la palestina “stato non membro – osservatore” alle nazioni unite

Transcrição

la palestina “stato non membro – osservatore” alle nazioni unite
KorEuropa
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
KorEuropa è una Rivista scientifica pubblicata a cura della Facoltà di Scienze Economiche e
Giuridiche e a cura del Centro di Documentazione Europea dell’Università Kore di Enna. La
responsabilità per quanto pubblicato è dei singoli autori.
_________________________
Direttore
Anna Lucia VALVO
Direttore Responsabile
Antonino MILAZZO
Comitato di Direzione
Salvatore ANDÒ; Paolo BARGIACCHI; Antonino MILAZZO; Alessandro TOMASELLI;
Fausto VECCHIO; Anna Lucia VALVO
Comitato Scientifico
Salvatore ANDÒ; Francisco BALAGUER CALLEJON; Paulo BARBOSA RAMOS; Paolo BARGIACCHI;
Gregorio CAMARA VILLAR; Antonio CANTARO; Emilio CASTORINA; Gian Luigi CECCHINI;
Nicoletta PARISI; Vasco PEREIRA DA SILVA; Jose Luis PEREZ SERRABONA;
Jose Maria PORRAS RAMIREZ; Rosario SAPIENZA;
Augusto SINAGRA; Anna Lucia VALVO
Comitato di Redazione
Alessandro TOMASELLI (Coord.); Fausto VECCHIO (Coord.); Augusto AGUILAR CALAHORRO;
Biagio ANDÒ; Massimo ASERO; Claudia Regina CARCHIDI; Claudio COSTANTINO; Nancy DE LEO;
Valentina FAGGIANI; Giancarlo FERRO; Antonella GALLETTI; Ulrike HAIDER; Davide IOSIA;
Elisabetta LANZA; Francesca LEOTTA; Federico LOSURDO; Marcelo MACHADO LIMA;
Jose Levi MELLO DO AMARAL JUNIOR; Edoardo RAFFIOTTA;
Janaina RIGO SANTIN; Letizia SEMINARA; Grazia Alessandra SIINO
KorEuropa ha una cadenza semestrale. Gli articoli sono sottoposti a referaggio anonimo e sono
pubblicati in italiano, francese, inglese, spagnolo e portoghese. Gli articoli pubblicati nella Rivista non
riflettono necessariamente le opinioni del comitato scientifico, del comitato di redazione o della
direzione.
Per contattare la Redazione o semplicemente per proporre articoli e volumi da recensire scrivere a:
[email protected]
[email protected]
[email protected]
Homepage: Visitate la nostra pagina web all’indirizzo http://www.koreuropa.eu
Profilo Facebook: Visitate il nostro profilo Facebook all’indirizzo http://www.facebook.com/KorEuropa
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Pag.
Editoriale
Claudio ZANGHÌ, La Palestina “Stato non membro – osservatore” alle Nazioni Unite
8
Articoli
Salvatore ALEO, Dalle figure delittuose associative alla nozione di criminalità
organizzata
15
César Leandro DE ALMEIDA RABELO - Desirée LORRAINE PRATA, A Proteção do
Consumidor Brasileiro no Comércio eletrônico Internacional
88
Nancy DE LEO, L’austerite europeenne: un choix discutable
105
Roberto DI MARIA - Carmelo PROVENZANO, Reti di Impresa innovative, appalti pubblici 112
e competitività internazionale
Antonella GALLETTI, La tutela e la circolazione dei beni culturali nell'Unione 138
Europea
Janaína Rigo SANTIN, O Modelo Europeu e a Questão da Cidadania
150
Augusto SINAGRA, Trent’anni di Repubblica turca di Cipro del Nord
172
Andrea SITZIA, I licenziamenti collettivi dopo la Riforma 2012 alla luce della Direttiva 179
n.98/59/CE
Giurisprudenza
Anna Lucia VALVO, Nota alla sentenza della Corte di Giustizia (27 novembre 2012,
Causa C-566/10)
199
Fausto VECCHIO, Oltre il Lissabon urteil: la saga delle “pensioni slovacche” e
l’applicazione dell’ultra vires review secondo il giudice costituzionale ceco
202
Recensioni
Droit international public di D. RUZIÈ - G. TEBOUL, Paris Dalloz, 2012, 21° ed., Pag. I IV Pag. 1 - 346 e Droit européen di J.C. GAUTRON, Paris Dalloz, 2012, 14° ed, Pag. I VII Pag. 1 - 347 (Massimo PANEBIANCO)
207
Editoriale
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
LA PALESTINA “STATO NON MEMBRO –
OSSERVATORE” ALLE NAZIONI UNITE
Claudio Zanghì
Professore emerito di Diritto internazionale nell’Università “Sapienza” di Roma
La recente qualifica di “Stato-non membro osservatore”, per la prima volta attribuita
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione 67/19 del 29.11.2012 ad un
soggetto di diritto internazionale, nella specie la Palestina, merita qualche riflessione per
essere agevolmente compresa nei suoi presupposti e nelle sue conseguenze.
È appena il caso, anzitutto, di ricordare che l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)
è un ente internazionale composto da Stati e che il suo Statuto prevede unicamente la
qualifica di “Stato membro” che è assunta dagli Stati invitati alla Conferenza di San
Francisco, che hanno firmato e ratificato l'atto costitutivo (membri originari)e dagli Stati che
sono stati progressivamente “ammessi” attraverso la procedura dell'art.4dello Statuto che
prevede, fra l'altro, una raccomandazione del Consiglio di sicurezza con voto a maggioranza
qualificata, ivi compreso quello dei membri permanenti. Nessun altra qualifica di “membro
associato”, “osservatore” o simile è prevista nello Statuto a differenza di ciò che accade in
altri enti internazionali.
Ciò premesso, fin dalla sua costituzione, l’ONU non poteva ignorare l'esistenza di uno
Stato, storicamente tale, che non poteva partecipare all’Organizzazione in ragione della sua
condizione di neutralità, la Svizzera. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite “inventò”
così lo status di “osservatore” attribuendo il medesimo alla Svizzera. Successivamente ad un
altro soggetto di diritto internazionale- anche questo storicamente inteso - la Santa Sede- che,
pur non essendo uno “Stato” svolgeva un ruolo particolarmente rilevante nelle relazioni
internazionali, venne attribuito il medesimo status (da ultimo Ris.58/314 del 1 luglio 2004).
In epoca successiva, quando erano già state istituite diverse organizzazioni che avevano
un ruolo attivo nella vita delle relazioni internazionali, la stessa Assemblea delle Nazioni
Unite, ritenendo opportuno poter dialogare con queste ultime, attribuii lo status di osservatore
a taluni enti internazionali, quali, ad esempio, la Lega araba, (Ris. 477/V del 1950), l'Unione
www.koreuropa.eu
8
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
africana (Ris. 57/48 del 21.11.2002), l’OSCE (Ris.48/5 del 13.11.1993), il Sovrano Militare
Ordine di Malta, il Comitato internazionale della Croce Rossa, e da ultimo anche l'Unione
Europea (che ha oggi uno status “rafforzato” in base alla Ris. 65/276 del 3.5.2011, in
sostituzione di quello ordinario attribuito già con Ris.3208/XIX del 1974).
Nel contesto dei principi sull'autodeterminazione dei popoli, formulati dalla stessa
Organizzazione delle Nazioni Unite, e quindi della nascita dei Movimenti di liberazione
nazionale, l'Assemblea generale, ritenendo opportuno dialogare anche con questi ultimi, si
pose il problema di attribuire anche ai predetti movimenti lo Stato di “osservatore”. La Ris.
3280 (XXIX) del 1 dicembre 1974 ha riconosciuto tale status a tutti i movimenti riconosciuti
dall’Unione Africana, mentre la Ris. 35/167 del 15.12.1980 a tutti gli altri movimenti.
Di conseguenza, con la Risoluzione 3237 del 22.11.1975, l'Organizzazione per la
Liberazione della Palestina (OLP) ebbe riconosciuta tale qualifica1. È noto per altro che la
stessa OLP era stata riconosciuta da diversi paesi e che il suo capo storico (Arafat) era stato
ricevuto e trattato come un capo di Stato anche dalla stessa Assemblea delle Nazioni Unite.
Lo status venne reiterato con nuove facoltà di intervento in Assemblea dopo che Arafat aveva
proclamato la nascita dello Stato di Palestina (Ris. 43/160 del 9.12.1988).
Lo sviluppo delle vicende palestino-israeliane e la rilevanza del problema nel contesto
delle attività dell'Assemblea generale indusse poi quest'ultima, con Risoluzione 52/250 del
27.7.1998, ad attribuire sempre alla OLP lo status rafforzato di “osservatore speciale”.
La situazione descritta non poteva evolversi verso l’ammissione dello Stato palestinese
all’ONU, attesa la netta opposizione degli Stati Uniti che, ove necessario, avrebbero formulato
il loro veto impedendo la raccomandazione del Consiglio di sicurezza, atto di imprescindibile
per la procedura di ammissione ex art.4.
In tale contesto è intuitivo che la Palestina, pur avendo presentato una formale domanda
di adesione il 23.11.2011, non poteva insistere nell'esame della stessa da parte del Consiglio
di sicurezza per l'inevitabile insuccesso. Di conseguenza, a seguito di negoziati diplomatici
intesi a verificare l'atteggiamento favorevole della maggior parte degli Stati membri delle
1
Come è noto, la Risoluzione n.181 (II) del 29.11. 1947 aveva posto termine alla situazione determinatasi dopo il
secondo conflitto mondiale ed aveva suddiviso i territori nella prospettiva di dar vita a due Stati: Palestina ed
Israele. La soluzione venne rifiutata dalle popolazioni arabe e con la Risoluzione194 (III) del 11.5.1948 venne
istituito lo Stato di Israele, successivamente ammesso all’ONUl’ 11.5.1949.
www.koreuropa.eu
9
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Nazioni Unite, la Palestina ha preferito non insistere sulla domanda di ammissione ed
accettare invece questa nuova qualifica di “Stato-non membro, osservatore”, una volta
accertato, che la maggioranza dell'Assemblea generale si sarebbe favorevolmente espressa.
Il risultato che si è realizzato con la votazione del 29 novembre ha visto approvare la
Risoluzione con 138 voti favorevoli, 9 contrari e 47 astensioni2. In tale risultato, a prescindere
dal dichiarato atteggiamento negativo di Israele, degli Stati Uniti e degli stretti alleati di questi
ultimi, sorprende il voto contrario della Repubblica Ceca che, come se non bastasse,
sottolinea ancor più la mancanza di una linea unitaria della politica estera dell’Unione
europea. Se la maggior parte degli Stati europei si erano sempre schierati per una posizione
astensionista, di equidistanza, la Francia e la Spagna, ai quali si è aggiunto nelle ultime ore
anche il nostro Paese, hanno manifestato il loro esplicito assenso alla Risoluzione
allontanandosi in tal modo dalla maggioranza astensionista dei Paesi europei.
Considerato che, a differenza delle situazioni precedentemente descritte, la Risoluzione
citata definisce la Palestina “Stato non membro”, ciò determina non poche conseguenze di
natura giuridica e politica. Sul piano del diritto, ma altrettanto della politica, è importante
sottolineare che con la suddetta delibera la Palestina viene qualificata come “Stato” ancorché
non membro delle Nazioni unite, ma pur sempre “Stato” a livello della comunità
internazionale. Ed è noto che l'esistenza o meno di uno Stato non dipende dalla pronuncia di
un ente o dal riconoscimento di un altro Stato bensì dal possesso di requisiti obiettivi; ma sul
piano politico, per altro non privo di conseguenze giuridiche come si dirà, è certo che il
riconoscimento di tale qualifica, implicito nella citata Risoluzione votata dalla maggioranza
degli Stati della comunità internazionale, corrisponde alla volontà espressa dalla stessa
maggioranza di trattare la Palestina non già come un soggetto della comunità internazionale
bensì come uno “Stato” della medesima.
Nell'ambito del conflitto arabo- israeliano, che dura ormai da oltre 60 anni, ed in
particolare nel contesto della prospettata politica “due popoli, due Stati”, il riconoscimento di
tale qualifica alla Palestina, ancorché negato da Israele, rappresenta un rilevante successo
2
Il voto negativo è stato manifestato da: Canada, Rep. Ceca, Israele, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau,
Panama e Stati Uniti.
www.koreuropa.eu
10
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
dell’attuale leadership palestinese Abu Mazen. Sottolineo questo aspetto perché non può
ignorarsi che nell'ambito del prospettato Stato palestinese sussistono due anime: la prima,
quella ufficiale della “Autorità palestinese” di Abu Mazen, disponibile alla sussistenza di due
Stati, l'altra, quella del movimento integralista di Hamas che ha da sempre negato la
possibilità non soltanto di riconoscere lo Stato di Israele, ma ancor più di ammetterne
l'esistenza.
La Risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite è certamente un successo
politico della rappresentanza ufficiale della Palestina ma non coinvolge la rilevante
componente (circa il 40% della popolazione) del movimento di Hamas. Occorrerà verificare
se in un prossimo futuro ciò potrà rafforzare la posizione di Abu Mazen ed agevolare il
dialogo interno con il movimento integralista. Nell'ambito dei rapporti con lo Stato d'Israele
non credo che alla delibera dell'Assemblea possano conseguire concreti effetti sui negoziati
più volte intrapresi e interrotti con lo Stato d'Israele. È facile immaginare che con
l'attribuzione dello status di “Stato-non membro, osservatore” la Palestina di Abu Mazen
cercherà di portare il negoziato con Israele nell'ambito della stessa Assemblea dell’ONU, ma è
altrettanto facile immaginare, specie dopo aver sentito le dichiarazioni dell'Ambasciatore di
Israele prima del voto dell'Assemblea generale, che lo Stato di Israele rimarrà stabile nella
posizione fin oggi mantenuta dal negoziato diretto fra palestinesi ed israeliani, nell’ambito di
un rapporto bilaterale, semmai agevolato con l'intermediazione di altri paesi, quali gli Stati
Uniti o taluni Stati europei, ma certamente non condotto in ambiti multilaterali nei quali le
posizioni israeliane sarebbero certamente soccombenti.
Sotto il profilo del diritto interno delle Nazioni Unite, a prescindere dalla valenza
politica del nuovo “status”, dallo stesso non deriva alcuna conseguenza concreta. È ovvio,
infatti, che la possibilità di intervento in sede assembleare, ampiamente riconosciuta
all'autorità della Palestina dalla Risoluzione del 1998, continuerà a produrre i suoi effetti
senza alcuna rilevanza del fatto che il nuovo soggetto sia “Stato-non membro”.
Diversamente, invece, sul piano del diritto internazionale e del diritto delle
organizzazioni internazionali il riconoscimento della qualifica di “Stato” se, come è noto, la
Palestina è stata già ammessa come membro dell'Unesco (dal 23.9.2011 con soli 14 voti
contrari) è implicito che oggi, assunta la qualifica di “Stato”, la Palestina potrà più
www.koreuropa.eu
11
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
agevolmente chiedere l'ammissione ad altre organizzazioni internazionali, ed in particolare
alla famiglia delle Nazioni Unite, per una maggiore visibilità della propria azione nel contesto
delle relazioni internazionali. Ed, infatti, come già nel caso dell’Unesco, pur essendo
necessaria una regolare procedura di ammissione, manca in ogni caso l’ostacolo del veto, ben
noto all’ONU.
