadro curricoli generalisti e professionalizzanti. Si manifestano, nei vari saggi della rivista, dubbi sulla possibilità di trascurare le peculiarità delle diverse aree della conoscenza. D’altro canto, si discute molto delle modalità curricolari atte a ridurre le difficoltà degli studenti svantaggiati (sulla scia delle opere in particolare di Bernstein) e a tener conto del carattere multiculturale delle società moderne. Un aspetto cruciale appare infine quello della diffusione delle tendenze a ridurre l’importanza dei contenuti fondati su specifiche tematiche disciplinari in favore di collegamenti interdisciplinari. Questi approcci sembrano incentivati dalle politiche di diversi stati ma poco seguiti dalle scuole di élite (almeno in Inghilterra). Se questo “doppio binario” (scuole di élite e scuole “generiche”) dovesse diffondersi ne deriverebbero svantaggi per gli studenti non appartenenti alle élite che si troverebbero impreparati quando entrassero all’università (a meno che anche nell’università non si diffondesse questo nuovo tipo di curricoli e dunque spostando il problema a più alto livello: post-laurea, istituti di ricerca probabilmente privati). Il tema della interdisciplinarietà nei curricoli rimanda in fondo alla necessità di non separare l’acquisizione di conoscenza (il curricolo) dalla produzione di conoscenza (la ricerca). I quaderni del CREAM , 2010, X 23 Ma un altro tema sollevato è quello della collaborazione curricolare tra scuola secondaria superiore e università (sollecitato anche dalle crescenti percentuali, anche superiori al 50%, di passaggi tra il livello secondario e il terziario). I temi in discussione non finiscono qui ma non è possibile affrontarli tutti in questa sede. Per concludere mi sento di segnalare tre spunti per ulteriori approfondimenti: - dobbiamo capire meglio a cosa serve e a chi serve davvero l’università oggi (tenendo presente che non deve prevalentemente servire a noi docenti/ricercatori!); - dobbiamo in conseguenza saper cambiare, con convinzione e umiltà, le nostre funzioni professionali; - dobbiamo essere convinti che le riforme – del sistema formativo e dell’università – le facciamo (o non le facciamo) noi e non la normativa. In un paese abituato a credere che tutto si compia, nel bene o nel male, attraverso le leggi l’esperienza anche recente delle riforme nell’università ci dice che il vero cambiamento è prodotto dagli addetti ai lavori, cioè da chi deve mettere in pratica la normativa attraverso l’attività professionale: dunque dipende quasi tutto da noi. I quaderni del CREAM , 2010, X 24 Bibliografia Attali, J., (1998), “Rapport de la commission présidée”, in Pour un modèle européen d’enseignement supérieur, Paris, éd. Stock. Beck, U., 2000, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci. Halsey, A. H., (a cura), 1997, Education. Culture, Economy and Society, Oxford, Oxford University Press. Giddens, A., 1991, Modernity and Self-identity, Cambridge, Polity Press. Giddens, A., 1994, Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino. Melucci, A., 1996, Challenging Codes: Collective Action in the Information Age, Cambridge, Cambridge University Press Delanty, G., 2001, Challenging Knowledge. The University in the Knowledge Society, Buckingham, Open University Press. Readings, B., 1996, The University in Ruins, Cambridge, Mass. Harvard University Press. Barnett, R., 1990, The Idea of Higher Education, Buckingham, Open University Press. Barnett, R., 1999, Realizing the University in an Age of Supercomplexity, Buckingham, Open University Press. I quaderni del CREAM , 2010, X 25 ROBERTO MALIGHETTI, RUNA LAZZARINO1 VIOLENZA E LIMITE. CONVERSAZIONE SUL LAVORO DI RICERCA IN UNA FAVELA CARIOCA Ora, non c’è frase che non determini, vale a dire che non passi attraverso la violenza del concetto. La violenza si manifesta con l’articolazione. […] Perché si impone la frase? Forse perché, se non si strappa violentemente l’origine silenziosa a se stessa, se si decide di non parlare, la violenza più grave coabiterà in silenzio con l’idea della pace? (Derrida 1964) Pensare la violenza Malighetti. Il tema della violenza mette in gioco complessi nodi teorico-epistemologici comprendenti l’etica professionale e la scrittura. Se la sfida ironica dell’antropologia consiste, come sostiene Scheper-Hughes, nella ricerca di un senso in un mondo assurdo, tale impresa è particolarmente paradossale quando si cerca un metalinguaggio per parlare degli orrori ed emanciparsi da spiegazioni teoriche e discorsi normalizzanti colludenti con quelli del terrore che di essi si 1 Questo articolo collaborativo si fonda sul dialogo fra Roberto Malighetti, professore di antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, autore di una ricerca sull’impatto di alcuni progetti di cooperazione internazionale in una favela di Rio de Janeiro, e Runa Lazzarino, dottoranda in scienze antropologiche, fruitrice di alcune restituzioni testuali di questa esperienza: il diario tenuto sul campo (di cui si riportano in nota alcuni brani), la traccia dell’intervento al ciclo di lezioni organizzato da Stefano Allovio presso l’Università degli Studi di Milano, la relazione orale tradotta negli appunti della coautrice, un’introduzione a un’antologia di prospettive antropologiche sullo sviluppo (Malighetti 2005) in cui si fa un breve cenno agli esiti dell’indagine nella favela di Manguinhos. Analizzando questi materiali e la letteratura si è discusso il lavoro antropologico in una realtà urbana caratterizzata da forme diffuse di violenza, restituendo la forma dialogica del processo di riflessione e di scrittura. I quaderni del CREAM , 2010, X 27 alimenta (Sheper-Hughes 2005, p. 292). Si rimane prigionieri di ciò che Taussig ha definito epistemic murk (opacità epistemica), soprattutto se, oltre a raccogliere memorie della violenza, si è stati vittime della sua azione. Non è un caso che la letteratura antropologica, benché tradizionalmente interessata a realtà di estrema violenza, abbia ignorato la questione fino alla svolta interpretativa e riflessiva degli anni Ottanta e alle considerazioni dell’esperienza personale dell’etnografo e del processo di ricerca come elementi fondamentali della costruzione del significato e della sua restituzione testuale. Questi approcci hanno confermato l’impermeabilità della violenza all’ottimismo cognitivo e la sua resistenza agli sforzi di tradurre e rendere familiare l'estraneo e allo stesso tempo preservare e comunicare tale estraneità (Geertz 1983; Clifford, Marcus 1986) o, come sostiene Taussig citando Conrad, scoprire il velo senza annullare la qualità allucinatoria (Taussig 1984). Risulta estremamente complicato sottrarsi al rischio romantico di estetizzare ed erotizzare la violenza e l’orrore (Dei 2005; Avruch 2001) o di ridurli ai loro effetti pornografici e voyeuristici (Dei 2005, p. 18). Quelle poche volte in cui ho parlato della mia esperienza della violenza, la mia narrazione riusciva a sorprendere anche me stesso e ad acquisire un’autonomia che assumeva, mio malgrado, connotazioni eroiche o incoscienti. Anche per questo ho sempre preferito evitare gli effetti indesiderati di produrre nel mio interlocutore imbarazzanti fraintendimenti, soprattutto nelle narrazioni delle atrocità a cui avevo assistito o quando riconducevo parte delle motivazioni che portano il ricercatore a rischiare la vita, alle straordinarie capacità adattive di cui gli esseri umani sono dotati e che producono una forte confidenza di avere sotto controllo la situazione, essere in grado di controllare le scomode reazioni somato-psichiche del proprio corpo. Le reticenze e le difficoltà riflessive possono dunque essere considerate il precipitato di due pulsioni opposte. La violenza sfugge alla sua comprensione, sia attraverso l’adattamento e l’assuefazione che caratterizzano, sul campo, quella che altrove ho definito come malattia infantile dell’antropologismo che riesce a normalizzare l’esperienza, offuscando il pensiero (Malighetti 2004, p. 52); sia per il suo imporsi I quaderni del CREAM , 2010, X 28 in termini tanto esagerati e assurdi da impedire il pensiero e la razionalizzazione ex post. Lazzarino. Se l’etnografia della violenza è un’etnografia limite (Beneduce 2008), possiamo intendere questo termine in senso kantiano come separazione di ciò che è conoscibile da ciò che è escluso dal sapere, investendo il ruolo dell’antropologo e le dimensioni etiche e politiche della ricerca. In uno sforzo dialogico, abbiamo cercato di superare questi limiti, considerando la violenza come linguaggio, dispositivo per rendere pensabile, ordinabile e agibile il complesso contesto di esistenza e interazione dei soggetti, antropologo incluso, e fra questi e gli spazi della favela. Tuttavia, il limite di una etnografia della violenza – intesa come esperienza di ricerca e sua testualizzazione – traccia anche una separazione valicabile fra due, o più, coesistenti approcci al comprendere: uno ordinatore, cartesiano, tassonomico, linguistico e uno miasmatico, dionisiaco, trasgressivo e pre-linguistico. Non voglio assolutamente dicotomizzare i modi epistemologici, al contrario, tento di ampliarne la possibilità, de-etnocentrizzandoli.2 Malighetti. La problematicità nel pensare una realtà di estrema violenza come quella che ho incontrato in favela, dare forma razionale all’esperienza, superando il piano emotivo e traducendo la violenza in una narrazione coerente, ha prodotto forti resistenze a proseguire il lavoro.3 Ho trovato estremamente difficile svolgere questo compito da 2 “Parlavano della macelleria in favela, di come i narcotrafficanti squartino le persone in strada in mezzo a tutti e poi brucino i cadaveri. Dicono di aver visto passare, proprio ieri, una persona che spingeva una carriola con dentro un corpo da cremare nei pneumatici (tecnica chiamata microonda) […] Sparito il corpo, sparito il reato […] In serata è arrivata la notizia dell’uccisione di 7 ragazzi da parte della Polizia al Morro da Pedreira, praticamente fuori dalla casa di L. che, per questo, ha dovuto passare la notte nella sede del CCAP con figlia e moglie […] L. parla di esecuzione. Il clima nel morro [collina] era cupo. I narcos si stavano preparando all’offensiva obbligando tutto il morro a stare a luci spente, pronti a usare granate e bombe” (Malighetti R. Diario, 8/03/2003). 3 “Oggi la città di Rio è stata paralizzata. Sono stati incendiati 8 autobus nei punti strategici del traffico in modo da paralizzare la città, oltre che terrorizzare i quartieri di Ipanema e del centro con mitragliate e granate. Sono stati assaltati differenti supermercati […] Secondo la televisione il tutto è stato deciso da Fernandino Beiramar (capo del Comando Vermelho) dalla prigione per opporsi alla decisione di trasferirlo a Sao Paulo al fine di rendere più difficili i contatti con i suoi uomini. Come più volte minacciato, il Comando ha invaso città e imposto I quaderni del CREAM , 2010, X 29 un punto di vista antropologico, lontano dalle facili generalizzazioni, dall’individuazione di astratte strutture profonde (materiali, pulsionali o biologiche) o di rigidi universali empirici e vicino, invece, ai punti di vista degli attori sociali, ai loro corpi, alle loro soggettività, all’analisi del linguaggio delle atrocità e del ricordo. A parte un breve cenno in un testo (Malighetti 2005) non ho dato seguito scientifico alla permanenza in favela. Non ho cercato di cimentarmi nell’elaborazione di un testo, né ho mai trattato il tema pubblicamente, fino ad oggi, dopo più di sette anni da quell’esperienza. In un periodo limitato, fra i mesi di gennaio a marzo 2003, ho avuto l’incarico da una ONG italiana di valutare l’impatto di alcuni progetti di cooperazione internazionale realizzati dalla controparte locale, il CCAP (Centro de Cooperação e Atividades Populares), un’organizzazione composta da favelados che svolge la maggior parte della sua attività nell’insieme delle 13 comunità che compongono la favela di Manguinhos.4 Il prodotto scritto di questo la chiusura di negozi, scuole ecc… Pena l’attacco. […] A questo si aggiungevano i conflitti fra gli uomini del Comando Vermelho e del Terçero Comado che cercava di approfittare della situazione per conquistare territori […] elicotteri sopra le nostre case e Polizia ovunque. […] Ho il sentore che questa notte non si dormirà molto. Penso che la Polizia non potendo stare con le mani in mano, voglia fare azioni dimostrative” (Malighetti R. Diario,, 24/02/2003). “[…] Abbiamo visto molte persone correre per la favela con ogni ben di Dio, saccheggiato dai due ipermercati della zona” (Malighetti R. Diario, 25/02/2003). “[…] In Manguinhos (tutto chiuso) hanno assaltato il supermercato a 100m da casa […] e lo Shop America. È stato “liberatorio” vedere le persone di Vila Turismo (donne, uomini e bambini) correre verso le loro case con il “bottino” sulle spalle (carne, confezioni di Coca Cola, pacchi di riso, radio ecc. ecc.). Questo ha però prodotto l’inevitabile reazione della Polizia provocando una guerra che ci ha costretti tutti (io, L., E., I., I., B. e il povero L. un italiano venuto a intervistare I. e che aveva rinunciato a stabilirsi nella casa, ben più tranquilla, di B. a Flamenco per ragioni di sicurezza) a chiuderci nella sede del CCAP al buio privi di energia elettrica fino alle 22:00 quando timidamente ognuno di noi ha cercato di guadagnare la strada verso casa – non molto allegramente). Ieri, circa 800 uomini armati fra Polizia Civile e Militare (fonti giornalistiche). L. dice di aver contato 80 mezzi fra automobili e bus delle forze armate, più un paio di elicotteri con tanto di fucili spianati a volo radente). Hanno invaso Vila Turismo, casa per casa, saccheggiando, malmenando e portando in galera quanti potevano” (Malighetti R. Diario, 26/02/2003). 4 Secondo i dati IDH (Indice Sviluppo Umano) del 2001, Manguinhos, con 55.000 abitanti, registrava il 155° posto fra i 161 quartieri della città. Fra i dati elaborati dalla Secreteria Municipal da Saude i seguenti erano piuttosto significativi: il tasso di disoccupazione superava il 30% fra i giovani dai 18 ai 24 anni; il mercato informale occupava circa il 45% I quaderni del CREAM , 2010, X 30 lavoro ha avuto una forma e un contenuto determinati dalla circostanza e dalle richieste della committenza. Lazzarino. Vedersi calati in ambienti di una violenza estrema e permanente può portare lo studioso a un mutismo causato dal fatto che, come dice Beneduce, “la violenza assedia e soffoca il ricercatore con l’esuberanza dei suoi significati e delle sue immagini, appannando le fini lenti strutturali o ermeneutiche di volta in volta inforcate e mettendo a nudo – fino a smembrarli – gli oggetti” della ricerca antropologica, come l’identità, l’agency, la relazione globale/locale, e rendendo ostico il rispetto delle regole metodologiche (Beneduce 2008, pp. 13-14). Una proprietà della violenza sembra essere quella di far diventare porosi i confini, di confondere e contaminare fra loro luoghi e soggetti, di insinuare, smembrare e ricomporre appartenenze, territori, soggettività, istituzioni secondo logiche non univoche, non razionali e non ragionevoli. L’incapacità di mantenere una distanza di protezione, un filtro, provoca un impulso ad arretrare, a retrocedere in un silenzio imbarazzante.5 della popolazione; il reddito pro capite mensile era intorno a R$148,00 (all’epoca pari a poco più di 40 Euro). Circa il 30% delle abitazioni erano considerate irregolari, provvisorie e a rischio: approssimativamente il 20% non era rifornito di energia elettrica; circa il 20% non possedeva una rete fognaria e acqua potabile. Secondo i dati della scuola nazionale di Salute Pubblica della Fondazione Oswaldo Cruz del Ministero della Salute Federale, 80% dei decessi di giovani fra i 15 e i 18 anni erano dovuti a armi da fuoco. La media degli anni di scolarità da parte della popolazione delle favelas di Rio era di circa 4 anni. L’analfabetismo toccava circa un terzo della popolazione adulta. Circa il 15% dei ragazzi fra i 7 e i 14 anni era fuori dal sistema scolastico (Relatório de Desenvolvimento Humano do Rio de Janeiro, Rio de Janeiro, IBGE, 2001). 5 “L. racconta di esecuzione al muro di spioni ecc. o corpi poi fatti a pezzi con machete ecc. Tutto in strada. Puzza e terrore” (Malighetti R. Diario, 23/02/2003). “[…] Vivo costantemente nella preoccupazione e nel pensiero che qualcosa di violento mi possa accadere” (Malighetti R. Diario, 28/02/2003) “[…] Ieri la favela è stata nuovamente invasa dalla Polizia. Ho avuto qualche momento di paura. In realtà lo stress da violenza è sempre presente consumando parecchie energie. Determina la limitazione della propria libertà e delle capacità analitiche” (Malighetti R. Diario,, 06/03/2003). “[…] X parla molto e con naturalezza. Io cambio discorso perché ho paura che lui dica di aver raccontato una serie di cose che è meglio non sappia” (Malighetti R. Diario, 20/02/2003). “[…] Ho smesso di scrivere dei morti e dei feriti che continuano ogni notte perché fanno parte della “normalità “ (Malighetti R. Diario, 07/03/2003). I quaderni del CREAM , 2010, X 31 Malighetti. In quanto esperienza del limite la violenza chiama in causa il pudore a usare il dolore e i rischi derivanti dal sollecitare memorie traumatiche che spesso non si è preparati a contenere. La sua forza critica questiona anche la legittimità del lavoro etnografico oltre che le forme di scrittura adeguate a restituire la particolare tensione fra aspetti epistemologici, emozionali ed etici della ricerca. Abbiamo cercato di aggirare l’ostacolo utilizzando le narrazioni dei diari e la forma dialogica in termini complessi ad includere le interrelazioni dell’antropologo con una lettrice che condivide il linguaggio disciplinare. Lazzarino. Aver optato per una testualizzazione dialogica, che interpelli anche i pre-testi diaristici, riguarda precisamente il contesto specifico che ha permesso e incorniciato la permanenza del ricercatore sul terreno. Riguarda il suo vissuto particolare, l’eco soggettiva dell’esperienza stessa e le sue posizioni teoriche sulla ricerca antropologica, nonché il contesto di stridente violenza della sua esperienza. La testualizzazione delle conversazioni e degli scambi di materiale scritto intende allargare altresì il gesto di svelamento della negoziazione aperta e plurima del senso, come avviene sul terreno e durante la scrittura, anche all’atto della lettura, includendo chi condivide la costruzione del significato. Desidera, inoltre, stemperare l’egemonia autoriale, moltiplicando l’autorità etnografica e testualizzando una circolarità interpretativa ex post, dopo l’esperienza di ricerca e le sue traduzioni scritte. Non si aspira a un’impossibile morte dell’autore. Piuttosto si intende esibire la sua ingombrante incidenza come soggetto vivo, inserito in un tempo e in una molteplicità di ambiti, ruoli e posizioni. La molteplicità delle forme di testualizzazione è consustanziale alla poliformità dei gesti di inscrizione dell’identità autoriale di ricercatore. L’identità dello studioso è un processo che si snoda e riposiziona costantemente attraverso le diverse modalità di messa per iscritto di pratiche e teorie, di interpretazioni e intendimenti, di vissuti e argomentazioni. Malighetti. Nel gioco fra codici disciplinari, intenzionalità, strategie metodologiche e attribuzioni identitarie, l’autorità fondata sull’appartenenza alla comunità scientifica autorizza l’etnografo sul campo e legittima la sua funzione di autore: seleziona la pertinenza dei discorsi I quaderni del CREAM , 2010, X 32 nei rapporti con i differenti interlocutori, ne determina la traducibilità nel linguaggio disciplinare e nelle specifiche pratiche di scrittura (Malighetti 2007, pp. 91-106). In tal senso l’accesso all’Altro è sempre mediato dalla propria ontologia, dalla propria appartenenza a una comunità linguistica e storica (Ricouer 1965; Gadamer 1965), come anche dai propri posizionamenti sia teorico-metodologici, sia eticopolitici, economici e spaziali. L’osservazione della partecipazione (Tedlock 1991) richiede di prendere in esame tutto quell’insieme complesso di sentimenti, qualità e occasioni che fondano la specificità del metodo di lavoro antropologico. La negoziazione sul campo é influenzata dalla storia personale del ricercatore, dalla sua personalità, dal suo orientamento teorico, dal suo ruolo istituzionale, come anche dal suo coinvolgimento emotivo, politico e ideologico e dalle differenti circostanze che incontra. Queste, a loro volta, sono determinate dalle caratteristiche degli interlocutori, della comunità e del contesto generale. Lazzarino. Si intende esibire l’ingombrante incidenza dell’autore come soggetto vivo, inserito in un tempo e in una molteplicità di ambiti, ruoli e posizioni. La molteplicità delle forme di testualizzazione è consustanziale alla poliformità dei gesti di inscrizione dell’identità autoriale di ricercatore. L’identità dello studioso è un processo che si snoda e riposiziona costantemente attraverso le diverse modalità di messa per iscritto di pratiche e teorie, di interpretazioni e intendimenti, di vissuti e argomentazioni. Si aspira, altresì, a gettare uno sguardo sulla frammentarietà dei luoghi di soggettivazione assunti dall’autore, su come questi si riflettano nei momenti di oggettivazione scritturale, nei contesti della professione e della sua legittimità e legittimazione. Malighetti. A Manguinhos alcuni attivisti del CCAP, nel corso di una riunione in cui fui invitato a illustrare il senso del mio lavoro, attaccarono direttamente il mio posizionamento, la legittimità e il mio diritto a fare ricerca e a parlare della drammatica situazione della favela, appellandosi all’inconsistenza militante del mio impegno e all’ambiguità dei miei interessi. A queste obiezioni contrapposi la natura del mio contributo “pratico”, fondato necessariamente sul linguaggio teorico specifico della disciplina. Questo know-how fu illustrato – in un modo apprezzato da alcuni per la sue potenziali quali- I quaderni del CREAM , 2010, X 33 tà analitiche e di guida all’azione ma avverso da altri in nome di un attivismo che si imponeva in modo immediato ed emergenziale – come concentrato all’elaborazione di strumenti analitici miranti al raggiungimento di una comprensione diversa rispetto all'immediato intendimento degli attori sociali e fondata su tale eterotopia (Hastrup 1993; Malighetti 2008). La praxis si basa sul “punto di vista del nativo” ma non è riducibile ad esso, ad una romantica pretesa di uguaglianza empatica, ad un’imbarazzante assunzione della delega, più o meno arbitraria, a rappresentare la parola degli interlocutori in una difficile orchestrazione polifonica (Sluka 1989; Robben 1995; Sheper-Hughes, Bourgois 2004), in un’oggettiva neutralità (Mahmood 2001) o in un imbarazzante linguaggio pidgin. Questo dovrebbe essere tanto evidente nelle interviste alle vittime quanto a quelle ai carnefici (Robben 1995; Dei 2008, p. 20; Malighetti 2008, p. 93). La qualità del contributo antropologico, anche militante o al servizio della testimonianza, consiste precipuamente in una comprensione che traduca il linguaggio privato dei nativi nel linguaggio pubblico e specializzato della scienza, i “concetti vicini all'esperienza” nei concetti “distanti”, le categorie interne in quelle esterne, le nozioni emiche nelle nozioni etiche, i discorsi anormali nei discorsi normali, quelli non-standard in quelli standard. Parafrasando Wittgenstein si potrebbe dire che l’importante è considerare non l’agire o il militare in astratto, ma l’agire o il militare come, in modo da non sopprimere la rilevanza del farlo come antropologo. La tribalizzazione delle favelas Malighetti. La favela è oggetto di stereotipi egemonici che lavorano congiuntamente e in modo apologetico alla marginalizzazione delle vite dei favelados. Sono alimentati dalle immagini di violenza che la identificano come un mondo a parte, confinato geograficamente e simbolicamente, dominato da poteri paralleli. Queste rappresentazioni che attribuiscono alle favela l’epicentralità di tutte le forme di violenza della città, legittimano, identificandola in termini discreti, la giurisdizione del I quaderni del CREAM , 2010, X 34 narcotraffico come anche la repressione violenta e il superamento dei principi del diritto da parte delle forze ufficiali dello Stato. La combinazione fra restrizioni materiali essenziali, l’implementazione di politiche pubbliche speciali, la criminalizzazione del territorio, la demonizzazione della povertà e la violenza esercitata dai poteri armati, costituiscono dispositivi di confinamento e di apartheidizzazione delle favelas, come territori di eccezione (Brasil Bueno et al. 2010).6 Lazzarino. La costruzione della favela come una sorta di isolato etnico, appiattito su un omogeneo stile di vita criminale sostenuto dai media e dallo Stato, è un dispositivo di confinamento strategico della violenza e di riduzione della realtà sociale favelada a una criminalizzazione indiscriminata che si vorrebbe circoscrivere e contenere. Questo iconismo che stigmatizza, territorializza e omogeneizza è funzionale a un’oggettivazione alienante di ciò che si vuole rendere estraneo (Defert 1996). La violenza di queste raffigurazioni stereotipate funge da dispositivo di segregazione, destoricizzando e depoliticizzando. Malighetti. Scontri con armi da guerra fra gruppi di narcotrafficanti che controllano il territorio e fra i narcotrafficanti e le forze di polizia contrassegnano la situazione. In generale, i numeri delle vittime della violenza sono comparabili con quelli dei conflitti più conosciuti che mobilitano l’apparato emergenziale degli organismi nazionali e internazionali (Dowdney 2003, pp. 80-119; Malighetti 2005, p. 28). I diversi gruppi criminali, esistenti (Comando Vermelho, Terçero Comando, Amigos dos Amigos) sono fra loro in competizione per accaparrarsi fette di mercato con la forza del proprio arsenale militare.7 6 “Il taxista ha esitato a credere che stessi andando dentro la favela di Manguinhos, accompagnando con commenti fatalistici e umoristicheggianti la, per lui improbabile, mia destinazione. Non ha voluto entrare, lasciandomi sul confine […] Canale di fognatura con una puzza spaventosa, un posto di polizia che non bisogna nemmeno vedere, facce che ora salutavano L. ora lo guardavano “molto seriamente”. Non ho notato nessuna meraviglia per la mia presenza. O sanno che il CCAP ospita stranieri oppure proprio non vedono, non sentono e non parlano. O più semplicemente il loro fatalismo li porta a fregarsene. […] Io dovevo solamente adattarmi a non vedere e sentire e non farmi trovare in mezzo a un eventuale tiroteiro [scontro a fuoco]” (Malighetti R. Diario, 12/12/2003). 7 Il narcotraffico presenta una struttura gerarchica ben definita, capillare sul territorio. Alla base vi sono le sentinelle (fulgeteros e olheros) che costituiscono il livello di entrata nel giro. I quaderni del CREAM , 2010, X 35 Il controllo del territorio è fondamentale ai fini del profitto: un territorio più ampio significa più punti vendita, più popolazione passibile di estorsione e più consumatori dei servizi monopolizzati dal crimine. L’unico ingresso a Manguinhos era controllato da macchine da guerra (Deleuze, Guattari 1980) attraverso una pesante colonna di metallo da sollevare e ricollocare, sotto il controllo vigile delle sentinelle, in modo da impedire il libero flusso di entrata e uscita. Gli spazi vengono così difesi e marcati con l’imposizione di ostacoli fisici costruiti dai gruppi criminali, rimozioni da parte della polizia, e altre forme di appropriazione dei territori.8 Lazzarino. Il terrore, provocato dalla pervasività e imprevedibilità della violenza e della morte, “oscura in modo sistematico i confini tra gli spazi e i tempi della guerra e quelli della pace” (Appadurai 2005, p. 87; Mbembe 2003). Lo stato di guerra quotidiana sembra strutturare l’ordinario intorno alla pratica e alla prospettiva della violenza e della violazione. Se l’essere-per-la-guerra delle società primitive di Clastres (1997) ha “l’effetto tattico” di instaurare lo scambio, in contesto Non armati, avvisano, utilizzando lo scoppio di petardi (fulguetes), dell’arrivo della Polizia o di gruppi nemici. Ad un livello superiore ci sono i venditori (vapores per la loro rapidità a dileguarsi) alle bocas da fumo, piazzatte dove vendono direttamente cocaina e marijuana. Successivamente la sicurezza (segurança), soldati di 12-16 anni, armati; il gerente local (direttore locale) un giovane che gestisce lo smercio della droga e i suoi prezzi; il gerente geral (direttore generale) che amministra la droga, i profitti, e paga i livelli inferiori; il dono (proprietario) della favela che può comandare più favelas, e infine il Chefe (capo) del comando che comanda vari donos e varie favelas (Dowdney 2003). 8 “L. mi ha portato a fare una passeggiata per la favela mentre decidevamo dove mettermi a dormire. Mi racconta delle bande contrapposte per il controllo del territorio secondo logiche di una mafia in via di sviluppo. Non vedere, non sentire e non parlare è la principale regola di un gioco gestito con la politica del terrore. La divisione territoriale in bande […] impedisce di pronunciare il nome delle favelas rivali […] Al ritorno L. mi ha suggerito di fare un’atra strada, Av. dos Democraticos, grande e trafficata che delimita la favela, per evitare di farmi trovare in mezzo a un eventuale tiroteio in stradine che rendono difficile schivare gli eventuali proiettili. Al rientro in favela abbiamo visto un insolito posto di blocco della polizia in mezzo alla gente che non faceva presagire nulla di buono. In realtà non è successo niente. L. racconta che la strategia della tensione prevede anche un controllo del territorio che gestisce le dispute e mantiene le regole del gioco. Avrebbero saputo presto della mia presenza e non avrei corso alcun pericolo. La struttura gerarchica che si sta strutturando non ama gesti indipendenti fuori dal suo controllo” (Malighetti R. Diario, 12/02/2003). I quaderni del CREAM , 2010, X 36 favelado l’essere-per-la-violenza genera invece una competizione feroce che pare autoalimentarsi indefinitamente tramutandosi in una saga sanguinaria. Analogamente alla situazione dei ghetti neri americani descritta da Wacquant (2008), la “depacificazione della vita quotidiana e il deterioramento dello spazio pubblico” sono gli aspetti più drammatici della favela. Anche nel ghetto, la violenza endemica della polizia, oltre alla sua incapacità di garantire protezione, contribuisce a creare una condizione di violenza e paura generalizzata e l’omicidio è fra le prime cause di mortalità.9 Malighetti. L’esercizio indiscriminato della violenza omologa polizia e narcotraffico, rendendoli sovrapponibili, ugualmente temibili e collusi. Unica forma della presenza statale, le forze dell’ordine radicano e accreditano presso la popolazione, la concezione delle istituzioni come poteri arbitrari, corrotti e violenti. Adottano pratiche di esecuzioni sommarie e aggressioni agli abitanti, promuovendo un clima di terrore congruente con le proprie strategie di concussione. Le forme di corruzione includono la compravendita di armi, lo scambio di prigionieri e cadaveri, la suddivisione del profitto del narcotraffico e di altri beni del patrimonio pubblico e privato. Lazzarino. L’interventismo militare del potere pubblico soddisfa una società civile ansiosa di punizioni esemplari che non superano la 9 “Mentre parlavamo sulla porta del CCAP è passata per la strada asfaltata ma dissestata e piena di buche un’automobile della Polizia (un fuori strada Chevrolet) con il poliziotto a fianco del guidatore che aveva la canna del fucile mitragliatore appoggiata sullo specchietto pronta a far fuoco. Il salto dell’automobile in una buca ci avrebbe freddati tutti e quattro, L., io, una ragazza della fondazione Osvaldo Cruz e il maestro di Capoeira del Centro. Mi hanno spiegato che questa non era un’inutile manifestazione di machismo militare, ma la conseguenza di una guerra che produce imboscate. Abbiamo poi saputo che quei due militari hanno sparato nelle gambe a un ragazzino colpevole di aver avvisato i suoi “amici” con alcuni petardi dell’arrivo della polizia. Il racconto della donna di servizio del CCAP diceva che i poliziotti dopo avergli sparato hanno sollevato il ragazzo prendendolo per la gamba colpita in una feroce tortura. Quando ho chiesto se questo avrebbe prodotto una risposta violenta dei narco, mi hanno detto che ciò non sarebbe avvenuto immediatamente. Si trattava di un episodio di una guerra che avrebbe causato, alla prima occasione e al primo incontro una nuova sparatoria. L. mi diceva che il narcotraffico si sta organizzando per controllare il territorio, in tutti i sensi” (Malighetti R. Diario, 12/02/72003). I quaderni del CREAM , 2010, X 37 soglia dell’emergenza e dell’eccezionalità. Di fronte alla spettacolarizzazione della violenza prevalgono la condanna e lo scandalo con un effetto di depoliticizzazione immediata. La violenza rumorosa va ridotta, non interrogata. Questo contribuisce all’aumento della violenza, consegnando la favela alle attività delle bande criminali. La favela oscilla fra eccezionalità rappresentazionali interne ed esterne che vivono nel paradosso di essere contemporaneamente quotidiane e speciali, basate sull’esercizio della violenza come strumento pervasivo ed efficace di territorializzazione. In questo senso, la violenza, in quanto pratica e discorso, può essere impugnata come dispositivo egemonico e ideologico capace di radicare, circoscrivere e ordinare.10 In maniera non dissimile da quanto accade nei campi profughi, le favelas sembrano condannate a un’ossimorica provvisorietà permanente in quanto zone definitivamente temporanee (Rahola 2003). Rispetto ai contesti di rifugismo, però, qui non è la “sovranità mobile” (Pandolfi 2005) dell’umanitario a perpetuare un’eccezionalità territorializzata, bensì l’esercizio della violenza da parte del narcotraffico e della polizia, alimentata dalla sua rappresentazione mediatica ufficiale. Non solo in termini infrastrutturali, ma anche in quelli ancora più concreti e politici di sopravvivenza, tale violenza radica le vite di milioni di persone a un territorio che restituisce unicamente precarietà. Malighetti. L’apparato extra ordinem delle leggi speciali nei confronti delle favelas produce una sovranità definibile, come sostiene Carl Schmitt, come il potere di sospendere legalmente la validità della 10 “Nella pausa pranzo L. parlava ancora del narcotraffico. Diceva di essere curioso di vedere quanti morti avrebbe prodotto il ritiro della Polizia, dopo alcuni giorni di occupazione, dalla favela Morro de Lagartixa (dove si svolge gran parte delle attività del CCAP). Diceva infatti che tale occupazione, avendo prodotto il ritiro e quindi il ritorno dei narcotrafficanti, causava, come sempre in questi casi, delle forme di vendetta da parte dei narcotrafficanti per coloro che sospettavano di aver collaborato con la Polizia. Alcune persone (anche commercianti) sono state colpite in vario modo per aver offerto anche solo il bagno ai poliziotti. Innescava inoltre un meccanismo di fuga da parte di coloro che sospettavano di essere i successivi ad essere giustiziati” (Malighetti R. Diario, 18/02/2003). “È famoso il caso di un giornalista ucciso dai vapores (sentinelle) […] YET qualche volta la struttura gerarchica non funziona. Il giornalista era ben conosciuto, stava facendo il suo lavoro. Per questo ragazzi sono stati puniti e bruciati nel microonda insieme al corpo giornalista” (Malighetti R. Diario, 20/02/2003). I quaderni del CREAM , 2010, X 38 legge e i fondamenti giuridici, esercitando un dominio arbitrario senza alcuna mediazione (Schmitt 1921; Agamben 2003). L’inversione del rapporto tra regola e emergenza finisce con lo standardizzarsi e diventare una modalità consuetudinaria e mobile del contratto sociale (Benjamin 1955). Introduce un effetto perverso di continuità e ubiquità dell’emergenza, congruente con le strategie dei poteri che possono trarre profitto dall’universalizzazione di tale stato. I dispositivi emergenziali permettono, inoltre, di trasfigurare i problemi sociali in questioni tecniche legittimate dalla performatività e dall’efficacia e giustificano l’imposizione di norme arbitrarie in maniera totalizzante a discapito di modalità alternative di intervento. Alimentano i meccanismi garanti l’ordine, la stabilità e la sicurezza, estendendo quella che Giorgio Agamben definisce la zona grigia di operazioni militari giustificate come operazioni umanitarie che sottraggono autonomia e libertà agli attori civili (Benjamin 1955). Mentre la legge pensa in termini di individui e di società, cittadini e stato, il dispositivo dell’emergenza permette di ragionare in termini di entità astratte, da identificare, censire e quantificare. La dimensione biopolitica evidenzia le drammatiche condizioni giuridico-politiche dei rapporti fra Stato e individui: in nome della sicurezza o dei diritti umani, i cittadini sono trasformati in semplici corpi o nuda vita (Agamben 1995). Territori liberi Malighetti. La violenza estrema e spettacolare è usata per produrre quello che Appadaurai (1998) ha definito “adesione totale” e che Gourevitch ha descritto, a proposito del genocidio in Ruanda come “pratica di costituzione della comunità” (Gourevitch 1998). È una tecnica per “immaginare una comunità” (Hayden 1996; Anderson 1983; Malighetti 2009) che permette di identificare concretamente le astratte categorie identitarie, attribuite a un improbabile idem da governare e, nel contempo, ad un alter come nemico da pseudo-speciare (Erikson 1966) e da mutilare: dell’umanità, dei diritti, della cittadinanza, I quaderni del CREAM , 2010, X 39 della vita o anche di parti del corpo, esibite come segno tangibile della negazione della sua devianza (Feldman 1991; Malkki 1995; Hayden 1996; Herzfeld 1997; Appadurai 2005; Mbembe 2003, p. 71). Il potere totalizzante del narcotraffico usa l’identità come tecnologia di dominio centralizzato e per esercitare una sovranità eugenetica contro le minacce provenienti da fattori esogeni ed endogeni (Daniel 1996; Desjarlais, Kleinman 1994; Nordstrom 1997; Tambiah 1996). Si impone e supera quello dello Stato ridotto a potere parallelo a cui è sottratto non solo il monopolio della forza. Tale potere configura strategie che assumono le figure contrastive della chiusura e della minaccia e implicano differenti modalità di katharsis che purifichino dallo sporco interno e dalla contaminazione esterna impedendo il cambiamento (Remotti 1995; Appadurai 2005). La costruzione dell’alter come minaccia comporta il sospetto verso ciò che potrebbe sfuggire al controllo: la polizia e lo Stato, gli estranei e i devianti, sono considerati sovversivi rispetto al rapporto fra totalità e confine e divengono i primi obiettivi della violenza. Da un lato lo Stato accoglie le preoccupazioni di una parte della società brasiliana riguardo al posto che dovrebbe ricoprire l’altra. Come nel caso dei bambini di strada analizzati da Scheper-Hughes (2002) la percezione delle favela risulta da una polarizzazione del timore sociale che usa la svalutazione della vita umana. Invertendo il nesso di vittimizzazione, le classi dominanti richiedono la tutela degli interventi violenti da parte del potere pubblico. D’altro canto i narcos ricorrono a forme di violenza esplicita per acquisire un forte grado di agency nella gestione del potere che si realizza per mezzo del terrore e che esprime, in termini foucaultiani, una sovranità fondata sul biopotere di decidere la vita e la morte. Una regolare esibizione di violenza è necessaria per funzionare economicamente e politicamente.11 11 “Ho conversato con X sui narcos, ragazzi cresciuti con lui e quindi suoi amici. Mi ha detto che il capo, della favela Vila Turismo, (Y 22 anni) […] il primo giorno – prese informazioni su di me, raccomandando a X di dirmi di stare attento alla Polizia […] X dice che la violenza crudele è richiesta dal ruolo di controllo e di rispetto delle regole […] Esclude l’ipotesi che i ragazzi possano prendere iniziative non decise al vertice. Tutto quindi è sotto controllo. Le I quaderni del CREAM , 2010, X 40 Lazzarino. Secondo lo stesso principio che informa il discorso identitario essenzialista e territorializzante, il paradigma dentro/fuori ha un’utilità strategica molteplice, non ultimo di ordine politico, sia per quei soggetti che decidono di pensarsi dentro, sia per chi decide di appartenere al fuori (Spivak 1999). Il fatto che sia le rappresentazioni esterne sia le auto-rappresentazioni delle pratiche all’interno di questa arena di attori si articoli secondo la logica del dentro/fuori, è frutto di una necessità ordinatrice di contenimento e occultamento delle transgressioni e contaminazioni costanti. Lo Stato si sforza di marginalizzare e rinchiudere. Il narcotraffico, nella sua lotta costante per il controllo di territori che fisicamente amministra e circoscrive attraverso l’esercizio concreto del potere, radica la propria identità allo spazio del non-asfalto. In questo gesto brutale di territorializzazione, incessantemente ribadito, l’identità del narcotraffico si esibisce come immediatamente coincidente e inscindibile da quella della favela. La manifestazione violenta del potere, in entrambi i casi, concretizza con forza le categorie identitarie. Sembra che il narcotraffico riesca anche a utilizzare il malessere della popolazione, effetto di una lunga storia di discriminazione, per le sue tecniche di assoggettamento. Dal diario emerge che le motivazioni che portano a entrare nel narcotraffico sono evidentemente anche di ordine sociale. Oltre al fatto che il narcotraffico operi attraverso i legami di parentela, esso promette e impone protezione, appartenenza a una comunità nonché aiuti e benefici concreti. Si sostituisce a un potere pubblico assente nelle sue manifestazioni non violente.12 attività principali sono rapine e traffico della droga. […] Qui in favela non si possono trasgredire le regole, se non rischiando molto” (Malighetti R. Diario, 18/02/2003). 