Per le altre conseguenze “giuridiche” che derivano da questo esplicito riconoscimento
della qualità di “Stato” alla Palestina, a prescindere dalle consuete relazioni internazionali bi o
plurilaterali che continueranno a svolgersi con gli Stati che hanno riconosciuto la Palestina,
occorre anzitutto riferirsi allo Statuto della Corte Internazionale di Giustizia. Quest’ultimo,
come è noto, prevede l’adesione automatica da parte degli Stati membri dell’ONU, ma non
così per gli Stati non membri. Ai sensi dell’art.93 questi possono aderire allo Statuto pur
senza essere membri delle Nazioni Unite. Occorre però una Raccomandazione del Consiglio
di Sicurezza in tal senso e la Risoluzione dell’Assemblea generale. Pur se in astratto la
Palestina, essendo stata considerata uno “Stato” ancorché non membro, potrebbe proporre la
propria adesione allo Statuto della Corte, poiché tale procedimento è subordinato alla
Raccomandazione del Consiglio di Sicurezza e quindi alla decisione dell’Assemblea generale,
è facile immaginare che si ripresenterebbe il tema del veto, almeno da parte degli Stati Uniti,
che ha impedito fin oggi l’ammissione della Palestina all’ONU. Analogamente deve
concludersi per l’art. 4 par.3 dello Statuto nel quale si prevede che gli Stati che abbiano
aderito allo Statuto, ancorché non membri dell’ONU, possono partecipare alla procedura di
elezione dei giudici della Corte sulla base di un accordo speciale concluso sempre
subordinatamente ad una Raccomandazione del Consiglio di Sicurezza e ad una decisione
dell’Assemblea generale.
Al contrario, invece, la Palestina potrebbe aderire allo Statuto della Corte Penale
Internazionale giacché l’art.125, par.3, che prevede l’adesione degli Stati, non la subordina ad
alcun preventivo parere o raccomandazione. Una volta parte contraente dello Statuto della
Corte, a seguito dell’accennata adesione, la Palestina potrebbe segnalare al Procuratore della
Corte uno o più casi di violazione di crimini previsti dallo Statuto compiuti da militari o
www.koreuropa.eu
12
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
autorità dello Stato di Israele o altri3. Ed anche se tutti conosciamo limiti di intervento della
Corte penale internazionale, il fatto stesso che la Palestina possa denunciare diversi casi al
Procuratore è certamente una conseguenza assai rilevante sul piano del diritto internazionale e
delle relazioni palestino-israeliane.
Art.14 : “1. Uno Stato Parte può segnalare al Procuratore una situazione nella quale uno o più crimini di
competenza della Corte appaiono essere stati commessi, richiedendo al Procuratore di effettuare indagini su
questa situazione al fine di determinare se una o più persone particolari debbano essere accusate di tali crimini.
2. Lo Stato che sottopone il caso, indica per quanto possibile le circostanze rilevanti e presenta la
documentazione di supporto di cui dispone”.
Art. 15 “1. Il Procuratore può iniziare le indagini di propria iniziativa sulla base di informazioni relative ai
crimini di competenza della Corte”.
3
www.koreuropa.eu
13
Articoli
14
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
DALLE FIGURE DELITTUOSE ASSOCIATIVE ALLA
NOZIONE DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
Salvatore Aleo
Professore ordinario di Diritto penale nell’Università di Catania
ABSTRACT: La materia che noi qualifichiamo della criminalità organizzata è stata oggetto nella storia della
codificazione delle figure delittuose autonome associative ed è stata considerata, così come sempre la categoria
del reato politico, difforme rispetto ai principi definiti generali ordinari del diritto e della responsabilità penale:
in ragione, l’una, della particolare pericolosità costituita dalla forma associativa, l’altra, della particolare
entità dei beni tutelati esposti a rischio. La qualificazione di criminalità organizzata risale agli anni settanta del
secolo da poco trascorso, sia per la diffusione ed entità dei fenomeni sia per l’affermazione e la diffusione della
teoria e delle nozioni generali dell’organizzazione.
La materia dei delitti associativi, della responsabilità penale a titolo associativo, tradizionalmente considerata
carente di tassatività e determinatezza, viene riempita di contenuti e di significati, della definizione, della prova
e dell’argomentazione, quindi della motivazione dei provvedimenti, dall’attraversamento della teoria generale
dell’organizzazione, e quindi dalla epistemologia della complessità. L’organizzazione è peculiare, invero
costituisce la peculiarità, della stessa categoria del reato politico, che viene parimenti arricchita e pure
ridefinita dalla teoria dell’organizzazione
Oggi si pone il problema di un approccio di carattere (il più possibile) generale e sistematico, dal punto di vista
penalistico, alle forme e ai fenomeni di criminalità organizzata, sia comune che politica: un approccio che
consenta il dialogo tra i vari sistemi giuridici e istituzionali, dei diversi Stati, differenti in modo particolare in
queste materie. Questo approccio presuppone il collegamento delle nozioni generali dell’organizzazione (diffuse
nei più diversi ambiti e settori scientifici) con le nozioni penalistiche ordinarie, le une e le altre comuni e fruibili
fra le diverse culture
PAROLE CHIAVE: Criminalità organizzata transnazionale; Convenzione di Palermo
1. Le figure delittuose associative nella nostra cultura giuridica. Matrici,
costruzioni, giustificazioni e obiezioni
La problematica che oggi viene definita della criminalità organizzata è oggetto nella
codificazione delle figure delittuose autonome associative.
L’autonomia delle figure delittuose associative, di questa responsabilità penale rispetto
a quella dei delitti oggetto e scopo dell’associazione, ha avuto sempre giustificazione nella
funzione di anticipazione, ovvero retrocessione, della soglia della risposta e della
responsabilità penale, in confronto a quella ordinaria dei delitti, in considerazione della
particolare pericolosità sociale costituita dall’associazione, diretta verso finalità delittuose. In
questa giustificazione è implicita la deroga del principio generale di non punibilità del mero
accordo (di commettere un delitto) per la particolare pericolosità dell’accordo associativo.
Un’altra difformità del delitto associativo, rispetto ai principi generali del diritto e della
www.koreuropa.eu
15
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
responsabilità penale, riguarda le carenze di determinatezza (e quindi di tassatività) di tali
nozioni di responsabilità: che fanno ritenere le medesime inaccettabili negli ordinamenti
inglese e statunitense.
In fondo questa giustificazione è parallela di quella dei criteri di punibilità dei delitti
politici, in termini di deroga dei principi generali del diritto e della responsabilità penale
(punibilità dell’istigazione, dell’accordo e dell’associazione, carenze di determinatezza delle
nozioni del reato politico), in considerazione della particolare entità dei beni tutelati ed esposti
a rischio nella categoria dei delitti politici.
La problematica dei delitti associativi è fortemente intrecciata con quella dei delitti
politici: in primo luogo perché nella categoria dei delitti politici sono molte le figure
delittuose associative; in secondo luogo, perché le stesse nozioni di ordine pubblico, di pace
pubblica, di pubblica tranquillità, per indicare l’oggetto della tutela e dell’offesa nei delitti di
associazione per delinquere, riguardano l’insieme della società, la stessa dimensione del
contratto sociale, fino al punto che l’associazione mafiosa è considerata come un delitto
politico (che contraddice le condizioni d’ordine e di sicurezza della “polis”, ovvero quale
“istituzione” antistatale) e che nel nuovo codice penale francese l’associazione di malfattori è
stata inserita fra i «crimini e delitti contro la nazione, lo Stato e la pace pubblica».
Lungo la storia, nella codificazione, delle figure delittuose associative1, possono essere
fatte rilevare due tendenze diverse, contraddittorie.
Una tendenza, che possiamo definire di tipo sociologico, è quella di rilevazione e
definizione della figura delittuosa con riferimento diretto a un fenomeno di delittuosità
appreso nella sua dimensione sociale e storica concreta. Già l’associazione di malfattori fu
prevista nel codice napoleonico con riferimento diretto al fenomeno del banditismo, delle
bande armate e violente (degli chauffeurs) che aggredivano e depredavano i passeggeri. Si
pensi poi al modo in cui sono sorte nel nostro ordinamento le figure delittuose delle
associazioni sovversive (nel codice del 1930, con riferimento diretto e dichiarato ai
movimenti comunisti, socialisti ed anarchici), di associazione contrabbandiera (1896), di
associazione per la fabbricazione clandestina di spirito (1933), di ricostituzione del partito
1
Ho sviluppato questa analisi nel volume Sistema penale e criminalità organizzata. Le figure delittuose
associative, Milano, 1999, 3ª ed..
www.koreuropa.eu
16
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
fascista e di banda fascista e monarchica (1947), di associazione razzistica (1975), di
associazione per delinquere relativa ai delitti sugli stupefacenti (1975) e poi associazione
finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope (1990), di associazione terroristica
(1979-80) poi anche internazionale (2001, dopo le Torri Gemelle), di associazione di tipo
mafioso (1982), di associazioni segrete (1982, nella legge di scioglimento della loggia
massonica P2), di associazione per delinquere diretta a commettere i delitti di schiavitù e
tratta di persone (2003).
Siamo oltre la semplice, banale, osservazione che qualsiasi nozione giuridica esprime
un dato rilevato nella realtà sociale e storica concreta, perché qui le figure corrispondono alla
emersione e dimensione di un fenomeno sociale aggregato, in atto e in via di svolgimento (e
cioè non solo di una determinata tipologia, astratta, di singoli eventi): fenomeno che va
contrastato; donde la logica emergenziale.
Una diversa tendenza, che possiamo definire di tipo tecnico-giuridico, è stata quella alla
progressiva astrazione e generalizzazione, dall’originaria figura dell’associazione di malfattori
alla figura dell’associazione per delinquere nella sua dimensione attuale.
Nel codice penale napoleonico (1810)2, fra i «Crimini, e Delitti contro la pace
pubblica», e nella medesima sezione con i delitti di vagabondaggio e di mendicità, fu previsto
il crimine di «Associazione di malfattori». Art. 265: «Ogni associazione di malfattori, diretta
contro le persone o le proprietà, è un crimine contro la pace pubblica». Art. 266: Questo
crimine esiste col solo fatto dell’organizzazione delle bande o di corrispondenza fra esse ed i
loro capi o comandanti, o di convenzioni tendenti a render conto, o a distribuire o dividere il
prodotto dei misfatti». Art. 267: «Quando questo crimine non fosse stato accompagnato né
susseguito da alcun altro, gli autori, i direttori dell’associazione, ed i comandanti in capo o
sottocomandanti di queste bande, saranno puniti coi lavori forzati a tempo». Art. 268:
«Saranno punite colla reclusione tutte le altre persone incaricate di un servizio qualunque in
queste bande, e quelle che avranno scientemente e volontariamente somministrato alle bande
o alle loro divisioni delle armi, munizioni, istromenti atti al crimine, alloggio, ritirata o luogo
di unione».
2
Riporto dall’Edizione ufficiale del Codice dei delitti e delle pene pel Regno d’Italia, Milano, 1810.
www.koreuropa.eu
17
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Nel codice napoleonico, fra i «Crimini contro la sicurezza interna dello Stato», vi erano
quelli di attentato, cospirazione, bande armate.
Nel codice penale toscano (1853)3 non furono previste le bande armate e nel titolo «Dei
delitti contro gli averi altrui» fu posta la previsione dell’art. 421: «§ 1. Quando tre o più
persone hanno formato una società, per commettere delitti di furto, di estorsione, di pirateria,
di truffa, di baratteria marittima, o di frode, benché non ne abbiano ancora determinata la
specie, od incominciata l’esecuzione; gl’istigatori e i direttori son puniti con la carcere da tre
mesi a tre anni, e gli altri partecipanti soggiacciono alla medesima pena da un mese ad un
anno». «§ 2. E se i membri della detta società hanno, in sequela di essa, tentato o consumato
un delitto; la pena di questo concorre con quella stabilita dal § precedente, secondo le norme
degli art. 72 e seguenti». «§ 3. In tutti i casi, contemplati dai precedenti §§ 1 e 2, si applica
ancora la pena accessoria della sottoposizione alla vigilanza della polizia».
Rispetto alla previsione del codice napoleonico della “banda” dei “malfattori”, qui si
previde molto più astrattamente la “società” formata da “tre o più persone” per commettere i
delitti “contro gli averi altrui”, altresì ponendone in evidenza la dimensione preparatoria e
stabilendone pene assai modeste. Nel codice napoleonico era poi prevista precipuamente la
reclusione per “tutte le altre persone incaricate di un servizio qualunque in queste bande, e
quelle che avranno scientemente e volontariamente somministrato alle bande o alle loro
divisioni delle armi, munizioni, istromenti atti al crimine, alloggio, ritirata o luogo di unione”.
CARRARA, che – come vedremo – fu contrario ai delitti di bande armate, tracciò questa
teoria dell’associazione delittuosa, in funzione di anticipazione, della soglia della risposta e
della responsabilità penale, in deroga del principio di non punibilità del mero accordo di
commettere un delitto, in considerazione della particolare pericolosità sociale costituita
dall’associazione, diretta verso finalità delittuose; e definì (isolò) e richiese la prova del «fatto
dello associarsi».
Sottolineando le profonde differenze della previsione del codice toscano rispetto
all’associazione di malfattori dei codici napoleonico, parmense e sardo, CARRARA (nel 1884,
nella fase di elaborazione del codice ZANARDELLI) distinse proprio la nozione di
3
Codice penale pel Granducato di Toscana, Firenze, 1853.
www.koreuropa.eu
18
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
responsabilità per il «fatto della associazione»: «Sta bene che in tutte queste legislazioni il
solo fatto della associazione abbia una pena sua propria. Sta bene che si abbia sempre un
delitto in sé perfetto consumato col solo associarsi anche prima di qualunque altra lesione di
diritto. Sta bene che per ciascuno dei membri della associazione i quali commettano delitti
speciali, debba infliggersi la pena propria dello associarsi, oltre le pene speciali per gli altri
delitti ai quali abbia ciascuno di loro preso parte. Fin qui la somiglianza tra figura e figura può
illudere. Ma la illusione bisogna che si dilegui quando si vegga che a parallelo della pena del
carcere minacciata tra noi contro i capi, da tre mesi a tre anni, si trova nelle altre legislazioni
la galera fino a venti anni»4.
Dopo avere rilevato che «noi nella nostra Provincia non abbiamo tradizioni né di
briganti, né di bande, né di guerille, né di conventicole», CARRARA osservava che «Nella
figura dell’art. 421 [del codice toscano] la forza fisica oggettiva del malefizio tutta si
estrinseca nel vincolare a noi la volontà di altre due persone le quali hanno stipulato a favor
nostro un patto di commettere usurpazioni sulla proprietà altrui; di commetterle in beneficio
comune e di parteciparne il lucro con noi. Qui tutto finisce. La forza fisica oggettiva del reato
toscano di associazione a delinquere tutta si esaurisce in un effetto morale. Nessuno
abbandona il domicilio paterno. Non vi è provvista di armi; non vi è riunione di uomini in
attitudine minacciosa. È una società in partecipazione nella quale ciascuno opera
isolatamente, salvo le facilitazioni e i sussidi che l’occasione potrà richiedere. [...] È una
associazione che vuole essere punita eccezionalmente perchè la sua costituzione aggredirà i
diritti, possibilmente, di tutti i consociati, e non limitativamente i diritti di alcuni determinati
cittadini come nell’accordo ad un delitto determinato». (...) «Nelle bande, al contrario, vi è
ben altro apparato di forza fisica oggettiva. Si procede uniti in attitudine da soverchiare
chiunque s’incontra, da soverchiare qualunque resistenza; ed è questa la forza fisica oggettiva
del malefizio che lo denatura e lo rende enormemente più grave e più pauroso»5.