12 “Abbiamo avuto modo di incontrare il capo del narcotraffico che controlla 2 favelas […]. Un ragazzo di circa venti anni, molto razionale, in moto con una grande pistola nei calzoni […] Era naturalmente al corrente della mia presenza in favela. Sembra che apprezzino il lavoro del CCAP, e quindi anche il mio. Come una sorta di “sindaco” comprende che molti interventi del CCAP (soprattutto le infrastrutture, gli asili nido e le scuole) sono utili ai membri del suo territorio, comprese le famiglie di narcos […]” (Diario, 14/02/2003), “[…] Ieri andato a Baile Funk. Bambini armati (segurança). Grandi odori di erba e vendita di coca (sacchetti impressionanti per le dimensioni). Una dose = 1 R$. Una birra = due R$. Molto a buon mercato […] Venivano da tutti i posti. Bambino con fucile. Grasso e pieno di problemi. Yet con mitragliatore” (Malighetti R. Diario, 23/02/2003). I quaderni del CREAM , 2010, X 41 Malighetti. La risposta quasi esclusivamente militare da parte dei pubblici poteri e la politica del confronto armato genera un forte odio collettivo verso le forze dell’ordine e contribuisce a spingere i giovani verso le organizzazioni criminali, identificate come mezzo per combattere l’ingiustizia. A volte giungono a provocare forme di solidarietà e simpatia della popolazione nei confronti dei criminali, considerati meno arbitrari delle Polizie nell’esercizio della violenza. In quelli che i narcos chiamano territori liberi, il traffico esercita potere legislativo, esecutivo e giudiziario, amministra possibilità di lavoro e aiuti economici e gestisce anche il tempo libero con attività ricreative. Recluta i propri membri garantendo un accesso rapido a capitali materiali e simbolici: vestiti, droghe, armi, prestigio, potere e popolarità. Tuttavia, l’accesso a questi beni è scarso ed effimero, dal momento che non permette di mettere in atto un cambio di vita radicale, accumulare risorse per intraprendere attività lecite. E la prospettiva della morte è molto reale.13 La microfisica e l’invisibilità con cui la violenza si radica nella vita sociale e nelle istituzioni possiedono una capacità generativa. Producono relazioni sociali, pratiche, economie, politiche, habitus. Organizzano la vita della comunità, diventa il nomos dello spazio politico, soprattutto laddove il potere pubblico è presente solo nelle sue forme perverse (Mbembe 2003, p. 51; Wacquant 1992; Bourgois 2008).14 13 “X aggiunge che Y (capo di Manguinhos), sebbene capo, non si arricchisce, vittima delle truffe del traffico e dalla necessità di pagare tangenti alla Polizia (una volta che era stato preso ha dovuto pagare 20.000 R$ per non essere portato in prigione) […] Mi spiega i percorsi della droga e come i trafficanti di favela, a tutti i livelli sono veri e propri poveri diavoli, destinati a rimanere tali, senza possibilità di progressione di carriera. Vengono arresati e poi smettono, oppure vengono uccisi dalla polizia o dalle bande rivali, se non dagli ex-amici. I soldi rimangono nelle mani dei grandi trafficanti che vivono a Ipanema e Copacabana […] Ha accennato al fatto che l’identità dei trafficanti si fonda sul concetto di rispettabilità e non tanto sui soldi” (Malighetti R. Diario, 20/02/2003). 14 “La favela di primo acchito mi ha ricordato un villaggio del nordeste. Case fatiscenti in muratura, gente per le strade, botteghe (Malighetti R. Diario, 12/02/2003). “[…] Inizio a muovermi con disinvoltura nelle favela che è un vero e proprio villaggio o una comunità. Relazioni di vicinato, economia informale, solidarietà reciproca ma soprattutto diritto consuetudinario e regole da rispettare. Ci si dimentica di essere a Rio. O, meglio, Rio è questo per 1/3 della popolazione” (Malighetti R. Diario, 13/02/2003). “[…] inoltrandoci nel labirinto I quaderni del CREAM , 2010, X 42 Lazzarino. Il frastuono carnale della violenza di cui la vita quotidiana in favela è pregna assorda lo sguardo muto della ragione occidentale e fa saltare le logiche binarie dell’ordine geo-politico della modernità. Attraverso la violenza, nella complessificazione ad infinitum delle questioni etiche e nella loro imbricazione totale in una quotidianità problematica saltano le rassicuranti tassonomie di appartenenza, senso e valore. La violenza, sotto un’ottica generativa, e soprattutto quella con storica profondità, contribuisce a produrre nuove forme di significazione di sé e della collettività che restano per lo più ignote. La rumorosità della vita quotidiana in favela può essere considerata esteticamente proporzionale alla brutalità assordante dei delitti che vi si consumano. Allo stesso tempo, i vissuti di normalità possono essere letti come riposizionamenti di resistenza dei soggetti nei confronti di un regime di violenza territorializzante. L’opposizione della favela alla realtà di violenza che ogni giorno la attende sembra possibile solo se accompagnata da una violenza sonora equivalente. La violenza acustica evoca una volontà contro-egemonica che sorge in pratiche cariche di una vitalità eccessiva. Malighetti. Banditi dai diritti, ostracizzati e discriminati dagli abitanti dell’asfalto, i favelados hanno storicamente trovato in favela spazi di socialità, solidarietà e convivialità. Questo “ordine precario” si fonda su forme di rimozione che permettono di vivere la quotidianità e di “normalizzare” la situazione attribuendo un senso che tuttavia può crollare in ogni istante (Taussig 1989, p. 11; Vargas 2008, di stradine della favela, un metro di larghezza a dividere case molto vicine. Case dotate di tutto: la mia ha cortile interno […] Televisione a colori, impianto stereo […] prima di venderlo aveva anche il computer (c’è ancora la stampante e il modem). Ho potuto vedere come la società della favela sia estremamente stratificata al suo interno. Io vivo nella parte migliore. L. mi ha portato fra le abitazioni di cartone e costruite con pezzi di legno arrangiati come possibile, sulle rive di un fiume che è una fogna a cielo aperto che emana una puzza nauseante […] Feste di compleanno, gente sulla porta di casa a cantare e suonare, i ragazzi del narcotraffico con le moto ad alta velocità che tagliano pericolosamente le stradine suonando il clacson ed esortando le persone di mettersi miracolosamente in salvo […] La vita è nella strada: calcio, ecc. […] Un casino enorme” (Malighetti R. Diario,, 14/02/2003). “Ore 9:20 a favela si sta svegliando e allora grande casino. Televisioni, stereo ecc, tutto sempre a canna […] Casino aumenta. Ora anche la vicina chiesa evangelica. Non riesco più a scrivere” (Malighetti R. Diario, 23/02/2003). I quaderni del CREAM , 2010, X 43 p. 218). Produce uno stato di “sdoppiamento del soggetto sociale” che si manifesta anche nella simultanea presenza, negli attori sociali, sia del desiderio, generalmente irrealizzabile, di abbandono delle favelas, sia di un forte adattamento alla vita comunitaria. L’analisi fornita dal piano di sviluppo urbanistico del complesso di Manguinhos, deciso dal potere pubblico federale, indica che gli abitanti della favela, sebbene considerino la paura della violenza il principale motivo per desiderare il cambio di residenza, ritengono, nel contempo, che la calma e la tranquillità del luogo sia il principale motivo per continuare a vivere a Manguinhos. Riporta altresì che il 70% degli abitanti è soddisfatto di risiedere nel luogo (Soares et al. 2010). La centralità dei margini Lazzarino. Contemporaneamente al suo uso come dispositivo al servizio di una logica dentro/fuori territorializzante e identitaria, la violenza è il fattore collante che consente, forza ed esalta gli sfondamenti dei confini e le sostituzioni fra i luoghi/soggetti15 in questione: favela, antropologo, narcotraffico, polizia, CCAP. Essa si manifesta come un regime di verità produttivo, un biopotere tecnico (Foucault 1976), oltre che un mito naturalizzante il cui significante offusca il significato (Barthes 1957). Agisce in questo scenario composito e mobile come l’“operatore totemico” di Lévi-Strauss (1962) o “la casella vuota dell’oggetto = x” di Deleuze (1973). Il primo dilata il senso di appartenenza al gruppo ristretto e permette di trascendere le opposizioni. Il secondo consente alle serie di muoversi e di comunicare fra loro, attraversandole e circolandovi continuamente. La violenza non informa e banalmente accomuna i campi, o serie, 15 Il termine luoghi/soggetti è usato per sottolineare la co-appartenenza dei due termini e la dinamicità processuale che li contraddistingue. Permette di affermare che senza interazione non vi è luogo e che le interazioni si danno sempre in una cornice spaziale, cornice che individua inevitabilmente dei luoghi. Il binomio è stato inoltre formulato per designare gli attori sociali colti in una dimensione spaziale inscindibile da quella personificata di soggetti attivi. Sia l’antropologo, sia la favela, cosi come la cooperazione, il narcotraffico e la città possiedono una corporeità mobile, metastatica e porosa, un’agentività e un ruolo I quaderni del CREAM , 2010, X 44 che si intersecano e respingono, della favela, del narcotraffico, delle autorità, dello studioso e del CCAP. Se questi ambiti, che la violenza, come l’oggetto = x, percorre, “presentano degli spostamenti relativi” l’uno rispetto all’altro, “ciò accade perché i posti relativi dei loro termini nella struttura dipendono innanzitutto dal posto assoluto di ciascuno”, in ogni momento, rispetto all’elemento della violenza “sempre circolante, sempre spostato in rapporto a se stesso”. La violenza “nella sua ubiquità, nel suo perpetuo spostamento, produce il senso in ogni serie, e da una serie all’altra, e non cessa di spostare le due serie” (Deleuze 1973, p. 48-50) disegnando una temporalità storica profonda. Malighetti. L’analisi della violenza può essere utilizzata, in modo contrario alle ideologie egemoniche, per contraddire gli inefficaci tentativi di imporre un ordinamento discreto e segregazionista e la promozione di marginalizzazioni fondate su dualismi semplici (dentro-fuori, centro-periferia, globale-locale). Le forme di criminalità esistenti possono essere considerate l’esito di antiche forme di esclusione da diritti e da servizi che lo Stato non ha mai garantito né realizzato per la maggior parte della popolazione. La precarietà delle condizioni di vita, l’emarginazione e la povertà appartengono a logiche economiche e politiche globali, comprensibili come violenza strutturale (Farmer 2003). Fondato sulla tratta degli schiavi, lo sviluppo capitalistico del Brasile si è costruito sulla frontiera fra esclusione e inclusione, garantendo diritti e prosperità a quella parte minoritaria della popolazione che ha accumulato ricchezze e privilegi attraverso lo sfruttamento della maggioranza. Ai contingenti di ex-schiavi e ai migranti che arrivavano a Rio de Janeiro a cavallo fra i secoli XIX e XX, era di fatto negata la cittadinanza, così come ai protagonisti del consistente flusso migratorio del dopo-guerra dalle aree del Nord e Nordest, precipitato delle politiche di sviluppo a favore del Sud (Martins 2002). Questo esercito industriale di riserva (Marx 1867), confinato inizialmente nelle parti più alte dei morros e nelle periferie, svolgeva una funzione necessaria al regime lavorativo, principalmente come mano d’opera a basso costo. Le favelas storicamente hanno svolto un ruolo di ghetto, agglomerando individui indispensabili al funzionamento della città, soggetti I quaderni del CREAM , 2010, X 45 integrati economicamente ma impediti all’esercizio della piena cittadinanza. L’esclusione dei diritti prodotta da un inclusione limitata alla forza lavoro e alla sua precaria riproduzione biologica si è successivamente alimentata, come nei casi analizzati da Wacquant o da Bourgois a proposito dei ghetti di Chicago e San Francisco, dell’assenza dello stato sociale e del trionfo del neoliberismo (Wacquant 2008; Bourgois 2001). Lazzarino. La violenza strutturale è anonima perché consustanziale a una configurazione ampia e storicamente determinata di fattori socio-economici. Ancor più efficacemente, Bourgois parla di “sofferenza socialmente strutturata” per accentuarne la genealogia strettamente politica (Bourgois 2008). Eppure, come fa notare Vargas in relazione al caso colombiano, non si può separare la violenza strutturale da quella esplicita, esercitata dagli attori armati (Vargas 2008). La prima comporta il perpetuarsi della seconda, quella dei tiroteios, così come di quella invisibile e diffusa che impregna le soggettività. È un tipo di violenza inserita nelle istituzioni e nelle strutture sociali che, pur avendo un ruolo decisivo nella produzione della sofferenza, si sottrae alla facile identificazione di una relazione univoca vittima-carnefice. Malighetti. Le due forme di violenza non sono indipendenti, né circoscrivibili in universi conchiusi e ben delimitati. Le traiettorie del mercato della droga e delle armi pesanti, dominate da cartelli mafiosi internazionali (Torres Ribeiro 2000; Bueno Brasil et al. 2010; Zaluar 1995) o i legami del narco-traffico con settori politico-economci per il controllo delle risorse destinate allo “sviluppo” seguono logiche mercantili ed economico-finanziarie che superano la favela e il livello municipale, e si connettono ai traffici internazionali leciti, compresi quelli della cooperazione.16 Lazzarino. Il locale e il globale si interfacciano, annodandosi l’uno all’altro per generare eventi di violenza concreti e vicini, che limitano gli spostamenti, creano occlusioni, provocano travasi, determinano 16 “L. […] mi ha raccontato delle bande […] Sembra che cerchino di strutturarsi e organizzarsi maggiormente a livello politico, alleandosi contingentemente con le forze sociali che possono essere utili al loro benessere, se non anche ai loro disegni. Un’evoluzione strategico-organizzativa del traffico che passa a un controllo e gestione del territorio più efficace: vd. la mafia italiana e la cassa del mezzogiorno” (Malighetti R. Diario, 14/02/2003). I quaderni del CREAM , 2010, X 46 luoghi. Il soggetto/luogo favela è invaso, attraversato e costituito da forze transnazionali che lo mettono in relazione sia con i legami spaziotemporali che intrattiene con le proprie condizioni di origine, sia con le arene mobili dei traffici illeciti e leciti, nazionali e internazionali. L’effetto “butterfly” della globalizzazione si manifesta prepotentemente nel momento in cui gli stili di vita dei paesi più industrializzati determinano la micro-geografia del terrore di territori lontani (Appadurai 2005). Secondo una logica neoliberista di integrazione del mercato mondiale, la delimitazione di territori interni corrisponde tout court a fette di mercato globale. La politica di radicamento estremo e di controllo violento del territorio è imbricata con le reti internazionali della droga. Malighetti. Anche da un punto di vista prettamente spaziale le favelas di Rio mostrano tutta la loro “centralità”, collocandosi a ridosso delle zone più ricche, come Copacabana, Ipanema, Leblon, Barra di Tijuca, dove le classi dirigenti occupano abitazioni-bunker sorvegliate costantemente da polizie private e usano automobili blindate.17 La violenza delle bande criminali e dello Stato invadono costantemente la città, producendo uno stato di sofferenza etico-politica (Baierl 2004) e di paura generalizzata (Souza 2008). I Comandos costituiscono confederazioni e reti di alleanze in conflitto fra loro e con le forze dell’ordine che penetrano l’asfaltato, attraversano la città e la regione metropolitana. Dagli anni Ottanta, sparatorie nelle aree ricche e balas perdidas (proiettili vaganti) iniziano a diventare comuni, per intensificarsi ancora di più durante la decade seguente. Sono attaccati i supermercati, incendiati gli autobus, negozi, fabbriche, scuole e istituzioni sono obbligate a interrompere le proprie attività, le università sono invase, stazioni della polizia e delle forze armate sono aggredite, i loro arsenali saccheggiati In questo senso il geografo Marcelo Lopes de Souza usa l’espressione fobópole, per designare lo spazio urbano che patisce uno stress cronico a causa della violenza, della paura della violenza e del conseguente senso di insicurezza (Souza 2008, p. 40). La locuzione ribadisce 17 Su una popolazione di 5.851.914 abitanti Rio de Janeiro aveva nel 2000 620 favelas con una popolazione di circa 1.092.958 abitanti, pari al 19% popolazione(Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística, IBGE 2000). I quaderni del CREAM , 2010, X 47 che i problemi delle favelas non possono semplicemente venir marginalizzati, ordinati e circoscritti in ghetti separati e dai confini ben definiti e conchiusi. Determinano la quotidianità di tutti i cittadini della metropoli. Soprattutto ne mettono a rischio la sicurezza, codice supremo della vita politica contemporanea, capace di persuadere della necessità di sacrificare le garanzie del diritto in modo manifestamente inefficace ma significativamente congruente con gli interessi dei gruppi di potere.18 Lazzarino. Se si inverte la prospettiva che assume l’asfalto, ovvero, la città, la modernità, la razionalità, la pacificazione, come punto di vista privilegiato, la favela non si colloca più dentro la città, bensì la città si fa periferia della favela. La violenza tiene insieme due movimenti opposti e inseparabili, che si costruiscono reciprocamente: l’eccezionalità e la pervasività. È evidente che la prima, con i suoi effetti di ghettizzazione, è necessaria a sopportare l’impossibilità di rimuovere la seconda. La vicinanza fisica, insieme alla lontananza sociale, stride al punto da conferire sonorità all’interstizio abissale in cui si genera una violenza che insieme elimina e ricalca le distanze. Malighetti. La violenza nelle favela non configura forme economiche e politiche contrarie allo status quo. Né vi aspira. Sia i politici che controllano gli interventi statali, sia i gruppi criminali che dominano gli spazi e spesso la cooptazione dei leader comunitari, non 18 “Campo da Golf di São Conrado attaccato alla favela di Rosinha, finestre dello Sheraton di Ipanema di fronte alla finestre di una favela (Vidigal). Ipanema è accerchiata dalla favela Pavão-Pavãozinho. Copacabana ha la sua favelina. La spiaggia, bellissima perché meno popolata di São Conrado è frequentata da favelados che ti impediscono di fare il bagno lasciando le proprie cose (ciabatte incluse) incustodite ecc […]. Le favelas minacciano la tranquillità di tutte le spiagge e gli abitati. Scendono e impediscono (furti ecc.) la possibilità di rimozione del problema e in particolare disturbano la vita delle classi privilegiate che devono rifugiasi in case-bunker e limitare la propria libertà (anche di ostentare i propri consumi: automobili, orologi ecc. ecc.). Favelas – non emarginate ma determinano la quotidianità e i comportamenti di tutti. (paura ecc.). Vedi G. che non può andare in giro tranquillo con il suo orologio e la sua macchina fotografica. ecc. ecc. Downtown deserto nel weekend – preda di bande di ragazzi pronti ad assaltare i malcapitati, realizzando le fantasie anticipate dai film hollywoodiani (Los Angeles anno 2009 ecc.). Rio modello di problemi emarginazione e immigrazione – dentro la città – non circoscrivibili e ghettizzabili. São Paulo mi dicono sia peggio […] Si comprende la violenza di qualcuno che vive accanto al campo da golf o ai palazzi fortezza e non ha da mangiare” (Malighetti R. Diario, 23/02/2003). I quaderni del CREAM , 2010, X 48 sembrano aver alcun interesse a modificare la situazione e trasformare significativamente le relazioni sociali che costruiscono il territorio di Manguinhos. Il loro controllo “liberista” delle forme economiche privatistiche e mercantili si oppone a progetti alternativi e a prospettive partecipative e solidali. Da un lato, l’economia-politica del traffico di droga e armi, i profitti e le relazioni fra i grandi finanziatori dell’asfalto, realizza una forma di capitalismo brutale fondato su feroci modalità di sfruttamento della mano d’opera (Souza 1995). Dall’altro lato, le strategie del terrore riescono a impedire che le contraddizioni politiche ed economiche strutturali esplodano e a garantire un ordine efficace nel contenere le possibilità di reazione alla condizione di povertà e privazione. Permettono il controllo del territorio, gestiscono le dispute e mantengono un mondo fondato sull’esclusione. A fronte delle drammaticità delle condizioni di sopravvivenza di gran parte della popolazione, gli interrogativi dovrebbero concentrarsi non tanto sulla quantità di violenza, quanto sulle modalità del suo efficace contenimento. Il dominio esercitato attraverso il terrore disegna confini invisibili e profondi nelle interazioni e nei comportamenti, segnando l’ambiguità liminale di una violenza generalizzata dalla guerra fra le gangs che creano – machiavellicamente – ordine, compattezza e unione.19 Lazzarino. Gli atti di violenza disegnano trincee territoriali, simboliche e psicologiche che determinano la circolazione e il riposizionamento continuo dei luoghi/soggetti. Attraverso gli atti di violenza la favela, il narcotraffico, il CCAP, i corpi e le soggettività vedono sfondati i propri confini ed eccedono il proprio posto: la favela straripa nella città; il narcotraffico comprende ed eccede la favela, entra nell’intimità dell’antropologo, invade la cooperazione, collude con la polizia, si connette a scenari internazionali; il CCAP sta dentro la favela oltrepassandola, oscilla con pragmatici compromessi fra la favela, il narcotraffico e la cooperazione internazionale; il ricercatore si contami19 “Rocinha: favela di circa 150.000 abitanti, fra le più antiche, con una densità abitativa impressionante. Favela vivissima. Casino, gente ovunque. Vita per la strada ecc. Motorette ecc.[…] Rimangono a guardare dall’alto la ricchezza di coloro che arrivano in elicottero a giocare a golf nello splendido scenario della Barra di Tijuca… Come fanno a non scendere e a non chiedere di partecipare al gioco?” (Malighetti R. Diario, 22/03/2003). I quaderni del CREAM , 2010, X 49 na con la favela, con il narcotraffico e la cooperazione, muovendosi attraverso luoghi di interazioni che lo attraversano in modi che non riesce a controllare. Il manifestarsi della violenza nelle azioni, nelle pratiche, nei discorsi, negli spostamenti e nelle percezioni degli attori sociali che la agiscono e la subiscono è, come l’oggetto = x, esorbitante il suo posto ed eccedente la struttura. Sembra che ognuno si muova nella negoziazione e nell’ambivalenza per accaparrarsi territori reali e simbolici, ampliando incessantemente lo spazio di manovra nelle aree di confine porose ed elastiche, nella necessità di percorrere, evitare e gestire la violenza. Nelle pratiche quotidiane, i soggetti e i gruppi sociali si muovono all’interno di quell’interstizio che il principio dentro/fuori riduce a esile barra, lo dilatano rizomaticamente, in protuberanze e amorfismi porosi, con ramificazioni transnazionali e travalicazioni intime. Ciò non significa che vi sia confusione fra queste serie di luoghi/soggetti, ma che semplicemente si creino forme di travaso, passaggi, contaminazioni e trans-formazioni attivate dalla violenza. La dinamicità, la volontà strategica e il carattere relazionale di ognuno di questi luoghi slabbrano continuamente i confini in giochi e strategie di sottrazioni e appropriazioni geo-simboliche reciproche mai complete. Non sembra esserci in nessun momento corrispondenza totale né separatezza totale, ma legami metaforici e metonimici, che ammettono sostituzioni e condensazioni (Deleuze 1973). Malighetti. La violenza, le strategie della tensione da essa innescate e il loro uso strumentale sono divenute centrali in tutte le società, egemonizzando i discorsi politici. Conflitti regionali “a bassa intensità”, belligeranza che si definisce etnica o religiosa, terrorismo e violenza di stato, scontri fra bande nelle metropoli occidentali, violenza mafiosa, forme di macro e micro criminalità che penetrano all’interno della famiglia, crimini di pace (Basaglia, Ongaro Basaglia 1975; SheperHughes 1997), superano le facili dicotomie ordinatrici e attraversano i confini fra guerra e non guerra, così come fra normalità ed emergenza, fra centro e periferia. Tale superamento possiede risvolti generativi e innovativi che la vita della favela può efficacemente rivelare. Lazzarino. Come suggerisce Mbembe in relazione alle figure so- I quaderni del CREAM , 2010, X 50 vrane della modernità, “l’uso strumentale dell’esistenza umana e la distruzione materiale delle popolazioni e dei corpi” costituisce un nomos della politica attuale. Questo scenario, esattamente come nelle favelas – e nell’etnografia della violenza – invita a non assumere la “ragione” come “verità del soggetto”, ma a “guardare ad altre fondamentali categorie che sono meno astratte e più palpabili: come la vita e la morte” (Mbembe 2003, p. 51), oppure, aggiungo, a prendere atto che le categorie astratte, le strutture, si sciolgono nelle appropriazioni e nei rimescolamenti delle relazioni sociali e dei processi di soggettivazione empirici che agiscono i valori, le credenze e le appartenenze. Malighetti. Vorrei concludere riconoscendo la centralità delle favelas non solo attraverso la violenza. La loro importanza emerge anche nelle proposte di modelli per pensare le forme di integrazione al di là delle tecniche di governamentalità statale e delle pratiche di “normazione” del narcotraffico. Da un lato le realtà dei favelados invitano ad analizzare la cittadinanza non astrattamente ma come spazio vissuto (Holson, Appadurai 1996) e processo dialogico (Grillo, Pratt 2002) e quindi attraverso la considerazione delle dinamiche di inclusione ed esclusione inscritte nelle vite dei soggetti e luoghi in cui i diritti vengono negoziati, realizzati o negati. Dall’altro, laboratori di forme di umanità e di produzione culturale, come lo stesso CCAP, interpretano le possibilità aperte ai punti di vista degli esclusi per costruire visioni e pratiche innovative, per pensare e realizzare le economie, per trattare i bisogni fondamentali, per formare gruppi sociali. Riannodando i fili di una storia interrotta dalla schiavitù, dalla modernizzazione, dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione selvaggia, cercano di superare i fallimentari approcci assistenzialistici, i pericolosi interventi emergenziali e le compassionevoli azioni umanitarie, a favore di iniziative integrate e multisettoriali fondate sul protagonismo e le potenzialità alternative delle risorse umane locali. Si adoperano per stimolare un processo endogeno di cambiamento e di far interagire la popolazione della favela con differenti istituzioni della società civile nazionale e internazionale e a mobilitare le istituzioni. Come nel caso del CCAP, finalizzano le attività a mostrare il potenziale delle iniziative popolari alternative alle politiche neoliberiste. Educano i favela- I quaderni del CREAM , 2010, X 51 dos alla cultura del diritto e della cittadinanza, tentando di sottrarne il monopolio al narcotraffico e agli abusi della Polizia, e di realizzare azioni di responsabilità civile contro lo Stato per obbligarlo a mettere in pratica i principi costituzionali (Malighetti 2005, pp. 26-34). Rifiutano la propria fondazione in termini dicotomici ed essenzializzanti ed esibiscono la complessità e la dinamicità della loro esperienza nelle pratiche della vita quotidiana, sottratte a una singola logica di margine ed articolate in arene in continua effervescenza in cui differenti visioni del mondo, interessi e poteri si collegano e si contrappongono (Appadurai 1996; Clifford 1997; Amselle 2001). Bibliografia Agamben, G., 1995, Homo Sacer I. Il potere sovrano e la vita nuda, Torino, Einaudi. Agamben, G., 2003, Stato di eccezione, Homo Sacer II, Torino, Bollati Boringhieri. Amselle, J. L., 2001, Branchements. 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FERRETTI 1 RELIGIÕES DE MATRIZES AFRICANAS NO MARANHÃO Denominação, difusão, estudos O Estado do Maranhão está situado entre as regiões Norte e o Nordeste do Brasil. Sua capital São Luís localiza-se próximo à linha do Equador. No período Colonial fazia parte do Estado do Grão Pará e Maranhão, unido diretamente a Portugal e esteve separado do Estado do Brasil até quase a época da independência, em inícios do séc. XIX. Por sua localização geográfica, até hoje o Maranhão mantém certo isolamento em relação ao resto do país o que contribui para sua grande diversidade cultural. O tráfico de escravos foi intenso entre meados do séc. XVIII e no séc. XIX e hoje cerca de 70% da população é composta de afro-descendentes negros e mestiços. A principal tradição religiosa afro-brasileira no Maranhão denomina-se Tambor de Mina. O termo tambor deriva da importância do instrumento no culto e Mina do forte de El Mina, ou São Jorge da Mina, antigo empório de escravos fundado por portugueses na costa da África, por onde foram trazidos numerosos escravos para o Brasil e para a Amazônia. O Tambor de Mina se difundiu a partir de S. Luís pelo Maranhão e por grande parte da Amazônia. Em muitos locais se cruzou com outras manifestações religiosas e recebeu denominações específicas como Terecô, no interior do Maranhão, ou Babassuê, no Pará, que possuem 1 Dr. em Antropologia, Professor da Universidade Federal do Maranhão I quaderni del CREAM , 2010, X 59 especificidades locais. Na segunda metade do séc. XX se difundiu com a ida de maranhenses para o Rio de Janeiro, S. Paulo, Brasília e outros locais. As tradições religiosas afro-brasileiras no Maranhão e o Tambor de Mina, começaram a ser estudados somente em fins da década de 1930 após a passagem pos São Luís da Missão de Pesquisas Folclóricas organizada por Mário de Andrade em 1938, mas foram pouco analisadas até fins da década de 1970, quando haviam sido publicados apenas dois estudos clássicos, pouco divulgados: o de Nunes Pereira e o de Octávio da Costa Eduardo, (publicado em Nova York em 1948 e até hoje não traduzido). Pierre Verger e Roger Bastide passaram alguns dias no Maranhão e Bastide (1971; 1974) divulgou os poucos estudos realizados até então. Em fins da década de 1970 foi publicado pequeno trabalho de Maria Amália Pereira Barreto (1977) e apenas a partir de meados da década de 1980 é que começaram a ser publicados resultados de novas pesquisas de Sergio Ferretti (1995; 1996), Mundicarmo Ferretti (1993; 2004) e de Rosário Carvalho (Santos e Santos Neto (1986). Nas décadas de 1990 e na atual foram realizadas outras pesquisas, sobretudo por pesquisadores de fora que ainda são pouco divulgadas, como a do norte-americano Daniel Halperin (1992; 1995), do belga Didier de Laveleye (2002), do espanhol Nicolau Parès (1997), do carioca Gustavo Pacheco (2004) e do beninense Hippolyte Brice Sogbossi (2004), abordando diferentes aspectos das religiões afro-maranhenses. Assim as religiões de origens africanas no Maranhão até hoje são mais conhecidas por alguns especialistas, sendo ainda pouco divulgadas no Brasil e mesmo no Maranhão. Grupos de origem Como outras religiões afro-brasileiras o Tambor de Mina se origina de nações ou grupos étnicos distintos que deram origens a diversos sistemas rituais. Diferentes grupos étnicos africanos vieram para a Amazônia e para outras regiões do país. Para o Maranhão, (Costa I quaderni del CREAM , 2010, X 60 Eduardo 1948: 7), sobretudo do Congo e de Angola, de várias etnias entre os quais se destacam os Angico, Bengela, Cabinda, Cassange, do Senegal, os Mandinga, Cacheo, Felupe, Bijago, Balanta, Nalu, Manjaro. Também vieram negros da região da Costa dos Escravos, Mina, Jeje, Nagô, Tapa e outros. Estas etnias estão entre as que são mais lembradas ainda hoje entre os antepassados de membros de algumas casas de culto afro. Os Nagô e os Jeje são os únicos que foram mais conhecidos e estudados no Maranhão, por terem deixado casas de culto em funcionamento até os dias atuais. Os Jeje do Maranhão procedem, sobretudo de Abomey, bem como de Savalu e de Aladanu. Existe apenas uma casa de culto jeje no Maranhão, a Casa Grande das Minas, ou Casa das Minas Jeje, ou Querebentã de Zomadonu, que não possui casas filiadas e é razoavelmente conhecida na literatura etnográfica. Foi o terreiro mais estudado no Maranhão até hoje, possui grande prestígio, mas se encontra em longa fase, quase secular, de declínio do número de participantes e de rituais. A Casa das Minas parece ter sido o primeiro terreiro que se implantou em São Luís, provavelmente na década de 1840 e a nosso ver foi quem criou o estilo do tambor de mina do Maranhão, onde tradicionalmente só as mulheres entram em transe, recebem e dançam com as entidades. Foi fundada pela rainha africana Nã Agontimé, segundo Verger (1990), que veio para ajudar os escravos a se libertarem da escravidão. É uma casa única e não possui filiais. Os Nagô fundaram a Casa de Nagô, hoje também em declínio e da qual derivaram a maioria dos terreiros de tambor de mina atuais. Afirma-se que a Casa de Nagô (Nina Rodrigues 1977) descende dos Nagô de Abeukutá, com influências dos Tapa e de outras procedências. O culto Nagô do Maranhão é diferente do Nagô de Ketu e de outras procedências, muito conhecido no candomblé da Bahia e em todo o Brasil. As entidades africanas cultuadas são mais conhecidas como vodum do que como orixá e diversos voduns jeje são cultuados junto com orixás Nagô. A Cura ou Pajelança, de origem ameríndia, que cultua entidades chamadas da água doce, está presente especialmente em algumas regiões do Estado. Na capital diversos pais ou mães-de-santo do I quaderni del CREAM , 2010, X 61 Tambor de Mina começaram como pajés e realizam periodicamente rituais de Pajelança em seus terreiros. A Umbanda se implantou no Maranhão a partir da década de 1950, quando pais-de-santo da mina se transferiram temporariamente para o Sul e se diz que no Maranhão, muitos terreiros de umbanda são cruzados com a mina. O candomblé se difundiu no Maranhão a partir da década de 1980, algumas casas seguem modelo de culto derivado da Bahia e existem terreiros de mina que recebem influências do candomblé, principalmente na paramentação dos orixás e nos ritos de iniciação. Entidades cultuadas As entidades cultuadas no Tambor de Mina são muito numerosas e variam com a linha e as casas. Na Casa das Minas só são cultuados voduns sendo conhecidos cerca de 45 e lembradas cerca de 15 tobossis que deixaram de ser recebidas desde fins da década de 1960 com a morte das ultimas iniciadas com esta categoria de entidades. Os voduns são entidades espirituais que podem ser homens, mulheres, adultos, velhos e jovens ou crianças. A maioria são homens, enquanto as vodunsis que os recebem são exclusivamente mulheres. Os voduns se agrupam em famílias, a saber: Família Real (de Davice), a Família de Quevioçô (Nagô), cujos voduns são hóspedes e são mudos e a Família de Dambirá (de Odam), os voduns da terra, que tratam das doenças de pele. Há ainda duas famílias menores que são hóspedes, a de Savalunu e a de Aladanu. Os voduns da Família Real se subdividem em dois clãs: o de Zomadonu, o dono da Casa e a família de Dadarrô, o rei mais velho. Nos outros terreiros de Tambor de Mina em geral as entidades caboclas costumam também ser organizadas em famílias como os voduns da Casa das Minas2 2 Na família de Davice os voduns mais conhecidos são: Toi Zomadonu, Toi Dadarro, Toi Doçu, Toi Bedigá Nochê Sepazin e outros. Na família de Quevioçô estão os voduns Nagô e muitos têm correspondência com os orixás do candomblé e entre eles se destacam: Toi Quevioçô ou Badé Quevioçô (Xangô), Toi Liça, Toi Lôco, Toi I quaderni del CREAM , 2010, X 62 As tobossis são entidades femininas infantis que eram recebidas pelas vodunsi-gonjaí, que haviam se submetido a todos os rituais de iniciação, o último dos quais foi realizado na Casa das Minas em 1913/14 e estas entidades vieram até fins da década de 1960, quando faleceram as últimas gonjaís, não tendo sido realizados outros barcos posteriores. Elas ainda são muito lembradas. Vinham em dias de festas especiais, no fim do ano, no Carnaval e em São João e ficavam vários dias em terra. Usavam roupas próprias, falavam em língua diferente, davam nomes africanos às vodunsis, brincavam com bonecas e comiam comidas especiais. Em outros terreiros de mina, especialmente na época do Carnaval, costumam ser recebidas entidades feminina infantis denominadas de Senhoras ou Princesas que são consideradas como tendo características semelhantes às tobossis jeje. Na Casa de Nagô e em outros terreiros de mina Nagô, são recebidas diversas entidades entre voduns, orixá e caboclos. Vêm alguns voduns como Xapanã, Eowá. Averequete, Badé ou Xangô, o dono da Casa, Iemanjá, Iansã, Ogum, Oxossi, Nana, Xadatã, Vondereji e outros. Muitos voduns são nobres ou gentis e têm nomes em português3. Na Casa de Nagô também são recebidas diversas entidades caboclas4. Além destas entidades muitas outras são recebidas em terreiros diversos do Maranhão5. Verificamos, portanto que há numeAverequete, Nochê Sobô (Iansã), Nochê Abe (Iemanjá) e outros. Na família da Dambirá encontram-se os voduns: Toi Acossi, Toi Azili e Toi Azonce, que correspondem a Xapanã, Omolu e Obaluaé, Toi Lepon, Toi Poliboji, Nochê Boca, Toi Boçucó, Nochê Eowá. Na família de Zavaluno: Toi Agongono e Toi Topa e na família de Aladanu Toi Ajautó e Toi Avrejó. 3 Entre eles temos Bárbara Soeiro, D. João Soeiro, D. José Floriano, D. Luís Rei de França, D. Pedro Angaçu, D. Miguel, Rei de Nagô, Rei do Kotelo, Rei do Junco, Rei Sebastião, Dona Rosa de Lima, Dona Servana, Zezinho, Flor do Dia, Bossa Meméia, Princesa Luzia e outros. 4 Como: Baiano, Caboclo da Bandeira, Caboclo Nobre. Caboclo Velho, Chica Baiana, Corre Beirada, Guerreiro, João de Uma, João do Leme, Luizinho, Mariana, Preto Velho, Sebastiãozinho, Surrupira, Tabajara, Tapindaré, Tupinambá e muitos outros. 5 Tais como entre outros: Rei dos Mestres, Dantã, Mãe Maria, Obaíla, Vó-Missã, Caboclo Constantino, Frecheiro, Guarim, Ita, Guerreiro, Navalheiro, Mensageiro de Roma, Pedrinho, Pombo do Ar, Príncipe Oliveiros, Rei Surrupira, Tombasse, Ubiratã, Légua Boji Buá, Dona Douro, Floripes, Guerreiro de Alexandria, Guapindaia, I quaderni del CREAM , 2010, X 63 rosas entidades recebidas nos diversos terreiros de Tambor de Mina, muitas das quais também são cultuadas em terreiros de Umbanda. Muitas estão organizadas em famílias e as principais são a família da Turquia, de Dom Sebastião, de Gama, da Bandeira, de Codó, de João de Lima e outras. A família da Turquia inclui entidades que se encantaram na mina e entre os quais muitos nomes aparecem na História de Carlos Magno e os Doze Pares de França, amplamente difundida no imaginário ibérico e brasileiro6. Outras entidades desta família têm nomes portugueses ou indígenas7. Uma família muito interessante é a de Dom Sebastião, inspirada no sebastianismo, outra das fontes do imaginário religioso popular do Nordeste, muito difundido no Maranhão, onde se propagou a lenda de que o rei se encantou nas areais da Praia dos Lençóis e aparece como um touro com uma estrela de ouro na testa. Entre as entidades desta família destacam-se Dom Sebastião, José Lealdino, Princesa Iná, Princesa Flora, Princesa Jandira, Boi Barroso e outros. Uma das características do Tambor de Mina é a ausência de Legba e do jogo de búzios. Legba ou Exu é considerado como equivalente ao demônio dos cristãos e não recebe invocações nem oferendas. Na Casa das Minas as vodunsis dizem que não cantam para Legba e que os voduns não permitem sua presença. Da mesma forma não existe jogo de búzios, tanto na Casa das Minas quanto na Casa de Nagô e nos demais terreiros tradicionais do Maranhão. Na mina tradicional a adivinhação é feita por outros métodos como a consulta aos voduns, vela acesa no quarto dos santos, interpretação de sonhos, por sinais durante a festa do Divino e outros. Alguns grupos mais novos, influenciados pelo Candomblé e pela Umbanda, nos últimos trinta anos passaram a utilizar o jogo de búzios. Itacolomi, Menino de Lera, Rei da Turquia, Tombo do Mar. 6 Ferrabrás de Alexandria, Burlante, Aquilital, Dona Douro, Dalera, Guapindaia, Guerreiro de Alexandria. Jariodama, Mensageiro de Roma, Princesa Doralice, Pricesa Flora (cfr Ferretti 2000, p. 318/319). 