CARRARA, L’associazione a delinquere secondo l’abolito codice toscano, in MANCINI (dir.),Enciclopedia
giuridica italiana, Milano, 1884, p. 1117.
5
Ivi, pp. 1117-1118.
4
www.koreuropa.eu
19
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
In questa rappresentazione, la banda è costituita dalla effettività dell’attività sia
organizzativa che delittuosa, l’associazione dalla dimensione (organizzativa) meramente
intellettuale dello accordo (con una dimensione e almeno una proiezione di stabilità).
«Debbo dunque rettificare – continua CARRARA – ciò che dissi in critica dello illustre
PICCIONI al § 2094 del mio Programma. Il PICCIONI aveva scritto che il reato previsto dal
nostro art. 421 non era contemplato né dal codice francese, né dagli altri codici italiani; ed io
per un precipitato giudizio dissi equivocata questa opinione del mio maestro, perchè fui illuso
dalla somiglianza dei nomi. Migliori studi mi hanno disingannato. E dico ancora io col
venerato maestro che il delitto di associazione a delinquere è un delitto di creazione toscana,
e che quello che altrove (Francia, Parma, Sardegna) corre sotto il titolo di associazione di
malfattori è un titolo sostanzialmente differente nelle forze che lo costituiscono; è un titolo di
antichissima data, ma che non ha ragione d’esistere come titolo speciale bastando all’uopo i
titoli di violenza pubblica, di furto violento, ed altri derivanti dalla specialità dei diritti
aggrediti i quali vengono per tal guisa a rientrare tutti nelle rispettive nozioni scientifiche
aggravabili per le circostanze tutte soggettive od oggettive che ricorrono nei singoli casi». In
conclusione, secondo CARRARA, «La società civile ha la sua ragione di esistere nella necessità
della difesa dei diritti di tutti. Una società che nel suo seno voglia costituirsi col fine
determinato di offendere i diritti di tutti, è in perfetto antagonismo con la società civile, e
legittimamente questa ne decreta la repressione, perché nel fatto solo della sua costituzione
trova una forza fisica oggettiva sufficiente a renderne legittima la repressione. [...] Il codice
toscano [...] in quegli atti preparatori non ha già punito un tentativo, ma ha punito un delitto
consumato e perfetto»6.
Sembra utile riportare le considerazioni con cui CARRARA aveva contestato la
costruzione del delitto autonomo “politico” di banda armata, in seno alla Commissione del
1876 per l’elaborazione del codice penale dell’Italia unita: «Non possiamo consentire nelle
disposizioni che si riferiscono alle bande. Il codice penale francese, per quanto è a nostra
memoria, fu il primo a farne una speciale figura di delitto politico, staccandola senza bisogno
dal genere suo nel quale era naturalmente compresa. Ma l’Italia non è Francia né ha la Vandea
6
Ivi, p. 1118.
www.koreuropa.eu
20
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
dalla quale guardarsi. E se per avventura si rivolta il pensiero alle provincie meridionali e
sicule non fu esatto il giudizio. Il brigantaggio in quelle provincie si metta pure la maschera
che crede possa più giovare all’equivoco. Non è un reato politico. Sotto la maschera del
brigante vi è l’uomo, e l’uomo brigante è un volgare malfattore. Del resto anche le
associazioni dei briganti in quanto volessero e potessero preordinarsi a scopo politico
necessariamente rientrerebbero nella nozione generale dell’attentato e ne esaurirebbero gli
estremi»7.
È noto, altresì, come CARRARA abbia omesso di illustrare, nel suo Programma del corso
di diritto criminale, la categoria dei delitti politici, in quanto non riducibili alla «tela di
principii assoluti e costanti, attorno ai quali come carne sulle ossa si avvolge la dottrina del
giure punitivo», e definiti, piuttosto che dalle «verità filosofiche», appunto razionali assolute e
universali, dalla «prevalenza dei partiti e delle forze», ovvero anche dalle «sorti di una
battaglia», cioè dalla contingenza e mutevolezza della storia e delle vicende politiche. «Perchè
non espongo questa classe» è proprio il titolo di quest’ultimo capitolo del Programma8.
CARLO FIORE, nel riferire le posizioni di CARRARA in tema di delitti politici ed
associativi, ha osservato che «In effetti, sia nella previsione delle varie ipotesi della
cospirazione politica, sia nell’incriminazione della condotta degli associati per delinquere, lo
Stato liberale operava in via di deroga ad un altro dei sacri principi del diritto penale
ottocentesco [oltre a quello, cioè, di «tassatività» della previsione legale], vale a dire la regola
per cui è assoggettabile a pena solo quell’atto che costituisce un “principio di esecuzione” del
reato, e non un mero atto di preparazione»9.
Il «commencement d’exécution», va ricordato, fu il criterio adottato nella definizione del
tentativo del codice napoleonico, poi seguito negli altri codici, e da cui nacque la distinzione
tradizionale fra atti esecutivi punibili e atti preparatori in generale non punibili. Questa
impostazione, e questo criterio, vanno considerati prefigurati alla condotta del singolo
individuo, che in generale nella fase esecutiva diventa riconoscibile nella direzione delittuosa
7
CARRARA, Osservazioni e proposte delle sottocommissioni, Roma, 1877, pp. 9-10, riportato da INSOLERA,
L’associazione per delinquere, Padova, 1983, pp. 22-23.
8
CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. VII, 1871, 4ª Prato, 1883, pp. 639 ss.
9
FIORE, Il controllo della criminalità organizzata nello Stato liberale: strumenti legislativi e atteggiamenti della
cultura giuridica, in Studi storici, 1988, p. 423.
www.koreuropa.eu
21
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
e altresì è più scarsamente suscettibile del cambiamento della destinazione. La diversa
impostazione, e i diversi criteri di definizione, del tentativo del codice ROCCO vanno
considerati anche alla stregua della condotta plurisoggettiva: che dalla pluralità e sinergia
delle diverse condotte è più facilmente riconoscibile anche prima della fase esecutiva ed è più
scarsamente suscettibile del mutamento della destinazione. Difatti, solo nel codice ROCCO è la
previsione, dell’art. 115, di esclusione della punibilità per il mero fatto intellettuale
dell’accordo di commettere un reato: come limite formale inferiore, cioè, alla punibilità
definita a titolo di tentativo.
Al contrario, in confronto alla costruzione del tentativo secondo il criterio di “principio
di esecuzione” si è posto poi il problema di costruire la disciplina del complotto e della
cospirazione: il complotto e la cospirazione10 dei delitti politici nei codici francese, tedesco,
sardo-italiano e ZANARDELLI, il complotto di omicidio nel codice tedesco, la conspiracy dei
reati di maggiore gravità nel sistema anglosassone.
Merita di essere ricordato come nella Riforma della legislazione criminale toscana del
1876 il granduca Pietro Leopoldo, di fronte alla vaghezza dei delitti di lesa maestà, e
nell’impossibilità di definire questa categoria con sufficiente determinatezza, avesse deciso
radicalmente di abolirla. La disposizione dell’art. LXII della riforma leopoldina era appunto:
«Ordiniamo che siano tolte e cassate tutte le leggi che con abusiva estensione hanno costituito
e moltiplicato i delitti di lesa maestà come provenienti la maggior parte dal dispotismo
dell’Impero Romano, e non tollerabili in veruna ben regolata società. Ed a togliere un tale
abuso, abolito ogni special titolo di delitto di così detta lesa maestà, abolite come già si è
prescritto generalmente di sopra all’art. XXVII tutte le prove privilegiate anco in materia di
simili delitti ed abolita affatto la criminalità in tutte quelle azioni, che in sé non delittuose, lo
sono diventate in questa materia solo per la legge, tutte le altre dovranno considerarsi come
delitti ordinari nella loro classe rispettiva, più o meno qualificati secondo le circostanze, cioè
Sono termini corrispondenti: il termine complot del codice napoleonico fu tradotto cospirazione nell’edizione
ufficiale per il Regno d’Italia, cit., e così sono rimasti rispettivamente nella cultura francese e nella nostra.
Komplott è il termine del codice tedesco.
10
www.koreuropa.eu
22
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
furti, violenze, ecc. e come tali castigarsi non considerata la gravezza maggiore aggiuntavi
dalla legge col pretesto di lesa maestà»11. Questa esperienza è rimasta unica.
La tendenza alla generalizzazione della figura dell’associazione per delinquere ebbe un
passaggio fondamentale, di carattere sistematico, nel codice ZANARDELLI. La previsione
«Dell’associazione per delinquere» fu collocata nel titolo «Dei delitti contro l’ordine
pubblico».
Secondo la formulazione dell’art. 248, comma primo, «Quando cinque o più persone si
associano per commettere delitti contro l’amministrazione della giustizia, o la fede pubblica, o
l’incolumità pubblica, o il buon costume e l’ordine delle famiglie, o contro la persona o la
proprietà, ciascuna di esse è punita, per il solo fatto dell’associazione, con la reclusione da
uno a cinque anni».
Erano così indicati tutti i titoli del libro secondo del codice, nell’ordine in cui erano
previsti nel codice (compresi i delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie); tranne:
a) i delitti contro la sicurezza dello Stato, per i quali erano previste le figure associative
specifiche, corrispondenti alle nostre attuali di cospirazione politica e di banda armata, fra le
disposizioni comuni a quel titolo; b) i delitti contro la pubblica amministrazione (perché già
allora i legislatori ritenevano che i pubblici amministratori non possano costituire
un’associazione per delinquere, ovvero siano esenti dalla configurazione di tale delitto?); c)
gli stessi contro l’ordine pubblico, per i quali era prevista una figura delittuosa associativa
specifica (art. 251), da cui poi ha tratto origine la figura delle associazioni sovversive dell’art.
270 del codice ROCCO.
Secondo gli altri commi dell’art. 248, «Se gli associati scorrano le campagne o le
pubbliche vie, e se due o più di essi portino armi o le tengano in luogo di deposito, la pena è
della reclusione da tre a dieci anni». «Se vi siano promotori o capi dell’associazione, la pena
per essi è della reclusione da tre a otto anni, nel caso indicato nella prima parte del presente
articolo, e da cinque a dodici anni, nel caso indicato nel precedente capoverso». «Alle pene
stabilite nel presente articolo è sempre aggiunta la sottoposizione alla vigilanza speciale
dell’Autorità di pubblica sicurezza».
11
Il testo di questa disposizione è riportato da PADOVANI, Bene giuridico e delitti politici. Contributo alla critica
ed alla riforma del titolo I, libro II, c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, p. 7.
www.koreuropa.eu
23
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
La previsione dell’art. 249 era che «Chiunque, fuori dei casi preveduti nell’articolo 64
[la disciplina generale «Del concorso di più persone in uno stesso reato», e dunque fuori dei
casi che definiamo di concorso eventuale o esterno], dà rifugio o assistenza, o somministra
vettovaglie agli associati, o ad alcuno tra essi, è punito con la reclusione sino ad un anno».
«Va esente da pena colui che somministri vitto o dia rifugio ad un prossimo congiunto».
Nell’art. 250 era prevista la circostanza aggravante che «Per i delitti commessi dagli
associati, o da alcuno di essi, nel tempo o per occasione dell’associazione, la pena risultante
dall’applicazione dell’articolo 77 [cumulo materiale per le ipotesi di concorso materiale,
anche nei casi della nostra continuazione] è aumentata da un sesto ad un terzo».
Questa circostanza aggravante era stata aggiunta nel codice sardo alla disciplina
dell’associazione di malfattori del codice napoleonico.
Va fatto rilevare, in proposito, come nella storia delle figure delittuose associative le
circostanze aggravanti dei delitti commessi da persone che fanno parte dell’associazione
delittuosa o conformemente alle finalità di questa siano state ripetutamente inserite ed
eliminate, a dimostrazione della difficoltà, e problematicità, della definizione dei contenuti, e
dei limiti, delle relative nozioni di responsabilità.
La tendenza alla astrazione e generalizzazione della figura dell’associazione per
delinquere ebbe compimento (termine) nella previsione dell’art. 416 del codice Rocco,
secondo cui «tre o più persone si associano per commettere più delitti», dunque di qualsiasi
tipo.
Secondo MANZINI (che fu fra i compilatori del codice), «“Più delitti” sono anche due
soli» ed «anche quando, dato il modo come gli associati concertarono o eseguirono i fatti, si
debba applicare la norma sul reato continuato (art. 81 capov.). Non così allorché un delitto è
considerato elemento costitutivo o circostanza aggravante d’altro delitto (reato complesso: art.
84), perché in tal caso la unificazione giuridica corrisponde all’unità di fatto. Perciò, se, ad
es., un’associazione si propone di commettere una sola estorsione, sarebbe evidentemente
assurdo ammettere che il suo scopo sia stato di commettere più delitti solo perché
www.koreuropa.eu
24
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
nell’estorsione (art. 629) è compresa, come elemento costitutivo, la violenza privata (art.
610)»12.
Da un canto, può rilevarsi come la figura (di parte speciale) dell’associazione per
delinquere abbia carattere generalissimo: riguarda i delitti (cosiddetti “scopo”) di qualsiasi
possibile tipologia ed entità.
Dal punto di vista tecnico, va fatto rilevare, anche, come nei codici ZANARDELLI e
ROCCO le figure di cospirazione politica e di banda armata siano state previste fra le
disposizioni generali e comuni al titolo dei delitti contro lo Stato.
D’altro canto, può pure osservarsi che quando fu compiuto tale processo (che abbiamo
definito di tipo tecnico-giuridico) di astrazione e generalizzazione della figura
dell’associazione per delinquere, ha avuto anche inizio la legislazione speciale, ovvero la
frammentazione legislativa, in questa materia: per la ovvia esigenza di articolazione e
differenziazione della materia in relazione alle tipologie dei fenomeni e dei delitti; perché
nella stessa unica figura dell’associazione per delinquere è difficile ricomprendere puramente
e semplicemente tanto i ladri di autoradio quanto i grandi mafiosi o trafficanti di droga.
Oggi abbiamo numerosissime figure delittuose associative autonome, distinte dai
singoli delitti che costituiscono l’attività delle associazioni, nonché le circostanze aggravanti
di tali delitti realizzati conformemente alle finalità dell’associazione. Si pone, ovviamente, un
problema di sistemazione, di sistematizzazione, e necessariamente di semplificazione.
Dietro la contraddizione fin qui rilevata sta il fatto che la problematica
dell’associazione, ovvero dell’organizzazione, delittuosa, ha una dimensione di carattere
generale, e che può quindi essere costruita come di parte generale del diritto penale, ed una di
carattere speciale (secondo il tipo di fenomeni e di delitti) ovvero comunque di parte speciale
del diritto penale.
Quella appena formulata può essere considerata un’indicazione per la definizione
penalistica della problematica della criminalità organizzata, e quindi per la sua
sistematizzazione.
12
MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. VI, Torino, 1946, p. 176.
www.koreuropa.eu
25
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Quando fu introdotta nel nostro ordinamento la figura dell’art. 416 bis c.p.,
dell’associazione di tipo mafioso, da un canto, vennero rivolte due obiezioni: che la mafia è
una nozione sociologica e non è una nozione giuridica; che il giudice non deve lottare contro
nessuno, deve applicare la legge. D’altro canto, venne pure ritenuto, tanto dai fautori che dai
detrattori, che la figura serviva anche a superare ovvero semplificare problemi probatori
(aveva e poteva avere, cioè, una funzione di semplificazione probatoria) in confronto alla
figura dell’art. 416 c.p., cioè della comune associazione per delinquere.