7 Guajajara, Iracema, Jaguarema, Japetequara, João da Cruz, João da Mata, João do Leme, João de Fama, Jupareiro, Juracema, Maresia, Mariana, Tabajara, Tapindaré, Ubirajara, Jarioldamo (cfr Ferretti 2000, p. 318/319). I quaderni del CREAM , 2010, X 64 Rituais e festas nos terreiros No Tambor de Mina há grande discrição sobretudo em relação aos rituais de iniciação. Na maioria dos terreiros a maior parte dos participantes recebe uma iniciação preliminar, sobre a qual pouco se fala e poucas pessoas, duas a três em cada casa, recebem iniciação completa. A iniciação completa das vodunsis-gonjaís na Casa das Minas Jeje durava cerca de um ano e não era destinada a todas as vodunsis, mas deixou de ser realizada há cerca de um século. Hoje as vodunsis da Casa jeje são iniciadas apenas como vodunsi-he. Atualmente, em grupos mais novos costuma-se proceder a rituais de iniciação similares aos do Candomblé Nagô, com saída de iaô e paramentação das divindades. Nos rituais do Tambor de Mina não se usam paramentos diferentes para cada entidade. As vodunsis usam veste semelhante, denominada de farda, com pequenas diferenças para algumas entidades, relacionadas com sexo, idade, etc. É comum numa festa usarem blusa branca rendada e saia colorida na mesma cor. Na Casa das Minas as vodunsis só se paramentam quando recebem sua entidade e imediatamente colocam uma toalha rendada na cintura ou sob os seios. Lá também as vodunsis só dançam quando estão em transe com o vodum. Nos demais terreiros, todas entram paramentadas e vão colocando a toalha quando recebem sua entidade. Na Casa das Minas cada vodunsi possui apenas um vodum. Nos demais terreiros costumam possuir pelo menos um vodum e um ou vários caboclo e recebem até duas entidades numa festa. Na Casa das Minas os toques utilizam três tambores (huns) de madeira de tamanhos diferentes, com couro amarrado numa das bocas e tocados com as mãos e baquetas. Os toques são acompanhados pelo ferro de uma boca (gan) e por cabaças pequenas. Tanto pelos instrumentos quanto pelos cânticos em língua jeje ou fon, os toque da Casa das Minas são muito diferentes dos demais terreiros de mina. Na Casa de Nagô e nos outros terreiros os toques são acompanhados por dois tambores (batás) com couro nas duas bocas, amarrados com ferro e deitados sobre cavaletes, tocados pelos abatazeiros. São acompanha- I quaderni del CREAM , 2010, X 65 dos pelo ferro de uma boca, por cabaças grandes e pequenas. Nos demais terreiros em alguns toques utiliza-se também um tambor longo inclinado chamado de tambor da mata. No Tambor de Mina não se costuma oferecer grande número de animais. O bode é o alimento ritual da Casa das Minas e o carneiro, da Casa de Nagô, mas há muitos anos deixaram de ser oferecidos. Na Casa das Minas em algumas festas costumam oferecer um casal de aves antes e depois das festas, acompanhado de comidas africanas como acarajé, amió, agralá, abobó e outras, preparadas ritualmente com métodos tradicionais. Durante a festa se costuma oferecer aos participantes, mingau, café, mesa de doces com refrigerantes e algumas vezes uma refeição. É comum que as festas se iniciem assistindose pela manhã uma missa do santo do dia e a noite, antes do início dos toques, se canta uma ladainha, geralmente em latim, diante do altar com imagens de santos, seguida de cânticos do catolicismo popular. O Arrambã ou bancada é um ritual típico do Tambor de Mina. É realizado na quarta-feira de cinzas com o oferecimento de muitas frutas e doces colocados em bandeja sobre esteiras, sendo distribuídos pelas entidades e recebidos por todos os presentes. Trata-se de um pedido de fartura, especialmente para o período da Quaresma, quando não são realizados toques nos terreiros de Mina. O tambor de choro é o ritual fúnebre que pode ser de corpo presente (zelim na Casa das Minas) ou de corpo ausente (ou sirrum na Casa das Minas). É realizado com toque de tambores, com as vodunsis cantando sentadas em bancos ou esteiras enquanto se quebra lentamente um pote numa bacia com água em que se joga areia, na qual se colocam moedas. Na Casadas Minas o ano litúrgico começa com a festa de Santa Bárbara no dia 4 de dezembro e as demais festas seguem o calendário dos santos da Igreja, sendo comemorados principalmente no dia de Reis, de São Sebastião, de São João, de São Benedito e de Cosme e Damião. Além das festas específicas dedicadas aos voduns nos dias dos santos de que são devotos, o Tambor de Mina se caracteriza pela presença de diversas festas da cultura popular. Normalmente uma entidade importante da casa aprecia e pede que lhe seja oferecido determinadas festas em sua homenagem. Os participantes do Tambor I quaderni del CREAM , 2010, X 66 de Mina pertencem à mesma classe social dos que organizam as manifestações da cultura popular e muitas brincadeiras prestam homenagens a entidades dos terreiros que consideram como seu padrinho ou protetor. Uma das festas mais importantes é a Festa do Divino que é realizada em quase todos os terreiros de Mina. Na Casa das Minas, na Casa de Nagô e em algumas outras esta festa é organizada no domingo de Pentecostes e tem vários dias de duração. É uma festa que atrai muitos visitantes aos terreiros e atualmente tem recebido ajuda governamental com a perspectiva de incentivo ao turismo. Ao longo do ano vão sendo realizadas festas do Divino em datas importantes nos demais terreiros como no dia de Sant’Ana, no dia de São Luís, etc. Outra característica desta festa é o toque de caixas por senhoras ou caixeiras que entoam cânticos e toques em diversos momentos importantes da festa. Normalmente o império do Divino é representado por crianças paramentadas e se oferecem refeições e belas mesas de doces aos participantes. A festa do Divino que é um ritual do catolicismo popular de origem portuguesa muito difundido no Brasil, em São Luís é realizado e assumido principalmente pelos grupos de tambor de mina. O Bumba-meu-boi que é a festa da cultura popular mais difundida no Maranhão também está presente na maioria dos terreiros de Tambor de Mina e de Umbanda de São Luís. Muitas casas realizam um ritual de batismo e outro de morte do boi ocasião em que se oferecem alimentos aos participantes. Estas festas costumam ser seguidas por toques de tambores. O boi ou boizinho de encantado está assim presente em quase todos os terreiros de mina e de umbanda e em muitas casas é oferecido em homenagem ao Rei Dom Sebastião, que é recebido em transe, as vezes sob a forma de um touro, de acordo com a lenda de que o Rei Dom Sebastião se encantou num touro que mora na Ilha dos Lençóis. Mas em muitos terreiros o boi é oferecido em homenagem a outras entidades. Outra festa da cultura popular presente nos terreiros é o Tambor de Crioula, oferecido a entidades diversas que apreciam esta brincadeira. Muitos terreiros oferecem no dia 13 de Maio ou para outras entidades I quaderni del CREAM , 2010, X 67 em datas variadas. Também é comum grupos de Tambor de Crioula, de Bumba-meu-boi, de dança portuguesa, quadrilhas e de outras brincadeiras, irem se apresentar em terreiros em homenagem a determinadas entidades espirituais. Políticas culturais em relação às religiões afro-brasileiras O Maranhão, como outras regiões do país, pretendeu ser branco e europeizado, assim as religiões de origens africanas foram vistas como superstição e atraso e em muitos momentos perseguidas pela polícia, sobretudo até a primeira metade do séc. XX. Durante o Estado Novo (1937/1945) os terreiros de mina foram proibidos de se instalar no centro urbano tendo sido transferidos para a zona suburbana e rural. Em São Luis somente a Casa das Minas e a Casa de Nagô, em função de alianças conseguidas pelo povo-de-santo foram permitidas de permanecerem no local de origem. Na década de 1940 (Barros 2007), começaram a surgir na imprensa local artigos de intelectuais maranhenses valorizando as tradições afro e a cultura popular, como fonte das origens culturais do Estado, enquanto permaneciam as proibições e reclamações na imprensa contra o fetichismo e o atraso destas práticas. Nas décadas de 1950 e 1960 estas tradições passaram a ser mais aceitas e começam a ser mostradas a autoridades de passagem pela capital. A partir das décadas de 1970 e 1980 entidades da área de cultura começam a dar ajudas para a reconstrução dos prédios da Casa das Minas e da Casa de Nagô em troca da doação de objetos para exposição em museus. Em 1985, por ocasião da realização pela UNESCO em São Luís de um colóquio internacional para o estudo de religiões de origens africanas nas Américas, a Casa de Nagô foi tombada pelo Estado. Só em 1988, nas comemorações do centenário da abolição da escravidão, foi suspensa a obrigatoriedade da solicitação de licença à polícia para a realização de atividades nos terreiros de culto afro. A partir de meados da década de 1990, em função do interesse cultural e do turismo, passaram a ser concedidas ajudas de órgãos de I quaderni del CREAM , 2010, X 68 cultura para a realização de festividades nos terreiros como a festa do Divino, o arrambã e comemorações do Natal. Em 1999 São Luís foi tombada pela UNESCO como patrimônio cultural da humanidade e se intensificou o interesse pelo turismo e pelas tradições da cultura popular. Em 2003 a Casa das Minas foi o terceiro terreiro de culto afro-brasileiro tombado como patrimônio nacional pelo Instituto do Patrimônio Histórico e Artístico Nacional (IPHAN), após a Casa Branca e o Opô Afonjá de Salvador. Em fins de 2007 o prédio da Casa das Minas foi restaurado pelo IPHAN e atualmente se apresenta em boas condições. A Casa de Nagô, como dissemos acima, desde 1985 foi tombada pelo Governo do Estado em reconhecimento por sua contribuição à formação da identidade cultural maranhense, o que fortaleceu o reconhecimento do Tambor de Minas como bem cultural. Atualmente a Casa das Minas, a Casa de Nagô e alguns outros terreiros de mina costumam ser incluídos nos roteiros turísticos na perspectiva do desenvolvimento de um turismo cultural. Outras manifestações culturais de origens africanas nos últimos anos têm sido valorizadas pelas autoridades locais e federais. A dança do Tambor de Crioula, em 2007 foi reconhecida pelo IPHAN como patrimônio cultural brasileiro. Casas de culto afro e diversas manifestações da cultura popular têm despertado o interesse de estudiosos, que têm redigido monografias, dissertações, teses e publicado livros e artigos reconhecendo a importância da religião e da cultura popular como patrimônio cultural. As tradições culturais de origens africanas atualmente passam a ser reconhecidas e valorizadas pelas autoridades, pelos meios de comunicação, pelos afro-descendentes e pela população em geral. Com o crescimento dos movimentos negros passou a haver maior valorização da cultura negra e os terreiros passaram a ser considerados como fator de definição e de manutenção da identidade cultural. Diversas casas de culto afro no Maranhão recebem grande número de participantes, algumas chegam a ter mais de meia centena de dançantes num toque. É curioso constatar, entretanto, que as duas casas de culto mais antigas de São Luís, fundadas por africanos e que implantaram o tambor de mina no Maranhão se encontrem atualmente I quaderni del CREAM , 2010, X 69 num processo acelerado de declínio do número de participantes e conseqüentemente da realização de rituais. Estas duas casas, que são valorizadas e reconhecidas como matrizes da tradição religiosa africanas têm atualmente cada uma, menos de meia dúzia de filhas-desanto, em geral em idade avançada. Afirma-se que os costumes destas casas são muito rígidos, que as entidades cultuadas são muito exigentes, que suas práticas não estão adaptadas aos dias atuais. Suas próprias filhas em geral não estimulam a participação de seus familiares e a entrada de novos adeptos no culto. Lamentavelmente seus cânticos e rituais estão desaparecendo. Alguns consideram que estejam praticando um suicídio cultural. Constatamos assim que as casas matrizes das religiões africanas no Maranhão encontram-se em longo período de declínio e em vidas de rápido desaparecimento. Sincretismo e conclusões O Tambor de Mina é considerado como elemento de definição e de manutenção da identidade étnica dos negros, que constituem a maior parte de seus participantes por preservar, cânticos, ritos e outras tradições culturais trazidas por antepassados africanos. Constatamos que no Tambor de Mina está muito presente o sincretismo com o catolicismo popular e em muitas casas verificamos a presença de práticas ameríndias, do espiritismo, de esoterismos em geral, como de elementos do Candomblé, da Umbanda e de outras procedências. De acordo com muitos autores todas as religiões são sincréticas. É claro que as formas de sincretismo variam e precisam ser melhor conhecidas. O sincretismo é uma característica das culturas e das religiões e precisa ser mais conhecido e analisado. O sincretismo está presente na sociedade brasileira desde a vinda dos colonizadores portugueses que trouxeram tradições culturais de procedências diversificadas, que aqui se difundiram entre diferentes etnias ameríndias e outras procedentes do continente africano que também vieram com o resultado de múltiplos contatos. Embora a pala- I quaderni del CREAM , 2010, X 70 vra sincretismo provoque mal estar entre muitos e seja considerada pejorativa, pois consideram que implica em inautenticidade ou impureza, é uma realidade que não pode ser contestada em nossa sociedade multicultural. Talvez outros prefiram utilizar outros conceitos que considerem mais adequados. Não temos preconceito contra o uso da palavra sincretismo. A maioria dos praticantes do Tambor de Mina, como de muitas outras religiões de matrizes africanas têm dupla pertença religiosa, se considera e se afirma como católica, encarando as tradições de afro como herança e obrigação familiar, como uma sina que muitos não gostam de legar aos seus descendentes. Quando a mãe-de-santo de um terreiro de mina vai a missa, tira as sandálias ao receber seu vodum e comunga na igreja, não está sendo menos autêntica do que quando a noite recebe no terreiro uma entidade africana e canta para ela em jeje. No dia da procissão de São Benedito, no momento em que o andor com sua imagem é abaixado para entrar na nave, o vodum Averequete é recebido pela vodunsi dona Celeste e abençoa os devotos que o acompanham. Antes dos toques do tambor, na Casa das Minas, como nos outros terreiros, se canta uma ladainha em latim, depois na Casa Jeje se canta em jeje para os voduns e para alguns santos católicos, pedindo bênçãos para o início dos toques. Constatamos que as religiões de matrizes africanas constituem uma criação afro-brasileira ocorrida na diáspora, do lado de cá do Atlântico Negro e não existem no continente africano da forma em que se organizaram no Brasil. Concordamos com Stephan Palmié (2007, p. 91), da Universidade de Chicago, ao afirmar que alguns terreiros criam ficção estratégica legitimadora da diáspora8. Assim, pais e mães-de-santo de terreiros de Mina mais modernos, de São Luís, de Belém ou de São Paulo, atualmente envolvidos como o chamado movimento de reafricaniza- 8 Como a obrigação ritual dos Doze Obas de Xangô, implantada na década de 1930 pelo babalaô Martiniano do Bonfim, junto com mãe Aninha no terreiro do Axé Opô Afonjá de Salvador, então considerada como uma antiga instituição ioruba esquecida no Brasil e que jamais existiu na corte do Alafin de Oyo. I quaderni del CREAM , 2010, X 71 ção, paramentam seus orixás e voduns com trajes em tecidos caros e contas em estilo importado da Nigéria. Sabemos que muitas vezes as pesquisas dos antropólogos contribuíram para a valorização de alguns grupos ou casas de culto consideradas como mais tradicionais e que seus trabalhos são conhecidos e estudados por pais e filhos-de-santo. Não concordamos, entretanto com a afirmação difundia entre alguns pesquisadores de que os africanismos encontrados nos terreiros constituem construções de intelectuais para encobrir a dominação. “idéia que levada às últimas conseqüências retiraria aos participantes destas religiões a possibilidade de elaborar, manter e conservar suas próprias tradições, o que vem sendo feito no Brasil há mais de um século e meio por antigas comunidade religiosas, independentemente da colaboração de intelectuais”, como afirmamos em 1991 (Ferretti 1995, p 66-67). Constatamos que o sincretismo não descaracteriza a tradicionalidade mesmo dos grupos mais tradicionais, como a Casa das Minas, a Casa de Nagô e outros terreiros cujo culto é sincrético e ao mesmo tempo muito tradicional e autêntico, conservando cânticos, rituais, formas de comportamento, alimentos e outros costumes trazido pelos fundadores. O Tambor de Mina se caracteriza pela valorização dos segredos e mistérios do culto, que não são comentados nem revelados com facilidade. Há grupos muito resistentes a mudanças e outros que procuram inovar, com a preocupação de resgatar tradições africanas que foram perdidas. O Tambor de Mina constitui assim manifestação religiosa conservada principalmente por afro-descendentes, que resiste a interferências ou inovações. Por isso mesmo esta religião é considerada como fator de resistência cultural e de preservação da identidade étnica de populações negras. As casas antigas e mais tradicionais encontram-se em longo processo de declínio, mas continuam influentes. Comentam que suas práticas religiosas são menos adequadas aos dias atuais e aos costumes vigentes na sociedade que se modifica com grande rapidez. Por isso alguns consideram que estas duas Casas realizam uma espécie de suicídio cultural, o que consideramos discutível pois não se pode I quaderni del CREAM , 2010, X 72 prever o futuro de uma religião. Ao mesmo tempo surgem novos terreiros que são dinâmicos e se encontram em franca expansão, apesar da concorrência intensa com práticas religiosas de outras procedências. Referências Alvarenga, O., 1948, Tambor-de-Mina e Tambor-de-crioula. Registros sonoros do folclore musical brasileiro, São Paulo, Discoteca Pública Municipal. Bastide, R., 1971, As Religiões Africanas no Brasil. Contribuição a uma sociologia da interpenetração de civilizações, São Paulo, Pioneira/Edusp, (Orig. 1961). 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Verger, P., 1990, Uma Rainha Africana mãe-de-santo em São Luís, São Paulo, “Revista USP”, n. 6, pp.151-158, (Orig. 1952). I quaderni del CREAM , 2010, X 74 VÂNIA FIALHO 1 PESQUISANDO NO NORDESTE INDÍGENA BRASILEIRO: PROCESSOS COLETIVOS E QUESTÕES METODOLÓGICAS As discussões que versam sobre a pesquisa social, concebendo-a na sua vertente qualitativa, nos conduzem a importantes questionamentos que vão muito além das escolhas de práticas e técnicas passíveis de virem a compor o corpus de uma pesquisa. Definir o que é possível se dar conta a partir das pesquisas nos leva a questões de cunho epistemológico, da prática de pesquisa, assim também como do trato das relações sociais, considerando suas especificidades e complexidades. Alberto Melucci (2005), ao discutir o que vem a ser uma sociologia reflexiva, afirma que na discussão da pesquisa qualitativa, estão em jogo três elementos: (a) os problemas teóricos e epistemológicos que dizem respeito à definição mesmo do campo; (b) as práticas de pesquisa que são introduzidas de modo empírico; (c) os processos sociais sobre os quais estas práticas se concentram, que são, na realidade, a mola principal que pressiona a busca de novas maneiras de aproximar-se dos fenômenos. Melucci continua tecendo as possibilidades e os limites da pesquisa qualitativa e a entende como constituída das seguintes práticas sociais: (a) práticas de pesquisa (de um corpo especializado); (b) práticas de vários atores coletivos, grupos, movimentos, instituições que se transformam em novos focos de estudo e estimulam a elaboração de 1 Professora da Universidade de Pernambuco – UPE e Professora do Programa de PósGraduação em Antropologia Federal de Pernambuco - UFPE. I quaderni del CREAM , 2010, X 75 novos instrumentos de pesquisa; e (c) práticas ligadas às novas questões que vêm do povo, no seu conjunto, pelos atores coletivos e instituições e pelos consumidores de pesquisa. De uma forma bastante explícita, o que é colocado como discussão não é apenas a escolha de procedimentos para levantamento de dados, mas de definir uma nova relação social da pesquisa, em que saber a posição que ocupamos, enquanto pesquisadores, constitui elemento fundamental. Atentando para esses aspectos, optei neste texto, por priorizar uma breve descrição da minha trajetória de pesquisa e, a partir dessas experiências, tecer uma discussão sobre dois aspectos metodológicos que considero fundamentais: a relação entre pesquisador e objeto e a idéia de campo de pesquisa, além de expor os procedimentos em duas pesquisas realizadas no nordeste brasileiro e que enfocam a questão indígena. Por fim, irei me deter na problematização das escolhas metodológicas feitas: seus limites e desafios e situar essas discussões na categorização proposta por Habermas para o trata do conhecimento que estão na base das ciências. Enfatizo a importância da oportunidade de tratarmos das questões de cunho epistemológico, pois socializar e problematizar os procedimentos metodológicos deve ser mais uma característica das pesquisas qualitativas, considerando que, por princípio, nos afastamos de modelos que podem ser previamente validados. Temos, sim, necessidade de problematizar tais procedimentos, considerando as especificidades que cada um de nós enfrenta no campo. Trajetória das pesquisas realizadas Optei por fazer uma digressão, que, na verdade, possui um tom biográfico, pois revisitar momentos do trabalho de campo, as questões que dessa experiência emergiram, é também rememorar a trajetória pessoal que fizemos enquanto pesquisadores com reflexões que poderíamos até denominar de intimista. I quaderni del CREAM , 2010, X 76 Tal digressão passa ainda a ter um caráter mais pessoal, ao considerar que a temática que abordei nos dois momentos escolhidos – no mestrado e no doutorado – foi a identidade, especificamente, a identidade étnica, mas que repercutiu na reflexão que fiz sobre a minha própria identidade, como pesquisadora e como agente social dos contextos que estudava. Foi me aproximando da realidade dos povos indígenas no Nordeste que desenvolvi as tais pesquisas. É interessante perceber que às sociedades indígenas são atribuídas características que atendem bem às expectativas de um “objeto” de estudo para as ciências sociais: grupos humanos num relativo grau de isolamento, com fronteiras bem definidas para ser identificado como o “outro” e ainda portadores de uma variada gama de sinais diacríticos afeitos a toda boa etnografia, como rituais, um “complexo sistema de parentesco e línguas estranhas”. Trata-se de um exercício de estranhamento para o qual, aprioristicamente, se entende que não há necessidade de um esforço maior; até as dificuldades inerentes à clássica pesquisa antropológica seriam as que correspondem ao modelo: como “entrar” num campo com códigos tão distintos? Como compartilhar informações, quando o domínio da língua nativa é precário, quando não inexistente? Essas dificuldades parecem fazer parte da mística da pesquisa que envolve as sociedades indígenas e, assim, pesquisá-las seria, indubitavelmente, fazer a clássica pesquisa sócio-antropológica... A primeira das experiências, que passo a relatar agora, foi vivenciada durante o trabalho de campo entre os indígena da etnia Xukuru. Um dos aspectos destacados na pesquisa foi a reflexão sobre o papel do antropólogo e as relações que são construídas no campo e que acabam determinando a construção do próprio objeto. E é a partir desta noção de objeto de pesquisa que procuro iniciar minhas considerações mais formais. I quaderni del CREAM , 2010, X 77 Sujeito vs objeto de pesquisa, ação intersubjetiva e análise situacional A pesquisa teve como foco o processo de territorialização dos índios Xukuru localizados no agreste do Estado de Pernambuco. Esse grupo indígena vivia, naquele período, um processo de reafirmação de sua identidade étnica e de definição dos seus limites territoriais a fim de consubstanciar o processo de regularização fundiária do ponto de vista administrativo e legal. Inicialmente, minha “entrada” na área indígena se deu sob os auspícios da FUNAI, Fundação Nacional do Índio, considerando que exercia a função de antropóloga do órgão indigenista oficial brasileiro, e era a coordenadora do grupo de trabalho responsável pela identificação e delimitação2 da terra indígena Xukuru. Após o período de campo da equipe de identificação e delimitação, considerei que iria, enfim, iniciar um período de trabalho realmente etnográfico vinculado à universidade, livre das amarras administrativas e enfatizando aspectos que ainda não haviam sido focalizados. Com a proximidade do meio do ano, julguei pertinente acompanhar as principais festas dos Xukuru: São João, 24 de junho, e Nossa Senhora das Montanhas (ou Tamain, como é designada na linguagem própria do Xukuru), no dia 02 de julho. Eram as referências religiosas mais importantes e os rituais eram narrados a mim, anteriormente, como os momentos em que todo o universo simbólico dos índios vinha à tona e a “tradição” indígena se impunha de maneira mais veemente. Sentia-me, finalmente, como uma antropóloga; participava de conversas informais, observava a preparação e ornamentação dos índios para os rituais, começava a perceber um pouco mais do seu cotidiano. Nunca tive a idéia de que eu seria ali um elemento neutro; a neutralidade axiológica pretendida por alguns campos científicos nunca conseguiu me seduzir. No entanto, não posso negar a minha surpresa ao perceber a dimensão dessa interação na construção do que estudamos. 2 Primeira fase do processo formal de regularização de uma terra indígena. Consiste no conjunto composto por estudos antropológicos, ambientais, fundiários e de definição georrefenciada dos limites propostos para demarcação territorial. I quaderni del CREAM , 2010, X 78 Bem, em meio á dança do Toré3 sobre a Pedra do Crajé4, uma das que fazem parte e é sempre citada ao falar do universo simbólico dos Xukuru, Chicão, cacique5 que havia assumido esse posto recentemente, pede uma pausa para falar aos Xukurus ali presentes. No seu discurso, enfatizava a importância do processo que viviam e enaltecia a identidade indígena, num claro exercício de promoção da auto-estima que vinha sendo tão abalada. Em meio à sua fala, Chicão destacou que tinham que ter orgulho de ser índios e tanto eram índios que estava ali uma antropóloga (Eu!), o que comprovava essa sentença. Deste relato, partem as considerações sobre a idéia de objeto de estudo. De maneira generalizante, a partir dos Dicionários da língua portuguesa Houiss e Aurélio, temos como significado para a palavra objeto: 1. Tudo que é apreendido pelo conhecimento, que não é o sujeito do conhecimento; 2. Tudo que é manipulável e/ou manufaturável; 3. Tudo que é perceptível por qualquer dos sentidos. Matéria, assunto: o objeto de uma ciência, de um estudo. 3 O Toré é um elemento fundamental no sistema cosmológico xukuru. Enquanto manifestação comum entre os índios da região nordeste do Brasil, o Toré possui várias classificações e significados. Entre os Xukuru, não podemos precisar exatamente a época em que se iniciou o Toré, enquanto performance. O que podemos identificar é que os viajantes e pesquisadores que estiveram na Vila de Cimbres (hoje, uma das principais aldeias xukurus), desde o início do século XX, fazem referência à “dança do Toré” que é executada por descendentes indígenas, durante as festividades nessa Vila. O significado do Toré para os Xukuru é polissêmico, ou seja, em alguns momentos, o Toré é um ritual; em outros, uma brincadeira, ou ainda uma dança que integra o ritual. Para maiores detalhes sobre o povo indígena Xukuru, consultar: http://pib.socioambiental.org/pt/povo/xukuru. 4 Esse lajedo se encontra na entrada de uma das aldeias do território Xukuru. Conta-se que, antigamente, quando os esses índios subiam a serra para as festas da vila, antes de entrar em Cimbres, eles paravam nessa laje para descansar e iniciar o ritual do Toré. Além de servir como marco inicial das performances nas festas, essa laje também era o momento de parada e descanso, quando os Xukuru traziam algum morto para ser enterrado no cemitério de Cimbres. 5 Título atribuído à liderança política de cada povo indígena. È uma categoria utilizada de forma genérica, influenciada pelo modelo indigenista oficial. I quaderni del CREAM , 2010, X 79 Na relação de conhecimento, o correlato do sujeito, isto é, o que é conhecido, em oposição ao que conhece. O que é real ou realizável e se torna motor da ação de um sujeito. Como correlato temos para sujeito: 1. O indivíduo real, que é portador de determinações e que é capaz de propor objetivos e praticar ações; 2. Na relação de conhecimento, o correlato objeto, isto é, o que conhece, em oposição ao que é conhecido: o pensamento, a percepção, a intuição, etc; 3. Agente, fonte de atividade. Obviamente, a discussão de cunho epistemológico dessas duas categorias, objeto e sujeito, merece um aprofundamento. No entanto, o que apresentamos já é o suficiente para pensarmos sobre a relação entre sujeito/objeto e o campo de pesquisa. Durante o trabalho de campo, foi possível atentar para o fato da presença do pesquisador contribuir para a elaboração do objeto da pesquisa, vindo colocar em xeque a passividade à qual é associado o “objeto”. Ficava claro que apenas uma concepção construtivista da sociedade poderia dar conta dessas relações. Experiências dessa natureza se deram durante a observação e a participação em rituais numa outra parte da Terra Indígena, denominada Pedra D`Água. Durante os anos em que pude estar presente, o contorno do ritual e mesmo o seu significado iam sofrendo alterações e se atualizando com a dinamicidade inerente à vida social. O que pode parecer óbvio para determinadas concepções, merece destaque para que nos afastemos de noções pré-concebidas e de uma tentativa de cristalizar, de frigorificar processos sociais e expressões culturais. Nesse contexto, emerge o problema do distanciamento necessário daquilo que pretendemos pesquisar. Ao mesmo tempo em que as sociedades indígenas atendem à expectativa de constituírem populações bem delineadas, o campo não demonstra essa realidade. Em meio a fluxos, teias e tramas, as identidades e os contornos são fluidos, negociáveis, altamente mutáveis e, portanto, dinâmicos. Cai por terra toda a possibilidade de lidarmos com o “outro” de uma maneira sistêmica e bem estabelecida. Diferentemente de assegurar I quaderni del CREAM , 2010, X 80 um ideal do nativo, as sociedades indígenas têm provocado os pesquisadores a pensarem no mito que foi construído pelos próprios pesquisadores. Em suma, a relação entre pesquisador e pesquisado é constituída e constitutiva do próprio campo pesquisado. O desenvolvimento do trabalho de campo foi realizado com base em dois referenciais que julguei apropriados para dar conta da complexidade que percebia. Optei pela análise situacional e pelos dramas sociais, como forma de atribuir uma lógica ao processo que vivenciei durante a pesquisa com os Xukuru. A escolha por realizar uma “análise situacional” do grupo indígena Xukuru, de acordo com as formulações de Max Gluckman (1987), tanto se fez por uma questão metodológica de coleta de dados, como de análise dos mesmos. Van Velsen (1987), sistematizando as idéias de Gluckman, afirma que a “análise situacional” se refere à coleta efetuada pelo pesquisador de um tipo específico de informações detalhadas e também de incorporar o “conflito” como sendo “normal” do processo social (ivi, p. 348). Neste tipo de análise é dada maior ênfase aos atores do que aos informantes; os registros de situações feitos pelo pesquisador passam, agora, a fazer parte constituinte da análise e não mera ilustração. Sob esse ponto de vista, campo e situação social são partes integrantes que estão fortemente vinculadas. Nas palavras de Oliveira (1988), “Toda análise situacional acaba por delimitar (ainda que implicitamente) um campo, todo campo supõe uma multiplicidade de contextos que poderiam ser decompostos em situações sociais”. Através do processo social, ou seja, de como se processam as ações sociais em determinada situação, de acordo com Turner, podemos perceber “a maneira pela qual os indivíduos realmente lidam com seus relacionamentos estruturais e exploram o elemento de escolha entre formas alternativas de acordo com as exigências de qualquer situação específica (Van Velsen 1987, p. 371). As situações vivenciadas pelos Xukuru foram analisadas como constituindo uma série de “dramas sociais”, caracterizados como um I quaderni del CREAM , 2010, X 81 “conjunto de harmônicos e desarmônicos processos, aparecendo em situações de conflito, apresentando situações de crise que surgem periodicamente na vida do grupo”; são situações de evidentes conflitos constituídos por fases numa seqüência mais ou menos regular. A partir desse tipo de abordagem, foram descritos três dramas sociais na fase, aqui colocada como molecular, ou seja, como dando início ao processo de mobilização pela afirmação da identidade indígena: (a) A constituição do território Xukuru (relação com a política indigenista e agentes do Estado), (b) A retomada da área denominada Pedra D’água, em que se destaca a disputa por uma área entre índios e pequenos agricultores e (c) A tensão existente entre duas parcelas do território Xukuru, que denominei de “aldeias do leste” e de “aldeias do oeste”, ou seja, tratava-se de uma tensão interna. Os três casos foram escolhidos por ser possível identificá-los como cruciais na definição das fronteiras étnicas existentes, caracterizados por uma sucessão de fatos em situações de crise. A partir da etnografia das três situações, os dados foram organizados e analisados tomando como base a estrutura do drama social. Cada drama foi analisado como uma unidade processual, representando uma seqüência de eventos sociais que, visto retrospectivamente por um observador, pode ser mostrada como tendo uma estrutura. Para esse tipo de análise, Victor Turner concebeu o drama social como constituído de quatro fases: a eclosão do conflito; a crise da situação; a consciência da situação com a mediação passando de mecanismos informais para mecanismos formais e a definição da situação, seja na forma de ruptura ou reintegração do grupo social. O importante dessa perspectiva é perceber o drama social como um processo que mostra vivamente como as tendências sociais operam na prática, no que se baseiam socialmente as intenções das partes envolvidas e como os conflitos entre pessoas ou grupos, em termos de normas comuns ou em termos de normas contraditórias, podem ser resolvidos num particular conjunto de circunstâncias (Fialho 1998). I quaderni del CREAM , 2010, X 82 Problematizado os limites do campo de pesquisa A segunda experiência escolhida buscou compreender as práticas associativas indígenas e suas relações com os projetos de desenvolvimento no nordeste brasileiro. Com base na constatação da proliferação do número de organizações indígenas no formato de associações, o estudo analisou a reapropriação das ações e do discurso de “desenvolvimento” por três grupos indígenas no Nordeste Brasileiro: Kambiwá, Pipipã e Xukuru, através de dados empíricos e documentais. O que se configurava, à primeira vista, como novas articulações para ter acesso a recursos, na verdade envolvia relações mais complexas que se articulam com os movimentos de afirmação étnica e de constituição de esferas de diálogo numa sociedade plural. Tal pesquisa teve por objetivo entender a prática associativa entre os índios e suas relações com as políticas no nordeste brasileiro num tempo e num espaço em que as fronteiras étnicas se apresentam cada vez mais fluidas, ao mesmo tempo – e contraditoriamente – em que a etnicidade assume um papel importante na estruturação das relações sociais. A análise dos processos indicados, enfatizando as experiências dos grupos indígenas no Nordeste brasileiro, não é tarefa muito fácil diante da constante presença no imaginário popular desses grupos como exóticos e distantes da realidade que nos cerca. O primeiro desafio, então, consistiu em abordar a temática como profundamente relacionada com as esferas mais amplas da análise social, ao invés de optarmos por um recorte que distancie a realidade das sociedades indígenas dos fluxos mais intensos que caracterizam o mundo na atualidade. Considerei que havia necessidade de pensar na questão indígena no Nordeste como inserida no contexto social mais vasto, e não como algo que ficou cristalizado no tempo e no espaço, associado a elementos essencialistas e naturalizados; tratava-se da compreensão da articulação do plano local com o global. A proposta passava pela necessidade de entender a possível relação entre localismo e globalismo na emergência étnica no Nordeste. O destaque foi dado aos grupos étnicos porque julgamos que através de- I quaderni del CREAM , 2010, X 83 les estaríamos considerando conceitos fundamentais que se insinuam no contexto da globalização: cultura, tradição e crença numa origem comum, articulados politicamente na afirmação de identidades autônomas. Para essa abordagem, utilizei a concepção de identidade de Boaventura de Souza Santos, apresentando-a como: [...] resultados sempre transitórios e fugazes de processos de identificação. Mesmo as identidades aparentemente mais sólidas [...] escondem negociações de sentido, jogos de polissemia, choques de temporalidades em constante processo de transformação, responsáveis em última instância pela sucessão de configurações hermenêuticas que de época em época dão corpo e vida a tais identidades. Identidades são, pois, identificações em curso (Santos 1997, p.135; como também sugere Bauman 2001). Operacionalmente, tratei as várias esferas de negociação como "campos políticos intersocietários" (Oliveira 1988 e 1999), cuja unidade “resulta do confronto entre perspectivas antagônicas, do jogo de manipulações de interesses e valores divergentes, de lacunas, ambigüidades e acavalamentos de significados" (Oliveira 1999, p. 23). Já tendo, corno primeiro passo, definido o "campo do conflito", de acordo com o que destacou Melucci (1996, p. 4), procurei identificar como certos agentes sociais atuam dentro dele. Tratando-se de acompanhar a rede de constituição de relações e negociações que legitimam um discurso indígena, a coleta de dados da pesquisa se deu em espaços multifacetados; o que nos leva a colocar ainda em questão a delimitação desse mesmo campo e a distância entre pesquisador e o campo observado. Assim, é possível afirmar que “Talvez deveríamos dizer que, num mundo interconectado, nós nunca estamos realmente out of the field” (Gupta, Fergunson 1997, p. 35). Estes mesmos autores, Gupta e Fergunson, na obra Anthropological Locations, apresentam uma discussão de extrema importância sobre os limites e as concepções do trabalho de campo que tem servido para caracterizar a prática antropológica. Apontando-a como uma construção que se dá também num contexto que ainda carrega uma conotação de geografia colonial, indicam a possibilidade de apropriação da idéia de campo e de trabalho de campo de maneira variada e criativa. I quaderni del CREAM , 2010, X 84 Para eles é claro que, ao contrário das tendências homogeneizadoras enraizadas na história colonial e na história neocolonial, a prática do “campo” e as definições da própria disciplina estão realmente distantes dos centros hegemônicos de produção intelectual. De acordo com essa preocupação, foi adotada na referida pesquisa a perspectiva da multisited ethnography que tem como objetivo não apenas problematizar os limites do campo em si, mas considerar a variedade de lócus em que seria possível presenciar os diálogos, entrevistar os sujeitos e observar os fluxos sociais, todos cuidados metodológicos necessários para lidar com o tema estudado. Estive, então, presentes em vários “fóruns” de negociação entre índios os mais diversos agentes sociais: representantes de ministérios do governo brasileiro e do Banco Mundial, gerentes bancários, técnicos de assistência técnicas e extensão rural, entre outros. Não tinha sentido me restringir às fronteiras das áreas indígenas para entender suas relações com as agências de desenvolvimento, quando esse circuito de dá numa amplitude bem superior. Diante da diversidade de situações enfrentadas para o trabalho de campo, uma nova preocupação começou a se configurar para a pesquisa: parecia que não poderia ser utilizado o mesmo modelo de coleta de dados e as unidades de análise estavam se constituindo também de maneira bem diferente. O “campo” era caracterizado pela multiplicidade de oportunidades e situações e estas não ofereceriam as mesmas condições. Assim, entre os Xukuru, devido aos graves conflitos que envolviam os projetos e as associações, optei pelos dados registrados no diário de campo, enquanto que, entre os Pipipã principalmente, priorizei a oportunidade de gravar muitas entrevistas e depoimentos. É importante ressaltar que o modelo de coleta se diferenciou de uma situação para outra. Essa diversidade de situações e a ausência de uma linearidade nos procedimentos de campo é bem enfatizada por Diana Nelson, que, nos seus estudos sobre os indígenas na Guatemala, aponta a variedade de situações de sua coleta de dados (Nelson 1999, p. 33). Geertz também afirma que não existe uma receita generalizável para uma apropriada metodologia. I quaderni del CREAM , 2010, X 85 A descrição referente às dificuldades do campo é também pertinente ao observarmos que a incursão entre projetos e associações estava sempre relacionada a aspectos mais subjetivos da organização social das sociedades estudadas. Para apreender o seu sentido, foram realizadas várias entrevistas, inumeráveis situações observadas, desde fóruns locais a nacionais; muitas informações importantes foram coletadas em conversações, muitas delas, informais, ocorridas dentro de um carro, durante o deslocamento de uma área para outra, durante conversas na “cozinha” da casa de entrevistados; nas salas de espera de audiências no Ministério Público Federal em Recife e até em shoppings centers e centros de convenções, nas ocasiões em que os índios organizavam “feiras”, promoviam debates e mostravam os resultados de suas articulações com várias instituições que estavam propiciando sua visibilidade na sociedade, assim como indicando que poderiam estar inseridos no mercado através do rótulo de “étnico”. Problemas e desafios As escolhas metodológicas nos impõem, anteriormente ao tratamento escolhido para coleta e análise dos dados, a necessidade de adotarmos uma escolha epistemológica. Discutir, então, aqui, metodologias qualitativas nos remete não apenas à oposição qualidade/quantidade, mas, como já destacou Melucci (2005), a uma discussão que põe em evidência a oposição entre perspectiva construtivista e realismo ingênuo. As escolhas metodológicas expostas neste texto nos levam também à superação de uma conexão linear entre hipóteses e verificação das hipóteses, modelo clássico da pesquisa científica, e nos conduzem ao entendimento emergente e recorrente dos processos nos quais o conhecimento é produzido através da troca dialógica entre “pesquisador” e “pesquisado”. Para Geertz, com relação às ciências sociais, destinamos as mesmas ao fracasso se quisermos aplicar às práticas coletivas, qualquer tentativa de utilizar definições do tipo “a essência e o acidental”, ou “a I quaderni del CREAM , 2010, X 86 forma natural das coisas”, ou de colocá-las em alguma “latitude e longitude” específicas do espaço acadêmico. A explicação interpretativa deve se concentrar no significado que instituições, ações, imagens, elocuções, eventos, costumes, ou seja, todos os objetos que normalmente interessam aos cientistas sociais, têm para seus proprietários. Apesar dessa simbiótica relação entre pesquisador e pesquisado, Geertz afasta a visão romântica de que temos que nos sentir como um “nativo” para entender o seu entendimento. A seu ver, o pesquisador não percebe e não é capaz de perceber aquilo que seus informantes percebem. O que ele percebe, e mesmo assim com bastante insegurança, é o “com que”, ou “por meios de que”, ou “através de que” os outros percebem. Obviamente, diante de tantos limites, o que nos resta como problemas, ou como desafios a serem enfrentados, podemos citar: (a) a multiplicidade de perspectivas e de modelos metodológicos; (b) a complexidade do campo da pesquisa qualitativa; (c) as relações estabelecidas entre pesquisador e pesquisados; e (d) a dimensão ética da pesquisa como prática social Por fim, no intuito de fazer o recorte necessário para os devaneios que a temática nos propicia, recorro a Habermas para concluir, destacando a complexidade do campo de pesquisa social e da relação com todos os sujeitos que o compõem. Este autor emprega uma tipologia específica para as ciências: Ciências “empírico-analíticas” – A predição e a explicação possuem uma relação de simetria; leis universais fundamentadas empiricamente são combinadas com um conjunto de condições iniciais, que resultam em um conjunto de covariâncias (previsíveis) de acontecimentos observáveis (Allum, Bauer, Gaskell 2002, p. 31). Ciências “histórico-hermenêuticas”, surgidas a partir de um interesse prático no estabelecimento de consenso. Para que a ciência aconteça, é imperativo que haja compreensão intersubjetiva fidedigna, estabelecida na prática da linguagem comum; e Ciências Críticas que, segundo Habermas, vão além da históricohermenêutica; propõem um processo auto-reflexivo capaz de identiI quaderni del CREAM , 2010, X 87 ficar estruturas condicionadoras de poder como o resultado de uma comunicação sistematicamente distorcida e de uma repressão sutilmente legitimada. Ressalta-se que a perspectiva crítica só pode ser conseguida através da aceitação de sua importância pelos que constituem seus objetos e a recepção dos resultados da pesquisa pelo público pretendido, como parte da “situação total da pesquisa”. Enfim, ao final, minha proposta é ressaltar que a pesquisa social requer um movimento constante de criação e reflexão e termino afirmando, inspirada por Allum, Bauer e Gaskell (2002), que a prontidão dos pesquisadores em questionar seus próprios pressupostos e as interpretações subseqüentes de acordo com os dados, juntamente com o modo como os resultados são recebidos e por quem são recebidos, são fatores muito mais importantes do que a escolha de uma técnica empregada. Referências Allum, N. C, Bauer, M. W, Gaskell, G., 2002, “Qualidade, quantidade e interesses do conhecimento: evitando confusões”, in M. W. Bauer, G., Gaskell, Pesquisa qualitativa com texto, imagem e som: um manual prático. 