Quest’ultima osservazione dev’essere contraddetta, sia in linea di principio che come
indicazione interpretativa. La figura dell’associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis
c.p. è in rapporto di specialità con quella dell’art. 416 c.p., nel senso che ogni associazione di
tipo mafioso è un’associazione per delinquere, mentre non è vero il contrario, un’associazione
per delinquere può bene non essere di tipo mafioso. Elemento di specialità è il metodo
mafioso, che qualifica e anzi presuppone l’attività delittuosa dell’associazione13. In generale,
sembra difficilmente contestabile che la prova e l’argomentazione dell’associazione di tipo
mafioso richiedano un complesso di elementi più corposo in confronto all’associazione per
delinquere. Il fatto che in concreto si possa dimostrare l’associazione mafiosa a prescindere
dalla correlazione con un’attività delittuosa mi pare in ogni caso contrario al sistema.
La mafia è certamente una nozione sociologica, ed è anche una nozione giuridica,
secondo la definizione contenuta nel terzo comma dell’art. 416 bis c.p. Sarebbe, a mio avviso,
superficiale, e non servirebbe a contraddire l’obiezione riferita sopra, la considerazione che
ogni nozione giuridica diventa tale in quanto sia stata precedentemente rilevata nella società.
La figura dell’associazione di tipo mafioso è descritta, infatti, in relazione al fenomeno
mafioso nella sua dimensione sociale e storica concreta: come dice anche la precisazione
dell’ultimo comma dell’art. 416 bis, che «Le disposizioni del presente articolo si applicano
L’utilizzazione del metodo mafioso per controllare l’economia ovvero le competizioni elettorali (anziché cioè
per commettere delitti, della formula definitoria dell’art. 416 bis comma terzo c.p.), da un canto, costituisce e
quindi qualifica ulteriormente la realizzazione delle figure delittuose di estorsione (consumata o tentata), d’altro
canto, presuppone la storia delittuosa (intrinseca) dell’associazione, costituita da delitti. L’associazione, in
funzione di un programma delittuoso, di soggetti aventi storie criminali proprie anteriori, in concreto, non
potrebbe costituire la forza di intimidazione adatta al controllo del territorio; costituirebbe la figura della comune
associazione per delinquere; costituirebbe la figura dell’associazione di tipo mafioso solo nella effettività dello
avvalersi della forza di intimidazione, e dunque nella realizzazione di delitti.
13
www.koreuropa.eu
26
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
anche alla camorra, alla ’ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente
denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo
perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso». Il riferimento
alle associazioni straniere è stato aggiunto con l’art. 11 lett. b-bis n. 4 d.l. 23.5.2008 n. 92,
conv. con modif. in l. 24.7.2008 n. 125; quello alla ’ndrangheta è stato aggiunto con l’art. 6
d.l. 4.2.2010 n. 4, conv. con modif. in l. 31.3.2010 n. 50.
Può dirsi che la nozione di organizzazione sia una nozione eminentemente sociologica,
perché riguarda una dinamica, un processo sociale in corso, nel corso del suo svolgimento. E
queste figure servono a cogliere la relazione del singolo con la dimensione organizzativa
dell’associazione delittuosa. In tal senso, può dirsi anche, sono figure senza (la descrizione
della) “fattispecie”: il modello normativo si riduce alla (necessaria ricostruzione della)
relazione, eminentemente di “partecipazione”, del singolo con la struttura dell’associazione.
Come abbiamo visto, tutte e comunque la stragrande maggioranza delle figure
delittuose associative hanno una dimensione marcatamente sociologica, a cominciare
dall’associazione di malfattori del codice napoleonico.
Vedremo come sia parallela e connessa a questa la problematica della “lotta” ovvero del
“contrasto” contro le forme e i fenomeni di criminalità organizzata: nel mentre le leggi stesse
sono state vieppiù intitolate, appunto, con i riferimenti alla lotta ovvero al contrasto contro le
organizzazioni criminali e le forme e i fenomeni di criminalità organizzata.
Vanno attraversate le osservazioni di FERRAJOLI su i «Lineamenti del diritto penale
speciale o d’eccezione» e «La mutazione sostanzialistica del modello di legalità penale»: «La
prima e più rilevante alterazione del modello classico di legalità penale nei processi
dell’emergenza consiste nella mutazione sostanzialistica – indotta dal paradigma del
“nemico” – di tutti e tre i momenti della tecnica punitiva» (vale a dire la definizione del
delitto, il processo, l’esecuzione della pena). «Questa mutazione colpisce innanzitutto la
configurazione della fattispecie punibile. E si esprime in un’accentuata personalizzazione del
diritto penale dell’emergenza, che è assai più un diritto penale del reo che un diritto penale del
reato. Le figure di qualificazione penale che hanno consentito questa personalizzazione sono
molte e svariate: i delitti associativi – banda armata, associazione sovversiva, insurrezione
armata contro i poteri dello stato, associazione di stampo mafioso o camorristico –, la
www.koreuropa.eu
27
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
categoria del concorso morale e l’aggravante della “finalità di terrorismo” quale disvalore
soggettivo dell’attività delittuosa: formule elastiche e polisense che si sono prestate, per la
loro indeterminatezza empirica e le loro connotazioni soggettivistiche e valutative, ad essere
usate come scatole vuote e a dare corpo a ipotesi sociologiche o a teoremi politicostoriografici, elaborati a partire dalla personalità degli imputati o da interpretazioni
dietrologiche e complottistiche del fenomeno terroristico o mafioso. Il fatto, in queste figure
normative, sfuma nel percorso di vita o nella collocazione politica o ambientale dell’imputato,
ed è come tale tanto poco verificabile dall’accusa quanto poco confutabile dalla difesa. E si
configura tendenzialmente come un reato di status, più che come un reato di azione e di
evento, identificabile, anziché con prove, con valutazioni riferite alla soggettività eversiva o
sostanzialmente antigiuridica del suo autore. Ne è risultato un modello di antigiuridicità
sostanziale anziché formale o convenzionale, che sollecita indagini sui rei anziché sui reati, e
che corrisponde a una vecchia e mai spenta tentazione totalitaria: la concezione ontologica –
etica o naturalistica – del reato come male quiapeccatum e non solo quiaprohibitum, e l’idea
che si debba punire non per quel che si è fatto ma per quel che si è»14.
Il collegamento di FERRAJOLI dei delitti associativi, e segnatamente di quello di
associazione mafiosa, alla categoria del delitto politico può essere considerato simmetrico
della qualificazione dei fatti di mafia, di camorra e delle altre organizzazioni similari quali
«fatti eversivi dell’ordine costituzionale», nella legge istitutiva della Commissione
parlamentare antimafia della XII legislatura (art. 3, comma secondo, l. 30.6.1994 n. 430),
quella presieduta da Violante.
«Il delitto politico, come stabilì due secoli fa l’art. 62 del codice penale di PIETRO
LEOPOLDO, ove non equivalga a un delitto comune, non si giustifica come speciale figura
criminosa. Ho già detto [...] della possibilità di sopprimere o al più di ricondurre a delitti
comuni, commessi o tentati, molti degli attuali delitti contro la personalità dello stato: i
vilipendi, gli attentati, i delitti associativi e di cospirazione. Aggiungo ora che non c’è ragione
per non includere tra i delitti comuni gli altri pochi delitti politici che, al pari dei peculati o
delle corruzioni, ledono concreti beni giuridici di carattere pubblico: come il sabotaggio, lo
14
FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989, 2ª ed., 1990, pp. 858-859.
www.koreuropa.eu
28
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
spionaggio, l’usurpazione o l’impedimento di pubbliche funzioni. Quanto ai rimanenti delitti
politici, nella misura in cui hanno per oggetto ambigue ed astratte entità come “la personalità”
o l’“interesse politico” dello stato, non sono cosa diversa dagli antichi delitti di lesa maestà e
non se ne giustifica, ma ne va anzi esclusa, la punizione. Questa inconsistenza e vaghezza del
loro oggetto giuridico rimanda infatti inevitabilmente alla figura del tipo d’autore. E
comporta, come l’esperienza insegna, una distorsione sostanzialistica e soggettivistica delle
fattispecie, una perversione inquisitoria del processo penale e una connotazione del reo come
nemico che deve restare assolutamente estranea allo stato di diritto».
«Ne consegue che per il diritto non devono esistere delinquenti politici ma solo
delinquenti comuni: nel duplice senso che nessun fatto non contemplato come delitto comune
dev’essere penalizzato in ragione esclusiva del suo carattere “oggettivamente politico”, e
nessun delitto dev’essere trattato diversamente dagli altri in ragione del carattere
“soggettivamente politico” delle sue motivazioni. Sotto il primo profilo, ogni penalizzazione a
titolo di delitto “politico” si risolve nella tutela eccessivamente anticipata di figure di pericolo
astratto o presunto in contrasto con il principio di offensività, o anche, come accade nei delitti
associativi, in una duplicazione della responsabilità penale già fatta valere per delitti comuni,
come la detenzione o il porto di armi, gli atti di violenza commessi o tentati oppure il
concorso nella loro commissione o progettazione. Sotto il secondo profilo è ingiustificata e
pericolosamente arbitraria qualunque forma di discriminazione sulla base del tipo d’autore o
delle motivazioni del fatto. Ciò non vuol dire, ovviamente, che la personalità dell’autore e le
sue motivazioni politiche non debbano avere rilevanza sul piano dell’equità, cioè ai fini della
comprensione della specificità del fatto e della valutazione della sua gravità. E neppure
esclude che alle motivazioni politiche del delitto sia data rilevanza ai fini del divieto di
estradizione o di quei provvedimenti per loro natura straordinari che sono le amnistie e gli
indulti. Ciò che si esclude è solo che la natura “politica” del delitto possa giustificare la
configurazione di fattispecie penali speciali, o alterazioni legali della misura della pena o
peggio procedure speciali o eccezionali.
Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le altre figure di delitti e di delinquenti
speciali, parimenti riconducibili a complessive fenomenologie criminali – il brigantaggio, la
mafia, la camorra – e per di più neppure caratterizzate da una specificità in astratto dei beni
www.koreuropa.eu
29
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
protetti. Anche l’espulsione dal diritto penale di simili tipologie d’autore risponde a una
garanzia di certezza contro le perversioni sostanzialistiche e inquisitorie, nonché ad
un’elementare esigenza di uguaglianza. Si tratta infatti di figure informate al paradigma
costitutivo, e quindi contrarie al carattere esclusivamente regolativo che devono avere le
norme penali. Naturalmente, anche in questi casi la natura mafiosa o camorristica di un delitto
può essere considerata come un connotato particolarmente grave in sede di comprensione e di
valutazione equitativa del fatto. Ma neppure in questi casi si giustificano figure di reato
speciale, come è tipicamente, nel nostro ordinamento, l’associazione di tipo mafioso prevista
dall’art. 416 bis del codice penale in luogo della normale associazione a delinquere. Anche la
mafia, come il terrorismo, deve e può ben essere fronteggiata con i mezzi penali ordinari»15.
2. I diversi profili funzionali concreti delle figure delittuose associative
La giustificazione tradizionale della funzione delle figure delittuose associative e la
corrispondente ricostruzione del contenuto autonomo di questa forma di responsabilità penale
nell’anticipazione della soglia della risposta e responsabilità penale, in confronto a quella
ordinaria
dei
delitti,
in
considerazione
della
particolare
pericolosità
costituita
dall’associazione, diretta verso finalità di tipo delittuoso, lascia perplessi, appare in buona
misura contraddetta dalla realtà, ovvero abbastanza marginale in confronto alla realtà, sia
processuale, sia criminologia.
In concreto, infatti, per lo più, le associazioni delittuose vengono dedotte, anzi, ex post,
dalla ricostruzione del complesso di un’attività delittuosa, di una pluralità di delitti, e dal
collegamento di questi con un insieme di persone che ne è considerato – e che ne deve essere
dimostrato – struttura organizzativa. Anche per ciò che riguarda la posizione del singolo
nell’associazione, questa viene ricostruita e argomentata, pure indipendentemente da
comportamenti in sé delittuosi, comunque in correlazione con il complesso dell’attività
delittuosa dell’associazione, sia pregressa sia in via di svolgimento.
15
Ivi, pp. 871-872.
www.koreuropa.eu
30
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
L’obiezione precedente ha natura eminentemente processuale. Ma una teoria penalistica
che non regge il confronto con la dimensione concreta processuale non può essere certo
condivisa e accettata.
L’identica obiezione vale, però, sul piano criminologico. In concreto, infatti, le
associazioni delittuose nascono proprio attraverso (durante e mediante) le attività delittuose,
nella, e dalla, realizzazione dei delitti, in concorso di persone, delle stesse persone, dalla
divisione ed eventuale riutilizzazione dei proventi dei delitti, dalla affermazione di figure
personali di vertice, dal coinvolgimento di soggetti con esperienza di attività delittuose.
È estremamente improbabile che un’associazione delittuosa nasca dall’accordo fra
soggetti incensurati per svolgere una futura attività delittuosa: nasce comunque dall’incontro
fra delinquenti in mezzo allo (durante lo) svolgimento di delitti, di attività delittuose, e si
evolve mediante nuovi progetti e il coinvolgimento di nuovi soggetti.
La giustificazione delle figure delittuose autonome associative secondo la funzione
cosiddetta di anticipazione è contraddetta addirittura formalmente dalla definizione
dell’associazione di tipo mafioso, dell’art. 416 bis comma terzo c.p.: «L’associazione è di tipo
mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del
vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per
commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il
controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o
per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od
ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di
consultazioni elettorali».
Nella norma è descritta l’attività tipica delle associazioni di tipo mafioso. Questa attività
non può essere configurata come lo scopo (futuro) dell’associazione, la quale ha dunque
dimensione (delittuosa) autonoma anteriore. Il dato di fatto di avvalersi della forza di
intimidazione e della condizione di assoggettamento e di omertà (il metodo mafioso), che è
definitorio dell’associazione di tipo mafioso, qualifica e anzi presuppone l’attività delittuosa
dell’associazione, con caratteristiche e diffusione tali da aver determinato la condizione di
condizionamento ambientale e di controllo del territorio di cui appunto gli associati si
avvalgono.
www.koreuropa.eu
31
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Quando (L’associazione è di tipo mafioso quando...) è avverbio di tempo. Anche
secondo la Corte di cassazione, l’associazione i cui componenti debbano esercitare la forza
d’intimidazione con condotte minacciose per realizzare delitti di estorsione costituisce
un’associazione per delinquere, non un’associazione di tipo mafioso16.
Proprio nel senso precedente, l’associazione di tipo mafioso è stata definita
un’associazione «che delinque»17, il risultato della trasformazione ovvero evoluzione di fatto
della comune associazione per delinquere18. Possiamo dire che l’associazione di tipo mafioso
è nata come associazione per delinquere ed è diventata di tipo mafioso (attraverso l’attività e
la fama criminale). SPAGNOLO ha pure definito, per questo, l’associazione di tipo mafioso
come un delitto associativo a struttura mista o complessa, in confronto ai delitti meramente
associativi o associativi puri19.
L’obiezione qui svolta, all’analisi della funzione di anticipazione delle figure delittuose
associative (ovvero della funzione delle figure delittuose associative come di anticipazione
della soglia della risposta e della responsabilità penale in confronto a quella ordinaria dei
delitti e del diritto penale), incontra un limite, per ciò che riguarda il processo di formazione
reale delle figure di carattere politico: le associazioni di carattere politico nascono infatti da
una dimensione comunque intellettuale; e tuttavia le stesse associazioni di carattere politico
assumono dimensione propriamente criminale, e rilevanza penale concreta, solo nella, e
attraverso la, realizzazione di delitti. Così, addirittura, la nostra obiezione trova conferma.
Non si vuol dire, ovviamente, che l’associazione delittuosa, ovvero la partecipazione
all’associazione delittuosa, non possa consistere nella dimensione meramente intellettuale
dell’accordo. Si vuol dire che questa dimensione non può essere considerata né caratteristica
né prevalente nella realtà concreta. E più avanti si cercherà comunque di definire e affrontare
il problema così indicato in un modo (a nostro avviso) più scientifico: alla stregua della teoria
generale dell’organizzazione.
16
Cass. I, ud. 30.1.1990, dep. 21.3.1990, Abbatista, in Cass. pen., 1990, p. 1709, n. 1345.
SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 5ª ed. 1997, p. 51.
18
TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 1995, 2ª ed. aggiorn., 2008, pp. 127-128.
19
SPAGNOLO, op. cit., pp. 64 ss.; e già Dai reati meramente associativi ai reati a struttura mista, in AA.VV.,
Beni e tecniche della tutela penale. Materiali per la riforma del codice, a cura del CRS, con la presentazione di
RAMAT, Milano, 1987, pp. 156 ss..
17
www.koreuropa.eu
32
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Non si può contestare che la partecipazione all’associazione delittuosa sia una figura
delittuosa a consumazione anticipata. Ciò che si vuole sottolineare, qui, è che la funzione
concreta prevalente delle figure delittuose autonome associative non può essere indicata come
di anticipazione della risposta penale e della soglia della responsabilità rispetto al compimento
dei delitti.
La spiegazione (qui criticata) nei termini dell’anticipazione, in considerazione della
particolare pericolosità costituita dall’associazione, costituisce, fra l’altro, una giustificazione
della eccezionalità delle pratiche, nonché un alibi del reale abbassamento del livello
probatorio, dell’argomentazione e della motivazione, quindi delle garanzie.
Va fatto rilevare, altresì, come oggi la dimensione del delitto individuale sia divenuta
davvero marginale, dal punto di vista criminologico e della rilevanza ovvero della funzione
penalistica. E così il rapporto fra normale ed eccezionale, nel confronto fra delittuosità
individuale e criminalità organizzata, precipuamente in ordine alla funzione penale, si è
addirittura rovesciato.
Nel sistema anglosassone, abbiamo fatto cenno, è respinta la forma della responsabilità
penale per la partecipazione o appartenenza ad un’associazione ovvero organizzazione, per la
carenza di determinatezza: è considerata dalla Corte suprema statunitense incompatibile con i
principi costituzionali. Può dirsi, per certi versi, che il problema cacciato dalla porta gli rientra
dalla finestra: con la dilatazione ovvero diluizione dei nessi di responsabilità dei delitti
avvenuti nel contesto di una organizzazione a carico dei capi ovvero organizzatori della
stessa, e anche sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori della giustizia.
La figura della conspiracy è (formalmente) alternativa di anticipazione del tentativo, in
relazione a un delitto determinato, di una certa gravità, a dimensione o in un contesto
organizzativo. Concepita e teorizzata in funzione di anticipazione della soglia del tentativo20,
la figura della conspiracy non ha mai avuto in concreto questa funzione nella giurisprudenza
inglese e americana21.
Per questo vale la “proximity rule”, il criterio degli atti pericolosamente prossimi alla consumazione.
Cfr. GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy. Tipicità e stretta legalità nell’analisi comparata, Padova,
1993. Ivi, p. 1: «Prestando fede alle descrizioni offerte dai giuristi dell’area di common law, la conspiracy risulta
destinata a punire in via generale il mero accordo per la commissione di un fatto di reato, ma non ha mai svolto
né in Inghilterra né negli Stati Uniti una simile funzione di anticipazione della tutela penale. A dispetto della
20
21
www.koreuropa.eu
33
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Configurata, addirittura, unitamente con gli estremi del tentativo, come del consumato,
la conspiracy ha avuto in concreto funzioni affatto diverse: a) di aggravamento della
responsabilità, per i fatti realizzati a dimensione ovvero in contesti organizzativi; b) di
strumento del patteggiamento, di questa configurazione, per ottenere la collaborazione
dell’imputato (il componente di un’organizzazione criminale che può fornire indicazioni sulle
condotte dei capi dell’organizzazione), nel sistema della discrezionalità dell’azione penale; c)
ha consentito di attribuire a ciascun cospiratore la responsabilità penale a titolo di concorso
nel reato per ogni fatto realizzato da ogni altro cospiratore in esecuzione e durante la
permanenza del programma comune; d) ha consentito al giudice di discostarsi dal caso
precedente (ove il fatto era stato ritenuto irrilevante almeno penalmente) e di ritenere la
responsabilità penale per via della dimensione organizzativa del fatto (possono farsi gli
esempi della violazione delle cautele anti-infortunistiche o della violazione fiscale che siano
state concertate fra più persone nell’ambito dell’azienda).
Nei modi così indicati, la conspiracy è stata strumento, soprattutto processuale, di lotta
contro la criminalità organizzata.
Il riferimento alla giurisprudenza inglese e soprattutto americana in materia di
conspiracy va considerato assai significativo, della generale resistenza, nelle prassi
giudiziarie, all’anticipazione della soglia della responsabilità penale rispetto a quella del
tentativo. E costituisce una conferma dell’analisi fin qui svolta in relazione alla funzione reale
delle figure delittuose associative.
Infatti, la funzione qui definita di anticipazione è certo molto più facilmente
ipotizzabile, dal punto di vista criminologico e da quello giudiziario, in relazione a un singolo
delitto (che più persone stanno preparando, e della cui dimensione preparatoria si sia avuta
conoscenza) che in confronto a un’attività delittuosa complessa, costituita da una pluralità,
determinata o indeterminata, di delitti. Eppure, anche in confronto al delitto singolo, la teoria
dell’anticipazione non trova riscontri.
classificazione dogmatica della fattispecie criminosa in discorso in termini di inchoate crime, ossia come reato
“incompiuto”, la concreta applicazione giurisprudenziale dimostra come da sempre la conspiracy abbia assunto
all’interno degli ordinamenti inglese e statunitense un ruolo affatto differente».
www.koreuropa.eu
34
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Nei confronti della teoria della (associazione delittuosa – come fatto intellettuale di
accordo – in funzione di) anticipazione (della soglia della risposta e della responsabilità
penale in confronto a quella ordinaria dei delitti e del diritto penale) possono rivolgersi alcune
altre osservazioni.
Una osservazione è che tale funzione dovrebbe restare assorbita e superata dalla
successiva attività di realizzazione dei delitti, c.d. scopo dell’associazione. E invece questo
problema non può porsi.
Secondo la nozione di associazione, come fatto intellettuale di accordo, la
partecipazione è costituita dalla (manifestazione di) adesione della persona e dall’accettazione
da parte (dei membri) dell’associazione.
Da un canto, l’ipotesi del soggetto che abbia manifestato la propria adesione
all’associazione e che poi non sia mai stato disponibile quando c’è stato bisogno delle sue
prestazioni dovrebbe essere suscettibile (ove se ne riscontrino gli estremi) del criterio generale
di non punibilità della desistenza.
D’altro canto, costituisce la partecipazione la relazione stabile di disponibilità, verso le
richieste e i bisogni dell’associazione, del soggetto che pure non abbia mai dato la propria
adesione formale.
Questi problemi si risolvono in termini di teoria dell’organizzazione.
L’ultima osservazione, che mi sembra molto importante, è che nessuno mai penserebbe
di ricostruire la problematica del concorso di persone nel reato con riferimento al momento e
al fatto dell’accordo, mentre pensiamo (pensano) che si possa ricostruire la problematica
molto più complessa dell’organizzazione criminale con riferimento alle manifestazioni
formali di accordo e di disponibilità: la cui prova, peraltro, non è mai disponibile, e viene
sostituita, spesso, da ricostruzioni assai congetturali.
La funzione svolta concretamente dalle figure delittuose associative può essere
considerata e definita, in primo luogo, di generalizzazione: di definizione della responsabilità
per il contributo personale dato alla struttura (quindi all’esistenza) e all’attività
dell’associazione, considerate in generale, e distintamente dalla responsabilità dei singoli
delitti che costituiscono questa attività. Tale funzione è, perciò, di distinzione: della
www.koreuropa.eu
35
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
responsabilità per il contributo dato in generale all’associazione dalla responsabilità per i
singoli delitti di questa.
La funzione può essere considerata e definita, inoltre, di interdizione, di tipo concreto e
dinamico, dell’esistenza e dell’attività dell’associazione delittuosa, considerata nella sua
dimensione generale, in via di svolgimento, nella fase stessa del suo svolgimento. Questa
funzione può essere considerata difforme rispetto alla funzione considerata ordinaria del
diritto penale, di prevenzione astratta e generale del tipo di fatto mediante la previsione della
pena (di cui sono poi corollari l’applicazione ed esecuzione). Di questa funzione sono
essenziali le misure di premialità della collaborazione con la giustizia e le misure di
prevenzione, personali e patrimoniali (che sono ricorrenti nella storia della prevenzione e
repressione delle forme e dei fenomeni di criminalità organizzata, comune e politica22): le une
e le altre tendono a disarticolare la dimensione generale organizzativa nelle sue risorse,
rispettivamente, personali e materiali.
Le nozioni appena indicate emergono dall’applicazione a questa materia della teoria
dell’organizzazione: entro cui, come vedremo, può essere ricondotta tutta la teoria
dell’associazione; mentre non mi sembra altrettanto vero il contrario.
Le figure delittuose associative sono diventate inoltre, presupposti, della progressiva
differenziazione del sistema penale nei confronti delle forme e dei fenomeni di criminalità
organizzata: in particolare, quelle di associazione terroristica, di associazione mafiosa, di
associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti, presupposti e baricentri di veri e propri
sotto-sistemi penali, con elementi di marcata differenziazione, sotto i profili della definizione
e determinazione della responsabilità penale, del processo (soprattutto dei modi di conduzione
delle indagini e anche di formazione della prova) e della esecuzione della pena detentiva (e
delle alternative alla detenzione).
In concreto, non v’è dubbio che le figure delittuose associative abbiano svolto e
svolgano anche una funzione probatoria, autonoma e specifica rispetto a quella dei singoli
22
Nei codici sono frequenti le misure di premialità della dissociazione e collaborazione degli autori dei delitti di
cospirazione politica, e nel codice napoleonico l’attentato contro la persona del sovrano era punito con la pena di
morte e la confisca dei beni del condannato, per sottrarre alla dimensione organizzativa, necessaria per il
compimento dei delitti politici, le risorse materiali. Il medioevo è una storia di collaboratori e spie nella difficile
distinzione fra il diritto penale, la politica, le lotte feudali e la pratica della guerra.
www.koreuropa.eu
36
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
delitti avvenuti nel contesto dell’attività. Questa funzione, che corrisponde, in effetti, al
contenuto autonomo (all’autonomia del contenuto) della responsabilità a titolo associativo,
pone tuttavia problemi sotto il profilo generale delle garanzie del cittadino e dell’esercizio del
diritto di difesa in particolare. Il problema si pone in modo precipuo in relazione alle
dichiarazioni e alla funzione dei collaboranti, ma riguarda di per sé il contenuto e
l’argomentazione della responsabilità a titolo associativo.
Le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia che Tizio sia affiliato o vicino al Clan
Tal dei Tali non sono, come tali, controvertibili, cioè a prescindere dalle (concrete e
molteplici) indicazioni circa il ruolo ovvero l’attività svolti da Tizio. Né il problema può
ritenersi risolubile nei termini (principali) della credibilità dei collaboratori. Se diversi
collaboratori dicono che Tizio il giorno x era nel luogo y a svolgere l’attività z, Tizio avrà
modo di dimostrare, eventualmente, il contrario, perché il fatto addotto o è vero o è falso.
Appare molto diversa la problematica della prova circa la relazione di un soggetto con la
struttura di un’associazione delittuosa.
Una
considerazione
riguarda
la
rilevanza
progressivamente
crescente
della
responsabilità penale a titolo associativo: si sono moltiplicate, come abbiamo visto, le figure
delittuose autonome associative; è aumentata a dismisura la pena di queste. Si considerino, da
un canto, la pena dell’art. 421 del codice penale toscano del 1853 e le considerazioni in
proposito di CARRARA, sopra riportate, e d’altro canto, in modo precipuo, gli aumenti
avvenuti delle pene dell’associazione mafiosa e dell’associazione per gli stupefacenti dal
momento della introduzione di queste figure a oggi.
Queste figure, e queste pene, vanno riempite, necessariamente, di prove, e di
argomentazioni. In tal senso, soccorre la teoria dell’argomentazione. Anzi, può dirsi pure che
l’aumento delle pene dei delitti associativi, nonché delle stesse figure delittuose associative,
(come del resto, si vedrà, la stessa diffusione della nozione di criminalità organizzata)
corrisponde non solo alla crescente dimensione organizzativa delle attività delittuose (come di
tutte le attività umane) ma anche allo sviluppo e alla diffusione della teoria
dell’organizzazione, cioè della consapevolezza della problematica dell’organizzazione.
www.koreuropa.eu
37
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
3. Epistemologia della complessità, teoria dei sistemi e analisi
funzionalistica. Limiti della causalità, teoria dell’organizzazione e diritto
penale
Le carenze di tassatività e determinatezza delle nozioni di responsabilità dei delitti
associativi, come dei delitti politici, possono essere considerate corollari della complessità dei
dati oggetto della considerazione, della rappresentazione normativa e, concretamente, oggetto
di necessaria ricostruzione.
Per ciò che riguarda i delitti politici, si pensi alle nozioni di (compiere atti per)
sovvertire l’ordinamento costituito dello stato o sottoporre lo stato alle dipendenze di uno
stato straniero. La rilevanza della relazione del singolo non può essere concepita in generale
come causale (senza la quale l’evento non si sarebbe verificato nonché di per sé adeguata al
verificarsi dell’evento) e tuttavia, malgrado le ripetute giustificate obiezioni, queste nozioni
sono presenti in tutti gli ordinamenti.
Per ciò che riguarda i delitti associativi, da una parte, la prova della adesione formale
all’associazione non è frequentemente disponibile (e, peraltro, abbiamo visto, neppure può
essere considerata risolutiva), d’altra parte, la prova e l’argomentazione in concreto della
partecipazione, peggio del concorso esterno, sono state spesso assai discutibili, invero
insufficienti. Anche di queste nozioni, tuttavia, non si riesce a fare a meno.
Problema di carattere generale è che tutte le attività umane, e quelle delittuose, sono
realizzate a dimensione vieppiù complessa e organizzata. In tale dimensione i nessi causali
sbiadiscono fino a diventare non significativi. E tuttavia i singoli contributi sono, e vanno
considerati, rilevanti.
Per rappresentare la situazione del diritto penale oggi, e in confronto alla teoria moderna
della responsabilità, possiamo dire che quando vi siano più di un autore o più di una vittima,
già, la causalità (l’analisi di tipo causale) diventa insufficiente. Si pensi, così, rispettivamente,
alle problematiche della criminalità organizzata e dell’inquinamento, sotto i profili della
molteplicità degli imput e degli output.