4, Petrópolis, Vozes. Fialho, V., 1998, As fronteiras do ser Xukuru, Recife, Massangana. Geertz, C., 1997, O saber local, Petrópolis, Vozes. Gluckman, M., 1987, “Análise de uma situação social na Zuluândia moderna”, in B. Feldaman-Bianco, (org.), Antropologia das sociedades contemporâneas, São Paulo, Globo. Gupta, A., Ferguson, J., 1997, Anthropological locations: boundaries and grounds of a field science. Berkeley/Los Angeles/London, University of California Press. Marcus, G. E., 1998, “Ethnography in/of world system: the emergence of a multi-sited ethnography”, in Ethnography trough thick and thin, Princeton, Princeton University Press. I quaderni del CREAM , 2010, X 88 Melucci, A., 2005, “Busca de Qualidade, ação social e cultura: por uma sociologia reflexiva”, in Por uma sociologia reflexiva: pesquisa qualitativa e cultura, Petrópolis: Vozes. Nelson, D., 1999, A finger in the wound: body politics in quincentennial Guatemala Berkeley and Los Angeles, University of California Press. Peirano, M., 1992, A favor da etnografia, “Série Antropologia”, UNB, n.130. Peirano, M., 1997, Onde está a Antropologia?, “Mana”, n. 3(2), pp. 67-102. Van Velsen, J., 1987, “Análise situacional e o método de estudo de caso detalhado”, in B. Feldman-Bianco, (org.), Antropologia das sociedades contemporâneas, São Paulo, Globo. Weber, S. Leithauser T., (Org.), 2007, Métodos Qualitativos nas Ciências Sociais e na prática social, Recife/PE: Editora Universitária da UFPE. I quaderni del CREAM , 2010, X 89 FRANCESCA NICOLA 1 ESSERE OKAPIANS A PORT MORESBY. TRADIZIONI DI SCAMBI E NUOVE IDEOLOGIE DEL SÉ IN PAPUA NUOVA GUINEA Port Moresby: frontiera del desiderio e ambiente ostile In Papua Nuova Guinea raramente si sentono parole gentili nei confronti delle città, tanto che i giudizi negativi, incentrati su come sia caro e pericoloso vivervi, costituiscono un tropo narrativo delle conversazioni quotidiane dei loro abitanti. La maggior parte delle persone abbandona il proprio villaggio per via del crescente impoverimento rurale (Connell 1997) e della concentrazione urbana dei servizi (ospedali e scuole in primo luogo). Quella economica, tuttavia, non è l’unica motivazione. Dalle interviste che ho condotto all’interno della comunità di Okapians2 traferitisi a Moresby, la capitale del Paese, è emerso come, specialmente per i migranti più giovani, la ricerca di una vita fuori dal villaggio rappresenti un tentativo di superare una serie di limiti imposti alla loro capacità di movimento (fisica ma anche sociale ed esistenziale) dai parenti, dalla scuola e dalla tradizione. Questi limiti sono vissuti come ostacoli alla crescita individuale e allo sviluppo di traiettorie di vita personali e libere3. Da questo punto di vista la città rappresenta così 1 Dottoranda in antropologia della contemporaneità, Università degli Studi di Milano Bicocca. 2 Okapians è una delle categorie con cui si auto-designano e sono designati coloro che migrano a Port Moresby dal distretto di Okapa, situato nella provincia delle Eastern Highlands. 3 In particolare, le interviste che ho condotto rivelano come la minaccia più forte alla libertà I quaderni del CREAM , 2010, X 91 una vera e propria “frontiera del desiderio” in cui poter sviluppare progetti di vita personali svincolati dalle pressioni del villaggio. Gli stessi centri però sono allo stesso tempo descritti come ambienti in cui è facile sentirsi “fuori luogo”, stranieri. Molte sono le ragioni che concorrono alla loro percezione ambivalente di siti della libertà e del pericolo (Schlor 1998). In primo luogo vi si è costretti a confrontarsi, spesso per la prima volta, con lingue e culture diverse dalle proprie, esperienza eccitante e destabilizzante allo stesso tempo4: Franca, questo è come io vedo Moresby. È come una fermata del bus, con gente di diverse culture e lingue tutte insieme. Hai capito? Moresby è come una fermata del bus. In città sei sempre all’erta, non ti puoi rilassare, perché non sai se quello che fai senza accorgertene può essere frainteso. La composizione interna dell’ethnoscape (Appadurai 2001) urbano si traduce in un sentimento di disorientamento e di perdita di stabilità. L’espressione “Senza accorgertene” usata dal mio interlocutore è indicativa della paura diffusa che l’eterogeneità linguistica e culturale possa essere fonte di incomprensioni foriere di scontri violenti5. A tutto ciò si aggiunge il problema del raskalism, il fenomeno dilagante della delinquenza giovanile: con il calare della sera, soprattutto Port Moresby diventa una città in cui muoversi è molto pericoloso. Strade e fermate dei bus si spopolano velocemente. In giro solo gangs di raskals e gruppetti di prostitute. Chi può si protegge in case difese da filo spinato e guardie di sicurezza e se esce lo fa solo in personale che il villaggio impone sia il matrimonio arrangiato dalla famiglia. I ragazzi migrati da Okapa in città hanno sottolineato spesso di non sentirsi pronti per questo tipo di legame (e per gli obblighi economici verso i parenti affini che comporta) e di volersi muovere liberamente fino al momento in cui, stanchi di andarsene in giro, vorranno ristabilirsi al villaggio. Pato, ad esempio, trent’anni, di cui gli ultimi quindici vissuti in città, mi ha esplicitamene reso la seguente dichiarazione di intenti: “mi go raun inap na biain my marit”(voglio andarmene in giro fino a quando mi pare, e solo dopo sposarmi). 4 In Papua Nuova Guinea si stima esistano più di ottocento diversi gruppi etno-linguistici. Questa varietà culturale è rispecchiata nella capitale Port Moresby. 5 Una paura è che fraintendimenti e offese non intenzionali, ad esempio, possono portare ad attacchi di stregoneria che, poiché commissionati da persone di culture diverse dalla propria e dunque basati su logiche sconosciute, sono temuti più di quelli che avvengono al villaggio. I quaderni del CREAM , 2010, X 92 macchina, seguendo una topografia specifica di luoghi sicuri, ristoranti, bar, hotel, nightclub. Al di fuori, di notte, la città è soprattutto dei raskals, una presenza costante ma protetta dal buio, indeterminata (Taussig 1992). Eterogeneità linguistica, delinquenza, mancanza di alloggi, di lavoro e di welfare sono poi esasperati da politiche urbane che invece di affrontare i problemi tendono a scoraggiare il flusso migratorio dalle zone rurali attraverso politiche di segregazione degli spazi ereditate dal periodo coloniale: a causa della mancanza di nuovi alloggi e del costo altissimo dei pochi disponibili chi migra è costretto d insediarsi in settlements (quartieri abusivi) sprovvisti di qualsiasi servizio e ad appoggiarsi alla rete di parenti o di appartenenti allo stesso gruppo etno-linguistico che già vi risiedono. Chiamati wantok (dall’inglese one talk, una lingua), i parenti o compaesani in città rappresentano così un vero e proprio gruppo primario di referenza e una rete di sicurezza sociale (Strathern 1975). Gli abitanti di Okapa che migrano a Port Moresby, non fanno differenza. Appena arrivati si stabiliscono nei quartieri abusivi in cui la comunità si distribuisce, cercando ospitalità fra i propri wantok. Analizzando l'uso di questo termine si scopre che esso designa sia “qualcuno che parla la stessa lingua, che è della stessa nazionalità, un compatriota, un vicino, qualcuno che è dello stesso paese” (Mihalic 1983, p. 202), sia …qualcuno con cui ti ubriachi, con cui ti fai dei favori, ti scambi i vestititi, fai la doccia, oppure mangi assieme. La convivenza di queste due accezioni linguistiche è significativa. Non fotografa solo una pratica di solidarietà e di mutua assistenza infra-familiare, ma illumina la concezione locale tradizionale della natura dei rapporti di parentela o di appartenenza etnica, vivificati non tanto da un legame di sangue o di condivisione dello stesso territorio, quanto da un ciclo continuo di transazioni di beni e di favori, secondo quello che Marshall Sahlins ha definito un “principio di reciprocità generalizzata” (Sahlins 1965). L'organizzazione economica degli Okapians a Port Moresby ne è I quaderni del CREAM , 2010, X 93 una manifestazione visibile. La comunità è distribuita in sei diversi settlements (Two Mile, Nine Mile, Six Mile, Morata e Badili e Hohola), che hanno l'impatto visivo di un insieme non pianificato di capanne, baracche e piccoli orti coltivati. In ognuno di essi hanno stabilito una sezione mono-etnica separata spazialmente da altri agglomerati di famiglie migrate da differenti villaggi e regioni del Paese. La maggior parte delle famiglie di Okapians in città si mantiene in primo luogo attraverso il commercio ambulante6 o il consumo diretto di prodotti agricoli coltivati direttamente. Un’entrata finanziaria costante è però necessaria, e di solito almeno una persona per famiglia ha un lavoro stabile. Mentre quasi tutte le donne lavorano come domestiche, gli uomini trovano impiego come driver, maestri, giardinieri e guardie. Nonostante gli stipendi siano variabili, i salari sono però condivisi, tanto che il criterio di distinzione economica delle unità domestiche è più legato al numero di abitanti che la compongono che al tipo di impiego che i membri svolgono. Prendiamo in considerazione la storia di Mex. Nato ad Okapa trent'anni fa, da tredici anni si è stabilito nel quartiere abusivo di Two Mile. Ha sempre lavorato come autista per un imprenditore cinese, il quale due anni fa ha deciso però di tornare a casa. Assistito da una rete di wantok (non solo parenti stretti ma anche altri Okapians) Mex ha potuto superare il momento di crisi. Trovato un altro lavoro, ha a sua volta contraccambiato l’aiuto ricevuto ospitando migranti da Okapa imparentati con coloro che l’avevano aiutato: I miei wantok mi hanno aiutato con i soldi, il cibo e un posto dove stare. Quando ho trovato un lavoro ho preso in casa i nipoti di Kapesye. Sono venuti dal ples (dal villaggio) per studiare qui. Ci aiutiamo tra di noi. Ho tre stanze disponibili per i miei wantok quando vengono in città. Quella che Mex ha messo in pratica, e che informa le relazioni con i wantok in città è una modalità di intendere e di costruire i rapporti sociali che potremmo definire transazionale, in cui cioè le relazioni si costruiscono attraverso scambi di beni o di favori che assumono la 6 In particolare scones, bibite, sigarette, noci di betel, kerosene. I quaderni del CREAM , 2010, X 94 forma di doni e di contro-doni. È precisamente questa catena di transazioni che crea la relazione e le dà sostanza. Non solo ogni atto di mancata restituzione di un dono equivale alla volontà di interrompere la relazione stessa, ma ad ogni relazione sociale corrisponda una specifica modalità di transazione la quale a sua volta, in modo circolare, determina la costruzione o il rafforzamento di uno specifico tipo di relazione (Wagner 1977; Sahlins 1965). Dal punto di vista tradizionale, per esempio, è fondamentale che le transazioni tra parenti non si basino su modalità di scambio caratterizzate da un'esplicita contrattazione economica, tipiche delle relazioni tra estranei. Con i wantok, infatti, si mettono in atto relazioni presuntivamente altruistiche: l'ospitalità, l'aiuto, la generosità e l'obbligo del contro-dono sono posticipate nel tempo e, almeno apparentemente, non assumono tanto la forma di obbligazione, quanto piuttosto quella di un mutuo soccorso. Il loro carattere non vincolante è tuttavia solo apparente. Ogni individuo conosce alla perfezione la fitta rete di scambi di beni e di favori in cui è coinvolta la famiglia allargata cui appartiene, ed è generalmente in grado di ricostruire la serie di favori che ha dato e reso la generazione dei propri genitori, quella anteriore dei nonni e via dicendo, fino a risalire ai fondatori del proprio clan. È sulla base di questa complessa genealogia di mutue transazioni che ogni individuo fa le proprie scelte. Ed è basandosi sullo stesso sistema di aspettative di reciprocità che chi migra in città considera un diritto il fatto di trovare nei wantok che già vi risiedono aiuto, ospitalità, protezione, assistenza economica. Non sono però rivendicazioni accolte placidamente. Attorno alla liceità o meno di riprodurre in città la stessa modalità di relazione sociale del villaggio si consuma un'accesa disputa politica, che coinvolge in special modo coloro che hanno acquisito uno speciale status economico. A loro i wantok chiedono moltissimo: assistenza economica, un lavoro, un tetto sotto cui dormire, richieste che vengono a volte negoziate, a volte negate, quasi sempre negoziate strategicamente attraverso una ridefinizione della tradizione e dei doveri di reciprocità che comporta. I leader di comunità in città e i migranti che si appoggiano a loro I quaderni del CREAM , 2010, X 95 incarnano così in maniera particolarmente evidente dibattiti che sono oggi centrali nella quotidianità di molti abitanti di Papua Nuova Guinea. Moderni e tradizionali assieme e a seconda delle esigenze del contesto, offrono un punto di vista strategico attraverso il quale esplorare la natura dei cambiamenti sociali in corso nel Paese. Okapa Haus All'interno della comunità di Okapians di Port Moresby colui che gode di maggior prestigio è Keke, stabilitosi in città una quarantina di anni fa e da circa trenta manager di una compagnia che gestisce i trasporti portuali. Al contrario di quasi tutti gli altri Okapians non vive in un quartiere abusivo, ma in una casa conosciuta come Okapa Haus, che essendo stata originariamente costruita per i colonizzatori australiani è fornita di servizi come acqua corrente ed elettricità, cosa che la rende per tutti i wantok un luogo cui appoggiarsi nei frequenti periodi in cui nei quartieri abusivi questi servizi mancano: una quindicina di persone circa circola quotidianamente per la casa per fare la doccia, guardare la televisione, mangiare un piatto di riso, lavare i panni. Alla sera alcuni tornano nel proprio quartiere, la maggior parte rimane a dormire su un telone disposto fuori dalla casa, all’ombra degli alberi da frutto.. La fitta rete trans-locale (Vertovec 2001, p. 23) di cui è parte Okapa Haus non include solo gli altri quartieri ma anche il villaggio: Quando possono coloro che la abitano visitano Okapa, in special modo in occasione di celebrazioni tradizionali, come matrimoni e funerali. Ciò non avviene tutti gli anni: data la mancanza di strade del Paese sono costretti a prendere l’aereo, che nonostante le “tariffe wantok” che la compagnia di bandiera Airniugini riserva a coloro che si recano al villaggio di origine, rimane un mezzo piuttosto costoso. Di solito viene organizzata una colletta per mandare a rotazione qualcuno in visita. Chi rimane organizza una cerimonia parallela in città per il defunto o in onore della coppia di futuri sposi. È però analizzando meglio la composizione stessa della famiglia allargata che la natura multi situata della comunità di Okapiani appare I quaderni del CREAM , 2010, X 96 evidente. In essa infatti è possibile distinguere due insiemi di persone: da una parte il nucleo stabile e ristretto costituito da Keke, il capofamiglia e proprietario temporaneo della casa, sua moglie Faggie e i loro sei figli. Dall’altra un numero variabile di wantok provenienti dal villaggio o dagli altri settlement. Chiamati “pasendia”7, vivono stabilmente a Okapa Haus per periodi più o meno lunghi. Alcuni vi risiedono per anni, in baracche abusive costruite nello spiazzale adiacente alla casa, un’area che costituisce un vero e proprio prolungamento domestico. Si tratta di Okapians economicamente poco auto-sufficienti, che di tanto in tanto contribuiscono con generi alimentari acquistati, ma che di fatto dipendono da Keke per la loro sopravvivenza. La natura della leaderhip di Keke Keke è percepito come un vero e proprio leader, come attesta l’appellativo di “Big Shot”, traducibile con “pezzo grosso”. Un buon stipendio, una casa moderna e un'automobile sono i segni visibili del suo successo, che lo ha reso negli anni il punto di riferimento della comunità sia dal punto di vista economico che politico. Oltre a chiedergli contributi finanziari, infatti, gli Okapians di Moresby gli affidano la risoluzione di dispute con altri gruppi etnici e in generale le decisioni collettive più spinose. Per rivolgersi direttamente a lui o all'interno delle conversazioni informali Keke è chiamato invece “daddy”, (papà), espressione che allude alle relazione di autorità e dipendenza stabilitesi con lui tipiche delle relazioni filiali. Keke stesso ama utilizzare il termine per autodefinirsi, corroborando così l’immagine di un padre generoso che dona in maniera compassionevole e disinteressata ai figli della sua famiglia allargata. Se la relazione che sembra esistere tra Keke e i pasendia è dunque apparentemente molto simile a quella dei leader melanesiani tradizionali, i Big Men, per i quali l’ostentazione di generosità è un elemento chiave nella costruzione della propria 7 Termine Pidgin English derivato dall’inglese passenger.. I quaderni del CREAM , 2010, X 97 leadership (Strathern 1971), il fatto che nessuno si riferisca a lui come Big Men, quanto piuttosto come “pezzo grosso” o “papà”, dimostra che il comportamento di Keke non è del tutto assimilabile a quello dei leader tradizionali. Individui ambiziosi che acquisiscono un maggior prestigio per ricchezza, generosità o abilità, questi ultimi sono infatti obbligati a manifestare periodicamente la loro supremazia sociale attraverso una redistribuzione dei beni precedentemente accumulati grazie all'aiuto di quanti hanno convinto a collaborare. La loro autorità, dunque, da una parte si costruisce attraverso dimostrazioni pubbliche di liberalità, dall'altra, essendo strettamente vincolata al consenso che è in grado di costruire, dipende necessariamente dalla disponibilità altrui. Definendo se stesso come padre Keke tende invece a rendere opachi i rapporti di reciprocità con i parenti del villaggio e a mettere in primo piano l'ideologia dell’“essersi fatto da solo”. Dà risalto a una sola delle componenti che concorrono a definire l'autorità dei Big Men tradizionali, la propria magnanimità, che astratta dalla fitta rete di transazioni reciproche assume così le sembianze di un’erogazione di favori unidirezionale svincolata da qualsiasi forma di dipendenza. È un'ideologia del Sé inteso come individuo autonomo, autosufficiente, moderno che, già implicita nell’appellativo di “daddy”, è poi continuamente performata da Keke attraverso una serie di strategie pratiche e retoriche. Nei suoi racconti auto-biografici, ad esempio, il peso del villaggio è sempre minimo: Allora, scrivi bene quello che ti racconto, perché è la storia della mia vita, e per te è interessante. Devi scriverlo nel tuo libro. Sono arrivato a Moresby che ero un ragazzino, non sapevo neanche cosa fossero le mutande. (ride). Ma ero furbo, ero veloce, volevo imparare tutto… Significativamente il racconto inizia con l’arrivo in città e con lo sviluppo delle proprie abilità manageriali, passando in silenzio la fase dell’infanzia e delle relazioni sociali che gli hanno consentito di stabilirsi e di sopravvivere in città. Seguendo un canovaccio piuttosto diffuso tra le élites indigene urbane, il racconto di Keke prosegue illustrando le tappe della sua carriera, partita investendo 30 toya I quaderni del CREAM , 2010, X 98 (centesimi di kina, la moneta nazionale) per comprare un po’ di farina da usare per cucinare scones (focaccine) da vendere al mercato. Con il ricavato messo da parte in alcuni anni, Keke è riuscito ad aprire un piccolo negozio e a comprare due camion, grazie ai quali ha iniziato a lavorare nel business dei trasporti portuali. Questo gli ha permesso di farsi un nome nell’ambiente e di essere assunto qualche anno dopo nella compagnia per cui ancora oggi lavora. Più che la sua storia, quella che mi racconta è la storia di sé, dei suoi successi e dei suoi fallimenti come individuo indipendente dalle relazioni sociali. Sotto questa luce perfino la forma narrativa autobiografica assume significato: di fronte alla mia richiesta di intervistarlo, Keke ha espressamente indicato la volontà di strutturare le interviste sotto forma di racconti auto-biografici: “ti racconterò la mia vita, ma tu non interrompermi. Le cose devono essere raccontate nel modo giusto”. Come ha messo in luce Goddard, la scelta della forma narrativa autobiografica dimostra la volontà di presentare sé stessi come soggetti che vivono e raccontano gli eventi dal punto di vista di entità sociali individuali, autonome, ego-orientate, capaci di separarsi da ciò che si sta raccontando (Goddard 2001). La retorica di Keke, sia nei contenuti che nella forma utilizzata, propone dunque una precisa ideologia dell’individuo come proprietario della propria persona e delle proprie capacità, che nulla deve al la società, una particolare forma di individualismo che lo scienziato politico Crawford Brough Macpherson ha definito “possessive individualism” (Macpherson 1962, p. 3). Negoziare la tradizione L’affermazione di questa ideologia del Sé è però è, almeno in parte, rifiutata da coloro che abitano al villaggio e dai pasendia di Hohola. Le loro versioni alternative della biografia di Keke rappresentano il suo successo come frutto di un investimento collettivo: Keke ci ospita qui perché anche lui è stato adottato. Mio nonno Marabe lo ha adottato quando è rimasto orfano. Gli ha pagato le tasse scolastiche, lo ha vestito I quaderni del CREAM , 2010, X 99 e gli ha dato da mangiare. Poi lo ha anche mandato qui a Moresby da parenti, per farlo andare a scuola. Keke deve tutto alla mia famiglia. Se non fosse stato per mio nonno sarebbe ancora a piantare kaukau (patata dolce) a Moke. Dal punto di vista di Puka, il giovane ospite di Okapa Haus che ha pronunciato queste parole, la transazione di favori avvenuta fra il proprio clan e Keke giustifica il proprio diritto a essere ospitato, secondo le regole della tradizione che stabiliscono l'obbligo di rispondere a un dono (un oggetto, ma anche un favore) con un contro-dono. Nel riferirsi alle aspettative di ospitalità, lo stesso Puka usa il termine kastom, traducibile con cultura, consuetudine: “Keke ci ospita perché è la nostra cultura, è il kastom”. È dunque sulla base di un ethos della reciprocità che caratterizzerebbe la cultura melanesiana nel suo complesso e che oltrepassa la generosità super-erogatoria di Keke che Puka si ritiene in diritto di avanzare le proprie richieste. Questi a sua volta non respinge del tutto le pressioni dei pasendia, se non altro perché, come molti altri esponenti dell’emergente élite urbana, progetta di tornare al villaggio una volta in pensione. È consapevole che perché ciò possa accadere è fondamentale mantenere buone relazioni con i parenti: Il ples è sempre nella mia mente. Le relazioni con i wantok sono importanti. Bisogna coltivarle come si coltivano le piante da frutto. Non è come il kaukau, che lo pianti è viene su da solo. Con i wantok al ples devi stare attento come con le piante di mango. Oltre che a ritrasferirvisi, oltretutto, è interesse di Keke tornare al villaggio non come una persona qualsiasi, ma con uno status privilegiato. La lontananza da casa non gli ha infatti permesso di partecipare alla contesa locale per la leadership, e l’unico modo che ha per sperare di non tonare ad Okapa come il ragazzino che se ne era andato, orfano e semplice grassroot (una persona qualsiasi), è quindi di soddisfare una serie di aspettative di generosità che siano in sintonia con il carattere transazionale delle relazioni sociali e della leadership politica tradizionale. Due sono i modi in cui egli cerca di soddisfare tali richieste. Il I quaderni del CREAM , 2010, X 100 primo consiste, come abbiamo visto, nell’accettare e nel mantenere pasendia che si trasferiscono a Hohola. Il secondo coincide con il finanziamento di numerosi rituali, per lo più funerali e matrimoni. Keke li definisce “customary rituals” e rivendica un ruolo di guida nella loro promozione, rappresentandosi così come un promotore del kastom e un suo difensore dalla corruzione dalle influenze della modernità. L'uso che fa del termine è però differente da quello degli altri membri della comunità di Okapians: per questi infatti, sia al villaggio che in città, il concetto di tradizione e quello di kastom non sono completamente sovrapponibili. Nel significato che attribuisce al termine Lea, anziana Okapiana migrata a Moresby una ventina di anni fa, il kastom non si esaurisce solo nell’insieme dei costumi ereditati dal passato, ma può anche riferirsi a un fenomeno culturale moderno, abbracciando così un insieme di aspetti dei quali solo alcuni rientrano nella categoria di tradizione (Martin 2006): Una volta le donne, quando avevano le sik mun (il ciclo mestruale) stavano in una piccola capanna e non potevano vedere nessuno. Oggi invece c’è un altro kastom. Piuttosto che con tradizione, il concetto di kastom nella sua accezione diffusa sembra così sovrapponibile più che altro a quello di “cultura”(Akin 2004). Keke, al contrario, nel raccontarmi come da giovane, negli anni Sessanta, il padre lo avesse messo in guardia dall’essere troppo ambizioso e individualista, atteggiamenti potenzialmente forieri di attacchi di stregoneria dovuti alla gelosia, usa le seguenti parole: …io gli ho risposto che questa è una nuova era, è lo sviluppo. Mio padre era povero. Io gli ho detto: padre, non voglio vivere come te. Anche se volessi non posso: tu hai l’orto e mangi il kaukau (patata dolce) che coltivi. Io devo vivere la vita moderna, con un pochino di kastom. Le metto insieme per fare la mia forza. Al contrario di Lea, Keke sente il bisogno di distinguere netta- I quaderni del CREAM , 2010, X 101 mente il kastom dalla modernità (“Io devo vivere la vita moderna, con un pochino di kastom”) e di sottolineare la sua abilità nel conciliare i due aspetti (“Le metto insieme per fare la mia forza”). Consideriamo poi questa sua ulteriore affermazione: Torno spesso alla vita di villaggio. In questa settimana ho contribuito con molte kina per le morti a Okapa. Sabato scorso è stata la volta di una donna a Pusarasa. Sono automaticamente coinvolto. È il genere di legame tradizionale che bisogna conservare. La mia attività con il kastom non ha mai fine, i legami tradizionali devono sempre essere presenti e mi spingono fuori dall’ufficio. Anche qui, al contrario di quanto avviene comunemente, Keke ribadisce una netta divisione tra vita moderna e tradizionale, che descrive come conciliabili ma distinte. Assimila il concetto di kastom, che di solito è impiegato in senso molto generico, alla tradizione e, ancora più nello specifico, lo circoscrive ai rituali tradizionali. La retorica della preservazione della tradizione che mette in atto appare così una strategia politica di negoziazione della propria leadership all'interno della comunità, attraverso la ridefinizione dei doveri e dei vantaggi che comporta: sottolineando la propria solerzia nel rispettare i legami tradizionali, Keke ne fissa allo stesso tempo i confini. Questa delimitazione gli garantisce così la possibilità di rifiutare le richieste dei parenti avanzate in contesti sociali esterni rispetto alla sfera della tradzione. Un esempio è il suo rifiuto di pagare le tasse scolastiche del figlio maggiore di Paul, suo parente e da un paio d’anni residente a Hohola: “questo non è kastom e non mi riguarda”. L’individualismo come marcatore sociale In un’occasione è capitato che Keke sgridasse la figlia più piccola perché aveva frugato nella borsa di un parente per prendere della buai (noce di betel). Questo episodio mi è subito sembrato degno di nota, perché dissonante rispetto alla pratica quotidiana diffusa a Hohola di prendere liberalmente qualcosa di “proprietà” di un altro membro della famiglia senza preoccuparsi di chiedere il consenso. I quaderni del CREAM , 2010, X 102 Oltretutto l'aneddoto riecheggia alcune descrizioni etnografiche note all'interno della letteratura antropologica sui principi di scambio tipici della Melanesia. Già Malinowski (Young 1979, p. 46), per esempio, aveva descritto le tribolazioni con cui un capo delle Trobriands cercava di conservare qualcuna delle sue noci dalla rapacità degli abitanti del villaggio, che si sentivano legittimati a prenderle in continuazione e in gran quantità in virtù dell'obbligo dei Big Men di dimostrare pubblicamente la loro generosità. Nonostante il suggestivo rimando alla letteratura, appare evidente come il problema di Keke fosse leggermente diverso: egli infatti non si faceva remore a distribuire buai, ma d'altronde vietava alla moglie e ai figli di fare altrettanto, fermamente deciso a non presentare se stesso come il genere di persona che vive in base alla cultura tradizionale della condivisione. Si prenda in considerazione il commento di Keke all'accaduto: …è che mi da fastidio quando vedo qualcuno che fruga senza chiedere nelle borse degli altri per prendersi le sigarette o la buai. Quando i parenti di Feggie (la moglie) vengono in casa mia mi arrabbio se mia moglie chiede loro sigarette o buai. Il fatto che i parenti della moglie gli chiedessero in continuazione noci da masticare non costituiva affatto un problema. Ciò che ai suoi occhi appariva inaccettabile, invece, era che lo facessero la moglie o la figlia. Entrambe le azioni sembravano infatti minacciare l’identità della sua famiglia, intesa in questo caso come nucleo famigliare ristretto e parte di un’élite indigena emergente che fa dell’ideologia della persona svincolata dalle reti di dipendenza reciproche tradizionali un fattore di distinzione sociale. Un pasendia di Hohola, a proposito dell’arrabbiatura di Keke, commenta in modo significativo: “Lo ha fatto apposta. Ma è sbagliato rifiutare di condividere la buai. È il kastom”. Nelle parole di questo “ospite” di Keke gli scambi di noci riflettono in maniera archetipica la cultura della mutua interdipendenza tipica di Papua Nuova Guinea, un complesso di idee e di pratiche che informano la quotidianità della maggior parte degli abitanti del Paese. L’espressione “Lo ha fatto I quaderni del CREAM , 2010, X 103 apposta” suggerisce l’idea che Keke, con il suo comportamento, stia esplicitamente criticando questa cultura, cercando di distanziarsene, utilizzando l’ideologia del possessive individualism come marcatore sociale, ossia come strumento per tracciare in maniera netta la separazione tra parenti del villaggio e se stesso, tra nucleo famigliare ristretto e pasendia, fra modernità e tradizione. Un ulteriore motivo che rende l'episodio delle noci particolarmente interessante emerge se si tiene conto del fatto che la loro distribuzione costituisce spesso una della fasi dei rituali di scambio tradizionali di cui, come già detto, Keke è un solerte finanziatore. Nella sua ottica, in questi specifici contesti “tradizionali”, e contrariamente alla dimensione quotidiana di Okapa Haus, le aspettative di scambi di noci sono del tutto legittime, poiché incanalate entro linee guida che prescrivono precisamente chi debba donare a chi a seconda dalle relazioni in gioco durante l’evento. Rovistando tra le borse, invece, i pasendia si rendono responsabili di confondere i confini tra modernità e tradizione, mischiando pericolosamente i due ambiti e perpetuando un ciclo senza fine di reciprocità che Keke considera fastidioso e ideologicamente sbagliato, tanto da descriverlo come un sintomo del malessere culturale che affligge il Paese: “il nostro problema è una cultura del consumo. Non produciamo niente, non creiamo niente. La gente sta seduta in cerchio aspettando di essere imboccata e pensa che sia il kastom”. Come hanno mostrato Errington e Gewertz in un interessante lavoro della fine degli anni Novanta in cui analizzavano la nascita di un sistema di classi sociali in Papua Nuova Guinea, nei discorsi delle èlites urbane e politiche del Paese la retorica stigmatizzante verso l’ethos della dipendenza è un modulo retorico centrale e funzionale al proprio auto-mantenimento. La stessa retorica, per altro, informa molte campagne di ONG indigene e straniere: si noti, per esempio, la campagna sponsorizzata da DFID (Department for International Development del governo inglese) sull’alfabetizzazione adulta, che recita: “dai all’uomo un pesce e lo sfamerai per un giorno, insegnagli come pescare e lo sfamerai per la vita”. I quaderni del CREAM , 2010, X 104 L’affermazione di Keke è dunque esemplare di un sentire e di un’ideologia comune tra le classi emergenti: in quest'ottica le richieste di aiuto dei parenti al villaggio per le tasse scolastiche o per spese di viaggio sono vissute non solo con noia, ma anche come minaccia alla propria posizione sociale (Errington, Gewertz 1999, p. 29.) I Big Shots infatti le considerano esemplari dell’incapacità della gente comune di prendersi cura di sé. L’idea è ben resa dall’espressione “kaikai nating” (mangiare a scrocco) con cui Keke descrive l’attitudine di molti pasendia: A volte torno a casa dal lavoro, e mi piacerebbe stare con la mia famiglia. Ma la mia famiglia è grande, e io devo pensare a tutti, anche a quelli che mangiano a scrocco. La stessa implicita condanna morale è rintracciabile nell'affermazione della figlia Maggie: …sarebbe diverso se ognuno avesse in mente le proprie priorità, lavorare duro e mettere da parte i soldi, per esempio per trasformare le baracche in legno in case fatte coi materiali moderni, e magari mettendo l’elettricità. Tutti vogliono qualcosa da papà, ma nessuno fa niente. Emerge in queste parole un’ideologia della responsabilità individuale basata sulla convinzione che ogni ineguaglianza persistente vada messa in relazione all’esito di fallimenti personali e non a una mancanza di corrette transazioni reciproche fra parenti. La retorica modernista di Keke e di sua figlia narra la possibilità per ogni diligente cittadino di essere ricompensato per il proprio talento e la propria tenacia. Disegna un nuovo universo morale, in cui, purché lo vogliano, tutti hanno la possibilità di ottimizzare le proprie potenzialità. Sempre Maggie, chiacchierando dei suoi progetti lavorativi una volta terminato quello che per noi corrisponde al liceo, mi rivela il desiderio di diventare maestra e aggiunge:“Se dentro il tuo cuore lo vuoi veramente, e con l’aiuto di Dio, otterrai il tuo risultato. Dipende solo da te”. Focalizzandosi sulla responsabilità personale del successo e del fallimento in quello che ideologicamente è definito come un sistema I quaderni del CREAM , 2010, X 105 giusto e aperto, la retorica dell’impegno personale stigmatizza la cultura della dipendenza e dell’elemosina, considerate fonte di tutti i mali, dalla stagnazione economica e dalla corruzione al declino morale, specialmente giovanile. Ciò che di questa cultura della dipendenza sembra essere moralmente sbagliato, tuttavia, non è tanto il fatto che esista, quanto piuttosto che non sia applicata nel giusto contesto. Le parole di Keke confermano questa necessità di separare i confini tra vita tradizionale e moderna: “Se non stai attento i parenti ammazzano i tuoi affari con le richieste continue di soldi e di aiuto. Devi spiegare loro che tu sei una cosa, e i tuoi affari sono un’altra cosa”. Non sempre Keke riesce a tenere gli obblighi relazionali chiusi dentro lo spazio del kastom, ma si sforza di farlo: da un lato cerca di preservare l’idea di sé come prodotto delle relazioni in cui è coinvolto, dall’altro propone un nuovo tipo di persona morale, un individuo discreto che rivendica il diritto di godere in maniera privata ed esclusiva dei frutti del proprio lavoro. Accusato dai parenti al villaggio e dai pasendia in città di non fare abbastanza, replica che la sua negazione di aiuto è legittima, dal momento che le richieste avanzate avvengono al di fuori dei contesti rituali. Marcando la separazione tra kastom e mondo moderno non rifiuta del tutto la cultura della mutua interdipendenza, ma la negozia incanalandola in specifici spazi e momenti. Fa dell'aspetto relazionale solo un momento della propria personalità, il cui ambito di applicazione è la sfera ben delimitata della tradizione. Nel proclamare l’importanza di questo momento della propria persona crea allo stesso tempo lo spazio per proporre una concezione alternativa di Sé e della socialità. Dividuo e individuo Il lavoro di Read (1967) sul concetto di persona e sulla moralità dei Gahuku-Gama della Nuova Guinea ha aperto la strada a un ricco filone di studi sulla Melanesia che, soprattutto negli anni Ottanta, ha tratteggiato una rigida dicotomia tra aspetti relazionali e individuali I quaderni del CREAM , 2010, X 106 della persona, facendone due modalità speculari di pensare il sé. In questi studi la Melanesia veniva rappresentata come un’area culturale talmente diversa da non possedere un’idea di persona comparabile a quella occidentale. Per Read la concezione della persona dei Gahuku Gama infatti “non si basa su alcuna chiara distinzione tra l’individuo e lo status che occupa” (1967, p. 255). I Gahuku Gama, insomma, non riconoscono l’esistenza di alcuna categoria etica di persona e falliscono nell’isolare l’individuo dal contesto sociale e, eticamente parlando, nel conferirgli un intrinseco valore morale a parte quello che gli è dato dallo status (Ibidem). A sua volta Leenhardt, in Do Kamo (1979), ha analizzato la natura della persona in Melanesia, riducendola al ruolo assunto entro le relazioni sociali che instaura: He is unaware of his body, which is only his support. He knows himself only by the relationships he maintains with others. He exists only insofar as he acts his role in the course of his relationships. He is situated only with respect to them. If we try to draw this, we cannot use a dot marked ‘self’ (ego), but must make a number of lines to mark relationships. The empty space is him, and this is what is named (Leenhardt 1979, p. 153). Non si tratta di un settore di indagine ristretto alla Melanesia. In aree culturali diverse altri studi hanno hanno negato la presenza di un'idea di persona universale, ponendo l'accento più sull'alterità che sulla continuità culturale fra noi e gli altri esotici. La volontà di relativizzare il sé, non astraendolo dal contesto sociale e culturale che si considera, è per esempio centrale in Clifford Geertz, che in uno studio comparativo asserisce che: La concezione occidentale della persona come universo cognitivo integrato, unico, motivato da un centro dinamico di consapevolezza, da emozioni, discernimento e azione, organizzato in un’unità ben distinta dalle altre entità e posizionata contro un background di natura e società, per quanto strano possa sembrarci è, un’idea alquanto peculiare se considerata nel contesto più ampio delle culture del mondo (1975, p. 48). I quaderni del CREAM , 2010, X 107 Anche Dumont ha messo in guardia dal proiettare la nostra idea di individuo in società altre. A proposito dell’India, ad esempio, ha sostenuto come la giustizia consista nel mantenimento di una distanza adeguata tra persone definite dal loro ruolo sociale (Dumont 1991, pp. 1,9). L’idea di persona indiana cui si riferisce sarebbe dunque relazionale e contestuale, profondamente diversa da quella occidentale. È un approccio che, a partire dal lavoro di Marylin Strathern ha riacquistato credito scientifico. In The Gender of the Gift, testo uscito nel 1988, l'antropologa ha sostenuto che la persona melanesiana e il tipo di socialità che ne deriva sono diametralmente opposti a quelle occidentali, caratterizzate da un’opposizione tra individui e società (1988: 12-13). La persona melanesiana coincide per l'antropologa con “il sito plurale, composito e reificato delle relazioni che l’hanno prodotta” (Ivi, 274). Diversamente dagli occidentali, che per l’antropologa agiscono per creare e mantenere relazioni risultando così gli autori delle proprie azioni (Ibidem), negli individui melanesiani le relazioni sono le condizioni per la loro azione (Strathern 1988, p. 305): The separation between agent and the person who is the cause of his or her acts is systematic, and governs the Melanesian perception of action. To act as one’s own cause becomes an innovation on this convention (Strathern 1988, p. 273). Numerosi altri antropologi hanno poi seguito la direzione di Strathern (Battaglia 2005; Iteanu, 1990). Robert Foster per esempio, in uno studio sulla socialità e i riti funebri di Tanga afferma: My interpretation of the two glosses ‘finishing’ (farop) and ‘replacing’ (pilis) the dead draws on the model of personhood, agency and exchange informing the New Melanesian Ethnography. For my analysis works within a set of propositions that do not take for granted autonomous individuals (or groups of individuals) acting as their own cause. I treat Tangan mortuary practices as a form of collective action that constructs collective individuals, matrilineages, in this case, out of composite person(Foster, 1995, p. 11). Gli ultimi filoni dell'antropologia della Melanesia hanno invece manifestato scetticismo verso questo tipo di analisi. Pur sottolineanI quaderni del CREAM , 2010, X 108 done i pregi, fra cui una decisa polemica contro la proiezione etnocentrica di concetti occidentali in zone del mondo che hanno una storia culturale non assimilabile alla nostra, hanno sottolineato il rischio di esasperare la differenza reificandola in un'essenza culturale sospesa nel tempo e indipendente dagli attori sociali e dai loro differenti posizionamenti (classe, età, genere, status). Alcuni autori hanno così sostenuto che in Melanesia esistono sia culture relazionali che individualiste (Clay 1986; Harrison 1985; Maschio 1994). Analizzando due culture della New Ireland, per esempio, Billings ha sostenuto come i Lavongai abbiano una sorta di attitudine all’individualizzazione, mentre i Tikana siano “group-oriented” (Billings, 1987). Un passo decisivo è stato compiuto da Edward Li Puma che ha cercato di considerare queste due visioni del Sé non come essenze astoriche ma come due ideologie strettamente connesse ai processi storici ed economici in cui si sono sviluppate. In Encompassing Othes (1998), una monografia sull'impatto del cristianesimo, del capitalismo e del colonialismo su alcune società melanesiane, ha voluto scardinare la dicotomia tra persona occidentale e melanesiana sostenendo come in tutte le culture vi siano aspetti individuali e relazionali, e come la differenza stia nel dare importanza all'una o all'altra dimensione del Sé a seconda del contesto: con l'ingresso di Papua Nuova Guinea nell’“ecumene globale” (Hannerz 2001) é in atto, egli sostiene, un’avanzata dell'individuo sul dividuo, in un processo di omogeneizzazione culturale che investe in primo luogo le concezioni locali della persona (Li Puma, 1998, p. 74). Un'economia politica del Sé La mia ricerca si pone in sintonia con quella di Li Puma nel considerare le concezioni della persona come ideologie storicamente determinate. Tuttavia il dibattito tra Keke e i pasendia attorno alla liceità o meno di frugare nelle borse altrui per prendere noci di betel se ne distanzia attorno a una questione a mio avviso cruciale: piuttosto che un processo in cui l’ideologia dell’individualismo possessivo I quaderni del CREAM , 2010, X 109 starebbe sostituendo il modello relazionale di persona morale, quello che è in corso oggi in Papua Nuova Guinea è un dibattito aperto, spesso una contesa politica, sull’applicabilità di diverse visioni morali della persona in contesti sociali differenti. Per i Big Shots come Keke interrompere rompere in maniera drammatica i rapporti con il villaggio e con i propri wantok è una strada impraticabile. In primo luogo il rischio di attacchi di stregoneria dovuti alla gelosia è sempre dietro l'angolo. Inoltre la percezione dell'ambiente urbano come ostile e pericoloso cui ho accennato all'inizio dell’articolo non vale solo per i grassroots (la gente comune), ma anche (e forse ancora di più) per i “neo-ricchi”. Anche se, tornando a casa la sera, vive quella dei pasendia come una presenza invadente, Keke è perfettamente consapevole del fatto che, in una città in cui la polizia è drammaticamente corrotta e violenta, la loro presenza è l'unica garanzia di protezione e sicurezza per la propria casa e la propria famiglia. Cerca così di negoziare gli obblighi sociali tradizionali confinandoli all'interno di un perimetro ben delimitato. Al di fuori di quest'area rituale, prende la distanza dai pasendia e dagli altri Okapians, reclamando una diversa concezione dei rapporti sociali e dunque della propria soggettività. Il suo è un uso strategico e posizionale della rappresentazione di sé, una vera e propria economia politica della soggettività la cui dimensione politica non sfugge alla comunità di Okapians. La natura della leadership che esercita, infatti, è continuo oggetto di dibattito al villaggio e tra i pasendia, i quali sanno bene che il potere con cui egli gestisce la propria generosità è ben diverso da quello dei Big Men del passato. Ciò che costituisce oggetto di dibattito e di contesa in particolare non è il fatto che Keke abbia aspiri ad affermare se stesso come individuo. Nella letteratura, infatti i Big Men tradizionali sono spesso descritti come big head, individui che aggirano le norme e le convenzioni sociali per acquisire potere personale. Robbins (2004, p. 200), per esempio, mostra come tra gli Urapmin i leader fossero spesso chiamati angry men, un appellativo che per chiunque altro è un insulto, ma che applicato ai capi tradizionali riflette ammi- I quaderni del CREAM , 2010, X 110 razione per la loro ostinazione individuale. Tuttavia la loro possibilità di rompere le convenzioni del comportamento sociale adeguato per rafforzare se stessi risiedeva tradizionalmente nel rispetto che avevano costruito negli anni attraverso la partecipazione alla socialità del villaggio e alle regole di reciprocità che imponeva, regole che non erano confinate in momenti specifici, ma che informavano la quotidianità della comunità. Consideriamo invece questo episodio: durante il discorso di apertura di una cerimonia funebre svoltasi a Hohola Keke marca una differenza trai funerali moderni e quelli del passato. Un tempo, spiega, un Big Men avrebbe donato maiali raccolti nel clan. In questo caso invece i maiali offerti sono i suoi, pagati con i soldi che ha guadagnato lavorando. Quasi a rimproverare la mancanza di solerzia della comunità nel donare maiali, Keke sottolinea l'importanza di rispettare gli obblighi di reciprocità tradizionali, ma lo fa rimarcando il potere dei soldi. Quella di Keke è un’autorità che non si basa sul coinvolgimento con le reti di obblighi reciproci della vita quotidiana del villaggio, quanto piuttosto, come sostiene un pasendia di Okapa Haus, sul money power, un potere che “yu yet yu olim” (tieni solo per te). Sia per Keke che per i pasendia, infatti, modernità e tradizione rappresentano due alternative possibili, da cui derivano identità complementari che abbracciano in maniera contestuale a seconda delle differenti situazioni. Le soggettività che incarnano non sono né interamente moderne né tradizionali, né relazionali né individuali. Articolano, piuttosto, investimenti individuali tra un ventaglio dato di possibilità (Hall 2002, p. 132), a seconda degli scopi e degli obbiettivi contingenti e in funzione della risoluzione di problemi specifici. Queste identità contemporanee mettono in evidenza il carattere dinamico, frammentario e congiunturale delle strategie di costruzione dell'identità. Demoliscono le visioni sostanzialistiche che in esse vedono “essenze originarie”, siano esse dividuali o individuali, occultandone la dimensione di flusso e cambiamento e velandone i processi di invenzione che ne sono alla base. Costringono a focalizzare l’attenzione sulle dinamiche politiche delle identità (Malighetti 2007), ossia sui complessi rapporti di forza che inducono attori sociali diver- I quaderni del CREAM , 2010, X 111 samente posizionati, uomini o donne, anziani o bambini, appartenenti a gruppi dominanti o subalterni, a creare, modellare e utilizzare categorie come “tradizione”, “etnicità” e “cultura”. Ci obbligano così a reinserire Papua Nuova Guinea nella contemporaneità, e a considerare il modo del tutto peculiare con cui i suoi abitanti sono uguali e contemporanei a noi. Bibliografia Akin, D., 2004, Ancestral Vigilance and the Corrective Conscience: Kastom as Culture in a Melanesian Society, “Anthropological Theory”, n. 4, pp. 299-324. Appadurai, A., 2001, Modernità in polvere, Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi. Battaglia, D., 2005, Rhetoric of Self-Making, Berkeley, Los Angeles-Oxford, The Regents of the University of California. Connell, J., 1997, Moving beyond post-development. Facilitating indigenous alternatives for development, London, Routledge, Dumont, L., 1991, Homo hierarchicus: il sistema delle classe e le sue implicazioni, Milano, Adelphi, Errington, F., Gewertz, D., 1999, Emerging class in Papua New Guinea: The telling of difference, Cambridge, Cambridge University Press. Foster, R. 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I sistemi di parentela, tradizionalmente, erano stati oggetto di studio del diritto civile e del diritto penale, affrontando, il primo, la questione della determinazione dei gradi di parentela e dei processi di successione ereditaria dei beni; mentre il diritto penale si occupava soprattutto delle liceità e dei divieti circa le relazioni sessuali e matrimoniali tra parenti (Remotti 1982). La parentela, tuttavia, non costituiva un campo di studi autonomo nell’ambito della tradizione intellettuale occidentale; fu quindi grazie all’antropologia che tale campo di studi acquisì centralità e autonomia all’interno della più generale attenzione per le strutture sociali. È degno di nota il fatto che i cosiddetti fondatori dell’antropologia sociale e culturale fossero in buona parte giuristi, o che comunque avessero 1 Dottore di ricerca in Antropologia della contemporaneità, Università di Milano – Bicocca. 2 Si veda per esempio Goodale 2008. I quaderni del CREAM , 2010, X 115 formazione e interessi legati all’ambito giuridico (ibidem). Se vi è un certo accordo nel rintracciare nell’opera di Montesquieu3 un barlume di quella congiunzione tra diritto e antropologia che si sarebbe affermata qualche secolo più avanti, altrettanto ve n’è nel fissare verso la metà del diciannovesimo secolo una chiave di svolta per gli sviluppi dell'antropologia culturale. Dai tempi delle grandi scoperte e delle drammatiche conquiste, gli europei appresero dell’esistenza di altre culture e altri sistemi di vita, considerati “arretrati”, “selvaggi”, “primitivi”. I giuristi, dal canto loro, si interessarono poco allo studio dei modelli normativi differenti, almeno fino alla nascita del romanticismo, quando la scuola storica cominciò a collegare il diritto alle particolari culture dei singoli popoli: furono le premesse per gli studi di autori come H. S. Maine (1861), J. J. Bachofen (1861), L. H. Morgan (1851, 1871, 1877) e altri4. Per l’utilizzo dell’espressione “antropologia giuridica” si dovette tuttavia attendere l’opera di Albert Hermann Post5, Grundriss der ethnologischen Jurisprudenz, del 1891. Bachofen, docente di diritto romano e magistrato presso il Tribunale penale di Basilea, viene ricordato soprattutto per le sue tesi sul matriarcato. Studiando i sistemi di parentela, all’interno della prospettiva evoluzionista del tempo, egli ipotizzò una fase in cui le donne, superando lo stadio dell’“eterismo”, in cui vigeva la tirannia sessuale degli uomini, affermarono mediante l’istituzione della famiglia uno stadio in cui si impose il matriarcato (“demetrismo”). In seguito, a causa di una estremizzazione del potere femminile (“amazzonismo”), vi fu una degenerazione del diritto materno e si passò ad un ulteriore stadio caratterizzato dal diritto paterno. Secondo Bachofen, il diritto materno rimase legato alla famiglia, mentre quello paterno sfociò nell’idea di Stato. L’ipotesi circa l’esistenza di una filiazione matrimoniale, preceduta da un’epoca di indifferenziazione (una fase di promiscuità primitiva), è stata ripresa altre volte in seguito, anche se 3 Si considerino per esempio le seguenti opere: Système des Idées (1716), De l'esprit des lois (1748), La défense de «L'Esprit des lois» (1750). Su Montesquieu si veda Althusser 1995. 4 Si veda Sacco 2002. 5 Per un recente scritto dedicato all’opera di questo autore, si veda Lyall 2008. I quaderni del CREAM , 2010, X 116 ormai può dirsi abbandonata. Non vi sono dati etnografici in grado di confermare l’esistenza di questo stadio di promiscuità primitiva e sono pochi coloro che ritengono plausibile un’epoca in cui si affermò il matriarcato (Remotti 1982, Rouland 1992). Se quindi l’opera di Bachofen fu poco incisiva per ciò che riguardava le sue tesi, più rilevante fu il suo contributo dal punto di vista metodologico. Egli, infatti, diffidente nei confronti dell’analisi filologica, che teneva in considerazione solo fonti documentali, privilegiò un approccio più comprensivo dedicandosi allo studio delle opere d’arte e della mitologia. La sua importante intuizione a proposito dei miti fu di comprendere la capacità che questi hanno di svelare “verità” interiori in grado di raccontare e descrivere la “realtà”. Si gettava così il seme per un approccio giuridico-antropologico capace di “decrittare le immagini e i simboli della scrittura” (Rouland 1992, p. 45), prendendo le distanze da un’interpretazione prettamente testuale. La produzione scientifica di H. Summer Maine fu caratterizzata da un'impostazione piuttosto differente. Maine ricoprì nel tempo diverse cariche importanti: professore di diritto civile a Cambridge e di diritto romano a Londra. Dal 1869, professore di Historical and Comparative Jurisprudence a Oxford. Per diversi anni Maine visse in India, dove fu legal member del Consiglio del Viceré e vice-chancellor dell’Università di Calcutta. Importante fu anche il suo contributo nella codificazione del diritto indiano. L’esperienza in India ebbe del resto notevoli conseguenze sull’opera di Maine, contribuendo all’elaborazione di “una prospettiva di ricerca comparata (Comparative Jurisprudence) che esplicitamente Maine intendeva affermare nel campo del diritto in diretta analogia con la filologia comparata e la mitologia comparata” (Remotti 1982, p. 12). Unendo le conoscenze acquisite sulla società e sul diritto indiano allo studio dei diritti europei (quello irlandese in particolare), Maine elaborò le sue idee circa le evoluzioni del diritto, individuando tre stadi di evoluzione: inizialmente gli uomini credono che il diritto venga dagli dei, i quali usano i sovrani per dettare le loro leggi; in un secondo stadio il diritto viene identificato con la consuetudine; nell’ultimo stadio il diritto si confonde con la legge. All’interno di I quaderni del CREAM , 2010, X 117 questo processo evolutivo, il diritto passa progressivamente dallo status al contratto. Inoltre, mediante le sue analisi sul culto degli antenati, Maine cercò “di dimostrare l’anteriorità della discendenza patrilineare e della società patriarcale” (Rouland 1992, p. 44). Come Bachofen, Maine elaborò le sue teorie nell’ambito della prospettiva evoluzionista del tempo, sostenendo che solamente le società europee avevano saputo dimostrate dinamismo nell’ambito dell’evoluzione giuridica, mentre le altre società si erano dimostrate “stazionarie”. Secondo l’autore, non tutte le società, infatti, avrebbero conosciuto il progresso; opposte alle società stazionarie vi erano quelle “progressiste” in cui, attraverso l’adozione di codici e leggi, si era interrotto lo “sviluppo spontaneo” del diritto. Mentre gli studi di Bachofen ebbero ben poca influenza sugli sviluppi dell’antropologia sociale e culturale, l’opera di Maine giocò al contrario un ruolo importante. Le influenze di quest’ultimo furono certamente incisive anche sulla giurisprudenza, al punto che Leopold Pospisil (1971) le paragonò a quelle di Einstein sulla fisica, Freud sulla psicologia e Durkheim sulla sociologia. Autore contemporaneo di Maine e Bachofen fu l’avvocato di Edimburgo John F. McLennan, il quale introdusse (1865) termini quali “sistemi di parentela”, “endogamia”, “esogamia”, che ancora oggi costituiscono un punto di riferimento concettuale per molti antropologi. Alcune sue idee vennero poi riprese da Morgan, avvocato newyorkese considerato tra i principali esponenti dell’evoluzionismo6. Sebbene il metodo etnografico non fosse ancora stato coerentemente delineato, si può dire che Morgan, a differenza dei suoi predecessori e contemporanei, abbozzò una sorta di ricerca sul campo, compiuta tra gli indiani americani, soprattutto tra gli irochesi dello Stato di New York. Il suo studio sugli irochesi (1851) offriva una descrizione articolata dell’organizzazione sociopolitica delle sei tribù che componevano la federazione irochese. È interessante notare che questo lavoro non nacque per ragioni che potremmo definire scientifiche, ma derivava da una serie di lettere che Morgan aveva pubblicato qualche anno prima, 6 L’opera di Morgan ebbe un impatto decisivo anche sul pensiero di Engels; si veda in particolare il suo Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des States del 1884. I quaderni del CREAM , 2010, X 118 dopo aver vinto una causa giudiziaria rappresentando come avvocato difensore gli indiani seneca, impegnati in una disputa con un gruppo di speculatori circa il possesso delle loro terre. Questo aspetto della biografia di Morgan è particolarmente interessante, soprattutto nell'ottica dello sviluppo, affermatosi con una certa rilevanza negli Stati Uniti, della consulenza antropologica nei campi di applicazione del diritto. Il 1871 fu una data importante per l’antropologia, poiché vennero pubblicati Primitive Culture di E. B. Tylor e Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family dello stesso Morgan. La valenza per così dire “politica” che aveva interessato l’opera del 1851 lasciò il campo ad un approccio più scientifico, dove Morgan prese in esame i dati relativi ai sistemi di parentela degli indiani nordamericani (ottenuti grazie a quattro ricerche condotte tra diverse tribù del Kansas e del Nebraska) e una raccolta di dati sui sistemi di parentela di tutto il mondo (realizzata tramite un questionario diffuso dalla Smithsonian Institution). L’analisi di questi dati portò Morgan ad individuare in America e in Asia, pur constatando le diversità tra i vari sistemi, una simile logica di strutturazione dei sistemi di parentela, a differenza del gruppo dei sistemi che Morgan chiamò Ariani, Semitici e Uralici, caratteristici dei “popoli civilizzati”, che presentava invece un differente principio di strutturazione (Fabietti 1991). Si delineavano così due grandi gruppi di sistemi di parentela, che presentavano modi radicalmente diversi di designare i parenti consanguinei. I due gruppi individuati da Morgan furono quello dei sistemi “classificatori”, cui appartenevano sistemi di parentela come quello irochese, e quello dei sistemi “descrittivi”, del tipo del sistema europeo. Nei sistemi classificatori, i parenti consanguinei in linea collaterale non vengono distinti a livello linguistico dai parenti in linea diretta: i figli chiamano padre anche il fratello del padre e, coerentemente, chiamano fratelli i figli del fratello del padre. Nei sistemi descrittivi, invece, i parenti consanguinei in linea collaterale vengono distinti dai parenti in linea diretta (ibidem). Gli scritti di Morgan – espressione dell'approccio evoluzionista di quel tempo – furono poi fortemente criticati nel corso degli anni, ma è comunque interessante porre in evidenza il valore paradigmatico dei I quaderni del CREAM , 2010, X 119 suoi studi. Con tutti i limiti del suo tempo, l’opera di Morgan aprì infatti ad una prospettiva di ricerca caratteristica anche delle fasi più mature dell’antropologia. Sebbene Morgan privilegiasse i sistemi descrittivi, egli conferì ai sistemi classificatori un indubbio valore euristico. E proprio mediante l’opposizione tra sistemi classificatori e descrittivi, Morgan mise in luce le caratteristiche di questi ultimi: “lo studio dei sistemi delle altre società è dunque indispensabile per percepire l’esistenza di qualcosa di analogo o di diverso nella nostra stessa società” (Remotti 1982, p. 15). La visione dicotomica di Morgan fu poi abbandonata negli studi successivi in favore di una visione pluri-centrica, o persino a-centrica, in cui il sistema di parentela dello studioso altro non appare se non uno dei diversi tipi o sottotipi tra i sistemi possibili (ibidem). Probabilmente, Ancient Society (1877) rimane l’opera che più ha contribuito a costruire la fama del suo autore, ugualmente in termini di critica e di elogio. Per i seguaci di Boas, per gli eredi del funzionalismo britannico e per gli strutturalisti, Ancient Society era il prodotto dell’ideologia evoluzionista, diversamente da Systems of Consenguinity and Affinity, che racchiudeva invece la portata scientifica del contributo di Morgan. Dall’altra parte vi erano coloro che, sulla scia di Marx ed Engels, lessero invece in Ancient Society un contributo fondamentale alla “scienza della storia”. Ovviamente, entrambe le opere di Morgan erano frutto del periodo storico in cui si inserivano: se in Systems l’evoluzionismo operava in maniera discontinua ed era apparentemente subordinato alla costruzione delle tipologie di parentela, nell’opera del 1877 l’evoluzionismo veniva a costituire l’orizzonte stesso di intelligibilità del progresso e dello sviluppo storico (Fabietti 1991). Tutta l’opera di Morgan deve inoltre essere considerata in relazione alla “questione indiana”, piaga della memoria nordamericana, che in quegli anni era al centro dei dibattiti e delle azioni politiche. All’interno di quel processo evolutivo che per gli studiosi di quel tempo scandiva le fasi dei gruppi sociali umani, Morgan non pensò mai che le caratteristiche della società indiana del suo tempo fossero identiche a quelle che tale società aveva prima dell’impatto I quaderni del CREAM , 2010, X 120 con la società dei bianchi. La tendenza a dissociare l’Indiano come oggetto di scienza dall’Indiano come oggetto di una violenza politica e culturale sarà destinata a rappresentare invece un elemento diffuso all’interno dell’antropologia americana durante gli anni immediatamente successivi alla scomparsa di Morgan (ibidem, p. 45). L'opera degli autori fin qui menzionati7 fu importante nel processo di elaborazione del metodo comparativo, fulcro del ragionamento antropologico. Fu proprio la prospettiva comparativa che aprì la strada alla crescente capacità di relativizzare e contestualizzare i mondi sociali e normativi che si schiudevano alla conoscenza. Già in Maine e Morgan era infatti possibile rintracciare una “coscienza comparativa” (Nader 2000) volta a spiegare il “reale” di fronte ai (e distante dai) propri occhi. Con l’inizio del ventesimo secolo, la prospettiva evoluzionista fu rapidamente messa da parte, oggetto di una forte critica da parte di studiosi come F. Boas (da molti considerato il padre del relativismo culturale), R. Lowie e ancor di più poi B. Malinowski, padre del funzionalismo in antropologia e massimo riferimento per quanto riguarda l’adozione del metodo etnografico. Lo stesso Malinowski si impegnò nell’analisi dei fenomeni normativi, innescando un lungo dibattito circa la natura e i metodi di osservazione di tali fenomeni all’interno delle società “tradizionali”8. Solo qualche decennio più tardi tale dibattito cominciò ad affievolirsi, lasciando il posto al tema dominante del pluralismo giuridico (che pure aveva le sue origini agli inizi del Novecento), che ancora oggi interessa le analisi giuridico-antropologiche. Nel libro Crime and Custom in Savage Society (1926), Malinowski criticava l’analisi normativa – volta ad identificare il diritto con un 7 Non è possibile in questa sede dedicare spazio alle moltissime accuse che sono state mosse nei confronti degli evoluzionisti. Senza dubbio, l’antropologia contemporanea non è stata avida di critiche nei confronti del suo stesso passato. 8 Espressioni quali “società semplici”, “società complesse”, “società primitive” e così via sono state nel tempo problematizzate e abbandonate negli studi antropologici. L’utilizzo di tali espressioni, in questa sede, è dovuto al fatto che gli autori menzionati facevano ricorso a tali termini; dunque è solo nel tentativo di riportare il loro pensiero che le suddette espressioni compaiono in queste pagine. I quaderni del CREAM , 2010, X 121 corpus di regole sociali vincolate ad un sistema sanzionatorio – insistendo sulla funzione del diritto, piuttosto che sulle modalità di espressione dello stesso. Per Malinowski, il diritto non doveva essere necessariamente associato all’esistenza di una sanzione imposta da un potere centrale, poiché ciò concerne solo alcuni tipi di diritto, in alcune società. Nell’idea malinowskiana, il diritto assumeva in primo luogo una funzione di reciprocità, la quale garantirebbe la coesione della società. In altre parole, la coesione e l’ordine della società non deriverebbero dall’imposizione di un’autorità, in grado di usare la forza, quanto piuttosto da obblighi (vincolanti) reciproci. In questa prospettiva, sarebbero le relazioni sociali, e non le istituzioni e le norme, a plasmare il comportamento degli individui. Attraverso la sua esperienza di ricerca tra i trobriandesi, Malinowski individuò nella reciprocità il meccanismo di mantenimento dell’ordine, rilevando allo stesso tempo la propensione dell’individuo – tanto nelle società “civilizzate” quanto in quelle “primitive” – a fare i propri interessi e ad essere soggetto a dinamiche psicologiche e sociali molto complesse (in questo modo l’antropologo spiegava per esempio i malfunzionamenti negli scambi commerciali tra le popolazioni della costa e quelle dell’interno). In breve, come ha sottolineato la Moore (1969), nella prospettiva di Malinowski è la reciproca dipendenza insita nelle relazioni sociali che conferisce effettività alle norme; il diritto, in quest’ottica, viene a coincidere con il processo generale del controllo sociale. Malinowski superò quindi l’idea di una sottomissione automatica dell’individuo al costume, problematizzando la questione degli “obblighi vincolanti” in termini etnografici. Le intuizioni di Malinowski lasciarono ampi margini di riflessione nell’ambito dell’antropologia giuridica9, anche se la definizione di diritto da lui offerta fu poi criticata, soprattutto a causa della sua eccessiva genericità. In seguito, diversi autori cercarono di operare una restrizione del campo del diritto. A. R. Radcliffe-Brown (1952), interessato all’analisi 9 In uno scritto pubblicato postumo, Malinowski (1942) sottolineava il fondamentale ruolo che l’antropologia poteva giocare nello studio del diritto. I quaderni del CREAM , 2010, X 122 dei rapporti sociali che costituiscono la struttura sociale, si dedicò all’individuazione delle leggi e dei meccanismi che garantiscono la continuità sociale. All’interno di questa generale prospettiva, Radcliffe-Brown insistette sulla possibilità di coercizione delle sanzioni giuridiche; il controllo sociale sarebbe così garantito mediante l’uso della forza da parte di un’autorità costituita, all’interno di una società politicamente organizzata. Non tutte le società, dunque, possiedono un diritto: quando a certi obblighi non corrispondono sanzioni giuridiche, questi obblighi devono essere considerati come questioni di costume; alcune società “semplici” non hanno un diritto, ma tutte le società hanno costumi a cui corrispondono certe sanzioni. Nella medesima prospettiva si mosse S. F. Nadel (1947), il quale sostenne appunto che per poter parlare di diritto è necessario che vi sia l’uso della forza. Ma questo aspetto, da solo, non presuppone l’esistenza di un diritto: se la sanzione priva di forza rimanda al costume, l’uso della forza senza pubblico consenso non dà il diritto. Anche Edward A. Hoebel fece ricorso al concetto di forza per definire i fenomeni giuridici, e più precisamente al concetto di “forza fisica”. Secondo l’autore di The Law of Primitive Man, “una norma sociale diventa giuridica se la sua inosservanza o la sua infrazione viene contrastata regolarmente – di fatto o sotto forma di minaccia – con l’applicazione della forza fisica di coercizione da parte di un individuo, o un gruppo, che possiede il privilegio socialmente riconosciuto di agire in tal modo”10. Alcuni anni dopo, R. Redfield (1967) proseguì anch’egli il percorso avviato da Radcliffe-Brown sostenendo che il diritto consiste nella possibilità che lo Stato ha di applicare sistematicamente la forza, allo scopo di garantire determinate regole di condotta. Il diritto, nella prospettiva di Redfield, non è presente in tutte le società in maniera uniforme: nelle società cosiddette “preletterate” il diritto è presente in forme rudimentali, in quanto “anticipazioni” del diritto così come si è sviluppato nelle società “complesse”. Le società preletterate variano significativamente, presentando forme differenti di consuetudini e 10 Hoebel 1954, cit. in Remotti 1982, pp. 32-33. Per approfondimenti sul contributo di Hoebel per l’antropologia giuridica si veda anche Motta 1994. I quaderni del CREAM , 2010, X 123 comportamenti, che lasciano presagire (“anticipano”) le istituzioni giuridiche delle società complesse (Remotti 1982). Per quanto potesse risultare interessante l’apertura di Redfield all’idea di variabilità/pluralità delle istituzioni giuridiche, la sua impostazione sembrava soffrire in un certo modo di alcuni strascichi delle teorie evoluzioniste. In questo senso, la prospettiva di Redfield riportava alla mente posizioni passate: il diritto “pienamente sviluppato” delle cosiddette società complesse (Stato-centriche) finiva col diventare il punto di riferimento privilegiato dell’antropologo. Più articolata fu l'analisi di Pospisil (1971), secondo il quale il diritto corrisponde a “principi di controllo sociale istituzionalizzato, astratti da decisioni prese da un’autorità giuridica (giudice, capo, padre, tribunale, consiglio di anziani), principi che si intende applicare universalmente (a tutti i casi “uguali” in futuro), che coinvolgono due parti legate da una relazione di obligatio e che sono accompagnati da una sanzione di natura fisica o non fisica” (ivi, p. 95). Secondo Pospisil, infatti, sarebbero quattro gli attributi che definiscono il diritto: l’autorità, l’intenzione di applicazione universale, l’obligatio, la sanzione. L’autorità giuridica consiste nel potere che un individuo, o un gruppo di individui, ha di indurre o costringere la maggioranza dei membri dello stesso gruppo sociale a conformarsi alle loro decisioni (ibidem, p. 44). Il secondo aspetto, vale a dire l’intenzione di applicazione universale, è ciò che distingue l’autorità giuridica da quella politica. A differenza di quest’ultima, infatti, l’autorità giuridica, prendendo una decisione, intende che questa sia applicabile a tutti i casi simili o “identici” che si presenteranno in futuro. Importante sottolineare il criterio dell’intenzione, che non rimanda necessariamente ad una regolare e consuetudinaria applicazione di una regola o di un principio (ibidem, p. 79). L’analisi comparativa interculturale di Pospisil lo portò, in questa direzione, ad individuare una terza caratteristica del diritto, un attributo che egli definì obligatio, il quale fa riferimento alla relazione socio-giuridica tra le parti coinvolte in una disputa, per cui la decisione afferma allo stesso tempo i diritti di una parte e gli obblighi dell’altra. Secondo Pospisil, l’espressione latina obligatio sarebbe più adatta di quella di “obbligo” poiché I quaderni del CREAM , 2010, X 124 rimanda precisamente allo iuris vinculum, il legame che unisce i doveri di una persona ai diritti di un’altra (ibidem, pp. 81-82). Il quarto attributo è quello della sanzione, un criterio che ha giocato un ruolo importante nelle diverse teorie giuridiche, al punto che in alcuni casi si è teso ad identificare il diritto stesso con la sanzione. Pospisil mise in discussione il fatto che la sanzione potesse da sola definire un fenomeno sociale come il diritto; di certo, non ne costituisce un criterio esclusivo. La sanzione, infatti, può essere ritrovata anche in molte decisioni politiche ad hoc, senza che vi sia però l’intenzione da parte dei leader di applicare tali decisioni e sanzioni a situazioni simili future. In questo senso, perché una decisione associata ad una sanzione possa essere considerata giuridica, è necessaria la presenza dell’attributo identificato nell’intenzione di applicazione universale. Inoltre, superando l’idea di Hoebel (1954), che associava il diritto all’esercizio della forza fisica, Pospisil riconobbe che vi sono diversi tipi di sanzioni che possono essere applicate, di natura economica, psicologica, sociale (come l’ostracismo, la riprovazione pubblica, etc.). Nel suo scritto, Pospisil sottolineava infatti che se avesse accettato l’idea per cui una sanzione deve necessariamente essere fisica, per sua natura, allora molti dei casi da lui osservati tra i kapauku, i nunamiut, i tirolean, non avrebbero potuto esser considerati dei legal cases. Ma, ancor più importante, in tal caso non si sarebbe potuto affermare che il diritto è un fenomeno universale (ibidem, pp. 87-89). Come ha evidenziato Remotti (1982), la definizione di diritto offerta da Pospisil godeva di una notevole “estensione etnografica”, era cioè adattabile, in maniera efficace, ad una pluralità di contesti. In questa breve ricostruzione storica relativa all'identificazione e all'analisi del diritto, va ricordato che un primo sistematico tentativo di indagare le dinamiche del diritto in seno ad un tribunale non occidentale si ebbe con Max Gluckman, che nel 1955 pubblicò The Judicial Process Among the Barotse, un testo che conteneva, tra il resto, due importanti elementi innovativi: uno che rimandava alla prospettiva e all’apertura teorica, l’altro alla metodologia di ricerca. Questo lavoro rappresentò un importante punto di svolta. Nel testo veniva offerta per la prima volta una scrupolosa descrizione di un I quaderni del CREAM , 2010, X 125 tribunale di una società non occidentale, attraverso un’indagine condotta dall’autore sulle procedure specifiche del tribunale dei barotse (Rhodesia settentrionale, poi Zambia). L’analisi di Gluckman, a differenza di quella di Llewellyn e Hoebel (1941), si fondava su uno studio di casi attuali osservati direttamente. Fu nell’ambito di questo studio che Gluckman presentò il criterio dell’“uomo ragionevole”, a partire dal lavoro svolto dai giudici barotse nell’affrontare casi particolarmente delicati. Come ricordato da Sally Falk Moore (2001), Gluckman era interessato a comprendere “due Afriche” in una volta sola, quella del passato e quella presente. Il padre della Scuola di Manchester leggeva le società africane alla luce dei processi coloniali, delle grandi migrazioni, dell’influenza cristiana, delle trasformazioni economiche che tali società avevano vissuto. Il suo studio rappresentava dunque il primo tentativo di indagare una corte coloniale africana al lavoro. Fino ad allora, il diritto in Africa era stato generalmente presentato come un set di regole consuetudinarie, espresse da capi o altre autorità. Le cosiddette regole consuetudinarie costituivano teoricamente i principi guida delle corti coloniali, anche se il diritto consuetudinario esprimeva, in sostanza, una versione talmente alterata delle pratiche indigene da risultare come un’apposita costruzione coloniale, o quantomeno come una conseguenza del colonialismo. Questa convinzione cominciò ad essere sempre più accettata negli anni a seguire – significativi per esempio i lavori di autori come Fallers, Colson, e poi Snyder, Chanock (Moore 2001, p. 97-98). Quando Gluckman scrisse The Judicial Process Among the Barotse, il diritto consuetudinario era considerato un’espressione della tradizione indigena. Soffermandosi sulle dispute e sulle decisioni, Gluckman focalizzò la sua attenzione sulle regole e il ragionamento. Proprio a partire dai casi direttamente osservati, Gluckman fece dunque ricorso all’idea di ragionamento giuridico fondato su principi logici riscontrabili in ogni sistema giuridico. Diverse critiche vennero mosse nei confronti di tale assunto, visto da molti come un tentativo di occidentalizzare il diritto dei barotse: un artificio retorico dell’antropologo che non corrispondeva all’effettiva prassi giudiziaria dei barotse. I quaderni del CREAM , 2010, X 126 Secondo la Moore (2001), tuttavia, ciò che molti critici non seppero cogliere era che l’interpretazione universalistica di Gluckman implicava un posizionamento politico: l’antropologo intendeva dimostrare che i sistemi giuridici indigeni africani potevano essere considerati razionali – in termini weberiani – tanto quanto i sistemi occidentali. Gluckman cercava infatti di evidenziare le somiglianze tra società semplici e complesse nell’agire attraverso il diritto (1955, p. 224). I contesti possono cambiare, ma la logica che soggiace al ragionamento rimane la stessa. In questo senso, attraverso la comparazione tra pensiero giuridico africano e occidentale, Gluckman cercò di esprimere il suo messaggio di uguaglianza (Moore 2001, p. 98). Se l’analisi comparativa di Gluckman fu orientata a cogliere le somiglianze, quella di Bohannan (1957) fu invece indirizzata ad esplicitare le differenze, operando una distinzione in primo luogo tra sistema indigeno e sistema analitico. Il primo, secondo Bohannan, si compone delle categorie indigene (folk, quelle che è compito dell’antropologo svelare), mentre il secondo è costituito dalle particolari categorie dell’antropologia, attraverso le quali è possibile operare un’analisi comparativa. Per poter afferrare il sistema indigeno, e le categorie che lo costituiscono, è necessario, in questa prospettiva, comprendere e analizzare i termini indigeni. Come è stato osservato, “quando Bohannan afferma che è metodologicamente scorretto impiegare termini – e quindi concetti – del nostro sistema giuridico nella descrizione di un altro sistema giuridico, non fa altro che esprimere la difficoltà di tradurre i contenuti di un sistema culturale nelle categorie di un altro sistema”11 (Remotti 1982, p. 42). Anche in questo senso, l’approccio di Bohannan era diverso da 11 Secondo Simon Roberts, l’enfasi posta da Geertz sull’interpretazione rappresentò un deciso superamento del progetto etnografico di Bohannan. L’idea geertziana delle interpretazioni di interpretazioni farebbe vacillare l’integrità del modello folklorico come unica possibilità per un estraneo di trovare un appiglio per capire “quello che sta succedendo”. Per Roberts, Geertz faceva riferimento ad un’idea di “significato” non pienamente comprensibile nell’opposizione folklorico/analitico. Se pensiamo al combattimento dei galli di Geertz, “la richiesta implicita nella formulazione di Bohannan, di una differenziazione tra la lettura balinese del combattimento dei galli e l’interpretazione dell’etnografo, viene ignorata” (2000, p. 242). I quaderni del CREAM , 2010, X 127 quello di Gluckman, più interessato, quest’ultimo, alla congiunzione tra idee (locali) e rappresentazioni (della società in cui si vive). Il lavoro di questi antropologi si inserì all’interno di un campo di studi che, a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, appariva piuttosto articolato, caratterizzato da animati confronti, soprattutto per quanto riguardava la sponda anglofona del dibattito antropologico. Lo stesso Bohannan va ricordato per l'analisi da lui svolta sul rapporto tra diritto e consuetudine. Secondo Bohannan (1965), lo sforzo per delimitare, o definire, il diritto, conduce il più delle volte a cadere in certe trappole difficilmente evitabili. Innanzitutto, affermava l'antropologo, bisogna distinguere tra il diritto e il costume. Tutte le istituzioni sociali sono segnate dalla presenza di costumi e, questi ultimi, possiedono molte delle caratteristiche che si ritrovano nelle definizioni che sono state date di diritto. La differenza tra costume e diritto, piuttosto, è da rintracciarsi nel fatto che, mentre il costume continua ad inerire solamente alle istituzioni che governa, il diritto viene ricreato in un più specifico e riconoscibile contesto – vale a dire in un contesto di istituzioni giuridiche che, almeno ad un certo livello, si distinguono da tutte le altre istituzioni (ivi, p. 34). Così come il costume include le norme, ma in ultima analisi è qualcosa di più grande e più definito delle norme stesse, allo stesso modo il diritto include il costume, rimandando però anch’esso a qualcosa di più grande e più definito. Prendendo spunto da Kantorowicz, Bohannan scriveva che il diritto possiede una caratteristica aggiuntiva, quella della “giustiziabilità”, intendendo con ciò che le regole sono soggette ad una reinterpretazione da parte di una istituzione giuridica della società, in modo tale che i conflitti tra istituzioni non giuridiche possano essere risolti da un’“autorità” estranea ad esse (ibidem, p.35). Punto centrale nella prospettiva di Bohannan è l’idea di “doppia istituzionalizzazione” del diritto e delle istituzioni giuridiche. Queste ultime presentano due aspetti che non condividono con le altre istituzioni sociali: 1) dispongono di modi regolamentati mediante i quali possono interferire nel malfunzionamento (e nel funzionamento) delle istituzioni non giuridiche, al fine di risolverne i problemi; 2) in relazione a ciò, le istituzioni giuridiche dispongono di due tipi di I quaderni del CREAM , 2010, X 128 regole: quelle che regolano le attività dell’istituzione giuridica stessa (“adjectival law”) e quelle che si possono considerare come sostituzioni, modificazioni o riaffermazioni delle regole delle istituzioni non giuridiche nei confronti delle quali vi è un interesse da parte delle istituzioni giuridiche (“substantive law”). Questi sono aspetti basilari che tutte le istituzioni giuridiche condividono. Molti altri aspetti possono essere individuati, come per esempio il fatto che le istituzioni giuridiche possono divenire, nel vero senso del termine, “innovative” (ibidem, p. 35). Alla luce di tali considerazioni, una semplice distinzione può essere fatta tra diritto e costume. I costumi sono fatti di norme e di regole circa il modo in cui le persone devono comportarsi affinché le istituzioni possano perseguire i loro obiettivi e la società perdurare. Tutte le istituzioni elaborano costumi, ma, in alcune società, alcuni costumi vengono reistituzionalizzati ad un altro livello, ossia vivono una riaffermazione in relazione agli scopi più precisi delle istituzioni giuridiche. Quando ciò succede, il diritto può essere visto come un costume che ha subito una riaffermazione tale da aprirsi alle attività delle istituzioni giuridiche. Secondo Bohannan, Malinowski ebbe un importante intuizione nel riconoscere l’importanza dei principi di reciprocità, ma non si rese conto di una distinzione fondamentale: la reciprocità è alla base del costume, la doppia istituzionalizzazione è alla base del diritto (ibidem, pp. 35-36). Pluralismo giuridico Sono svariate le definizioni di pluralismo giuridico che sono state offerte. Con lo sguardo rivolto al passato, vale la pena di soffermarsi sull’Olanda degli inizi del Novecento, quando si sviluppò la Adat Law School, fondata da Cornelis Van Vollenhoven, il quale teorizzò l’idea di “comunità autonoma”, con riferimento a quei gruppi (clan, famiglie, villaggi) che, inclusi all’interno di una stessa società, “secernono il proprio diritto”. Gli studiosi della Adat Law School svolsero le loro ricerche in Indonesia (che aveva subito le conquiste I quaderni del CREAM , 2010, X 129 olandesi a partire dal XVII secolo), contribuendo all’elaborazione di una prospettiva pluralistica del diritto. Il lavoro prodotto in seno alla Adat è da molti considerato un riferimento fondamentale per gli studi sul pluralismo giuridico12. Generalmente, vi è stata la tendenza a definire pluralismo giuridico la condizione per cui più sistemi giuridici coesistono nello stesso “campo sociale”. Secondo Vanderlinden, il pluralismo giuridico è “l’esistenza, in seno a una determinata società, di meccanismi giuridici diversi che si applicano a situazioni identiche”13. Per Van den Berghe, il pluralismo giuridico corrisponde al carattere, o all’insieme dei caratteri, di società o di diversi gruppi sociali e/o culturali che coesistono all’interno di una stessa società organizzata e sono resi interdipendenti da un sistema economico comune, ma mantengono un grado di autonomia più o meno importante e possiedono un insieme di strutture istituzionali distinte nelle altre sfere della vita sociale, e specialmente nei campi della vita familiare, degli svaghi e della religione14. Come ha ricordato Sally E. Merry (1988, p. 869), l’odissea intellettuale del pluralismo giuridico va dalla “scoperta” di forme giuridiche presso gli indigeni di remoti villaggi dell’Africa e tribù della Nuova Guinea ai dibattiti circa le pluralistiche qualità del diritto nelle società capitalistiche. Il pluralismo giuridico, per la Merry, costituisce un punto centrale del processo di riconcettualizzazione della relazione tra diritto e società. In riferimento a tale concetto è dunque evidente come vi siano svariate posizioni: un “pluralismo ‘radicale’, policentrista, non cerca né la separazione né un’eventuale riduzione all’unità dei diversi ordini giuridici. È diritto ciò che gli uomini considerano tale” (Sacco 2007, p. 84). Al di là delle varie sfaccettature che esso può assumere, per Santos (1987) il pluralismo giuridico deve essere inteso come un concetto fondamentale per una visione postmoderna del diritto. La dimensione plurale del diritto è stata letta da Pospisil (1967) 12 Si veda per esempio Rouland 1992. 13 Cit. in Rouland 1992, p. 76. 