La nozione di complessità è stata usata per la prima volta, ad esprimere l’analisi (e i
risultati dell’analisi) di tipo multifattoriale e contestuale, dal matematico americano WARREN
www.koreuropa.eu
38
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
WEAVER nel 194823. Ed è stata distinta in complessità organizzata e complessità non
organizzata, ad esprimere, rispettivamente, la problematica e la teoria dell’organizzazione e
l’analisi dei flussi. È stata ripresa, in tali termini dal biologo austriaco LUDWIG VON
BERTALANFFY, del Circolo di Vienna, che ha elaborato la teoria dei sistemi, con riferimento
eminentemente ai sistemi viventi24. Parallelamente, il sociologo tedesco NIKLAS LUHMANN ha
applicato il metodo funzionalistico e ha sviluppato la teoria dei sistemi in relazione ai sistemi
sociali, cominciando col riflettere in modo particolare sulla crisi della categoria, e dello stesso
pensiero, causale25. Grande studioso della complessità è stato ILYA PRIGOGINE, chimico e
fisico russo naturalizzato belga, vincitore del premio Nobel per la chimica nel 1977 per i suoi
studi sulla termodinamica dei sistemi complessi e in particolare per la sua teoria sulle
strutture dissipative (i vortici)26.
Il sociologo MARTINOTTI ha scritto che «l’organizzazione» «è la vera grande scoperta
della specie umana nel XX secolo»27. Io aggiungerei che la teoria e le nozioni
dell’organizzazione sono fra i dati culturali generali più importanti nel corso degli ultimi
quarant’anni.
La misura di quanto le nozioni della complessità e precipuamente dell’organizzazione
siano assolutamente trasversali, nonché fondamentali, delle scienze e della cultura mondiali
più recenti si coglie bene nel fatto che le voci Ordine/disordine, Organizzazione e Sistema
dell’Enciclopedia Einaudi siano state redatte proprio dal fisico-chimico PRIGOGINE, insieme
23
WEAVER, Science and Complexity, in American Scientist, 1948, n. 36, pp. 536 ss.
VON BERTALANFFY, Il sistema uomo. La psicologia nel mondo moderno, 1967, Milano, 1971; Teoria generale
dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, 1968, trad. it., Istituto Librario Internazionale, Milano, 1971.
25
LUHMANN, Funzione e causalità, 1962, e Metodo funzionale e teoria dei sistemi, 1964, in Illuminismo
sociologico, 1970, trad. it., Milano, 1983, dove vedi la bella introduzione di ZOLO, Funzione, senso, complessità.
I presupposti epistemologici del funzionalismo sistemico. V. poi LUHMANN, Sistemi sociali. Fondamenti di una
teoria generale, 1984, Bologna, 1990, e Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, 1983, Milano, 1995,
entrambe le edizioni italiane a cura di FEBBRAIO.
26
NICOLIS e PRIGOGINE, La complessità. Esplorazioni nei nuovi campi della scienza, 1987, Torino, 1991;
PRIGOGINE - STENGERS, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, 1979, Torino, 1981, 1993, 1999;
PRIGOGINE, Le leggi del caos (da un ciclo di lezioni tenute all’Università Statale di Milano presso la cattedra di
Filosofia della scienza del prof. GIORELLO), Roma-Bari, 1993, 2006.
27
G. MARTINOTTI, Prefazione a CASTELLS, La nascita della società in rete, 1996, 2000, Milano, 2002, p. XXVI.
24
www.koreuropa.eu
39
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
con ISABELLE STENGERS, studiosa belga laureata in chimica che insegna filosofia della
scienza28.
La nozione di criminalità organizzata ha cominciato a essere usata in Italia solo a
partire dalla metà degli anni settanta, in relazione ai fenomeni dei sequestri di persona e di
diffusione degli stupefacenti ed ai primi gruppi terroristici. Negli Stati Uniti l’Organized
Crime Control Act(OCCA) del 1970 ha avuto riferimento ai reati tipici dei settori in cui
agiscono le organizzazioni criminali.
La diffusione progressiva della nozione di criminalità organizzata ha una spiegazione
sia reale sia culturale: va correlata, da un canto, alla dimensione organizzativa crescente delle
attività di tipo delittuoso, come di tutte le attività umane, e allo sviluppo delle dimensioni e
del livello di pericolosità delle organizzazioni criminali, d’altro canto, allo sviluppo e alla
diffusione della cultura, della teoria e delle nozioni dell’organizzazione, come abbiamo detto,
in tutti i settori della scienza e della cultura.
Torniamo alla epistemologia della complessità. Abbiamo detto che si tratta dell’analisi,
della metodologia e dei risultati dell’analisi, multifattoriale e contestuale: una molteplicità di
elementi sono analizzati nelle correlazioni (interazioni) reciproche e in un ambito sia spaziale
che temporale, quindi in modo dinamico e contestuale.
In generale possiamo definire sistema un insieme di elementi considerati nelle relazioni
reciproche e alla stregua di un ambiente. Una differenza di carattere culturale è che nelle
scienze della natura le nozioni di sistema e di organizzazione tendono ad essere
sovrapponibili, mentre nelle scienze umane e sociali la nozione di organizzazione implica
ulteriormente la libertà di scelta dell’individuo.
Secondo COASE, economista premio Nobel nel 1991 con studi di teoria
dell’organizzazione, l’organizzazione è caratterizzata dalla sostituzione nell’impresa delle
transazioni tipiche del mercato, ed è costituita da «isole di potere cosciente», cioè soggetti
liberi di scelte, a differenza di un organismo (come anche il sistema economico del mercato)
che «funziona da solo»29.
PRIGOGINE ed STENGERS, voci Ordine/disordine, Organizzazione e Sistema dell’Enciclopedia Einaudi, Torino,
rispettivamente, vol. X, 1980, pp. 87 ss. e 178 ss., vol. XII, 1981, pp. 993 ss.
29
COASE, La natura dell’impresa, 1937, in Impresa, mercato e diritto, Bologna, 1995, 2006, pp. 74-75.
28
www.koreuropa.eu
40
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
In effetti, concetto chiave posto in evidenza da PRIGOGINE (che tende così a definire in
modo unitario questa problematica) è quello di biforcazione, cioè di equiprobabilità di
verificarsi di eventi diversi al verificarsi di un dato evento. E in natura non c’è biforcazione
più sicura e semplice della libertà di scelta dell’individuo.
L’organizzazione può essere definita come la coordinazione dell’agire in vista di una
determinata finalità ed è costituita, fra una pluralità di persone, dall’insieme delle convenzioni
di carattere generale che tengono luogo degli accordi caso per caso.
Sono elementi dell’organizzazione coloro che si fanno garanti (e comunque si sono resi
tali, per effetto dei loro reiterati comportamenti) delle loro prestazioni, sulle quali, quindi, gli
altri, interni ed esterni all’organizzazione, possono fare legittimo affidamento, e fanno
affidamento. Questa correlazione fra garanzia e affidamento circa le prestazioni dei soggetti è
costitutiva di per sé dell’organizzazione. Che soggetti facciano affidamento sulle prestazioni
altrui è dato di per sé significativo dell’esistenza dell’organizzazione.
L’organizzazione
va
distinta
dall’organigramma.
Questo
consiste
nella
rappresentazione formale dei ruoli in una qualsiasi struttura organizzativa. L’organizzazione è
costituita dalla effettività del complesso delle relazioni funzionali, in una data struttura
(sistema) e in un dato contesto spazio-temporale (ambiente). In tal senso, ho già detto sopra, è
una nozione di carattere sociologico. L’organizzazione è un processo, un fenomeno, una
dinamica (contestualizzata).
L’organizzazione è caratterizzata dalla stabilità, della struttura e dell’analisi; è l’effetto
dell’analisi di una struttura in termini di stabilità, in un contesto (spazio-temporale).
Nella maggior parte dei casi le relazioni di disponibilità, fra la struttura e i soggetti che
la costituiscono, sono l’effetto di accordi di carattere formale. Ma le stesse possono dipendere
anche dalla reiterazione dei comportamenti, che per questo diventano oggetto dell’altrui
affidamento. Una caratteristica della problematica dell’organizzazione è la ricorsività, delle
relazioni e delle condotte.
In tal senso, abbiamo detto anche, la teoria dell’associazione può essere ricuperata
dentro la teoria dell’organizzazione (mentre non può dirsi il reciproco). Partecipazione è la
relazione funzionale stabile della persona con la struttura e l’attività dell’associazione. Questa
relazione dipende normalmente da un’adesione formale, ma poi diviene nella effettività delle
www.koreuropa.eu
41
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
reciproche disponibilità e condotte: tale, appunto, che vi sia (e si sia creato, di fatto) un
reciproco affidamento.
Degli amici che si vedono ogni sabato pomeriggio, per giocare a carte, ovvero ogni
domenica pomeriggio, per assistere alle partite alla televisione, sono una struttura organizzata.
Ciò normalmente avviene per la reiterazione nel tempo di determinati comportamenti,
essenziali di quella dimensione organizzativa.
Le persone che si conoscono normalmente si salutano, e quando una non saluta l’altra
questa si stupisce, s’interroga, s’indispettisce, si offende, ecc. Questo è un dato che dimostra,
e costituisce, la dimensione organizzativa della società. Ma gli uomini, e quelle persone in
concreto quando si sono conosciute (quando sono state presentate), non si sono messi
formalmente d’accordo che si devono salutare, e che si sarebbero salutati, ogni volta che si
sarebbero incontrati.
Il contratto sociale di ROUSSEAU è una finzione letteraria che esprime la dimensione
organizzativa, e normativa, della società: nessuno di noi l’ha mai sottoscritto formalmente,
eppure ne facciamo parte.
L’organizzazione, il processo di organizzazione, organizzativo, può dipendere da (dalle
direttive di) uno o più soggetti principali (organizzatori) o avvenire in modo spontaneo dal
basso: auto-organizzazione.
La differenza fra la partecipazione (o appartenenza) all’associazione delittuosa e il
concorso eventuale o esterno nel delitto associativo è costituita dal fatto che la partecipazione
è data dalla relazione funzionale stabile con la struttura organizzativa e (quindi) con l’attività
dell’associazione, il concorso esterno è dato dal contributo ovvero relazione personale
funzionale con effetti di stabilità sulla struttura e attività dell’associazione considerate in
termini generali.
Il contributo è caratterizzato dalla funzionalità, sia per la struttura organizzativa che per
l’attività di questa.
Il contributo dell’estraneo (che non riguarda le convenzioni di carattere generale
costitutive della dimensione organizzativa) deve essere (singolarmente) negoziato fra la
struttura dell’organizzazione e il soggetto che lo deve arrecare.
www.koreuropa.eu
42
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Il contributo è funzionale per la struttura organizzativa e per l’attività dell’associazione
in quanto (pur non essendo caratterizzato dalla sua stabilità, comunque) ha effetti di stabilità
su tale struttura ed attività, considerate in termini generali. Altrimenti può essere (costitutivo
di) concorso in un singolo reato, o favoreggiamento.
Nell’analisi
sistemica
(quindi
della
complessità,
delle
condotte
plurime,
dell’organizzazione) le relazioni sono apprezzabili in generale come funzionali.
Funzione è un concetto più debole di causa, in quanto non è “determinante”, ma è
espressione di un’analisi molto più ricca, appunto multifattoriale e dinamica.
La causalità è una relazione binaria fra eventi (espressione della logica formale binaria,
che presuppone la predefinizione formale delle tipologie degli eventi, cioè del tipo dell’uno e
dell’altro), nei termini della riproducibilità-evitabilità della successione (è espressione di un
pensiero normativo: è la spiegazione di un evento difforme rispetto al corso che può essere
considerato normale degli eventi, presuppone la ricerca delle leggi di natura, il confronto con
le leggi universali che governano il mondo, ed esprime l’aspirazione e l’idea circa la
possibilità di riprodurre o evitare l’evento); è esplicativa (tende a rispondere alla domanda
perché?).
Funzione è la relazione di co-variazione fra grandezze (non tra eventi): quindi è la
relazione fra grandezze numeriche, variabili (alla stregua del contesto). Funzione è la
relazione di utilità, in termini di probabilità dell’evento, di rapporto fra costi e benefici, di
massimizzazione dei risultati, quindi di probabilità del miglior risultato, di minimizzazione
dei costi e dei rischi.
La connotazione di astrattezza e generalità della funzione è data dalla dimensione
numerica.
La causalità è espressione di un’analisi segmentata della realtà: A è causa di B, B è
causa di C, ecc., mediante collegamento fra coppie di significati, di tipo (tendenzialmente)
decontestuale: la ricerca delle leggi di natura, delle leggi universali che governano il mondo.
La funzione è espressione dell’analisi sistemica (il complesso delle relazioni funzionali che
costituiscono il sistema nell’ambiente) ed è connotata dalla stabilità ovvero persistenza
dell’analisi: che è analisi di fenomeni, di processi, anziché di eventi (singoli). L’analisi
sistemico-funzionalistica è descrittiva (tende a rispondere alla domanda come?, in che
www.koreuropa.eu
43
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
modo?), di movimento di insiemi (quindi di fenomeni in contesti, spazio-temporali), e
predittiva, previsionale (le previsioni del tempo, la teoria dei flussi).
La causalità è caratterizzata da, ed esprime culturalmente l’aspirazione e la pretesa di
definire, una soglia semantica (di tipo qualitativo): la condizione senza la quale l’evento non
si sarebbe verificato (la condicio sine qua non). La nozione di causalità adeguata esprime un
significato ulteriore, e non sostitutivo, rispetto alla condicio sine qua non: di tipo quantitativo
(probabilistico, e già, verosimilmente, contestuale): la condizione, senza la quale l’evento non
si sarebbe verificato, al verificarsi della quale è definibile una certa probabilità del verificarsi
dell’evento, nelle condizioni date.
La nozione di funzione è senza soglia: l’infinitamente piccolo può essere utile
all’infinitamente grande; ovvero, adottato un criterio di misura, tutto è misurabile: passiamo
da un modello di analisi qualitativo a un modello quantitativo. È vero anche il reciproco:
quando ragioniamo in termini quantitativi, siamo già passati all’analisi di tipo funzionalistico.
BERTAND RUSSELL ha criticato in modo radicale nel 1913 l’analisi causale. Il significato
più evidente della sua riflessione è di sostituire l’analisi quantitativa a quella di tipo
formalistico-qualitativo.
Scrive RUSSELL all’inizio del saggio Sul concetto di causa30: «Nel saggio che segue
intendo, primo, sostenere che la parola “causa” è legata tanto inestricabilmente a idee
equivoche da rendere auspicabile la sua totale espulsione dal vocabolario filosofico; secondo,
ricercare quale principio, se ve n’è uno, viene applicato nella scienza in luogo della supposta
“legge di causalità”, che i filosofi immaginano venga applicata; terzo, mettere in rilievo certe
confusioni, specie in rapporto con la teleologia e col determinismo, che mi sembrano
connesse con concetti erronei relativi alla causalità».
«Tutti i filosofi, di ogni scuola, immaginano che la causalità sia uno degli assiomi o
postulati fondamentali della scienza; e invece, fatto strano, nelle scienze più progredite, come
l’astronomia gravitazionale, la parola “causa” non compare mai. In Naturalismo e
agnosticismo, il dottor JAMES WARD fa di ciò un motivo di lamentela nei confronti della
È la memoria presidenziale diretta alla Aristotelian Society nel novembre 1912, pubblicata nell’annata 191213 dei Proceedings di quella società, trad. it. in RUSSELL, Misticismo e logica e altri saggi, Milano, 1980,
Milano, 1993, pp. 170 ss.