14 Cit. in Rouland 1992, p. 77. I quaderni del CREAM , 2010, X 130 mediante la concettualizzazione dei “livelli giuridici” che operano all’interno di una medesima società, teorizzando la presenza di sottogruppi gerarchicamente organizzati che coesistono in una stessa società, ognuno dei quali presenta un proprio sistema giuridico. Nel suo Legal Levels and Multiplicity of Legal Sistems in Human Societies, Pospisil affermava che, tradizionalmente, il diritto è stato concepito come tipico di una società considerata nella sua interezza. Come conseguenza logica, una determinata società si pensava contenesse un solo sistema giuridico in grado di controllare il comportamento di tutti i suoi membri. Se gli studiosi non avessero investigato i sistemi di controllo sociale che operano nei sottolivelli di una società, ai diversi sottogruppi non sarebbe stata riconosciuta la possibilità di regolare il comportamento dei propri membri attraverso sistemi di regole applicati a specifiche situazioni dai leader di tali sottogruppi (ivi, p. 3). Ogni sottogruppo funzionante di una società possiede un proprio sistema giuridico che è differente, almeno per certi aspetti, dai sistemi giuridici degli altri sottogruppi. Dal momento che i sistemi giuridici formano una gerarchia che riflette i gradi di inclusività dei corrispettivi sottogruppi, la totalità dei sistemi giuridici dei sottogruppi dello stesso tipo (per esempio: famiglia, lignaggio, comunità) corrisponde a ciò che Pospisil chiama “livello giuridico”. Un individuo è simultaneamente membro di diversi sottogruppi (un kapauku della Nuova Guinea, per esempio, è membro della sua household, del sottolignaggio, del lignaggio, della confederazione politica, laddove ognuno di questi sottogruppi è politicamente e giuridicamente organizzato), di conseguenza è soggetto a tanti sistemi giuridici quanti sono i sottogruppi cui appartiene. Dunque, il diritto in una data società si differenzia tra i sottogruppi dello stesso tipo (dello stesso grado di inclusività). Inoltre, il diritto presenta discrepanze anche tra sottogruppi di diverso tipo (con un differente grado di inclusività), al punto che un individuo può essere soggetto a svariati sistemi giuridici perfino in contraddizione tra di loro (ibidem, p. 9). Sally Falk Moore (1973) ha proposto dal canto suo la categoria di “campi sociali semiautonomi”, forse più efficace, rispetto a quella di “sottogruppi” di Pospisil, per evidenziare la caratteristica relazionale I quaderni del CREAM , 2010, X 131 dei sistemi di riferimento di ordine normativo. Questa condizione di semiautonomia può essere spiegata riprendendo il caso posto da Pospisil di un’organizzazione criminale, che avrebbe la capacità di creare e applicare regole proprie. Per la Moore, per quanto una tale organizzazione possa fondarsi sulle sue proprie regole, deve comunque confrontarsi con le leggi dello Stato e di conseguenza non può agire in completa autonomia. Concentrandosi su una dimensione orizzontale del pluralismo giuridico, la Moore (1973) ha recuperato, all’interno della sua riflessione, l’attenzione posta da Malinowski (1926) sugli obblighi vincolanti. I campi sociali semiautonomi hanno la capacità di generare regole e indurre (o costringere) alla conformità; ma, allo stesso tempo, sono inseriti in un sistema sociale più ampio che di fatto tende ad invaderli. Citando Max Weber, la Moore afferma che tali campi sociali possiedono un “ordine giuridico”. Dunque, un’indagine sui campi sociali semiautonomi mostra come i vari processi che inducono a generare internamente regole efficaci siano spesso anche forze che dettano le modalità mediante le quali è possibile conformarsi (o no) alle regole giuridiche dello Stato (ibidem, p. 721). Di conseguenza, i campi sociali semiautonomi e i loro confini sono definiti in termini processuali, vale a dire per la caratteristica di poter generare regole e indurre o costringere alla conformità (ibidem, p. 722). Presentando la prospettiva critica di John Griffiths, Rouland (1992) ricorda che esistono due tipi di pluralismo giuridico: quello concesso dallo Stato e quello che sfugge al controllo statale. Il primo appare come un pluralismo di facciata e non contrasta con politiche unitarie e centralizzatrici. In breve, se il pluralismo può essere considerato avversario dello Stato, quest’ultimo ha essenzialmente due modi per reprimerlo: eliminandolo completamente, oppure riconoscendone ufficialmente alcune (e solo alcune) manifestazioni. Fin quando lo Stato rimane l’arbitro del gioco, le forme di diritto non statale rimangono subordinate all’ordine imposto dal diritto statale. Già Pospisil (1971) aveva messo in evidenza quella tendenza a guardare al diritto dello Stato come al riferimento primario, quasi onnipotente, cui gli individui si affidano per la loro protezione e in relazione al quale cercano di conformare i propri comportamenti. In I quaderni del CREAM , 2010, X 132 altre parole, diceva Pospisil, si assume generalmente che il centro del potere che controlla la maggior parte dei comportamenti dei cittadini si delinei ad un livello che coinvolge la società nella sua interezza. In merito alle tesi di Pospisil, Griffiths critica tuttavia la visione gerarchica dei livelli giuridici, che porterebbe a riconoscere l’esistenza di un sistema giuridico proprio della società globale, derivato dalla sovrapposizione dei diversi livelli giuridici. La presunta unicità del sistema giuridico sarebbe dunque favorevole alla valorizzazione del ruolo dello Stato, unitario per sua stessa natura (Rouland 1992). Griffiths ha messo in discussione anche la posizione di Vanderlinden, colpevole a suo avviso di confondere la diversità giuridica con il pluralismo giuridico (ibidem, pp. 82-83). La semplice esistenza di regole differenti applicabili a situazioni identiche, a seconda dei vari gruppi sociali, non corrisponde ad un pluralismo giuridico, poiché tali regole sono tollerate (o derivano da) un unico ordinamento giuridico, quello dello Stato (ibidem, p. 83). Pur riconoscendole diversi meriti, anche la Moore secondo Griffiths avrebbe dato eccessivo peso all’azione del diritto statale nei confronti dei campi sociali semiautonomi, trascurando le relazioni esistenti tra campi non statali (ibidem, p. 83). A ben vedere, la Moore non si è limitata a parlare di “diritto”, ma piuttosto di “campi normativi” che, all’interno di un quadro di continue interazioni, sono soggetti a reciproche influenze e cambiamenti, perlopiù non controllabili e imprevedibili. La prospettiva critica di Griffiths tende a vedere pressoché ovunque un eccesso di statalismo e non stupisce dunque che le sue definizioni si offrano come una rottura radicale tra diritto e Stato. Il diritto, infatti, può fare a meno dello Stato; in altre parole, per Griffiths, il “diritto è l’autoregolamentazione di un campo sociale semi-autonomo”15 e il diritto statale, quindi, non è che una delle manifestazioni possibili del diritto. L’approccio critico di Griffiths – pur rischiando di sfociare in un ipercriticismo teorico – contiene interessanti intuizioni e soprattutto un 15 Cit. in Rouland 1992, pp. 83-84. I quaderni del CREAM , 2010, X 133 significativo posizionamento, in particolar modo in riferimento alla messa in discussione dell’ideologia del centralismo giuridico. Proprio in questo senso, Griffiths (1986) afferma che tale ideologia ha rappresentato il maggiore ostacolo all’elaborazione di una teoria descrittiva del diritto (ivi, p. 3). Ma Griffiths si spinge oltre, dichiarando: “Il pluralismo giuridico è un fatto. Il centralismo giuridico è un mito, un ideale, una rivendicazione, un’illusione” (ibidem, p. 4). Dunque, l’individuazione di un pluralismo giuridico in senso debole (soggetto al controllo statale) risulta fondamentale nell’ottica di Griffiths, non solo a livello analitico, ma anche per poter osservare tanto le dinamiche e le forze che agiscono in una determinata società quanto le diramazioni che l’ideologia centralista consente. Ora, gli studi sul pluralismo giuridico hanno senz'altro aperto la strada a rielaborazioni concettuali di notevole importanza nel “discorso sulla società”, sebbene si siano raramente preoccupati di problematizzare l’idea stessa di un pluralismo specificatamente giuridico (Roberts 2000). Problematizzare significa del resto abbandonare determinati assunti di partenza. In particolare, è l’arbitraria collocazione di confini entro lo spazio sociale che si dovrebbe interrogare criticamente. Simon Roberts si chiedeva: “fino a che punto dovremmo pensare allo spazio sociale in termini di ambiti/campi/ordini/discorsi/ sistemi co-esistenti, più o meno distinti?” (2000, p. 230). Se per esempio la critica di Griffiths (1986) verso l’egemonia dell’ideologia centralista ha posto l’attenzione su un punto fondamentale, questa ha pur sempre teso a leggere il pluralismo giuridico in termini di “contenuto”, laddove il contenitore era dato dalla forma politica che il centralismo presuppone: lo Stato. Del resto, come ha affermato anche Mahmood Mamdani, esiste un linguaggio specifico dello Stato moderno, anche nella sua variante coloniale, ed è proprio il linguaggio del diritto (2001, p. 653). Tuttavia, se il linguaggio del diritto tende a fondersi inevitabilmente con i termini dell’organizzazione politica statale, è altresì vero che l’estensione del campo giuridico espressa nei processi di legal transplant, nei movimenti transnazionali di rivendicazione e di resistenza, nella diffusione dei diritti umani e nell’emersione su scala I quaderni del CREAM , 2010, X 134 planetaria di istanze normative locali, ha ormai reso evidente in primo luogo come il diritto (in qualunque modo lo si voglia definire) non si dà esclusivamente all’interno dei confini nazionali, né esclusivamente nei rapporti ufficiali tra Stati. Ancor più importante, il pluralismo, nella sua accezione normativa, non rimanda solamente all’esistenza di diversi ordini giuridici all’interno di un presunto campo sociale, né al solo fatto di poter riconoscere in ultima analisi un ordine giuridico valido per tutti, ma concerne invece la possibilità di pensare le soggettività cui gli ordinamenti giuridici fanno riferimento in termini plurali, fino al punto di riconoscere la capacità che gli individui hanno di pensarsi al di fuori degli ordini giuridici stessi che vengono posti in essere. Il riferimento a questa capacità di pensarsi al di fuori del diritto non intende negare le contingenze concrete e le forze continuamente riprodotte nell'esperienza sociale. Si vuole ora semplicemente ribadire che così come il diritto statale corrisponde ad una particolare strutturazione dell’ordine normativo – la quale presuppone una particolare visione del mondo –, allo stesso modo lo Stato corrisponde ad una tra le forme possibili di organizzazione politica. E se l’individuo può pensarsi – cioè, è pensabile – al di là dello (o a prescindere dallo) Stato, allo stesso modo può pensarsi al di fuori del diritto, non in termini di devianza, ma in termini di molteplice appartenenza: in questo senso si può far riferimento non semplicemente all’idea di pluralità, ma a quella di pluralismo. La possibilità di pensarsi al di fuori del diritto è da intendersi quindi come una sovra-interpretazione, una chiave di lettura per osservare criticamente la processuale configurazione dei sistemi normativi come “dati di fatto”. Riccardo Motta (2000), rifacendosi all’opera di autori come Macdonald e Rocher, ha posto l'attenzione su un ulteriore punto. Accogliendo l'idea di pluralismo a partire dagli schemi pluralistici “critici”, appare più evidente il significato che questo assume nelle strategie di rivendicazione e lotta per i diritti. La teoria critica di Macdonald fa per esempio riferimento agli orientamenti ed alle strategie individuali, ma per Motta non esclude i gruppi. Lo stesso Macdonald ha riproposto una riflessione sul concetto di istituzione, I quaderni del CREAM , 2010, X 135 estendendolo anche alle cosiddette comunità informali e prendendo in considerazione le norme implicite che queste elaborano. Così, l’autore ha individuato le istituzioni latenti che sfuggono alla dicotomia “legalità – comunità”. Affermando l’esistenza di istituzioni latenti, ai soggetti collettivi protetti da legalità ufficiale viene negata la possibilità di collocare “fuori legge” i gruppi dissenzienti, secondo quanto vorrebbe lo schema di un dualismo egemone e conflittuale16 (ibidem, p. 193). Il problema da affrontare, per Motta, è dunque quello delle istituzioni incompatibili e delle reazioni collettive di intolleranza reciproca. In questo senso, “seguendo la teoria delle norme implicite, delle istituzioni latenti e del pluralismo giuridico critico, le origini degli antagonismi si localizzano a monte del diritto esplicito” (ibidem, p. 193). I percorsi che da qui si aprono conducono non solo a riflettere su un’antropologia politica dei diritti, ma spingono anche a ripensare il discorso sull’ideologia, emerso dagli studi sul pluralismo come irriducibile ad una lettura univoca del “dall’alto verso il basso”17. La concezione del pluralismo in termini normativi, piuttosto che “giuridici”, potrebbe innanzitutto risultare più adatta tanto per descrivere l’intersezione tra pratiche sociali, valori rappresentati ed esperiti quanto per sottolineare la rilevanza extra-giuridica di taluni fenomeni socio-normativi. Il diritto, del resto, è plurale (e mutevole) per sua stessa natura. Plurale, ovviamente, non significa onnicomprensivo né tantomeno universalmente valido: come ha scritto Supiot, “ancora meno dell’idea di Legge, l’idea di Diritto non può ambire all’universalità” (2006, p. 223). Allo stesso tempo, Geertz ricordava però che il “diritto può non essere una onnipresenza incombente nell’universo (...), ma non è 16 Teubner ha per esempio affermato che “il pluralismo giuridico riscopre il potere sovversivo dei gruppi soppressi”, cit. in Roberts 2000, p. 230. 17 Simon Roberts ha scritto: “Il diritto non potrebbe più essere trattato in modo non problematico (...); né l’“ordine” potrebbe essere rivendicato come prodotto esclusivo di un movimento dall’alto al basso, dal centro alla periferia (...). Ancora, lo spostamento verso questioni di “confine”, che il pluralismo giuridico comporta inevitabilmente, ha stimolato una serie di discussioni importanti. Queste conversazioni hanno articolato la “differenza” in una serie di termini (...) tutti incentrati sulle questioni di cambiamento e permeabilità” (2000, pp. 229-230). I quaderni del CREAM , 2010, X 136 neanche (...) una collezione di strumenti ingegnosi per evitare dispute, difendere interessi e appianare controversie” (1988, p. 219). Certamente, come opportunamente sottolinea Fuller (1994), il diritto può essere anche inteso come sistema di repressione, ma questo aspetto in realtà non fa altro che confermare un assunto di base, cioè che il diritto dipende dalla visione del mondo che gli individui e i gruppi elaborano. Il diritto, in questo senso, risulta funzionale nel supportare una “verità”, quella del mondo che è socialmente chiamato a giustificare. Di fronte al carattere multiforme del diritto, alcuni giuristi rispondono operando delimitazioni del campo giuridico, altri cercando di ampliarlo. Carbonnier, per esempio, critica “la grande illusione del pluralismo. Esso crede di avere filmato il combattimento tra due sistemi giuridici, ma ciò che mostra è un sistema giuridico alla prese con l’ombra di un altro”18. Per Carbonnier, in breve, le teorie pluraliste cadono nell’errore di sovraqualificare certi fenomeni che si trovano al limite del giuridico. In realtà o questi sono integrati nel sistema giuridico globale (...) e la distinzione è dunque illusoria. Oppure esistono fatti giuridici dissidenti (...), non integrati nel diritto statale, ma in questo caso non si tratta che di un infra-diritto (anche se coloro che lo praticano lo considerano un vero diritto), perché a tali regole manca il criterio della giuridicità, cioè la costrizione organizzata e l’eventualità del giudizio19. Come sottolinea Rouland (1992), la posizione di Carbonnier rischia di appiattirsi su distinzioni dicotomiche (diritto e infra-diritto, giuridico e infra-giuridico), che difficilmente riescono a restituire la dovuta complessità dei fenomeni normativi. Ugualmente, l’enfasi posta sulla “costrizione organizzata” ricorda quelle definizioni di diritto che si fondavano sull’idea di sanzione. Se per riuscire a descrivere in maniera efficace un ordine normativo o i meccanismi di controllo sociale in una società occorre necessa18 Cit. in Rouland 1992, p. 84. 19 Cit. in Rouland 1992, p. 85. I quaderni del CREAM , 2010, X 137 riamente rimandare alla forma dello Stato (e dell'ordinamento giuridico), resta da chiedersi quale sia la valenza di una tale definizione in relazione a quelle realtà che mettono in crisi l'identificazione stessa dello Stato come esclusivo ordine di riferimento normativo e politico. Allo stesso tempo, occorre chiedersi quali implicazioni vi siano nell’estendere concetti e logiche tradizionalmente impiegati per descrivere il diritto e l’ordine giuridico in certe società e fasi storiche a fenomeni sociali di differente natura. Il tentativo di ampliare il campo giuridico, assimilando discorsi altri, pone da questo punto di vista altrettanti dilemmi di natura politica. Rimane dunque un problema di fondo che Roberts riassume così: Nell’insieme, la mia opinione è che sia inevitabilmente problematico tentare di fissare un concetto di diritto che vada oltre le forti autodefinizioni di diritto statuale20. Dove il progetto è quello di recuperare “discorsi soppressi”, dovremmo cominciare quel processo nei suoi termini propri, piuttosto che dire loro che cosa “sono”. Questo significa resistere alla tentazione di cooptarli in quell’ampliato campo che un pluralismo esplicitamente giuridico implica (2000, p. 243). Vanderlinden, nel 1989, suggeriva di sostituire il termine “campo sociale” con quello di “network sociale”, più adatto, quest’ultimo, a comprendere le continue relazioni tra individui e gruppi senza necessariamente legarsi ad una dimensione territoriale. Nella prospettiva di Vanderlinden, tuttavia, il network non costituisce il centro nevralgico dell’analisi. È piuttosto l’individuo, in quanto punto di convergenza dei molteplici ordini normativi che necessariamente ogni network include, ad essere al centro della sua attenzione (ivi, p. 151). Secondo Vanderlinden, la distinzione tra diritto e non-diritto nelle società occidentali è utile, anche se l’insistenza di alcuni sul ruolo dominante (o esclusivo) di un solo legal regulatory order appare quantomeno discutibile. L’individuo, in quanto membro di differenti network sociali, è soggetto ad un processo dialettico in cui ordini giuridici in 20 La stessa Merry si chiedeva: “perché è così difficile trovare una parola per il diritto non statale?” (1988, p. 878). I quaderni del CREAM , 2010, X 138 competizione esercitano il proprio potere su di esso, cercando allo stesso tempo di rendersi autonomi da tutti gli altri ordini (ibidem, p. 151). L’individuo, per certi versi, rappresenta il campo di battaglia sul quale si scontrano i diversi ordini giuridici. Il concetto di pluralismo giuridico non ruota quindi attorno ad un sistema giuridico dato, ma attorno al “soggetto di diritto”, intendendo con ciò non solo che l’individuo è detentore di diritti e doveri, ma anche che egli è soggetto ad un sistema giuridico (ibidem, p. 152). A questo punto, pur cogliendo l'enfasi posta da Vanderlinden sull’individuo, lo sguardo antropologico indurrebbe a problematizzare l'affermata categoria di soggetto di diritto, liberando quindi le forme della soggettività in istanze extra-giuridiche. Uno spostamento paradigmatico sembrerebbe porsi in tal senso: dal soggetto di diritto al soggetto oltre il diritto. Non si intende in questa sede dibattere circa le implicazioni filosofiche connesse a questi aspetti. Si vogliono piuttosto evidenziare gli spazi di indagine aperti per ulteriori elaborazioni antropologico-giuridiche. Pensare l'individuo al di là del diritto non implica né una riduzione dell’ambito normativo ad una matrice tecnicamente giuridica, né tantomeno la volontà di estendere in maniera indefinita il campo giuridico ad altri fenomeni sociali. E ancora, non induce ad assumere una visione essenzialista di diritto (Tamanaha 2000). Pensare l'individuo oltre il diritto implica gettare luce sulle ombre ai confini del giuridico. Significa ribadire l’artificiosità di tali confini e interrogare il processo di formalizzazione che li accompagna: chi e come stabilisce tali confini? A quale fine? In che misura le rivendicazioni sociali possono divenire questioni di diritto? Oltre il diritto, in breve, giace la possibilità di una sua ricomposizione, dove l'impalcatura ideologico-giuridica collassa su stessa mettendo in luce il processo di naturalizzazione21 che le è proprio; ed è a partire da questo indispensabile percorso di ricomposizione che l'esperienza normativa sembrerebbe trovare possibilità di riaffermazione in forme dinamiche, interculturali (Ricca 2008, 2011). 21 L'affermazione del diritto è contraddistinta da processi di stabilizzazione storicamente e culturalmente determinati. Prodotto dell'interazione e ad essa nuovamente orientata, ogni istanza normativa è in tal senso processuale e socialmente negoziata. I quaderni del CREAM , 2010, X 139 Le problematiche cruciali dell'antropologia giuridica odierna non sono in ultima analisi riconducibili alle tradizionali trappole classificatorie (cos'è il diritto? Cos'è il pluralismo giuridico?) che a lungo hanno tenuto occupati gli studiosi. Oggi, per dirla in altre parole, la questione principale non è capire cos'è il diritto in una prospettiva antropologica, quanto comprendere che ruolo può assumere l'antropologia nel decifrare e usare le trasformazioni normative contemporanee alla luce dei processi di soggettivazione delle istanze normative e di metamorfosi culturale. I riferimenti simbolici e pratici che forniscono senso a tali trasformazioni non rimandano ad una dimensione “locale” né semplicemente multiculturale, ma piuttosto interculturale, dove i livelli di simultaneità degli accadimenti planetari, i gradi di intrusività delle politiche transnazionali, e la proliferazione di “verità giuridiche” richiedono da parte dell'antropologo abilità creative più che descrittive. È in queste direzioni che il ruolo pubblico dell'antropologia si declina nelle circostanze concrete che derivano dal particolare rilievo che assume oggi la questione della consulenza antropologica nei campi di applicazione del diritto. Concludere infine con alcune questioni aperte sembra il modo più efficace per provare a restituire l'articolazione dei dibattiti attuali. Tentando di non operare una “banalizzazione del diritto” – presentandolo cioè univocamente come sistema, calato dall'alto, di controllo e repressione – è necessario infatti evidenziare aspetti più complessi e dinamici. In quest'ottica, ci si chiede: quali logiche soggiaciono alla strutturazione dei sincretismi normativi contemporanei? Come si riconfigura il pluralismo normativo nei contesti contraddistinti da intensi flussi di immigrazione? Che ruolo assume il diritto nel processo di riformulazione della sovranità degli Stati-nazione? In che misura il diritto può divenire piattaforma di riferimento per la convivenza interculturale? I quaderni del CREAM , 2010, X 140 Bibliografia Althusser, L., 1995, Montesquieu, la politica e la storia, Manifestolibri, Roma. Bohannan, P., 1957, Justice and Judgment among the Tiv, Oxford University Press, New York. 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Vanderlinden, J., 1989, “Return to Legal Pluralism: Twenty Years Later”, Journal of Legal Pluralism, 28, pp. 149-157. I quaderni del CREAM , 2010, X 143 GIANCARLO ANELLO 1 CIVILTÀ E DIRITTI: ARCHEOLOGIA DELLA SUBALTERNITÀ LEGALE NEL COLONIALISMO GIURIDICO ITALIANO Introduzione Le società politiche europee sono caratterizzate, rispetto al passato, da una spiccata variabilità religiosa, etnica, culturale, economica e sociale. Al loro interno si riscontrano continui flussi di gruppi sociali, famiglie, persone provenienti da zone del mondo differenti. È stato osservato come queste dinamiche sociali, una volta convertite in processi di insediamento, possano dare origine, seppure in luoghi diversi, ad un analogo di quella complessa umanità generatasi in seno alle società coloniali dei secoli XXVIII-XX (Bhabha 1994). La similitudine tra le attuali democrazie pluriculturali e la condizione degli stati coloniali non è nuova, e ha trovato adeguata analisi nel postcolonialismo e nei cd. cultural studies (Hall 2006; Mellino 2005; Young 2001). I recenti processi di insediamento producono oggi condizioni di multiculturalità2 forzate, per alcuni aspetti assimilabili a quanto avvenuto nel passato coloniale in Africa o in Asia. Persino la definizione letterale di colonialismo3 contenuta nei dizionari sembre1 Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Parma. 2 I termini “multiculturalità” e “pluriculturalità” vanno considerati sinonimi e indicano una condizione di mero fatto, vale a dire la sussistenza su un medesimo territorio di gruppi di persone aventi matrici culturali differenti. 3 La definizione che del termine colonialismo si trova nell’Oxford Dictionary lo connota come “un insediamento in una nuova terra (…) un gruppo di persone che si insedia in una località nuova e costituisce una comunità soggetta o comunque legata al I quaderni del CREAM , 2010, X 145 rebbe poter essere adeguata a descrivere le dinamiche di spostamento delle persone che migrano oggi in Europa (Loomba 1998, p. 18). Gli odierni contesti statali costituiscono nuovi laboratori viventi che gli scienziati sociali si sforzano di osservare, studiare, descrivere, regolamentare; e nei quali i processi democratici sono chiamati ad affrontare, ogni giorno, sfide dai contenuti imprevedibili. Queste fenomenologie vengono definite come postcoloniali, da un lato in ragione delle affinità degli attuali processi rispetto ai vecchi; dall’altro perché la caratteristica di questi processi si sposta dai luoghi o dalle istituzioni in cui essi si svolgevano in epoca coloniale alle persone, o ai gruppi che li promuovono, cioè all’ambito della soggettività umana e della sua tutela. In tal senso, la sfera pubblica, non quella privata, costituisce in prima battuta la principale zona di contatto tra persone di religione, lingua, etnia, nazionalità e cultura diversa. E nella sfera pubblica si stabiliscono quelle relazioni attraverso le quali gruppi e persone di cultura differente si incontrano, o si scontrano, spesso facendo base su posizioni di partenza diverse (Pratt 1992, p. 6). Di fronte ad assetti sociali in profondo mutamento sembra altresì ragionevole interrogarsi sulle dinamiche di adattamento della democrazia e sull’effettività delle categorie giuridiche fondamentali che sembrano più radicalmente investite dalla concorrenza di sistemi giuridici e culturali. In un contesto non meno scabroso di quello coloniale, le democrazie occidentali scoprono di dover fare i conti anche con forme di culture antagoniste, formate da persone che si mobilitano, rivendicando diritti e avanzando istanze, a volte in sintonia con gli schemi giuridici degli ordinamenti occidentali; altre volte in contrasto, o al di fuori di essi. Ciò, comprensibilmente, suscita preoccupazione e talora allarme nei cittadini autoctoni, ma instilla anche un dubbio profondo, ovvero che il discorso democratico non possa dirsi effettivamente universale, ma abbia il proprio habitat all’interno di un contesto culturalmente omogeneo, precipuamente quello occipaese di origine; la comunità che si è così formata e che consiste dei coloni originari, dei loro discendenti e successori fino a quando questi mantengono un legame con la terra di origine”. I quaderni del CREAM , 2010, X 146 dentale. Alla luce di queste nuove problematiche, il valore stesso della democrazia correrebbe il rischio di svelarsi d’un tratto , suo malgrado, fortemente provincializzato, cioè ridotto a prodotto culturale di una parte minoritaria, benché elitaria, del mondo. Rispetto alla tematica qui affrontata, il dominio del diritto sembra difettoso. La questione del governo di una soggettività pluri-culturale si segnala per una laboriosità esasperata dall’intersezione multilaterale di pretese e di comportamenti giuridicamente rilevanti. Questi problemi non riguardano solo conflitti tra norme disciplinati dal diritto internazionale pubblico e privato, ma investono direttamente l’interpretazione e l’applicazione delle norme di diritto interno. In molti casi gli stranieri interpretano, o chiedono di interpretare, diritti e doveri, istituti giuridici, divieti e sanzioni in maniera difforme da quella consueta, così da poterli “sintonizzare” con gli universi culturali e giuridici di provenienza. La forza della loro contestazione è tanto maggiore quanto più ampia, articolata e profonda è la tradizione culturale e giuridica a cui queste interpretazioni si rifanno. Rispetto ad un quadro così problematico, ci si può chiedere quale vantaggio possa derivare dall’uso dell’armamentario critico del postcolonialismo e quale giovamento si possa trarre dall’analisi retrospettiva del passato coloniale italiano e dei suoi sistemi giuridici di governo. In altre parole, per quali motivi si dovrebbe scegliere di leggere le questioni attuali poste dalla “condizione multiculturale” nella prospettiva dell’esperienza storica coloniale. Una prima motivazione, cui si è già fatto cenno, può trarsi dalle analogie sociali e giuridiche che si sono prodotte e si producono nei due ambiti, quello passato e quello odierno, in ragione della sopravvenuta condizione di pluri-culturalità. In particolare, è istruttivo riflettere su contesti giuridici estremamente differenziati, come quello coloniale, in cui erano portati a convivere sistemi di diritto tradizionali autoctoni e di importazione straniera; ed ancora, analizzare i meccanismi di differenziazione normativa in un sistema giuridico in cui percezione e focalizzazione delle differenze, anche se per motivi ormai discutibili, risultavano basali, diffusi, discriminanti. Ciò conduce inoltre, e quasi per riflesso, a scandagliare il percorso giuridico di I quaderni del CREAM , 2010, X 147 rilevanza della differenziazione personale alle origini dell’individualismo liberale, suggerendo nuovi strumenti e prospettive per una sua analisi critica. Un’indagine di questo genere appare peraltro utile per monitorare, tra le pieghe delle dinamiche democratiche e normative attuali, l’eventuale pericolo di fenomeni di subalternità culturale tra gruppi sociali, che possono anche tradursi in processi di subordinazione giuridica a tutti gli effetti. Una seconda ragione può a questo punto collegarsi alla precedente. Nei sistemi giuridici coloniali il bilanciamento tra uguaglianza e differenza era articolato in modo formalmente inverso rispetto a quello praticato dalle attuali istituzioni democratico-costituzionali: se negli assetti contemporanei il valore dell’uguaglianza impronta di sé il sistema costituzionale, i regimi coloniali erano invece esplicitamente costruiti sul valore della diversità. La rilevazione e il mantenimento delle differenze costituiva anzi obiettivo primario di quegli apparati, condizionandone ogni estrinsecazione, sia formale sia sostanziale. Come si mostrerà tale obiettivo veniva perseguito, giuridicamente, con strategie e meccanismi a volte consapevoli e riconoscibili, a volte nascosti e irriflessi. Ma la differenziazione razziale e culturale strideva cronicamente e clamorosamente con i principi di libertà e di realizzazione individuale, che pure caratterizzavano la tradizione liberale e quindi l’impalcatura dello stato italiano pre-fascista. Anche oggi, le profonde differenziazioni in corso nell’ambito delle odierne società multiculturali corrono il rischio di rendere l’operatività dei principi giuridici fondamentali, di libertà, uguaglianza, dignità e autonomia opachi, o non pienamente integrati in un sistema di diritti autenticamente pluralistico. È inevitabile che rispetto alle prospettive di frammentazione culturale le norme che garantiscono i diritti di libertà e, in special modo, la libertà di religione, debbano fungere da asse critico fondamentale di ogni andamento democratico. È un dato storicamente acquisito, e che assume ogni giorno nuova evidenza, la centralità che la libertà religiosa riveste nell’economia dei diritti di libertà, e, a monte, l’importanza che le libertà giuridiche hanno in un sistema politico pluralista. I quaderni del CREAM , 2010, X 148 Per questi motivi, sollecitare la memoria sui meccanismi giuridici di produzione e di mantenimento della diversità nel passato, può essere utile per interrogarsi sul grado di uguaglianza garantito, oggi, dagli ordinamenti occidentali di matrice liberale. La libertà religiosa nel diritto coloniale Nel sistema giuscoloniale italiano l’uguaglianza non era certo considerata un valore comune a cittadini e sudditi indigeni; né la differenza culturale poteva essere accreditata come un bene giuridico in senso proprio e di per sé tutelabile. Il cardine della variabilità individuale poteva però essere rintracciato nella libertà; ed in specie, quello della variabilità culturale nella libertà di religione, che in astratto non fu mai formalmente negata agli indigeni. Tale ideologia, che tanta rilevanza attribuiva all’ideale della libertà personale, aveva una matrice precisa, quella del liberalismo italiano. Tale nesso di derivazione valeva anche per la libertà di religione (Ruffini 1992). Lo spirito del diritto liberale ha permeato profondamente le costruzioni dottrinali della libertà di religione (Tedeschi 2002). Tale concezione considerava il diritto di libertà del cittadino soprattutto come un diritto pubblico subiettivo, vale a dire come garanzia giuridica azionabile nei confronti sia degli altri individui, sia dello stato, e volta a salvaguardare la sfera privata e l’esercizio in essa della pratica religiosa. Questa garanzia, concretamente, si risolveva nell’impedire l’intervento dello stato all’interno di una sfera giuridica riservata all’individuo. Ruffini considerava le disposizioni in materia di libertà di coscienza e di divieto di discriminazione come le norme fondanti il diritto in parola. Ad esempio, citava l’articolo unico della legge 19 giugno 1848 come la pietra angolare del sistema di libertà religiosa in Italia. Esso stabiliva: “La differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici ed all’ammissibilità alle cariche civili e militari”. La libertà di religione si poneva a difesa della soggettività giuridica individuale, la cui pienezza non poteva essere limitata dalle scelte personali in materia di culto. Una simile accezione della libertà reli- I quaderni del CREAM , 2010, X 149 giosa era il frutto della riflessione sulle dinamiche religiose nel circuito, per così dire, interno, cioè legate al quadro storico-politico dello stato liberale. In questo contesto la libertà religiosa, sebbene fosse chiamata a disciplinare due forti antagonismi, quello dello Stato verso la Chiesa e quello dell’individuo verso lo Stato (Allegretti 1989; De Ruggiero 1941), doveva dar conto di rapporti tra cittadini aventi lingua, etnia, valori, cultura omogenea. Il dissidio religioso si poneva, cioè, tra cittadini cattolici e non cattolici, tra cristiani o protestanti, tra chierici e laici, accomunati tuttavia da una elevata partecipazione, anche spirituale, agli ideali e alla prospettiva politica nazionale. Si può assumere che i cittadini italiani, sebbene si sentissero differenti per convinzioni in fatto di religione, non si reputassero gli uni con gli altri diversi per cultura o civiltà. Non vi fu in nessun caso, neanche nei momenti in cui il contrasto tra le istituzioni liberali e i dissidenti cattolici fu più serrato, la necessità di teorizzare la “dissidenza” di matrice religiosa in termini di radicale opposizione identitaria (Sanetti 1997). Inoltre la formula politica del liberalismo che trovava attuazione in Italia fu caratterizzata dalla leadership ideologica della classe borghese. Questa era tuttavia espressione abbastanza fedele della sola media e grande proprietà terriera, ed il suo programma politico era assai distante da concezioni radicalmente rivoluzionarie e popolari. Le problematiche connesse alla frammentazione religiosa e culturale in realtà, ove vi furono, rimasero limitate e marginali rispetto al processo di definizione di un’ideale, quello di libertà, il cui asse centrale fu legato alla ricerca di una reciproca indipendenza, del potere dello stato dalla chiesa, in un primo momento e del potere della chiesa dallo stato, successivamente. Di diverso tenore furono le questioni sollevate dalla libertà religiosa nelle colonie. Qui la dottrina percepì chiaramente come la differente componente culturale delle popolazioni indigene ponesse problemi concettuali relativi all’estensione stessa della categoria giuridica (Solmi 1913; Bertola 1937). La presenza nelle colonie di gruppi religiosi e culturali estremamente eterogenei costituì un banco di prova severo per l’approccio liberale al governo della diversità. In quell’esperienza storica si ravvisano i primi casi in cui gli esponenti del I quaderni del CREAM , 2010, X 150 pensiero liberale, politici e giuristi, si trovarono a dover fronteggiare una situazione di radicale pluri-culturalità, portando con sé, come patrimonio ideologico, quei principi di libertà che, almeno formalmente, costituirono la ragione dell’autonomia dei popoli indigeni nella normativa coloniale. L’impatto con la diversità religiosa e culturale delle colonie indusse quella generazione di studiosi a riflettere sulle forme e sul contenuto di alcune categorie generali del pensiero liberale, in particolare sul valore e sulla connotazione stessa della libertà di religione. Ci si chiese, in particolare, se la sovrapposizione normativa tra sfera religiosa e sfera politico-giuridica potesse determinare un ampliamento delle fattispecie tutelabili tramite il diritto di libertà religiosa. E le risposte furono divergenti. Per alcuni autori tali posizioni giuridiche potevano assumere, nel contesto delle colonie, un contenuto più ampio rispetto a quello delineato nell’ordinamento nazionale (Jannaccone 1939). Altri, pur opponendosi ad una maggiore latitudine della libertà religiosa nelle colonie rispetto al diritto interno e alla possibilità di dare rilevanza alle norme tradizionali dei diritti religiosi tramite essa, non poterono comunque evitare di interrogarsi quantomeno sulla differenza tra il valore e la portata della libertà religiosa nei sistemi coloniali rispetto al diritto interno. Così, pur ritenendo che nelle politiche coloniali il principio della libertà religiosa fosse semplicemente equiparabile ad un generico principio di rispetto alla religione, riusciva loro difficile negare che la tradizione culturale religiosa potesse influenzare l’interpretazione dei valori alla base della tutela della libertà di coscienza, riportando le valutazioni di Arnaldo Bertola, proprio …in considerazione peculiare dell’importanza religiosa che presso le popolazioni indigene tali elementi tradizionali possono assumere. E ciò specialmente per le popolazioni musulmane, presso le quali il fattore religioso, che, com’è noto, permea tutta la loro vita individuale e sociale, è sentito con particolare intensità (Bertola 1937). Certamente alcuni di questi studiosi cercarono di dare risposte ai loro interrogativi partendo dalla ricerca etnografica. Dalla lettura della dottrina dell’epoca emerge, ad esempio, una buona conoscenza del I quaderni del CREAM , 2010, X 151 sistema del diritto islamico (Juynboll 1916) e della differenziazione tra gruppi e sottogruppi all’interno cultura musulmana. Tale consapevolezza, peraltro, investiva non solo le osservazioni sulle abitudini e sui riti dei locali, ma contemplava anche le distinzioni tecnico-giuridiche relative all’appartenenza all’una o all’altra delle quattro scuole giuridiche islamiche tradizionali (Bertola 1944). Nonostante una certa sensibilità manifestata dai nostri giuristi verso queste tematiche, il giudizio complessivo nei confronti delle politiche della diversità adottate dal colonialismo italiano rimane negativo: non si riuscì infatti a far corrispondere ad una corretta analisi sociologica e giuridica dell’esperienza religiosa e sociale delle popolazioni indigene una riflessione ed una piattaforma giuridica effettivamente compatibile con i principi del liberalismo. Va altresì sconfessato il luogo comune secondo cui il colonialismo italiano, sebbene territorialmente poco esteso, non sia stato altrettanto invasivo e violento di quello posto in essere da altre nazioni europee. Il processo di espansione territoriale fu sostenuto dalla classe dirigente della nazione e si presentò come un’operazione di consolidamento del dominio borghese, sia a livello ideologico, sia di prestigio, avente anche il fine di fornire un incentivo per l’economia nazionale e di collocamento di una certa borghesia impiegatizia e commerciale parassitaria, cioè non legata alle attività produttive (Rochat 1978). Il perseguimento di questi precisi interessi in colonia concorse non poco al sovvertimento dei principi dello stato di diritto, rendendo vane le valutazioni circa il significato e l’estensione della libertà di religione e le disposizioni che regolamentavano le diversità religiose e culturali, causa di una sistematica discriminazione. Tali profonde deroghe al sistema di diritto liberale non potevano non lasciare tracce sulla tenuta complessiva del sistema. Su queste occorre adesso spostare l’attenzione e riflettere sulle modalità di relazione tra diritto italiano e diritti indigeni nei territori coloniali. I quaderni del CREAM , 2010, X 152 Sintassi dell’esclusione della giuscolonialistica italiana. Il principio di “civiltà”, cardine di una differenza duale Esigenze di ortodossia storiografica (Topolski 1973) imporrebbero di determinare cronologicamente un periodo temporale da prendere in esame. Tuttavia il carattere non precipuamente storiografico di questa indagine, che guarda al passato solo per acquisire maggiore consapevolezza circa le categorie giuridiche del presente, può sopportare qualche “accomodamento”. Cosicché sarà possibile racchiudere grosso modo (cioè con alcune eccezioni sporadiche) i limiti temporali di questo studio tra l’anno 1882 e il 1919. La data iniziale corrisponde al passaggio nella proprietà dello Stato italiano del territorio della baia di Assab (in Dancalia, una regione dell’Eritrea), volto a costituire il primo nucleo territoriale delle colonie italiane. Dello stesso anno è la prima legge in materia coloniale4. Nel 1919, invece, a seguito della conquista della Quarta sponda, la Libia, si provvide alla concessione degli Statuti libici per la Tripolitania e la Cirenaica, con i quali si concluse un percorso che, progressivamente, aveva portato alla concessione a quei territori, per mezzo degli Statuti appunto, di una limitata autonomia normativa. Inoltre tale limite temporale coincide con l’ultimo atto di amministrazione della colonia astrattamente ispirato ai principi di governo dello stato liberale, poiché dopo questa data, con la presa di potere da parte del partito fascista, la politica coloniale cambiò registro e fu improntata ad un rigoroso imperialismo. Da allora in poi le idee e le politiche razziali influenzarono l’attività coloniale ben più marcatamente di quanto non fosse accaduto in precedenza (Labanca 2002; Steiner 1936; Woolbert 1932). La politica di espansione coloniale ha avuto, ovviamente, una sua peculiare proiezione nell’ambito giuridico. L’esperienza italiana, sebbene limitata per estensione geografica e per durata temporale, produsse un apparato di norme appositamente elaborate per il governo delle colonie; si cercò altresì di estendere le norme di diritto interno 4 Legge 5 luglio 1882, n. 857. I quaderni del CREAM , 2010, X 153 anche ai territori coloniali. Questa indagine non ha come oggetto l’analisi dell’apparato normativo coloniale in sé (Mondaini 1941; Cucinotta 1933). Prendendo spunto da alcune fattispecie emblematiche, si vuol proporre una riflessione sui modi con cui quel sistema affrontò il tema della diversità umana e, in termini giuridici, il tema della differenza religiosa e culturale. Ciò voleva dire, in alcuni casi, dover valutare le caratteristiche oggettive e soggettive del contesto coloniale al fine di estendere ad esso i principi e le norme del dritto statale; in altri casi, conferire rilevanza alle norme di diritto locale a base consuetudinaria e religiosa. Va sottolineato come, almeno nel periodo in esame (1882-1919), le ideologie propriamente razziste non caratterizzarono totalmente l’impianto giuridico coloniale, sebbene contribuissero allo sviluppo dei suoi contenuti e della sua sintassi. Parallelamente al razzismo ideologico operarono cioè altri paradigmi interpretativi basati sull’osservazione sociologica di differenze religiose, scientifiche, linguistiche, economiche tra europei e indigeni. Proprio a causa di questa pluralità di approcci, il panorama normativo coloniale italiano presenta alcune difficoltà di valutazione. Oltretutto tale sistema, nelle sue articolazioni, si presentava complessivamente disorganico. Data la limitata estensione territoriale della colonia, infatti, esso non fu elaborato avendo alla base un progetto o un’idea generale in materia di sistema di governo. Esso, piuttosto, venne progressivamente formandosi in seguito ad iniziative isolate volte a soddisfare esigenze di amministrazione, ogni qualvolta si manifestassero con una qualche urgenza. Di conseguenza nella stessa legislazione coloniale poteva notarsi una profonda contraddizione tra la necessità di contemperare il dominio