30
www.koreuropa.eu
44
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
fisica: il compito di quanti vogliono accertare la verità ultima sul mondo, pensa
evidentemente WARD, dovrebb’essere di scoprire le cause, e viceversa la fisica non le ricerca
mai. A me sembra che la filosofia non dovrebbe assumersi simili funzioni legislative, e che il
motivo per cui la fisica ha smesso di ricercare le cause è che, in effetti, cose del genere non
esistono. Secondo me, la legge di causalità, come molto di ciò che viene apprezzato dai
filosofi, è il relitto di un’età tramontata e sopravvive, come la monarchia, soltanto perché si
suppone erroneamente che non rechi danno»31.
Secondo RUSSELL, «le leggi della successione probabile, utili nella vita quotidiana e nei
primi passi di una scienza, tendono a essere sostituite da leggi del tutto diverse non appena
una scienza progredisce. La legge di gravità servirà d’esempio per comprendere che cosa
accade in ogni scienza sviluppata. Nei moti dei corpi reciprocamente attraentisi, non vi è
niente che si possa chiamare una causa e niente che si possa chiamare un effetto; vi è soltanto
una formula. Si possono scoprire certe equazioni differenziali che valgono in ciascun istante
per ogni particella del sistema e che, data la configurazione del sistema e date le velocità in un
istante, oppure le configurazioni in due istanti, rendono teoricamente calcolabile la
configurazione in qualsiasi istante precedente o successivo. Vale a dire, la configurazione in
un istante è una funzione di quell’istante e delle configurazioni in due istanti dati. Questa
affermazione vale in tutta la fisica, e non soltanto nel caso particolare della gravità. Ma in un
sistema del genere non vi è nulla che si possa propriamente chiamare “causa” e nulla che si
possa propriamente chiamare “effetto”».
«Indubbiamente il motivo per cui la vecchia “legge di causalità” ha continuato così a
lungo a pervadere i libri dei filosofi è semplicemente questo: l’idea di una funzione non è
familiare alla maggior parte di loro, e quindi essi ricercano una formula indebitamente
semplificata. Non si pone il problema della ripetizione di “una stessa” causa la quale produce
“uno stesso” effetto; la costanza delle leggi scientifiche non consiste in alcuna analogia di
cause e di effetti, bensì in un’analogia di rapporti. E anche “analogia di rapporti” è una frase
31
Ivi, p. 170.
www.koreuropa.eu
45
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
troppo semplice; “analogia di equazioni differenziali” è l’unica frase corretta. È impossibile
porre esattamente la cosa in un linguaggio non matematico [...]»32.
Ho detto sopra che l’analisi causale è di tipo (tendenzialmente) decontestuale. RUSSELL
scrive che «Il caso in cui si dice che un evento A “causa” un altro evento B, che i filosofi
reputano fondamentale, è in realtà soltanto l’esempio più semplice di un sistema praticamente
isolato. Può succedere che, in conseguenza di leggi scientifiche generali, ogni qual volta si
verifica A durante un certo periodo, esso sia seguito da B; in tal caso, A e B formano un
sistema praticamente isolato durante quel periodo. Ma se questo accade, bisogna considerarlo
un colpo di fortuna: sarò sempre dovuto a circostanze speciali, e non si sarebbe avverato se il
resto dell’universo fosse stato differente, benché soggetto alle medesime leggi»33.
In effetti, possiamo dire, l’analisi del “sistema” è già come tale funzionalistica; ovvero,
funzionalistica è l’analisi dei sistemi complessi: meglio, funzionalistico è il metodo d’analisi
dei sistemi complessi.
Secondo LUHMANN, appunto, nel saggio Funzione e causalità, del 1962, «L’analisi
funzionalista non mira alla registrazione dell’essere nella forma di costanti essenziali, ma alla
variazione di variabili nell’ambito di sistemi complessi»34. «Il metodo funzionalista analizza
le caratteristiche di un sistema rispetto ad altre possibilità equivalenti, dunque anche rispetto a
possibilità di cambiamento, di scambio e di sostituzione, nonché alle ripercussioni di queste
all’interno del sistema. Tuttavia, tale metodo non giunge all’individuazione delle cause di un
determinato cambiamento, né alla previsione di esso»35.
Secondo LUHMANN, ogni definizione causale può essere oggetto di rappresentazione in
termini funzionalistici, mentre non è vero il contrario, nel senso che ogni rappresentazione
funzionalistica non è suscettibile in quanto tale di definizione causale.
«La critica del funzionalismo di impronta causalistica non va fraintesa come critica
della causalità in quanto categoria conoscitiva. Essa non ha lo scopo di abolire la causalità, né
tantomeno si preoccupa di sottolineare l’esistenza di un contrasto tra la ricerca causalistica e
quella funzionalista. Il risultato di un’impostazione del genere sarebbe la riedizione della
32
Ivi, p. 183.
Ivi, p. 187.
34
LUHMANN, Funzione e causalità, cit., p. 11.
35
Ivi, p. 12.
33
www.koreuropa.eu
46
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
vecchia distinzione tra causalità teleologica e causalità meccanica. La nostra critica si pone
invece l’obiettivo di invertire il rapporto di discendenza esistente fra la relazione causale e la
relazione funzionale: la funzione non è un tipo particolare di relazione causale; al contrario, è
la relazione causale a costituire un caso di applicazione dell’ordine funzionale». (...) «In un
senso oggi difficilmente concepibile, l’antichità e il medioevo concepivano la causalità come
una relazione finita riferita all’essere come al proprio fondamento. Dall’inizio dell’era
moderna, invece, la problematica dell’infinito si è fatta assillante nel campo della causalità.
Ogni affermazione causale rimanda implicitamente all’infinito da diversi punti di vista. Ogni
effetto ha un numero infinito di cause, così come ogni causa ha un numero infinito di effetti.
A ciò va aggiunto che ogni causa può essere combinata con altre o sostituita da altre in infiniti
modi, il che produce corrispondentemente una molteplicità di differenze al livello degli
effetti. Infine, ogni processo causale può essere da un lato suddiviso infinitamente al suo
interno, dall’altro sviluppato in avanti fino all’infinito».
«Se si tiene presente questa problematica, ogni interpretazione ontologica della causalità
risulta priva di significato. Non è più possibile, infatti, interpretare causa ed effetto come
determinate situazioni dell’essere, individuando nella causalità una relazione di invarianza fra
una causa e un effetto. Non può essere giustificata l’esclusione di tutte le altre cause, insieme
ai rispettivi effetti. È vero che si può giungere ad affermazioni formalmente corrette con
l’aiuto della condizione “ceterisparibus”, che rappresenta la “exculpingphrase”, una sorta di
formula magica per le scienze sociali. Ma tali affermazioni sono prive di valore empirico se
l’esclusione di tutti gli altri fattori causali è irrealizzabile di fatto. È proprio questo compito
che la scienza sociale non è in grado di assolvere»36.
«Gli elementi del processo causale, siano essi causa o effetto, una volta utilizzati come
criteri di riferimento funzionali, non sono intesi nella loro attualità ontologica, ma sono
assunti in quanto problemi. L’analisi funzionalista si distingue da ogni analisi di tipo
teleologico o meccanico per il fatto che non imposta il proprio concetto fondamentale nella
forma di un’ipotesi empirica. Non si presuppone o non si suppone che determinate cause
esistano effettivamente e spieghino perciò il verificarsi di determinati effetti o viceversa. Né si
36
Ivi, p. 13.
www.koreuropa.eu
47
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
postula che un organismo sopravviva effettivamente, che un sistema si mantenga in equilibrio
o cose del genere. Il fenomeno a cui ci si riferisce è visto come un problema, il che può
significare una cosa soltanto, e cioè che la validità delle analisi funzionaliste non dipende dal
fatto che nel caso specifico il problema in discussione venga risolto, l’effetto previsto si
produca, il sistema preso in considerazione sopravviva. Ciò significa allora che un enunciato
funzionalista non riguarda una relazione di causa ed effetto, ma i rapporti interni a una
pluralità di cause o di effetti e quindi la rilevazione di equivalenze funzionali»37, cioè (per
dirla col linguaggio di LUHMANN) delle alternative (delle possibilità) funzionalmente
equivalenti per la risoluzione di un problema.
«Potremmo riassumere la critica fin qui svolta affermando che la sopravvivenza di un
concreto sistema di azione non è idonea a costituire il criterio di riferimento per analisi
funzionaliste. Un sistema di azione costituisce il tema e il campo di indagine, non anche
contemporaneamente il filo conduttore teorico di un’analisi funzionalista. Allo scopo di
formulare una tale teoria, il metodo delle equivalenze funzionali è in grado di fornire
indicazioni più valide di quelle ricavate dal metodo in uso nella scienza causalistica. Non si
tratta di dimostrare che le unità di riferimento sono effetti regolarmente prodotti da
determinate cause. Occorre, al contrario, individuare entro un determinato sistema d’azione
quei criteri problematici che regolano le possibilità di variazione del sistema. Un certo criterio
di riferimento deve poter fungere da criterio per decidere circa l’equivalenza di determinati
dati di fatto. Un tale criterio definisce quindi un ambito di flessibilità e di capacità di
adattamento, di indifferenza verso le deviazioni e di tolleranza nei confronti di contraddizioni,
un ambito di libertà riservato alla scelta di soluzioni che, rispetto al criterio al quale ci si
riferisce, sono ugualmente utili o per lo meno ugualmente innocue. Il problema della
sopravvivenza di un sistema di azione deve essere quindi ricondotto a una serie di
interrogativi astratti, scelti in modo tale da essere capaci – proprio in base al loro carattere
astratto – di rivelare le equivalenze funzionali, contribuendo a una sorta di controllo
generalizzato del sistema»38.
37
Ivi, p. 15.
Ivi, p. 17.
38
www.koreuropa.eu
48
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
«L’obiettivo della verifica cessa di essere quello di accertare l’esistenza di un nesso
costante fra determinate cause e determinati effetti e diventa quello di accertare l’equivalenza
fra più fattori causali collocati sullo stesso piano. Non s’indaga più per sapere se A ha sempre
(o con una ben determinata probabilità) per effetto B, ma per sapere se A, C, D, E sono
funzionalmente equivalenti nella loro capacità di produrre l’effetto B»39.
Nel saggio su Metodo funzionale e teoria dei sistemi, del 1964, LUHMANN scrive che
«La teoria dei sistemi sociali contribuisce a precisare la classe delle alternative
funzionalmente equivalenti delle quali si dispone per risolvere un determinato problema,
rendendo così possibile la spiegazione o la previsione. Il problema non sta nella possibilità o
meno di formulare una previsione, ma nella sua specificazione. Le previsioni devono
comprendere per principio l’intera classe delle alternative funzionalmente equivalenti che
vengono prese in considerazione come soluzione di un determinato problema»40.
«La moderna teoria dei sistemi ha due predecessori: il concetto di organismo e il
concetto di macchina. Essa deve i suoi suggerimenti più importanti ai processi di dissoluzione
che hanno finito per decomporre e trasformare i modelli classici dell’organismo vivente e
della macchina meccanica. La biologia contemporanea non concepisce più l’organismo come
un essere animale, le cui forze spirituali integrerebbero le singole parti in un insieme, ma
come un sistema adattivo che reagisce al mutare delle condizioni e degli eventi ambientali
compensando, sostituendo, bloccando o integrando i fattori di mutamento con il ricorso a
prestazioni proprie, allo scopo di mantenere in questo modo invariata la propria struttura
(omeostatica). Oggi le macchine si costruiscono sempre più non come semplici strumenti per
raggiungere uno scopo produttivo specifico, ma come impianti auto-regolativi che reagiscono,
secondo programmi precedentemente forniti, al variare delle informazioni ambientali con
prestazioni variabili, tendenti in questo modo non semplicemente a realizzare un prodotto
permanentemente uguale, ma a consentire oltre a ciò, di fronte a condizioni mutevoli, il
soddisfacimento uniforme di scopi concepiti in termini più astratti (cibernetica)»41.
39
Ivi, p. 23.
LUHMANN, Metodo funzionale e teoria dei sistemi, cit., p. 40.
41
Ivi, p. 42.
40
www.koreuropa.eu
49
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
«La teoria dei sistemi di tipo funzionalistico, quale viene alla ribalta nella scienza
sociale, ma anche nella recente biologia, nella tecnica dei sistemi di regolazione automatica e
nella teoria psicologica della personalità, non può più essere compresa a partire da presupposti
di tipo ontologico»42. «[...] le tecniche bianco e nero della logica ontologica non sono più
adeguate ad affrontare i compiti nuovi, ai quali peraltro la ricerca ha già cominciato a porre
mano. La logica classica della contraddizione semplice sembra gradualmente cedere il posto
ad una tecnica analitica di astrazione del problema. La specificazione e l’astrazione della
problematica sono i presupposti metodologici della soluzione del problema, sia nella teoria
che nella prassi»43.
«La teoria funzionalistica è una teoria che riguarda il rapporto fra sistema e ambiente.
Essa non si limita a osservare la vita interna del sistema, a differenza, ad esempio, della
scienza dell’organizzazione di tipo classico, che esamina esclusivamente l’organizzazione
stessa, o della scienza giuridica che si occupa soltanto del sistema delle norme giuridiche. La
teoria funzionalistica include nelle proprie riflessioni anche l’ambiente, nella misura in cui
esso assume un ruolo per la stabilizzazione del sistema»44.
Sembra utile riportare i brani successivi proprio in relazione alla nostra analisi circa i
rapporti (e le differenze, e l’evoluzione) fra le nozioni di associazione e di organizzazione.
«Questo dato è particolarmente evidente della crescente critica della nozione di scopo
che nel pensiero tradizionale, come oggi siamo in grado di vedere, aveva isolato
reciprocamente il sistema e l’ambiente. La vecchia idea secondo la quale tutte le associazioni
umane perseguivano un determinato scopo e andavano considerate come mezzi in funzione di
quello scopo, aveva consentito che ci si limitasse all’analisi dei nessi che intercorrono fra
scopo e mezzo, nonché dei fattori che perturbano tali nessi. Lo scopo veniva concepito come
il
criterio
di
perfezionamento
e
di
razionalizzazione
del
sistema
e
serviva
contemporaneamente da fattore di demarcazione della ricerca. Contrariamente a ciò, la teoria
dei sistemi di impronta funzionalistica considera ormai lo scopo soltanto come una formulaguida secondo la quale si possono impostare i rapporti fra sistema e ambiente (ad es.
42
Ivi, p. 43.
Ivi, p. 46.
44
Ivi, p. 43.
43
www.koreuropa.eu
50
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
attraverso prestazioni di scambio), formula che non è né indispensabile, né invariabile, né da
sola determinante, ma che serve a facilitare la regolazione del sistema in rapporto
all’ambiente, presentando ai membri del sistema una sorta di comoda e istruttiva formula
sostitutiva del problema reale che consiste nella stabilità. Se la scelta dello scopo è giusta, i
membri del sistema possono nutrire la convinzione che il sistema possa continuare a esistere
nonostante un ambiente difficile, fino a quando esso si mostrerà adeguato al proprio scopo. In
questo modo la funzione svolta dalla scelta dello scopo ai fini dell’invarianza di un sistema (a
differenza della motivazione degli scopi attraverso il ricorso a valori) può diventare oggetto
della ricerca. Diventa possibile ipotizzare l’esistenza di alternative ai sistemi orientati
specificamente in direzione di uno scopo. La misura in cui un sistema si orienta rispetto ad
uno scopo può essere trattata come una variabile»45.