e il rispetto, almeno formale, della religione e delle tradizioni giuridiche indigene. Molte disposizioni cercavano di bilanciare queste opposte esigenze. Da una parte, fu comune per i giuristi affermare che il principio “religioni libere nello Stato sovrano” costituisse la formula che indicava “l’attitudine dello Stato italiano nelle nuove regioni dell’Africa settentrionale” (Solmi 1913); e che la “libertà più larga nella pratica lecita dei culti”, il “rispetto degli usi e dei costumi locali”, costituissero i criteri fondamentali del diritto pubblico nel I quaderni del CREAM , 2010, X 154 dettare le linee direttive del nuovo ordinamento (Cicchitti-Suriani 1926). D’altra parte, si assumeva che il divario di civiltà tra stato colonizzatore e comunità colonizzata potesse giustificare limitazioni all’esercizio dell’autonomia delle popolazioni locali. Perciò le norme di principio che disciplinavano il rapporto tra la cultura religiosa indigena e la cornice dell’ordinamento coloniale erano redatte rispettando uno schema bipartito, nel quale ad una prima generica affermazione di riconoscimento delle tradizioni giuridiche locali e di libertà religiosa seguiva un’altrettanto vaga clausola di limitazione legata al rispetto della civiltà metropolitana5, oppure si usava l’espressione pressoché equivalente di “spirito della legislazione” (Romano 1918). Non si può non notare il paradosso in virtù del quale le disposizioni formalmente redatte per affermare il rispetto delle tradizioni giuridico-religiose indigene costituissero nei fatti il limite più pervasivo all’estrinsecazione dell’autonomia dei colonizzati. Tale eterogenesi dei fini era basata, appunto, sulla funzione culturalista della clausola di civiltà (Appadurai 1996). Tale clausola era cioè in grado di imprimere una data direzione alla mobilitazione di un intero corpo di funzionari amministrativi, orientando in modo analogo anche l’interpretazione delle norme giuridiche della colonia. Occorre vagliare in che modo ciò avvenisse. Si può dire che la clausola di civiltà operasse su due livelli il primo emerso e politico, il secondo sommerso e culturale. Il primo dei due è stato 5 L’art. 3 della legge 5 luglio 1882, n. 857, Provvedimenti per il territorio di Assab (Africa Orientale Italiana) stabiliva: Rispetto agli individui della popolazione indigena, saranno rispettate le loro credenze e pratiche religiose. Saranno regolati con la legislazione consuetudinaria finora per essi vigente il loro stato personale, i rapporti di famiglia, i matrimoni, le successioni, e tutte le relazioni di diritto privato, in quanto però quella legislazione non si opponga alla morale universale ed all’ordine pubblico, né ad essa sia derogato da espresse disposizioni. Nel R. D. 2 luglio 1908, n. 325 (decreto reale risultante dalla delega legislativa 24 maggio 1903) sui domini coloniali in Eritrea si leggeva: Ai sudditi coloniali ed agli assimilati si applica la legge consuetudinaria della propria razza in quanto sia compatibile con lo spirito della legislazione e della civiltà italiana. L’art. 21 della legge 6 luglio 1933, n. 999 sull’ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia affermava: è garantito il rispetto delle religioni e delle tradizioni locali, in quanto non contrastino con l’ordine pubblico delle colonia e con i principi generali della civiltà. I quaderni del CREAM , 2010, X 155 ampiamente evidenziato dalla ricerca storica e non è il caso di dilungarsi su di esso. La clausola di civiltà fondava cioè la definizione e la legittimazione del colonialismo stesso: il dominio dello stato colonizzatore veniva fissato e giustificato mediante il dato fattuale del divario di civiltà (Costa 2004-2005). Tale constatazione veniva quindi posta alla base dei processi di definizione primaria delle istituzioni giuridiche (Mancini 1893-1897). La colonia era infatti quel “territorio di civiltà inferiore subordinato politicamente ad un determinato Stato, dal quale è geograficamente distinto”. Essa differiva dalla madrepatria poiché “nella metropoli risiedono gli organi sovrani dello Stato, dai quali emana la sua volontà, mentre gli organi della colonia non hanno che un potere subordinato” (Cucinotta 1933, p. 3). Viceversa, rispetto all’attività ermeneutica del singolo operatore tale clausola funzionava in profondità, essendo basata su una logica differenziale rigida, strutturalmente duale, legata all’inclusione o all’esclusione della tradizione giuridica o religiosa locale (Nuzzo 20042005). Il funzionario coloniale, posto di fronte alle istituzioni del diritto straniero, aveva la possibilità di riassumere l’indubitabile differenza esistente tra esse e la propria cultura giuridica in due modi: poteva considerare l’istituto giuridico del diritto indigeno marginalmente differente, oppure totalmente incompatibile con la propria cultura giuridica. Nel primo caso egli avrebbe cercato di dirimere le dissomiglianze facendo affidamento su una base comune; sarebbe stato portato a valutare le prassi, gli istituti, i comportamenti stranieri e a reinterpretare le differenze marginali, a considerare la norma giuridica richiamata comparabile a quelle del diritto metropolitano e pertanto comprensibile, spiegabile, applicabile in tutto o in parte. Nel secondo caso sarebbe stato portato ad ignorare le differenze, preferendo il ritorno alla propria, sicura tradizione normativa. Avrebbe così concluso che la norma o la tradizione richiamata fossero estranee alla propria civiltà e del tutto irriducibili ad una comparazione, ad una sussunzione in termini giuridici, in sintesi destinate ad essere totalmente irrilevanti. Se convinto della propria superiorità culturale – cosa che avveniva nella gran parte dei casi , il giurista coloniale non sarebbe stato tenuto a compiere alcuno sforzo per interpretare, dare I quaderni del CREAM , 2010, X 156 valore ed eventualmente applicare le norme indigene che non era in grado di comprendere in prima battuta. Ma ciò che qui si vuole mettere in evidenza è soprattutto che il pregiudizio culturalista condizionava non solo l’interpretazione delle norme richiamate dei diritti indigeni, bensì anche le norme di diritto italiano che dettavano i criteri di coordinamento tra i due sistemi normativi. Si è visto come queste norme fossero strutturate in maniera bipartita, e che ad una prima enunciazione della libertà religiosa e della rilevanza degli usi e dei costumi di solito seguiva una limitazione basata sulla compatibilità con i principi di civiltà giuridica: nell’interpretazione di queste norme, nonostante esse ammettessero in linea di principio il riconoscimento di tradizioni diverse, sarebbe per lo più prevalsa l’applicazione del limite di civiltà, in modo da ribadire sottotraccia la superiorità inderogabile della cultura europea. In tutti i casi, il confronto tra tradizioni giuridiche diverse si svolgeva in una prospettiva non-dialettica, basata su uno schema di operatività rigidamente duale, volto ad ammettere o ad escludere (senza ulteriori valutazioni o opzioni intermedie) il rinvio a norme giuridiche diverse (JanMohamed 1985). Ed in effetti i funzionari locali cercavano in vari modi di disapplicare le norme locali tutte le volte in cui ciò fosse stato loro possibile, oppure di modificarle, più o meno nascostamente, per rendere giustizia sostanzialmente attraverso norme italiane. Alle norme di principio inoltre si affiancarono progressivamente tutta una serie di tecniche di redazione e di controllo, come le condizioni locali6 di applicazione (Cucinotta 1940); di interpretazione, 6 La dottrina dell’epoca ebbe modo infatti di riflettere sulla natura giuridica delle condizioni locali nel diritto coloniale. Si individuava in esse un vero e proprio principio generale del diritto. Esso, si chiariva, era stato fin dai primi momenti osservato nella normazione e nell’attività di giudizio degli organi coloniali. La ragione della sua importanza consisteva nel fatto che attraverso di esso si poteva dare concreta rilevanza giuridica alle circostanze, fisiche e morali, nelle quali i cittadini e gli indigeni vivevano assieme nelle colonie. Al tempo stesso quel principio rendeva conto del divario esistente tra ambiente giuridico metropolitano e coloniale. Le condizioni locali furono prevalentemente interpretate come condizioni generalizzate di esclusione: la loro sussistenza, cioè, costituiva motivo di inapplicabilità tout court del diritto metropolitano nella colonia; in presenza di rilevanti differenze, aventi I quaderni del CREAM , 2010, X 157 come la cripto-occidentalizzazione del diritto islamico (Costa 20042005); o, ancora, di consulenza, come la pratica di affiancare ai giudici i giusperiti locali, con funzione consultiva. In tutti questi casi l’operatività culturalista di queste rimedi agiva in maniera diffusa, anche se ad un livello profondo7. In questi casi invece che escludere del tutto le norme religiose applicabili si preferì modificarle in tutto o in parte. Per quello che riguarda i processi di ibridazione nell’attività di recezione/applicazione delle consuetudini locali occorre riferire della tecnica di “islamizzazione del diritto” elaborata da Guglielmo Ciamarra8. Questo autore, temendo il dogmatismo della legislazione coloniale, cioè che le leggi, anche quelle speciali, potessero produrre norme inaccessibili ai popoli indigeni delle colonie, sosteneva la necessità di tradurre nel diritto islamico i principi normativi (legislativi) interni, attraverso l’opera della giurisprudenza; affermava quindi: La giurisprudenza, anziché portare alla codificazione di una consuetudine già affermata, porrà invece le basi di nuove consuetudini, e le condurrà, lentamente, inconsciamente, verso nuove forme di istituti giuridici. natura oggettiva (derivanti dall’ambiente fisico della colonia, come la mancanza di organi e di uffici) o soggettiva (quali quelle riguardanti la razza, i costumi, la religione), la norma di diritto interno formalmente valida, perché ad esempio estesa specificamente al territorio della colonia, non sarebbe stata applicata al caso concreto. 7 Nel caso di sentenze che adattavano le norme locali ai principi di diritto statale, tali decisioni della giurisprudenza venivano escluse dal controllo attraverso successivi gradi di giurisdizione. Ad esempio, ogni soluzione che il giudice di merito avesse dato quanto all’inapplicabilità od alla modificazione della legge per effetto delle condizioni locali era esclusa dal controllo della Corte di cassazione. Amplificando il significato delle differenze locali e facendole prevalere sui principi liberali dello stato di diritto, si riteneva pertanto che la Corte di cassazione difficilmente sarebbe stata in grado di riformare la soluzione data dai giudici di merito. Questi infatti erano sui luoghi, avevano familiarità ed erano in grado di valutare le necessità, le condizioni della vita locale, i costumi e le tradizioni degli indigeni assai meglio della Suprema Corte. 8 Guglielmo Ciamarra (1876-1934) fu giurista, diplomatico e professore universitario: in particolare insegnò Diritto e legislazione coloniale nelle Università di Roma e Napoli. Fu titolare di alcuni incarichi diplomatici e di reggenza (Somalia italiana, Tripolitania) e addetto al contenzioso diplomatico del Ministero degli esteri. I quaderni del CREAM , 2010, X 158 Il metodo individuato dall’autore prevedeva che la legislazione si traducesse in consuetudini locali attraverso l’operato della giurisprudenza creatrice. A tal fine sarebbe quindi stato necessario: conoscere a fondo le istituzioni dei popoli soggetti, indagare sottilmente le loro tradizioni, rendersi conto delle loro condizioni attuali, studiare accuratamente il corso della evoluzione da essi fin’oggi subita, per dedurne la scelta di quegli elementi del carattere delle istituzioni dei popoli civili di cui è possibile profittare, al fine di agevolare e perfezionare l’assimilazione. (…) Una buona ed efficace penetrazione del diritto, non può prescindere dal principio che la forza moralmente obbligatoria della legge come applicazione, sia pure frammentaria e parziale di un diritto diverso, deve insinuarsi nella coscienza degli indigeni (Ciamarra 1910). E che in effetti tali processi di occultamento del diritto locale fossero esperiti dai giudici e dai funzionari italiani della colonia lo dimostra quanto affermava Attilio Brunialti, il quale commentando il sistema delle istituzioni giudiziarie eritree affermava: Con provvida disposizione furono rispettate le pratiche e le credenze religiose degli indigeni, i quali da tradizioni secolari conservano quell’assieme di riti, che per loro è senza dubbio la cosa più sacra ed insieme la più cara, ed il più potente mezzo di coesione. Fu pure saggiamente disposto che gli indigeni regolassero colla loro legislazione consuetudinaria lo statuto personale, i rapporti di famiglia, i matrimoni, le successioni e tutte le relazioni di diritto privato, purché tali atti non fossero contrari alla morale universale ed all’ordine pubblico, né ad essi fosse derogato da espresse disposizioni, sempre in nome del re d’Italia (Brunialti 1897-1902). Sennonché, commentando l’introduzione di una norma che stabiliva la presenza di mufti e qadi accanto al presidente del tribunale di Massaua e del procuratore del re con compiti consultivi9, diceva trattarsi di una 9 Art. 19 del Regio decreto 10 febbraio 1900. I quaderni del CREAM , 2010, X 159 Saggia disposizione che tende a far completamente sparire, senza che gli indigeni se ne accorgessero, le loro istituzioni, abituandoli alle nostre (Brunialti 1897-1902). Gli esempi appena citati parrebbero dimostrare come l’operatività del principio di civiltà possa essere valutata in profondità, non solo rilevandone la funzionalità nel regolare i rapporti di forza tra lo stato colonizzatore e la colonia, ma sottolineandone anche la portata culturalista, meno appariscente ma più pervasiva in termini di esperienza giuridica. Rispetto alla gestione della giustizia nei casi concreti, tale clausola veniva in soccorso al funzionario di governo coloniale ogni qualvolta effettivamente diverso fosse equiparabile al non noto, perché non conosciuto o non conoscibile. La storia delle fonti del diritto indigeno in effetti fornisce non poche conferme a riguardo. Sicuramente, uno dei limiti all’effettività del rinvio alle leggi locali fu la scarsa conoscenza che i funzionari italiani avevano di esse. Tra le fonti della tradizione normativa abissina andava annoverato, ad esempio, il noto testo Fetha Nagast, o “Legislazione dei Re”10, del quale per qualche decennio non si ebbero traduzioni in lingua italiana: la prima edizione dell’opera, in lingua originale, fu del 1897 e fu dovuta all’iniziativa di un orientalista italiano, Ignazio Guidi. Di gran lunga successivi furono i compendi, per così dire, di natura tecnica in grado di orientare il giudizio dell’operatore coloniale (Guidi 1897; Rossi Canevari 1936). Sulla base di queste premesse non è difficile ipotizzare che per molti anni, di là da quanto stabilivano le norme di principio, nei tribunali di arbitrato (Labanca 1993) non si disponesse di conoscenze adeguate sulle fonti di diritto locale e si procedesse acriticamente mediante la non applicazione delle norme richiamate, cercando piuttosto di far prevalere le logiche giuridiche metropolitane. 10 L’art. 34 del Regio decreto 2 aprile 1899, n. 134 prevedeva l’applicazione da parte da una Commissione di notabili locali, rispetto a certe competenze, delle norme del Corano e le norme del Fata Negesti e Fata Mogarè, per quanto possibile, in armonia ai generali principi del diritto italiano. I quaderni del CREAM , 2010, X 160 D’altro canto, neanche quando furono disponibili i primi testi tradotti l’atteggiamento manicheo dei colonialisti mutò. Ed il rinvio alle consuetudini locali fu considerato, non di rado, di ostacolo al processo di modernizzazione da parte degli stessi orientalisti che si occuparono del recupero dei testi normativi originali. Nella Prefazione al Compendio del Fetha Nagast si ribadiva che la conoscenza delle leggi locali fosse strumentale ad un loro progressivo abbandono. Da un lato si lodavano le antiche tradizioni locali e se ne auspicava la conoscenza e il rispetto: Perché è da pensare che anche nei primi tempi del nostro contatto con l’Etiopia sarà doveroso e prudente da parte nostra, come del resto suol avvenire in simili imprese, permettere a quelle popolazioni Abissine, già detentrici e custodi di tradizioni antichissime, di amministrarsi secondo le loro leggi e secondo i costumi loro, sia pure in quanto quella loro civiltà non sia incompatibile con la nostra. Dall’altro si suggeriva di commentare i dettami del “codice” abissino alla luce del diritto italiano: È però anche facile pensare come la conoscenza del loro diritto potrà sempre meglio servire alla nostra penetrazione, e, in particolare misura, ai commissari civili regio-imperiali, nonché a tutti quei funzionari che dovranno trovarsi in immediato contatto con le nuove popolazioni applicando e facendo osservare le leggi locali, sostituibili appena lentamente e gradatamente col giure d’una maggiore civiltà, quella d’Italia e di Roma (Rossi Canevari 1936, pp. XIV-XV). La clausola di civiltà, in questo modo, operava nel secondo dei sensi sopra indicati, cioè quello “sommerso” e culturale in senso stretto, poiché serviva sostanzialmente a mistificare le difficoltà oggettive di integrare le differenze delle tradizioni giuridiche venute a contatto. Ciò avveniva sia quando tale divergenza fosse stata motivata dalla mancata conoscenza della tradizione straniera, come nel caso delle fonti locali consuetudinarie; sia nel caso in cui quella apparisse estremamente complessa, come avveniva per il diritto islamico. In I quaderni del CREAM , 2010, X 161 quest’ultima evenienza si ravvisava una incompatibilità tra i due sistemi giuridici, quali universi di discorso articolati e irriducibili gli uni a gli altri. Questo preciso processo, basato su un deficit culturale invece che su di un indirizzo di dominio politico, impedì, ad esempio, che fosse portato a termine il progetto di codificazione del diritto eritreo. Tecniche multiprospettiche di governo della differenza, improntate ad una ibridazione creativa del diritto locale, furono marginalmente proposte e puntualmente abbandonate. Ad esempio, in rari casi, nel prosieguo dell’esperienza di governo della colonia, fu prevista la possibilità di creazione (da parte del giudice) di nuove norme sulla base dell’adattamento alle differenti condizioni, come nel caso di una disposizione adottata nel 1917 in Libia11. Esattamente si richiedeva al giudice coloniale, nell’adattare le leggi alle condizioni locali, di fissare la norma che meglio avesse disciplinato i rapporti controversi, apportando alle leggi quelle modificazioni che, se egli fosse stato il legislatore, avrebbe stabilito per regolare gli stessi rapporti di diritto. Tale norma restò in vigore fino al 1928: negli ordinamenti giudiziari successivi non fu più riprodotta. É ovvio che la premessa sulla superiorità culturale occidentale, la tendenza a confrontare ponendo l’accento su una diversità incolmabile più che su una differenza marginale e l’adozione generalizzata di una logica duale di rappresentazione dell’alterità culturale producessero effetti negativi sulle politiche normative del “rispetto” dell’alterità culturale e religiosa: furono rese vane tutte le norme apparentemente liberali del sistema giuscoloniale; si produsse una serie di effetti a catena volti a cancellare l’applicazione delle pratiche giuridiche tradizionali indigene per il solo fatto di essere poco note o eterodosse; si legittimò il riconoscimento di effetti giuridici a quelle sole tradizioni che fossero, per ragione o per avventura, simili agli istituti giuridici metropolitani. In via interlocutoria venendo alla pluriculturalità d’oggi, potrebbe notarsi che gli effetti di esclusione giuridica possono non essere 11 Cfr. Art. 1 delle norme complementari dell’ordinamento giudiziario per la Tripolitania e la Cirenaica approvato con R. Decreto luogotenenziale 15 aprile 1917, n. 938. I quaderni del CREAM , 2010, X 162 un’esclusiva di norme del passato costruite attorno alla clausola di civiltà: questi effetti possono essere dovuti ad una interpretazione culturalista di alcune clausole generali presenti anche negli ordinamenti attuali. Essi appaiono infatti strutturalmente legati alla logica duale sé/altro e ad una condizione oggettiva di differenza culturale e sono concretamente riproducibili, a volte in maniera non intenzionale, per effetto di quelle disposizioni che sanciscono spazi condizionati di rilevanza o strategie di integrazione relative a differenze di genere, religiose, culturali, razziali (Anello 2007; Mezzadra 2008). Differenziazioni e ambiguità del sistema coloniale: i temi della giurisdizione e della cittadinanza Tornando alle logiche liberali, sembra che la modalità di riproduzione delle differenze culturali nel dominio del diritto coloniale fu del tutto inadeguata, da un punto di vista empirico, ideologico e culturale. L’enorme complessità delle diverse culture e tradizioni “viventi” nel territorio della colonia fu ridotta ad una netta scansione duale, inclusiva/esclusiva: si distinse ciò che era rilevante giuridicamente, perché culturalmente ortodosso, da costumi, usanze, diritti sconosciuti, incomprensibili, ritenuti incivili e perciò giuridicamente “irricevibili”. Ciò che si trovava di là dal limite della civiltà finiva in modo indifferenziato ed appiattito nell’ambito dell’incommensurabilità con il diritto. L’attività di governo della colonia fu condizionata da questo sistema manicheo di differenziazione, oltre che da una indubbia, anche se non prevalente, componente razzista. Parte delle ambiguità e delle contraddizioni rilevate e rilevabili nell’esperienza giuscolonialista italiana, rispetto allo spirito del liberalismo, appare però riconducibile all’incapacità della dottrina dell’epoca di rappresentare, di dare valore e di interpretare adeguatamente la complessità delle differenze culturali tra indigeni e coloni. Come si è accennato, la logica duale di valutazione delle diversità fu pervasiva, cioè si riprodusse in tutti i gangli del sistema coloniale, caratterizzandolo. Non è questa la sede per valutare se tale caratterizzazione muovesse I quaderni del CREAM , 2010, X 163 dal vertice del sistema di dominio o dalla base, cioè se fosse prevalente la volontà di subordinazione del colonizzatore nei confronti delle culture ritenute subalterne o, invece, l’inadeguatezza dei funzionari mandati in colonia nell’interpretare le differenze culturali: probabilmente vi fu un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Tuttavia questa scansione, pur costituendo la struttura logica del rapporto tra dimensione giuridica metropolitana e coloniale, non era adeguata a regolarne compiutamente tutte le possibili, complesse interazioni. Perciò le strategie basate sulla logica duale del divario di civiltà contribuirono a generare quell’impressione, anche oggi condivisa, di ambiguità propria della giuscolonialistica italiana. Diverse furono le proiezioni e le contraddizioni riconducibili all’insufficienza dello schema di differenziazione a base duale. Qui si accennerà solamente ai casi più evidenti, come quelli relativi agli ambiti della giurisdizione e della cittadinanza. A) La più immediata estrinsecazione di queste logiche fu l’instaurazione, accanto alla giurisdizione ordinaria, della giurisdizione speciale militare destinata di fatto a prevalere sulla prima per i primi anni di organizzazione di governo del territorio coloniale (Rosoni 20042005). In esecuzione della delega prevista nella legge del 1882 al Governo, si affidarono i più ampi poteri al comando militare, e questa sistemazione sarebbe cessata, affiancata nel frattempo da organismi solo formalmente misti, solo nel 1900, in particolare con la legge organica del 1903. Certamente, la limitata estensione della colonia disincentivò per molto tempo una riforma organica della giustizia, sicché venne provveduto ad essa mediante una sovrapposizione di provvedimenti occasionali, di rado coordinati tra di loro. La conseguenza di questa distinzione fu che nel contesto coloniale l’esercizio della giustizia si basò su criteri di opportunità pragmatico-politica (necessari all’esercizio dei poteri di governo) che sul dominio della legge. A tale situazione fecero corona molte, correlate, difficoltà di controllo da parte degli organi centrali in ordine ai criteri dell’amministrazione coloniale. Ma anche rispetto ad un sistema di questo genere furono debita- I quaderni del CREAM , 2010, X 164 mente rilevate le ampie deroghe ai principi dello stato di diritto. Queste venivano censurate quando fossero state conosciute dagli organi metropolitani di controllo. Tra i primi atti che ravvisarono questa ennesima antinomia vi fu il parere del Consiglio di Stato, il 26 ottobre 1891, sul progetto di riordino delle strutture giudiziarie in Eritrea da parte del generale Oreste Baratieri12. In tale documento il Consiglio di Stato si dimostrò pienamente cosciente del fatto che in colonia sussistesse e si amplificasse sempre di più la contraddizione tra le “teorie” del diritto liberale e la pratica e continua estensione del potere militare. Ma esso si limitò a commentare che il piano di Baratieri sarebbe stato pur sempre preferibile ad una condizione di vuoto normativo e giurisdizionale. Si auspicava pertanto che tale piano di riordino potesse avere vigore solamente temporaneo in attesa di un futuro assetto definitivo della giustizia nella colonia. In casi come questo, pertanto, le magistrature centrali giustificavano la permanenza della giurisdizione militare in virtù della situazione di straordinaria extraterritorialità che appariva sussistere nella colonia. Di fronte a riserve così deboli, anche in questa circostanza, si avallò la delega all’autorità militare del potere nella colonia. Il riassetto definitivo della giustizia, auspicato dal Consiglio di Stato, sarebbe stato realizzato da Baratieri tre anni dopo13, sempre all’insegna di principi già sperimentati e codificati dell’“ingerenza” dei militari. B) Il regime giuridico degli statuti personali, bipartito tra cittadini e sudditi, diede luogo all’applicazione della logica duale di regolamentazione delle differenze con la massima nitidezza. Tale tema è un altro tra quelli approfonditamente studiati, e a specifiche trattazioni si fa rinvio per una visione completa dell’argomento (Costa 2001; Capuzzo 1995). Qui, più limitatamente, si vuole riflettere su alcuni aspetti della logica di rappresentazione giuridica delle differenze, individuali e culturali, attraverso la gerarchia tra status di cittadino e status di suddito (e dei loro “assimilati”). In questo caso la logica duale di 12 Oreste Baratieri fu generale e Governatore dell’eritrea. 13 R. D. 22 maggio 1894, n. 201. I quaderni del CREAM , 2010, X 165 rappresentazione delle differenze si organizzava attorno alla più semplice polarizzazione del soggetto, quella sé/altro. L’intuitiva chiarezza di questa scansione per la mentalità dell’epoca fece sì che per diversi decenni dalla fondazione della colonia non fosse sentita la necessità di codificare tale differenziazione giuridica in una apposita disposizione. Questa gerarchia fu cioè costruita attorno alla distinzione, più palese agli occhi degli europei, tra coloni e indigeni, rappresentata proprio dalla diversità complessiva di cultura. Questa pretesa diversità fu posta alla base della definizione dello stato giuridico. La dottrina dell’epoca si limitava infatti a trattare la questione in modo tautologico, poiché la distinzione dello status personale veniva riconnessa all’appartenenza culturale degli individui e da questa appartenenza si faceva poi discendere il sistema di diritto materialmente applicabile all’individuo, se quello italiano, quello sharaitico, o quello consuetudinario. Un autore si esprimeva chiaramente in proposito: Il criterio di personalità della legge si riconnette indiscindibilmente non solo con quello specifico di pertinenza alle varie razze, stirpi, religioni, degli abitanti della colonia, ma anche ed innanzitutto con quello generico di stato giuridico dei medesimi, che ne è il presupposto non solo agli effetti del diritto per essi vigente ma anche agli effetti della legge in ogni altro campo (Mondaini 1941, vol. I, p. 273). La logica basata sulla non appartenenza alla civiltà europea era considerata così chiara e funzionale che rimase dominante anche nel momento in cui si provvide a redigere appropriate disposizioni volte a dare una definizione della “sudditanza”. E difatti poteva essere definito suddito, colui il quale, prima di tutto, non fosse cittadino. L’art. 2 dell’ordinamento giudiziario dell’Eritrea14, norma che diede la prima definizione della condizione personale di sudditanza, veniva perciò redatta in termini negativi: tale qualità dipendeva innanzi tutto dal fatto di non essere cittadino italiano, suddito o cittadino di altro stato europeo. A tale presupposto di base ne seguivano 14 R. D. 2 luglio 1908, n. 325. I quaderni del CREAM , 2010, X 166 altri secondari e concorrenti di natura positiva. Si richiedeva che la persona fosse nata in colonia, appartenesse a tribù o stirpi della colonia medesima, appartenesse ad altra popolazione africana, risiedesse da due anni in colonia o avesse prestato servizio stabile nell’amministrazione pubblica. Rispettava lo stesso ordine logico il successivo art. 2 dell’ordinamento giudiziario della Somalia15, in base al quale era considerato suddito coloniale l’individuo che non essendo cittadino italiano o cittadino di stato straniero riconosciuto fosse stato nativo della colonia o fosse appartenuto a tribù o stirpi di essa. Conseguentemente, veniva regolata la posizione dell’assimilato, la cui condizione dipendeva dal fatto di appartenere a popolazioni che non fossero equiparabili a quelle europee, cioè non avessero un grado di civiltà simile a quello europeo. La nozione di civiltà, cioè, si caratterizzava come una sorta di ideoscape argomentativo, cioè come una concatenazione concettuale, dipendente dall’ideologia della nazione dominante, i cui elementi erano profondamente collegati gli uni con gli altri, in una struttura tale da non mutare anche qualora uno di essi fosse cambiato o assente. La caratura superiore della civiltà europea non poteva infatti essere messa in crisi neanche quando un suo elemento costitutivo, quello della religione, fosse mutato nel percorso soggettivo dell’indigeno. Così, ad esempio, in caso di conversione dalla religione musulmana a quella cristiana. L’elemento religioso era certamente il marcatore principale della diversità culturale tra indigeni e coloni. Ma lo stereotipo della appartenenza culturale, in senso più ampio, era così stabile che non poteva entrare in crisi neanche nel caso in cui un indigeno avesse deciso di convertirsi. La dottrina dell’epoca si interrogò in effetti se una tale evenienza potesse avere influenza oltre che sullo stato personale dell’indigeno, anche sulla sua condizione giuridica di “sudditanza”. Il giurista Ernesto Cucinotta ebbe modo di riflettere sulla questione, riassumendola in questi termini: È interessante ora considerare quale effetto dispieghi sulla condizione giuridica degli indigeni delle nostre colonie la loro conversione a religioni diverse 15 R. D. 7 luglio 1910, n. 708. I quaderni del CREAM , 2010, X 167 da quella professata: argomento non contemplato da alcuna disposizione legislativa. (…) i casi di cambiamento di religione non sono frequenti (…). Mette, quindi, conto di esaminare tale questione, la quale, però – s’intende facilmente – non ha importanza qualora l’indigeno rinunzi ad una religione propria di una popolazione che gode nella colonia di un determinato statuto personale per abbracciarne un’altra alla quale corrisponda un altro statuto personale, come, ad esempio, se un musulmano della Libia si converta alla religione israelitica o viceversa. In questo caso, infatti, non si ha che un trapasso da uno statuto all’altro, ma l’indigeno rimane sempre cittadino italiano libico e come tale conserva il proprio statuto personale. Diverso, invece, è il caso in cui, ad esempio, un musulmano abbracci la religione cattolica, perché qui, appunto, sorge la questione se la conversione operi sul suo statuto personale. Evidentemente essa non ha alcuna efficacia sulla condizione giuridica. L’indigeno musulmano divenuto cattolico rimarrà sempre suddito coloniale o cittadino italiano libico. I casi in cui può essere concessa la cittadinanza metropolitana sono tassativi e non consentono interpretazioni di sorta. D’altra parte le credenze religiose non hanno più, per il nostro diritto, alcuna influenza sulla capacità di diritto delle persone fisiche, ed il cattolico, l’israelita, il musulmano, l’affiliato ad una gema’ah o ad una corporazione religiosa godono di tutti i medesimi diritti civili, benché diversa, in taluni casi, sia la loro condizione giuridica, quali cittadini o sudditi, rispetto alle nostre leggi ed alle nostre giurisdizioni. La conversione, quindi, e l’abbandono della religione non alterano lo statuto personale del convertito (Cucinotta 1933). In una fattispecie come questa emergeva, in maniera immediata e prepotente, la prevalenza del fattore culturale (cioè di una diversità interpretata come un blocco monolitico) su quello dello status giuridico della differenza, interpretabile in maniera graduale come un fascio di elementi distintivi. Quel che più sorprende è che in un caso come questo la cultura potesse essere considerata come un fattore a se stante, quasi di natura materiale, rilevabile separatamente dalla religione. La diversità culturale tra i due soggetti, cittadino e suddito, si considerava radicale e oggettiva, connessa all’appartenenza ad un certo gruppo etnico-culturale (anche se in questo caso si trattava di una eccezione al principio generale dello status giuridico come status religioso). Può destare sconcerto, cioè, che l’opposizione tra il sé, la I quaderni del CREAM , 2010, X 168 soggettività culturale europea, e l’altro, cioè l’indigeno africano o assimilato, potesse essere così cristallizzata in un complesso di fattori culturali che anche il mutamento di religione, probabilmente la matrice principale della identità culturale indigena, non potesse avere alcun rilievo nel modificare uno statuto personale, altrimenti sovradeterminato. Tuttavia il sistema della cittadinanza progressivamente mutò, in maniera tale da rendere meno rigida la gerarchia di partenza. In particolare, dopo la conquista della Libia, con l’ordinamento statutario del 1919 venne abrogata la “sudditanza” e venne creata una forma speciale di cittadinanza italiana della Tripolitania e della Cirenaica. Malauguratamente, anche in questo caso non ci si allontanò dalla logica delle distinzioni duali, poiché poteva aspirare a tale formula superiore di cittadinanza16 l’indigeno che avesse raggiunto il più alto grado di partecipazione all’apparato culturale e assiologico italiano. Con l’assimilazione egli sarebbe stato giudicato, per così dire, tanto diverso (dai suoi simili) da riuscire a surclassare completamente il divario di civiltà. Le esemplificazioni della logica di diversità/differenza basati su una rigida distinzione duale potrebbero continuare, dal momento che essa contrassegnava e saturava i rapporti culturali nella società coloniale italiana. La dottrina più recente, alla luce di un approccio postcoloniale, ha riscontrato altri contesti interpretati alla luce di queste regole. In tutti questi casi non mancavano le contraddizioni normative: c’è chi ha parlato di una opposizione in relazione al fattore tempo utilizzato nei discorsi imperialisti, chi ha enfatizzato i termini dell’esclusione nello spazio urbano della città coloniale (Triulzi 20042005). Vale la pena chiedersi, di là dai contenuti e dalle discriminazioni coloniali, se, rispetto a contesti, sì differenziati, ma nella realtà estremamente variabili, distinzioni basate su logiche così rigide e formalizzate siano mai in grado di rendere l’enorme potenziale della persona umana e della sua variabilità. 16 Si adottava una concezione premiale della cittadinanza: cfr. la formula della “cittadinanza italiana con statuto personale e successorio musulmano” prevista dall’art. 5 del D. M. 12 aprile del 1939. I quaderni del CREAM , 2010, X 169 L’esperienza coloniale e il retaggio della concettualizzazione delle differenze Ripensare il liberalismo attraverso la lente dell’esperienza giuridica coloniale torna utile soprattutto adesso che le dinamiche giuridiche attuali sono investite dai dilemmi della pluri-culturalità. Tale circostanza pone cioè nuove questioni agli ordinamenti giuridici, sia sollecitando risposte tempestive ai problemi di tutti i giorni, sia suggerendo l’opportunità di riflettere, per così dire in profondità, sulle radici stesse delle categorie di base delle tradizioni giuridiche occidentali. Interrogativi di questo genere coinvolgono inevitabilmente tematiche giuridiche di ampio respiro come la sovranità dello stato, la cittadinanza, l’esercizio della funzione giurisdizionale, i diritti fondamentali e queste appaiono a loro volta sempre più connesse con le categorie correnti di identità, cultura, religione, differenza e alterità. È preoccupante dover ammettere che, rispetto a questa particolare prospettiva, l’eredità storica del liberalismo sembra non poter offrire risposte adeguate e sufficienti. La rivisitazione del passato coloniale impone, al contrario, nuove domande. Potrebbe osservarsi, ad esempio, che la cultura giuridica liberale, una volta chiamata ad operare in contesti culturali fortemente diseguali, si sia sottratta ad un confronto con le logiche e le dinamiche della differenza più radicale; che essa non abbia tentato di declinare la libertà secondo moduli giuridici alternativi a quelli europei; che abbia risolto le ambiguità e le antinomie attraverso una rigorosa sintassi dell’esclusione dell’altro. E ciò, probabilmente, in virtù di un approccio improntato più all’esigenza di dominare politicamente e giuridicamente le popolazioni extraeuropee, piuttosto che ad una loro integrazione nel sistema e nei valori della madrepatria. Nondimeno appare doveroso prendere coscienza di questa sorta di interruzione storica nell’applicazione dei principi liberali, quindi chiedersi se la tradizione del liberalismo sia davvero in grado di reggere le fondamenta stesse delle democrazie costituzionali odierne. Sembrerebbe cioè che il patrimonio giuridico del liberalismo, una volta formatosi lungo i solchi dell’esperienza storica del nazionalismo europeo, sia stato tenuto “alla larga” da ogni ipotesi di I quaderni del CREAM , 2010, X 170 applicazione dialettica in contesti culturalmente meno simili ed accoglienti, escludendosi così a priori ogni ipotesi di verifica della validità delle sue coordinate culturali rispetto a tradizioni normative diverse. Ci si può chiedere, ancora, se la riassunzione di questa verifica sia diventata, oggi, indifferibile; e, qualora se ne ammetta l’urgenza, se non sia il caso di interrogarsi sulle difficoltà peculiari di questa operazione. Ove le si volesse dare corso, ciò andrebbe fatto tra le pieghe ermeneutiche degli ordinamenti odierni, eventualmente riconsiderando i modi di declinare le differenze, ma senza mettere in discussione gli esiti più maturi del liberalismo nelle democrazie costituzionali, cioè i fini e i valori di libertà su cui queste si fondano. Certamente questo tentativo di riorientare gli itinerari teorici del pensiero liberale andrebbe espletato attraversando in concreto la questione della differenza culturale nelle società contemporanea. Si tratta di una specificazione non inutile poiché se osservazione e senso comune spingono a rilevare che molte situazioni sociali (se non tutte), le popolazioni, gli stati, i gruppi, sono di fatto estremamente differenziati (Ricca 2008, p. 45 ss., Said 1985, p. 38 ss.), molti approcci di politica del diritto continuano a sottovalutare questa evenienza e a presupporre la base sociale dei destinatari delle norme giuridiche culturalmente omogenea. Invece è in atto una frammentazione culturale dovuta a flussi migratori sempre più massicci, condizione che dovrebbe costringere ad una estrema cautela nei confronti dei processi di verifica, tutela e regolamentazione delle differenziazioni giuridiche. Una differenza culturale di base di gruppi alloctoni può condizionare profondamente, ad esempio, l’interpretazione degli istituti giuridici, il modo di intendere categorie, condizioni di operatività e finalità delle norme legali. Conseguentemente la condizione di meticciato della base sociale potrebbe essere considerata come una variabile in grado di incidere sulle valutazioni di prognosi dell’efficacia e quindi sulla produzione delle disposizioni normative. Un’adeguata considerazione di questo tipo di variabile culturale renderebbe opportuno lo studio e la conoscenza delle matrici culturali dei gruppi di individui stranieri presenti sul territorio. I quaderni del CREAM , 2010, X 171 Lo studio delle esperienze coloniali insegna molto a questo proposito. La condizione di insufficiente dimestichezza, da parte dei funzionari coloniali, degli apparati normativi, religiosi, etici e giuridici degli indigeni fu la prima causa di mancata comprensione tra autorità di governo e soggetto di diritto indigeno. Ciò portò spesso all’acritica reiezione delle pretese normative dei colonizzati, di disconoscimento degli usi e costumi locali, e di subordinazione delle popolazioni indigene, sulla base di ragioni di natura culturale, ancor prima che politica e normativa. Alla luce di quella esperienza, la pluri-culturalità di molte realtà statali offre un incentivo allo studio delle tradizioni giuridiche extraeuropee: tale competenza risulta necessaria non solo per motivi di conoscenza, di valutazione e di comparazione scientifica, ma per ulteriori ragioni – si può dire – di economia endo-ordinamentale. I processi di insediamento di gruppi culturali non autoctoni importano, in prima battuta, una tensione inedita nei confronti degli itinerari di interpretazione delle norme di diritto interno. Il patrimonio culturale degli stranieri, radicato in sistemi e tradizioni giuridiche antiche e complesse, può indurre un individuo a chiedere interpretazioni differenti di principi, norme e provvedimenti giuridici propri della tradizione occidentale. Tali differenti interpretazioni, in alcune condizioni, possono essere legittimate e tutelate all’interno degli ordinamenti democratici attraverso gli strumenti di garanzia del pluralismo. Ma solo una conoscenza adeguata delle matrici di differenziazione culturale, delle premesse giuridiche di esse, delle loro finalità, può consentire agli organi dello Stato, in sede legislativa, amministrativa e giudiziaria, una valutazione consapevole, ponderata e corretta delle proposte di interpretazione presentate da parte di soggetti aventi una cultura giuridica diversa. All’interno di queste dinamiche di affermazione culturale e giuridica un ruolo di primaria importanza rivestono i diritti fondamentali. Oggi, come formalmente nel periodo coloniale, la libertà religiosa rimane un indice primario di legittimazione delle scelte di differenziazione etica e giuridica dell’individuo. Tutte le disposizioni strumentali alla libertà di religione, in prima linea quelle che vietano ogni forma di I quaderni del CREAM , 2010, X 172 discriminazione, costituiscono presidio e avamposto per il riconoscimento di diritti, prassi, opzioni etico-giuridiche alternative a quelle più diffuse all’interno di un certo ambiente statale. L’individuo “di cultura straniera” può chiedere di interpretare le disposizioni circa il diritto di famiglia, il diritto penale, il diritto pubblico, in armonia con le proprie convinzioni religiose. Differenti interpretazioni e, di conseguenza, diverse pretese appaiono quindi legate a doppio filo ad indici tecnico-normativi riscontrabili in ordinamenti giuridici di tipo religioso o consuetudinario propri dei paesi di origine del soggetto straniero. Cosicché le norme di libertà diventano i riferimenti costituzionali principali per avanzare simili istanze di riconoscimento e di tutela. Ma ancora oggi, così come avveniva nei contesti coloniali, tali prescrizioni normative si prestano ad essere eluse in virtù di fattori di (carente) precomprensione culturale, invece che sulla base di valutazioni meramente tecniche. Questi fattori operano in modo non dissimile a quanto non avvenisse nel sistema della colonia. Si è visto come le politiche del colonialismo agissero su sistemi giuridici disorganici, tendenzialmente ambigui, in cui differenze estremamente complesse tra popolazioni ed individui venivano artificiosamente ridotte all’interno di uno schema interpretativo a base duale. Quest’ultimo veniva applicato a settori disparati dell’amministrazione coloniale (ad es. sovranità, giurisdizione, cittadinanza) e poteva portare ad esiti diversi, sebbene opportunamente coerenti con le strategie di dominio politico necessarie al caso specifico. Il più delle volte questo schema innescava effetti di esclusione nei confronti dei diritti degli indigeni, per quanto questi fossero astrattamente riconosciuti nelle norme in materia di libertà religiosa. Tale riduzione stabiliva nel suo complesso una sorta di appiattimento degli schemi giuridici avanzati dai sudditi delle colonie, determinando una semplificazione indebita dei loro significati, nonostante questi a volte si richiamassero a tradizioni giuridiche radicate e complesse, basate sulle consuetudini o sulla religione del luogo. La sintassi dell’esclusione poteva prodursi in maniera diretta, come nel caso di disposizioni razziste, oppure in maniera indiretta attraverso i processi di bilanciamento dell’interpretazione in senso culturalista. Questa specifica strategia veniva spesso I quaderni del CREAM , 2010, X 173 dissimulata attraverso metodologie di argomentazione e di interpretazione complesse, capaci di negare o costituire opportunamente le “differenze”, a seconda del risultato politico che l’organo giudiziario o amministrativo intendeva raggiungere. Come descritto, questa logica manichea agiva ambiguamente persino sull’asse costituito dalle norme di libertà religiosa, in maniera tale che a volte le convinzioni di fede erano considerate significative e producevano effetti giuridici (come nel caso delle condizioni locali di applicazione, cosiddette soggettive, che escludevano l’applicazione della norma astrattamente applicabile); in altri casi esse erano considerate giuridicamente irrilevanti perché sopraffatte da constatazioni culturali(ste) di ordine oggettivo (come per il caso di mutamento di religione del suddito, considerato evento trascurabile nel procedimento di concessione della cittadinanza). Il risultato comune a queste “tattiche interpretative” era proprio quello di incidere negativamente sulla rilevanza ermeneutica delle culture indigene. Simili risultanze circa l’operatività dei meccanismi differenziali coloniali devono far riflettere sul tema e sulle dinamiche della disciplina giuridica della diversità culturale. Spesso la regolamentazione giuridica della differenza non è condizionata solamente dalle disposizioni che sanciscono divieti antidiscriminatori. La disciplina giuridica di questioni estremamente sfaccettate e irrelate come l’etnia, l’orientamento religioso o sessuale, l’identità culturale (Hall 2006b) si rispecchia comprensibilmente in un ambito normativo più ampio rispetto a quello nominalmente dedicatole, cosicché oltre ai divieti esso possa comprendere anche le norme che si occupano di formare, riconoscere e salvaguardare i gruppi culturali, razziali, o religiosi e le norme destinate a scandire le relazioni tra questi gruppi (Harris 2000). Ciò costituisce un fattore di complessità nell’analizzare gli effetti giuridici delle politiche differenziali. Inoltre si è visto come il tenore della precomprensione culturale possa condizionare tanto la redazione delle disposizioni normative, quanto a cascata processi di interpretazione delle norme, e i procedimenti giurisprudenziali di controllo del sistema normativo. Nella attuale condizione di multiculturalità è oltremodo difficile assicurare I quaderni del CREAM , 2010, X 174 che strategie di autotutela culturale non si traducano in processi, consapevoli o meno, di esclusione o discriminazione. Anche una valutazione di questo genere fa parte di quanto emerge dall’archeologia del colonialismo giuridico italiano, ed è attribuibile quale retaggio, va ribadito, non solo della volontà di dominio dell’epoca, ma anche ad una certa riluttanza della dottrina liberale ad affrontare, pur essendone consapevole, la sfida posta dall’alterità culturale più evidente. Prima di concludere occorre riflettere su un ultimo punto. Dall’analisi delle disposizioni coloniali emerge come la differenza giuridica possa essere non solo oggetto di rilevamento e di constatazione oggettiva, ma anche prodotta giuridicamente a partire da una determinata ideologia e da una concezione di fondo della soggettività giuridica (Marramao 2008; Olssen 2004). In molti casi, anche rispetto alle teorie politiche attuali, le proiezioni giuridiche delle differenze individuali o di gruppo possono essere specchio di una concettualizzazione aprioristica e artificiosa. Si può cioè teorizzare a livello politico una specifica idea di differenza e agire giuridicamente per crearla, reiterarla, addomesticarla. Da un punto di vista più ampio, va poi riaffermato che le differenze nei sistemi sociali, oltre che a manifestarsi in via di fatto, possono essere oggetto di rappresentazione. Ogni differenziazione implica una determinazione: posto che si può cogliere una differenza tra cose solo nella misura in cui esse hanno in comune ciò in virtù del quale differiscono, si può opportunamente scegliere di accentuare o attenuare l’importanza di tale margine differenziale. Alcune volte differenze di fatto parziali o occasionali vengono consolidate attraverso la loro reiterazione all’interno di sistemi politici o normativi. In altri casi, non troppo rari, le differenze vengono create dal nulla, cioè costituite mediante la norma, anche quando in effetti esse non esistono. Infine, come si è visto, esse possono essere teorizzate in modi diversi: in maniera netta, marcata, duale o plurale; o in maniera graduale, sfumata, controvertibile, diffusa. Cioè si può scegliere se posare l’accento sulla diversità tra gli individui o le culture e rappresentare le differenze esistenti tra di essi come confini invalicabili o si può pensare ad una differenza composita, processiva o graduale quale margine di espressione delle potenzialità infinite insite nell’individuo. I quaderni del CREAM , 2010, X 175 L’esperienza coloniale dimostra, ad esempio, come l’adozione di uno schema di distinzione netta abbia prodotto risultati giuridici il più delle volte imprecisi, sostanzialmente discriminatori, determinando di fatto l’irrilevanza della maggior parte delle statuizioni originali, eterodosse, proteiformi dei diritti di origine religiosa o consuetudinaria. Queste possibili polivalenze, proprie del concetto stesso di differenza, comportano conseguenze di cui non si può non tenere conto nell’attività di redazione normativa, ma soprattutto implicano un alto tasso di responsabilità politica nel predisporre trattamenti differenziali tra gruppi e individui, siano essi cittadini o stranieri. Simili considerazioni impongono la rivalutazione dell’eredità stessa del liberalismo in ordine alla reale metabolizzazione di queste problematiche all’interno dei consueti schemi tradizionali, anche rispetto agli esiti più maturi che essi hanno avuto nelle democrazie costituzionali. Il progressivo trapasso in Occidente da un tipo di società in cui vigeva il principio e il valore della differenza a quella in cui prevale il principio dell’uguaglianza (Harris 2000) ed oggi il cambiamento in senso multiculturale della società dovrebbero spingere verso una rinegoziazione delle tecniche normative di rappresentazione e di modulazione delle differenze. Insomma, appare necessario riformulare la nozione di differenza culturale e ponderare la sua rilevanza in ambito giuridico, non potendosi fare solo affidamento su criteri distintivi netti ed oppositivi, ma valutando la diversità sempre più come una dissomiglianza opaca, complessa e graduale. Una operazione così ispirata consentirebbe di teorizzare, tutelare, mantenere le differenze qualora fossero la conseguenza delle scelte operate dall’individuo all’interno di una griglia di norme capaci di rappresentare pluralisticamente e legittimamente le diverse opzioni a disposizione del soggetto di diritto. Una differenza giuridica intesa in termini di grado, cioè come una peculiare condizione di transazione tra uno stato personale ed un altro, potrebbe essere tutelata solo ove inserita all’interno di un orizzonte di norme e di valori più ampio, come un ordinamento giuridico comprensivo delle differenti opzioni culturali. Al contrario delle continue esclusioni operate dai giuristi coloniali, simili modalità di riconoscimento della differenza potrebbero tradursi, I quaderni del CREAM , 2010, X 176 almeno in prospettiva, in una virtuosa dinamica di inclusione delle scelte dell’individuo rispetto ad un sistema pluralistico potenziato in senso interculturale, nel segno di un ulteriore, più avanzato stadio di concretizzazione degli ideali liberali. Bibliografia Allegretti, U., 1989, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo e assolutismo nello stato liberale, Bologna, il Mulino. Anello, G., 2007, Organizzazione confessionale, culture e Costituzione, Soveria Mannelli, Rubbettino. Appadurai, A., 1996, Modernity At Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis, University of Minnesota Press; trad. it., 2001, Modernità in polvere, Roma, Meltemi. 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I quaderni del CREAM , 2010, X 180 ANTONIO CARLOS WOLKMER1 PLURALISMO GIURIDICO: FONDAMENTI DI UNA NUOVA CULTURA GIURIDICA2 Introduzione Tra le discussioni sulle trasformazioni della società globale alla fine del XX secolo e inizi del XXI secolo, bisogna segnalare quella sul significato e sul grado di efficacia del modello di normatività occidentale. La prima condizione per un processo di trasformazione nelle società del capitalismo periferico (o società cosiddette “post-coloniali”), per tradizione instabili e conflittuali, presuppone la ricostruzione democratica della società civile, la ridefinizione delle funzioni dello Stato e l’implementazione di un sistema di regolamentazione adeguato alle carenze e alle necessità dei nuovi soggetti emergenti. In questo nuovo millennio, il modello classico di legalità positiva e dell’amministrazione della giustizia statale, basate sui valori liberaliindividualistici, attraversa una profonda crisi che tocca i suoi fondamenti, il suo oggetto e le sue fonti di produzioni. L’esaurimento di questa legalità logico-formale che è servita a legittimare (sin dal Settecento) gli interessi della tradizione giuridica capitalistico-borghese, può aprire lo spazio per una discussione sulle condizioni di rottura e allo stesso tempo sulle possibilità di un progetto di emancipazione basato non più sulle idealizzazioni formalistiche e sulle rigidità tecniche, 1 Professore Ordinario al Centro di Scienze Giuridiche dell’Universidade Federal de Santa Catarina (Brasile). 2 Traduzione di Ricardo Sontag, Gruppo di Ricerca in Storia della Cultura Giuridica, Universidade Federal de Santa Catarina (UFSC). I quaderni del CREAM , 2010, X 181 ma su presupposti che partano delle condizioni storiche attuali e dalle pratiche reali. I modelli culturali e normativi che hanno giustificato il mondo di vita, l’organizzazione sociale e i criteri di scientificità sono divenuti insoddisfacenti e limitati, aprendo così lo spazio per il ripensamento dei loro disegni di riferimento e di legittimazione. In questo senso è possibile dire, in campo giuridico, che la struttura normativa del Diritto positivo formale moderno è poco efficace e non riesce a soddisfarei bisogni della globalizzazione delle attuali società periferiche, attraversate da forme diverse di riproduzione del capitale, da gravi contraddizioni sociali e da flussi che riflettono tanto le crisi di legittimità quanto una crisi nella realizzazione effettiva della giustizia3. Da queste premesse nasce la necessità di proporre una discussione sulla “crisi dei paradigmi” dominanti e sulle rotture dei modelli di riferimento perché, come osserva correttamente Thomas S. Kuhn, le crisi sono una pre-condizione necessaria per l’emergenza di nuove teorie e nuovi riferimenti (Kuhn 1975). Pensare e rendere effettivo un altro modello di regolamentazione significa dare priorità alle aspirazioni più immediate della società civile, attraverso l’articolazione di un progetto culturale demitizzante ed emancipatore. Tale processo, nella sua dimensione pedagogica, ha la funzione strategica di preparare, a livello sociale e politico, gli orizzonti di un paradigma alternativo del Diritto. La proposta di giuridicità pensata nella quotidianità presente si basa infatti su una particolare forma di pluralismo in grado di riconoscere e legittimare le normatività extra ed infra statali, generate dalle carenze e dai bisogni di nuovi soggetti sociali, e capace di raccogliere le rappresentazioni legali delle società emergenti contrassegnate da strutture di eguaglianze precarie e polverizzate da conflitti permanenti. Si afferma così la proposta di un tipo specifico di pluralità giuridica, aperta, flessibile, partecipativa e democratica, sintesi di una molteplicità di interessi individuali e collettivi. 3 Per una visione più approfondita cfr. Wolkmer (2006). I quaderni del CREAM , 2010, X 182 Tali preoccupazioni si ritrovano nell’opera Pluralismo Jurídico: fundamentos de uma nova cultura do direito del professore e giusfilosofo brasiliano Antonio Carlos Wolkmer, docente del Centro de Ciências Jurídicas dell’Universidade Federal de Santa Catarina. Quest’opera in cinque capitoli e 322 pagine è nata a partire dalla tesi di dottorato presentata in Brasile nel 1992, pubblicata in portoghese nel 1994 e in lingua spagnola nel 2006 (Wolmer 2006). Recuperando la tradizione della cultura giuridica latinoamericana, il nucleo centrale dell’opera consiste nella difesa di un nuovo pluralismo giuridico chiamato “comunitario-partecipativo”, poiché impegnato epistemologicamente in una visione interdisciplinare, relazionale e complessa. Il suo intento si inscrive da questo punto di vista all'interno dell'ambito di riflessione contemporaneo della cosiddetta “teoria giuridica critica”, impegnata nel pensare nuove direzioni paradigmatiche per la teoria del diritto, intesa come possibilità di emancipazione strumentale a servizio della giustizia, dell’effettività dei diritti umani e dell'attribuzione di significato della vita umana. Quella che segue è l'illustrazione di alcuni momenti essenziali dell’opera: 1. Pluralismo giuridico: natura e profilo; 2. Pluralismo giuridico come espressione conservatore della società globale; 3. Pluralismo giuridico come progetto emancipatore; 4. Pluralismo giuridico e nuove pratiche sociali di legittimazione. Pluralismo giuridico: natura e profilo La tematica del pluralismo giuridico attraversa diversi momenti della storia occidentale, medievale, moderna e contemporanea, in una complessa molteplicità di interpretazioni che evidenziano l'esistenza di una pluralità di realtà e di campi sociali con particolarità specifiche. Se è vero che innumerevoli dottrine possono essere identificate con il pluralismo di rango filosofico, sociologico o politico, il pluralismo giuridico non fa eccezione, tanto da comprendere in sé varie tendenze con origini differenti e profili singolari, le quali compongono un I quaderni del CREAM , 2010, X 183 complesso di fenomeni autonomi ed elementi eterogenei, cui si sono appoggiato conservatori, liberali, moderati e radicali, ma anche da spiritualisti, sindacalisti, corporativisti, istituzionalisti, socialisti. Questa pluralità ci rinvia al mondo medievale, dove la decentralizzazione territoriale e la molteplicità dei centri di potere configuravano in ogni territorio un ampio spettro di manifestazioni normative concorrenti, che includevano consuetudini locali, fori comunali, statuti delle corporazioni d’ufficio, dettati reali, diritto canonico e diritto romano. È cosa certa che la decadenza dell’Impero Romano Occidentale e lo stabilirsi in Europa dei popoli nordici abbia determinato il consolidarsi dell’idea per cui ad ogni individuo è applicato il Diritto del popolo cui appartiene e della sua comunità locale in cui vive. Con la cosiddetta “personalità delle leggi” si è stabilito che ai diversi ordine sociali sarebbe corrisposta una naturale pluralità giuridica. In questo quadro Norbert Rouland identifica quattro situazioni legali: un “diritto signorile” fondato nella assunzione militare; un “diritto canonico” basato sui principi cristiani; un “diritto borghese” basato sull’attività economica e, infine, un “diritto reale”, caratterizzato dalla propensione a incorporare le altre pratiche regolatorie in nome della centralizzazione politica (Rouland 1988). La statalizzazione del diritto avrebbe dunque avuto luogo con l’emergenza in Europa della razionalizzazione politica centralizzatrice e con la subordinazione della giustizia alla volontà statale sovrana. Attraverso i secoli XVII e XVIII l’assolutismo monarchico e la borghesia trionfante hanno pian piano scatenato un processo di uniformità burocratica che ha cancellato la struttura medievale delle organizzazione corporative, riducendo il pluralismo legale e giudiziario. Anche se è possibile trovare i fondamenti teorici iniziali della cultura giuridica monistica nell’opera di autori come Hobbes, è stata la Repubblica Francese post-rivoluzionaria a decretare l'uguaglianza dei vari sistemi legali e a disporne l'integrazione in una legislazione comune. Un esame più attento rivela infatti che la solidificazione del “mito” monista, cioè, della centralizzazione, è risultata dalle riforme I quaderni del CREAM , 2010, X 184 amministrative napoleoniche e dalla promulgazione di uno unico codice civile finalizzato a regolare tutta la società4. La consolidazione della società borghese, la piena espansione del capitalismo industriale, l’ampio dominio dell’individualismo filosofico e del liberalismo politico-economico e l'affermarsi del dogma del centralismo giuridico-statale hanno scatenato una forte reazione da parte delle dottrine pluraliste della fine dell’Ottocento e del Novecento. Sembra infatti non esserci dubbio che, nei primi decenni del Novecento, il pluralismo insito nelle riflessioni dei giusfilosofi (Gierke, Hauriou, Santi Romano e Del Vecchio) e dei sociologi del diritto (Ehrlich, Gurvitch) sia rinato come alternativa al formalismo normativista statale. Non meno importante è il riemergere del pluralismo negli anni Cinquanta e Sessanta ad opera di ricercatori empirici nell’ambito dell’antropologia giuridica (Griffiths 1986). Dinnanzi al suo significato odierno, però, occorre precisare cosa sia il pluralismo, quali le sue cause determinanti, le tipologie e le obbiezioni. Per cominciare si può chiamare pluralismo la molteplicità di pratiche esistenti in uno stesso spazio socio-politico che interagiscono con consensi e conflitti, ufficiali o no, e che hanno la loro ragione d’essere nelle necessità esistenziali, materiali e culturali5. Una volta identificato il concetto, si può esaminare qualcuna delle cause che ne hanno determinato l'insorgenza. Nell’esaminare più attentamente il fenomeno, come dice il professore di Coimbra Boaventura de Sousa Santos, si scopre che la nascita del pluralismo legale si situa in due contesti concreti: a) “origine coloniale”; b) “origine non-coloniale”. Nella prima situazione il pluralismo si svolge nei paesi che sono stati dominati economicamente e politicamente, e perciò obbligati ad accettare i modelli giuridici della metropoli (colonialismo inglese, portoghese, ecc). L’unificazione all’amministrazione della colonia ha reso possibile la coesistenza nello stesso spazio del “diritto dello Stato colonizzatore e dei diritti tradizionali autoctoni, coesistenza che spesso è stata causa di “conflitti ed accomodazioni precarie” (De Sousa Santos 1988). 4 Sui miti della cultura giuridica moderna cfr Grossi (2001) e Tarello (1988). 5 In questa direzione cfr Wolkmer (2001). I quaderni del CREAM , 2010, X 185 Oltre il citato contesto coloniale, Boaventura de S. Santos sottolinea nell’ambito del pluralismo giuridico d’origine “non-coloniale” tre situazione diverse. In primo luogo vi sono i paesi con cultura e tradizione giuridiche proprie, che alla fine hanno adottato il Diritto europeo come mezzo di modernizzazione e di consolidamento del regime politico (Turchia, Etiopia, ecc.). In secondo luogo è da menzionare la situazione in cui determinati paesi, dopo aver sofferto l’impatto di una rivoluzione politica, hanno conservato per un po' di tempo il loro antico Diritto, anche se abolito dal nuovo Diritto rivoluzionario (repubbliche islamiche incorporate dalla antica URSS). Infine, vi sono alcune popolazione indigene o native non decimate in toto e sottoposte alle leggi coercitive degli invasori, che sono riuscite a ottenere l’autorizzazione per mantenere e conservare il loro Diritto tradizionale (popolazioni autoctoni dell’America del Nord ed Oceania, ecc. (Ivi, pp. 74-75). Analizzando la natura della giustizia come riflesso dell’applicazione del Diritto nella società brasiliana degli anni Settanta e Ottanta, il giurista brasiliano Joaquim A. Falcão introduce la tesi secondo la quale la causa diretta del pluralismo giuridico deve essere rintracciata nella crisi di legalità di un ordine politico centralizzato. Al contrario del pensiero di varie correnti del pluralismo, Joaquim A. Falcão sostiene che nei paesi del Terzo Mondo come il Brasile l’emergenza di situazioni paralegali, parallele o extra-legem, incentivate, accettate o non dallo Diritto ufficiale, sia collegata direttamente con la variabile della legittimità del regime politico (Falcao 1984, pp. 81-85). Da parte sua, il ricercatore belga Jacques Vanderlinden nel suo saggio-sintesi sul pluralismo giuridico, segnala che le due principali cause generiche del pluralismo sono la “ingiustizia” e “inefficacia” del modello dell’“unicità” del Diritto. (Vanderlinden 1972). È possibile avanzare nella discussione sulla possibilità di pensare un'interpretazione diversa del pluralismo osservando come la specificità di questo concetto non stia nella negazione o nella minimizzazione del Diritto ufficiale, quanto nel riconoscimento che esso non è che una delle varie forme giuridiche che possono esistere nella società. Infatti il pluralismo legale comprende non solo le pratiche indipen- I quaderni del CREAM , 2010, X 186 denti o semi-autonomi rispetto al potere statale, ma anche le pratiche normative ufficiali/formali e quelle non-ufficiali/informali. La pluralità coinvolge la coesistenza di ordini giuridici diversi che possono avere, come non avere, relazioni tra loro. Il pluralismo può includere sia pratiche normative autonome e autentiche generate da diversi forze sociali, sia manifestazioni legali plurali e completamente riconosciute, incorporate e controllate dallo Stato (Belley 1986; Delmas-Marty 2006; Bergel 2005). La complessità e il quadro ampio dei fenomeni di pluralismo legale rendono possibile varie proposte di classificazione. Anche se non vi è consenso tra coloro che studiano le “modalità” del pluralismo giuridico bisognerebbe segnalare un fenomeno di distinzione e di sovrapposizione in atto nelle società dal capitalismo periferico. É qui che si crea la dualità tra un “pluralismo giuridico statale” e un “pluralismo giuridico comunitario” (Rodriguez 1991). Il primo si identifica con il modello riconosciuto, permesso e controllato dallo Stato, al cui interno si ammette la presenza di numerosi “campi sociali semi-autonomi” rispetto al potere politico centralizzatore. Questo in virtù della molteplicità di sistemi giuridici istituiti verticalmente e gerarchicamente secondo diversi gradi di efficacia, e in cui si attribuisce all’ordine giuridico statale una positività maggiore. Davanti ad esso i diritti non statali sono una funzione residuale e complementare, minimizzabili o incorporabili nella legislazione statale. L’ambito del “pluralismo giuridico comunitario” è invece lo spazio delle forze sociali e dei soggetti collettivi con identità proprie ed autonome che sussistono indipendentemente dal controllo statale. Infine, riguardo alle “obbiezioni” fatte contro il pluralismo giuridico, bisogna elencare le critiche degli autori di profilo teorico, tanto tradizionale quanto innovatore. Parte delle critiche sono attribuibili all’ambigità dello stesso pluralismo giuridico, che può presentarsi sia come una strategia globale progressista che come un progetto conservatore. Dunque se dietro al pluralismo si può ritrovare Gurvitch o, dall’altra parte, Proudhon, nell’elenco monista ci sono pensatori come Hegel e Marx. La relatività di queste posizioni rinforza l’idea secondo la quale, secondo Norberto Bobbio, la proposizione teorica I quaderni del CREAM , 2010, X 187 del pluralismo può nascondere tanto ideologie rivoluzionarie di ordinamenti che contribuiscono per la “progressiva liberazione degli individui e dei gruppi oppressi dal potere statale”, quanto ideologie reazionarie interpretabili come “episodio della disgregazione oppure della sostituzione dello Stato e, così, come un sintomo di una imminente ed incomparabile anarchia” (Bobbio 1981). Sinteticamente, l’introduzione del pluralismo comporta oggi non soltanto ammetterne la complessità, l'ambiguità e i limiti, ma anzitutto l'ipotesi che esso possa funzionare come un'ideologia strumentale “conservatrice” o “emancipatoria”. Pluralismo giuridico come espressione conservatrice della società globale Quello auspicato per il terzo millennio non sarà più né il pluralismo corporativista medievale né quello liberal-individualista delle minoranze esclusiviste, discriminartici e disaggreganti. Tale pluralismo borghese, difeso fino alla prima metà del secolo XX, è anche la principale strategia del nuovo ciclo del capitalismo mondiale, che suppone processi quali la decentralizzazione amministrativa, l'integrazione dei mercati, la globalizzazione e accumulazione flessibile del capitale, la formazione di blocchi economici, le politiche di privatizzazione, l'informalizzazione guidata dei servizi, la regolazione sociale riflessiva e sopranazionale, ecc6. Di conseguenza, il dibattito si rivela opportuno in particolar modo quando si pensa alla costruzione di una società pluralista, democratica e partecipativa, all'interno di società marginalizzate come quelle dell’America Latina, che convivono da molto con l’intervenzionismo, la dipendenza e l’autoritarismo. Perciò è prioritario distinguere il pluralismo come progetto democratico di emancipazione delle strutture sociali dipendenti da un’altra pratica pluralista, che consiste invece nel proporre un’alternativa agli 6 Per l’esame più attento del Diritto nei tempi di globalizzazione e neoliberalismo il rimando è ad Arnaud (1999), Faria (2001), Marques-Neto (1996). I quaderni del CREAM , 2010, X 188 intenti “neocolonialisti” dei paesi centrali del globalismo neoliberale avanzato. Questo tipo conservatore di pluralismo, vincolato spesso a progetti culturali della “post-modernità”, non è che una truffa per nascondere la concentrazione violenta del capitale nel “centro” (emisfero nord) escludendo del tutto la “periferia” (emisfero sud) e radicalizzando le disuguaglianze sociale, lo sfruttamento e la miseria. Questo tipo di pluralismo esprime, come avverte il giurista colombiano Germán Palacio, condizioni di possibilità che sono in rapporto diretto con il processo di globalizzazione del capitalismo attuale, come: “a) la crisis del modelo fordista-keynesiano y la globalización de la acumulación por especialización flexible; b) el desarrollo del neoamericanismo; c) el debilitamiento de los estados nacionales latinoamericanos junto con los procesos de descentralización administrativa; d) la crisis del trabajador de masa y las nuevas luchas sociales” (Palacio 1993). Il pluralismo conservatore di oggi si contrapone radicalmente al pluralismo democratico qui proposto. La differenza tra il primo e il secondo sta sostanzialmente nel fatto che il il primo impedisce l’organizzazione dei diversi attori sociali nascondendone la vera partecipazione, mentre il secondo cerca di promuovere e stimolare la partecipazione multipla di nuove identità sociali, riconoscendo al contempo le differenze delle identità collettive insorgenti. Allo stesso modo è possibile distinguere l’antico pluralismo (di matrice liberale) dal pluralismo identificato con le nuove esigenze storiche e trasformazioni sociali. Mentre il pluralismo liberale è stato atomistico nel senso che consacrava una struttura privata di individui isolati in una scena mercatologica per raggiungere i suoi specifici obbiettivi economici, il nuovo pluralismo è comunitario-integratore, dal momento che unisce gli individui, i soggetti e i gruppi organizzati attorno a bisogni e obiettivi comuni (Wolkemer 1993, pp. 241-242). Ciò comporta la creazione, come ci ricorda Carlos Nelson Coutinho, di un pluralismo di “soggetti collettivi” fondati su una nuova sfida: costruire una nuova egemonia di equilibrio tra la “predominanza della volontà generale (...) senza cancellare il pluralismo degli interessi I quaderni del CREAM , 2010, X 189 particolari” (Coutinho 1990). Oltre tutto l’egemonia del pluralismo di “soggetti collettivi” fondata in ampi processi di democratizzazione, di decentralizzazione e di partecipazione, ha ancora bisogno di recuperare alcuni principi della cultura politica occidentale, quali i diritti delle minoranze, il diritto alla diversità, all’autonomia e alla tolleranza. Pluralismo giuridico come progetto culturale emancipatore L’odierna ripresa del pluralismo come progetto di “giuridicità alternativa” vuole da un lato superare le modalità (predominanti) del pluralismo identificato con il modello neoliberale e con le pratiche de de-regolamentazione sociale, dall’altro lato edificare un progetto politico-giuridico basata sulle pratiche sociale insorgenti in modo da soddisfare quei bisogni essenziali che rendono possibile una vita umana con dignità. La proposizione del pluralismo giuridico come proposta alternativa agli spazi periferici del capitalismo latino-americano presuppone l’esistenza e l’articolazione di alcuni requisiti, come: a) la legittimità dei nuovi soggetti sociali; b) l’implementazione di un sistema di soddisfazione giusta dei bisogni umani; c) la democratizzazione e decentralizzazione di un spazio pubblico partecipativo; d) la difesa in sede pedagogica d’una etica della alterità; e) la consolidazione dei processi conducenti ad una razionalità emancipatoria (Wolkmer 2001). Centrale è la questione dei nuovi soggetti sociali, che occupa un posto centrale nel nuovo paradigma. Protagonista non più l’antico soggetto privato, astratto e metafisico della tradizione liberale-individualista cartesiana che, come soggetto della conoscenza a priori si adattava alle condizioni dell’oggetto e alla realtà globale istituita. In opera vi è ora un soggetto vivo, attuante e libero, che partecipa, si autodetermina e trasforma la globalità del processo storico-sociale. Dunque il “nuovo” e il “collettivo” si configurano nei termini di identità umane sempre esistite, secondo i criteri di classe, etnia, sesso, età, religione o bisogni, ma secondo un orientamento che ha reso possibile il loro passaggio da soggetti inerti, dominati, passivi e I quaderni del CREAM , 2010, X 190 spettatori a soggetti emancipati, partecipi e creatori della loro propria storia. In questo senso la caratterizzazione di un soggetto inteso come identità che implica il “nuovo” e il “collettivo” privilegia, nella pluralità dei soggetti, i movimenti sociali più recenti, che possiedono la capacità di costruire forme differenziate di cittadinanza, ponendosi dunque come fonti di una nuova legittimità7. È attraverso l’emergere di nuovi soggetti collettivi di giuridicità che si giustifica l’esistenza di un complesso “sistema di bisogni”. Tale “sistema di bisogni umani” è il secondo presupposto nell’elaborazione paradigmatica del pluralismo comunitario partecipativo. Nel suo senso più generale, i bisogni coinvolgono esigenze di valore, beni materiali ed immateriali. Il complesso dei “bisogni umani” che può variare da una società all’altra favorisce un ampio processo di socializzazione segnato da scelte quotidiane sui “modi di vita” e “valori” come la libertà, la vita, la giustizia, ecc. Le condizione economiche generate dal sistema produttivo concentrato nel grande capitale finanziario impediscono la soddisfazione dei bisogni umani essenziali, imponendo al contrario la costruzione di un sistema di falsi bisogni che non possono essere mai soddisfatti completamente8. Lo svolgimento congiunturale e strutturale del capitalismo dipendente nei continenti come l’America Latina favorisce l’interpretazione dei “bisogni” come prodotti delle carenze primarie, della lotta e dei conflitti generati dalla divisione sociale del lavoro e dalle esigenze di beni e servizi vincolati alla vita produttiva. Certamente le condizioni di vita sperimentate dalle diverse classi popolari del Terzo Mondo, in sostanza quelle condizioni che impediscono la soddisfazione dei bisogni identificati con la sopravvivenza e sussistenza, producono rivendicazioni che chiedono ed affermano diritti. Non c’è dubbio che le situazioni di privazione, carenza ed esclusione costituiscano la ragione dell’emergenza della necessità del diritto a una vita dignitosa. Insomma i diritti obiettivati 7 Cfr. Dalton (1992), Tarrow (1997), Melucci (2002), Russel, Kuechler (1992). 8 Cfr. Heller (1985; 1986). I quaderni del CREAM , 2010, X 191 dagli agenti di una nuova cittadinanza collettiva esprimono l’intermediazione tra bisogni, conflitti e domande. Il terzo presupposto per articolare un “pluralismo comunitario” consiste nel rendere possibili le condizioni per l’implementazione d’una politica democratica che possa guidare e allo tempo stesso riprodurre uno spazio comunitario decentralizzato e partecipativo. Tale scopo non sembra essere molto facile nelle strutture sociale post-coloniali con un alto grado d’instabilità politica come quella brasiliana, giacché queste sono contaminate profondamente da una tradizione centralizzatrice, dipendente ed autoritaria. Sembra chiaro che la rottura con questo tipo di struttura istituzionale presupponga un certo numero di trasformazioni nelle pratiche, nella cultura e nei valori dei modi di vita quotidiano di queste società. Oltre alla sovversione al livello di pensiero, dei discorsi e dei comportamenti, bisognerebbe riordinare lo spazio pubblico individuale e collettivo, al fine di ritrovare forme di azione umana che attraversino le questioni “comunitarie”: “politiche democratiche di base”, “partecipazione e controllo popolare”, “gestione decentralizzata”, “potere locale o comunale”, “rispetto ai diritti umani”, “riconoscimento delle identità e delle differenze culturali” e “rivalorizzazione della vita umana con dignità”9. Quello che ci importa nella riordinazione politica dello spazio pubblico con il conseguente processo di consolidazione della democrazia partecipativa di base è scoprire una nuova società pluralista marcata dalla convivenza dei conflitti e delle differenze, che vanno intesi come presupposti per un’altra legittimità, basata sui bisogni essenziali di nuove socialità collettive. Bisogna poi sottolineare una quarta condizione per la creazione di un diritto pluralista: la formulazione di un’etica dell’alterità. Lo svuotamento della cultura borghese-capitalista a carattere individualista ci ha portato a una crisi dei valori e a una crisi dell’etica moderna. Si osservano così oggi le conseguenze di un’etica “post-moderna” basata 9 Cfr. Villasante (1984; 1995), Villoro (1998), Olive (1999), Beuchot (2005). I quaderni del CREAM , 2010, X 192 sull’individualismo, sul potere, sulla competizione selvaggia, sull’efficienza produttiva, sulla frammentazione nichilista, sul relativismo, ecc. L’etica della alterità non è composta da ingegni “ontologici” e da giudizi universali a priori destinati a essere poi applicati alle situazioni vissute, ma traduce concezioni di valore che emergono dalle lotte stesse, dai conflitti e dagli interessi dei nuovi soggetti insorgenti in permanente affermazione, reinvenzione e resistenza. L’etica dell’alterità è in definitiva un’etica antropologica della solidarietà che parte dei bisogni dei gruppi esclusi e si propone di generare una pratica pedagogica capace d’emancipare i soggetti oppressi, privati di giustizia e sfruttati. Volendo essere un’etica coinvolta con la dignità dell’“altro”, trova i suoi elementi teorici sia nelle pratiche sociali quotidiane, sia nei presupposti d’una filosofia critica del Diritto e da Politica che sia sostanzialmente liberatrice10. L’ultima condizione necessaria per fondare un nuovo paradigma di giuridicità si riferisce all’elaborazione di una razionalità emancipativa, elaborata a partire delle pratiche sociali, delle carenze e dai bisogni vitali. Il modello tradizionale di razionalità “tecnico-formale” è soppiantato dal modello di razionalità critico-dialettico di razionalità emancipatoria generata in seno ai rapporti sociali e alla vita concreta. Non una “ragione operazionale” pre-determinata e sovrapposta alla vita, finalizzata formalisticamente a trasformare lo spazio comunitario, ma una ragione che parte dalla dignità della vita umana e dai suoi bisogni storici11. Sinteticamente, bisognerebbe rifondare una razionalità come espressione di un’identità culturale che si faccia portatrice dell’esigenza di affermazione la libertà, la giustizia e l’emancipazione. Pluralismo giuridico e nuove pratiche sociali di legittimazione Si può osservare come il fenomeno “pratico-teorico” del pluralismo accolga in sé l’emergenza forme molteplici di materializzazione 10 Cfr. Dussell (1986; 1998; 2001). 11 Cfr. Caldera (1984), Habermas (1997; 2004). I quaderni del CREAM , 2010, X 193 del Diritto. La produzione e l’applicazione dei diritti che provengono delle esigenze e dalle pratiche sociali comunitarie indipendenti dagli organi o dalle agenzie di Stato rompono con la configurazione mitica secondo la quale il Diritto è emanato solo della norma cogente statale e consentono di passare a una concezione consensuale del Diritto come “accordo”, prodotto dei bisogni, conflitti e rivendicazioni delle forze sociali nello spazio politico. Fino ad ora un complesso di indizi conferma l’implementazione crescente di nuovi meccanismi di auto-regolazione dei conflitti e di risoluzione di interessi emergenti. Questo comporta un avanzamento democratico, che anche senza cancellare le manifestazioni giuridiche statali avanzi verso una legalità plurale non più fondata sulla razionalità formale aprioristica, ma sulla giusta soddisfazione dei bisogni d’una vita vissuta con dignità. La diversità dei modelli plurali e democratici di giustizia ci porta così verso lo svolgimento di alcune pratiche giuridiche non-convenzionali e informali. Non propriamente un “uso alternativo del diritto” , ma piuttosto un processo di costruzione e riaffermazione di altre forme di esperienze giuridiche. Appare evidente come l’obbiettivo più importante della trasformazione giuridica non sia, come ci fa sapere il giurista colombiano Germán Palacio, la sostituzione di una normatività ingiusta con un’altra più favorevole, quanto identificare e avvicinare il Diritto ai gruppi maggioritari (forse si è sbagliato e intende minoritari? O maggioritari in senso numerico?) e privi di giustizia della società (Palacio 1993). Le pratiche giuridiche alternative non appaiono sempre omogenee, identiche ed armoniche. Per Germán Palacio, l’espressione generica di giuridicità alternative può essere capita nelle forme del Diritto indigeno, del Diritto di transizione sociale o del Diritto insorgente. Il Diritto consuetudinario delle comunità indigene è il diritto nativo di resistenza che sussiste anche sotto le minacce egemoniche dei paesi coloniali. Il Diritto di transizione sociale è quello vissuto dalle società che sono passate attraverso una processo rivoluzionario (il Portogallo nel tempo della rivoluzione, il Nicaragua sandinista, ecc.). Infine, il Diritto insorgente creato dagli oppressi in funzione dei suoi interessi e bisogni ed espresso nelle sue I quaderni del CREAM , 2010, X 194 pratiche di giustizia comunitaria in vari paesi dell’America Latina (Colombia, Bolivia, Ecuador, Peru, ecc.)12. Dunque le multiple e specifiche pratiche della cosiddetta pluralità alternativa coinvolgono un processo politico più ampio, che deve essere riconosciuto come espressione di un nuovo tipo di pluralismo giuridico associato alle forme di resistenza e di reinvenzione permanente di nuovi diritti. Certamente i criteri che concretizzano pratiche alternative di produzione e regolazione suppongono l'informalizzazione, la decentralizzazione e la democratizzazione dei procedimenti, fattori che esplorati e stimolati costituiscono mezzi adeguati per rendere operative le domande di giustizia e per adeguare conflitti collettivi negli spazi societari caratterizzati da instabilità costanti e crescenti trasformazioni sociali. Insomma i primi passi verso la direzione di una società latinoamericana pluralista, democratica e solidale sono già visibili. In questo contesto la funzione di una teoria giuridica critico-pedagogica è fondamentale come strategia per creare, in un primo momento di ridefinizione di paradigmi, le condizione epistemologiche e politico-metodologiche di una giustizia materiale effettiva. Lo scopo dichiarato è quello di rendere possibile, in un orizzonte non troppo lontano, la globalità d’uno spazio pubblico veramente democratico capace di ritrovare un’altra egemonia, sintesi di una “volontà generale” in cui plurimi interessi individuali coesistano in un’uguaglianza fondata sul rispetto per le diversità etniche e culturali. Tale filosofia giuridica della pluralità e dell’alterità, oltre che un individualismo sistemico e sintonizzato con i bisogni fondamentali (libertà, giustizia, vita degna) di nuove socialità storiche, rende possibile la scoperta di un Diritto che rivela e legittima sopratutto la dignità dell’Altro. È il diritto che incorpora il paradigma della dignità della vita umana, capace di trasformarsi nello strumento più vivo e autentico dell’umanizzazione. 12 Cfr. Lopez (2000; 2003), Ribeiro, Strozemberg (2001), Jumpa, Mallol, Barcenas (2002). 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