L’ambiente è essenziale per la definizione del sistema e della funzione.
«Un insieme di azioni costituisce dunque un sistema nella misura in cui di fronte ai
mutamenti dell’ambiente dispone di più di un’alternativa per reagirvi, alternative che sono
funzionalmente equivalenti sotto determinati punti di vista astratti, propri del sistema.
L’invarianza relativa non è dovuta allora all’abbinamento rigido di determinati mutamenti
sistemici e determinati mutamenti ambientali, ma si deve all’esistenza d’istituzioni selettive
entro il sistema la cui funzione non dipende dalla possibilità o meno di prevederne il
funzionamento. Siccome le singole alternative sono funzionalmente equivalenti entro una
determinata prospettiva, il sistema può, a un livello adeguato di astrazione, restare indifferente
rispetto alla scelta»46.
Secondo LUHMANN «La sociologia si colloca in un rapporto di rottura rispetto alla
razionalità della vita quotidiana, poiché la categoria dello scopo ha ormai largamente perso il
proprio credito quale concetto scientifico fondamentale. Se è vero che chiunque voglia
spiegare razionalmente e rendere comprensibile la propria azione, lo fa scegliendo come
punto di riferimento determinati scopi e motivando l’azione stessa come un mezzo adeguato,
45
Ivi, pp. 43-44.
Ivi, p. 49.
46
www.koreuropa.eu
51
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
è vero anche che la categoria dello scopo non gode ormai più della stessa validità quale punto
di riferimento ultimo delle analisi scientifiche dell’azione»47.
Parallela, abbiamo detto, è la costruzione della teoria dei sistemi di VON BERTALANFFY,
condotta con riferimento particolare ai sistemi viventi.
Ne Il sistema uomo, del 1967: «La visione del mondo di ieri, il cosiddetto universo
meccanicistico, era un mondo di “cieche leggi naturali” e di entità fisiche moventisi a caso.
Caos era il cieco gioco degli atomi. Per accidente, apparvero sulla terra primordiale, come
precursori di vita, composti organici e infine molecole capaci di autoriprodursi. Un evento
non meno caotico si ebbe quando, secondo la corrente teoria dell’evoluzione, la vita
procedette verso forme superiori grazie a mutazioni casuali e a selezione entro un ambiente
soggetto a cambiamenti altrettanto accidentali. Per un altro inesplicabile accidente, mente e
coscienza apparvero in qualche parte come epifenomeno dell’evoluzione del sistema nervoso.
Allo stesso modo, la personalità umana, secondo il comportamentismo e la psicoanalisi, fu un
prodotto casuale di natura ed educazione, in cui ebbero piccola parte i fattori ereditari e gran
parte gli eventi fortuiti della seconda infanzia e il susseguente condizionamento. La storia
umana, infine, è un seguito di cose dannate, senza capo né coda, secondo il celebre detto dello
storico H. A. L. FISHER, emulo dell’Idiota Cosmico di SHAKESPEARE».
«Ora, pare, siamo alla ricerca di un’altra prospettiva fondamentale – il mondo come
organizzazione. Questa pretesa – se verificata – muterebbe profondamente le categorie del
nostro pensiero e influenzerebbe i nostri atteggiamenti pratici».
«WARREN WEAVER, coautore della teoria dell’informazione, l’ha definita in un modo
citato spesso (1948). La scienza classica, ha detto WEAVER, si connetteva alla causalità
lineare o a senso unico: causa seguita da effetto, relazioni tra due o più variabili. Per esempio,
la relazione tra una stessa e un pianeta permette i mirabili calcoli della meccanica celeste, ma
già il problema dei tre corpi è insolubile in linea di principio e può essere accostato soltanto
per approssimazione. Come psicologi, possiamo pensare allo schema stimolo-risposta ove lo
stimolo è variabile indipendente e la reazione variabile dipendente. La scienza, inoltre, si
occupa di complessità non organizzata, vale a dire, di fenomeni statistici come prodotto di
47
Ivi, p. 51.
www.koreuropa.eu
52
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
eventi fortuiti. Ne è prototipo la termodinamica e in particolare il problema del vuoto delle
particelle di un dato volume di gas: non possiamo seguire ognuna delle innumerevoli
molecole del recipiente, ma il comportamento medio che ne risulta è espresso dalla seconda
legge della termodinamica e dai suoi molti codicilli. Analogamente, le leggi statistiche sono
applicabili alla genetica, alla sociologia – si pensi alla previsione del numero di suicidi o di
scontri automobilistici durante il week end del Labor Day [il primo lunedì di settembre
festeggiato in USA e Canada – N.d.T.] e a molti altri campi. Le compagnie di assicurazione si
basano sul fatto che è possibile prevedere il numero di incidenti automobilistici, mortalità e
simili, anche se ogni caso individuale è differente e risulta da una moltitudine di cause non
definite».
«Ora però ci troviamo di fronte a problemi d’altro tipo – a problemi di complessità
organizzata. Se i principi della fisica classica, come le leggi della gravitazione e della
meccanica, si occupavano di eventi non direzionati e di “cieche forze della natura”, la ricerca
di leggi organizzative diventa oggi legittima. L’organizzazione pervade tutti i livelli della
realtà e della scienza. Un atomo è un’organizzazione (come già sapeva WHITEHEAD) e le
perplessità della fisica contemporanea sembrano derivare dal fatto che i fisici hanno scoperto
centinaia di particelle elementari ma sono ancora alla ricerca di “leggi di organizzazione”. La
chimica strutturale indaga l’organizzazione delle molecole, da quelle semplici alle complesse
e ancora parzialmente inspiegate strutture macro-molecolari incontrate nel mondo vivente. La
biologia molecolare deve i suoi successi ai concetti organizzativi quali il modello del DNA di
WATSON-CRICK, il codice genetico, l’ordine dei processi nella sintesi proteica, che superano
ampiamente le nozioni biochimiche di alcuni anni fa».
«Nelle scienze che studiano la vita, il medesimo postulato appare sotto il nome di
“biologia organistica”. Come vado dicendo da circa trent’anni, non senza incontrare forti
resistenze l’oggetto peculiare della biologia è lo studio dell’“ordine e dell’organizzazione di
parti e processi a tutti i livelli del mondo vivente”. Stranamente, la “biologia organistica”
viene oggi salutata come un nuovo e necessario complemento della biologia molecolare [B.
cita Autori] senza che sia stata fatta da parte americana una qualsiasi menzione dei miei scritti
– benché il loro ruolo sia riconosciuto ovunque altrove, compresi l’Unione Sovietica e i paesi
www.koreuropa.eu
53
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
dell’Europa orientale [citazione di Autori] – e nulla di nuovo sia stato aggiunto alle loro
affermazioni».
«In sociologia, SOROKIN ha dato al problema una lucida sistemazione, distinguendo “il
microcosmo dell’anarchia” negli eventi microfisici indeterminati (e nei fenomeni socioculturali non ricorrenti); le regolarità statistiche nella “congerie” della macrofisica e dei
fenomeni di massa psicosociali; le leggi organizzative, esemplificate dall’organizzazione del
gene, ma presumibilmente riscontrabili anche nei sistemi socio-culturali. Quella dei “sistemi”,
si può affermare con certezza, è la nozione più dibattuta nell’attuale sociologia».
«La stessa cosa vale per la tecnologia e i campi affini. Le complessità della tecnologia e
del commercio moderni hanno portato a nuovi campi e lavori che vanno sotto il nome di
systemsresearch (ricerca intorno ai sistemi), systemsanalysis (analisi dei sistemi),
systemsengineering (studio tecnico dei sistemi), operationsresearch (ricerca operativa),
human engineering (la ricerca degli strumenti e delle condizioni lavorative che meglio si
adattino alle caratteristiche del lavoratore) e simili. Tali sviluppi usano concetti derivati dalla
teoria generale dei sistemi (nel senso più stretto), dalla cibernetica, dalla teoria
dell’informazione, dalle teorie dei giochi e delle decisioni, dalla programmazione lineare,
dalla teoria delle code e da altre teorie, e sono connessi all’elettronica, alla scienza dei
computer, alla ricerca intorno agli armamenti ecc.»48.
Secondo BERTALANFFY, «Si può definire sistema un complesso di componenti in
interazione»49 (e io aggiungerei analizzato alla stregua di un contesto, spazio-temporale).
«Non possiamo parlare di cose viventi e di comportamento se non in maniera funzionale, vale
a dire, considerando le loro parti e i loro processi come organizzati in vista della
conservazione, dello sviluppo, dell’evoluzione ecc. del sistema»50. «Considerazioni analoghe
valgono per le scienze psico-sociali. [...] le categorie tradizionali della scienza meccanicistica
non sono sufficienti a spiegare (o piuttosto escludono) gli aspetti empirici fondamentali.
Sembra, pertanto, che un’espansione delle categorie, dei modelli, delle teorie sia necessaria
48
VON BERTALANFFY,
Il sistema uomo, op. cit., pp. 76-79.
49
Ivi, p. 91.
50
Ivi, p. 82.
www.koreuropa.eu
54
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
per trattare adeguatamente gli universi biologico, comportamentista e sociale»51. Infine, «In
contrasto con la progressiva specializzazione della scienza moderna, questo nuovo tipo di
modelli è interdisciplinare; lo stesso modello astratto si applica a differenti contenuti, in
differenti campi o discipline. In altri termini, fenomeni differenti nel contenuto rivelano
spesso isomorfismo nella loro struttura formale»52.
Nelle scienze sociali, oggi, la complessità ha una dimensione reale, che riguarda le
caratteristiche di complessità crescente e organizzazione delle attività umane, e riguarda
anche le caratteristiche della società pluralistica e multiculturale e della politica, e quindi una
dimensione sociologica e politica, e una dimensione culturale, che riguarda la complessità
crescente delle analisi.
Per ciò che concerne la nostra analisi, possiamo rilevare come, da un canto, in confronto
alla complessità (sia reale che culturale), non regge, non tiene, il concetto di causa: risulta
progressivamente insufficiente in proporzione della complessità, dei fenomeni e delle attività
analizzati e dell’analisi stessa. D’altro canto, la complessità genera incertezza, e quindi
contraddice un’esigenza fondamentale della concezione dei giuristi.
Secondo l’analisi di VAN DE KERCHOVE e OST, giuristi belgi, «Lo scotto da pagare per
questa complessità è certamente l’incertezza; tale è il rischio da correre, data l’insoddisfazione
nei confronti della epistemologia della semplicità, della quale è noto il carattere riduttivo o,
appunto, semplificatore. Cosa diceva questa intelligibilità classica, la cui paternità è ascritta a
CARTESIO, che ebbe il merito di esporla direttamente? Si trattava di isolare degli oggetti (delle
sostanze) chiari e distinti, staccati da uno sfondo sfumato e separato come uno scenario
teatrale. Prima semplificazione: l’oggetto, l’elemento, l’individuo, la sostanza, l’atomo
dell’essere non debbono nulla a ciò che li circonda. Come se fosse possibile pensare
l’elemento al di fuori del sistema che lo costituisce. Come se l’identità potesse riposare
tranquillamente in se stessa, con il terzo escluso a priori. Il terzo è destinato per forza ad
essere escluso, dal momento che l’entre-deux non riesce ad aprirsi un cammino in questa
fortezza di identità»53.
51
Ivi, p. 83.
Ibid.
53
VAN DE KERCHOVE - OST, Il diritto ovvero i paradossi del gioco, 1992, Milano, 1994, 1995, p. 85.
52
www.koreuropa.eu
55
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Questo riferimento al “terzo”, escluso dalla semplificazione della modernità e
dell’illuminismo, equivale al riferimento di VON BERTALANFFY, che abbiamo visto sopra, alla
insolubilità in linea di principio del “problema dei tre corpi” con la logica causale.
«Beninteso, qualora siano osservabili talune relazioni tra questi elementi chiari e
distinti, esse vengono pensate secondo uno schema meccanicistico: si tratta di movimenti
lineari, di causalità unilaterali, che, quando si esercitano, non sono mai in grado di turbare
l’ordine naturale delle ragioni (“queste lunghe catene di ragioni, del tutto semplici e facili” [R.
DESCARTES, Discours de la méthode, Paris, 1934, p. 27]). È sottinteso, infatti, che il grande
contiene il piccolo, che l’anteriore causa il posteriore, che il pesante comporta il leggero, ecc.
Seconda semplificazione: non c’è posto per le idee di ricorsività, di causalità multipla e
circolare, di interazioni e di alea. Tutto viene determinato come il movimento di un orologio.
Il gioco degli ingranaggi appare come un gioco “finito”, destinato a scandire il sempiterno va
e vieni del bilanciere ed il girotondo delle ore sul quadrante».
«Infine, l’osservatore, reso immune dalle facezie del suo genio maligno, come in un
gioco di prestigio, viene fatto sparire dal teatro del metodo. Sicuro del suo “essere” in grazia
del suo “cogito”, il filosofo si trincera dietro l’“oggettività” del proprio metodo. Terza
semplificazione: sappiamo oggi quanto tale oggettività non critica sia pregna di proiezioni
soggettive. Solo un’epistemologia della complessità, consapevole della inevitabile
implicazione dell’osservatore, può iniziare a dare uno statuto alla spiegazione che si propone
di fornire».
«Semplicità. Complessità. Lasciamo l’ultima parola a MORIN [E. MORIN, La méthode: I.
La nature de la nature, Paris, 1977]: “Il vero dibattito, la vera alternativa vengono a situarsi
ormai tra complessità e semplificazione (...). È qui che si consuma il grande cambiamento.
Sparisce l’entità di partenza della conoscenza: il reale, la materia, lo spirito, l’oggetto,
l’ordine, ecc. Rimane un gioco circolare che genera tali entità” (p. 382). Ed ancora: “Il
problema consiste ormai nel trasformare la scoperta della complessità in metodo della
complessità” (p. 386)»54.
54
Ivi, pp. 85-86.
www.koreuropa.eu
56
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Nella conclusione del capitolo intitolata significativamente «Il ritorno del terzo», VAN
DE
KERCHOVE e OST propongono «L’abbandono graduale della semplicità cartesiana
(graduale, perché non ci si libera in un giorno di un modello così radicato nel senso comune),
la crescente presa di coscienza della complessità». «Dovendo descrivere in una parola tale
mutamento di paradigma parleremmo di “ritorno del terzo”. Il terzo escluso. Questo terzo che
il pensiero semplificatore aveva messo al bando, in un canto, fuori gioco, fuori legge, poiché
tutto era sempre questo o quello. Talvolta, questo contro quello. O, allora, né questo, né
quello. Ma mai, assolutamente mai, questo poteva contaminare quello. Niente implicazione,
ma solo appartenenza totale. Niente entre-deux, ma solo la voragine della non-contraddizione.
A=A; A non è non-A, terzo escluso. Questa logica monistica non conosceva che identità
giustapposte. Qui ogni differenza è inoperante, al punto che nessun passaggio di entre-deux
viene previsto. Il terzo, e si comprende perché, viene espulso come un genio maligno. Quanto
a noi, tutti i nostri sforzi sono stati volti ad indicare come questo terzo riapparisse nell’azione
come nel pensiero. Non sotto forma di prudente compromesso (“a mezza strada”) o di
indaffarato eclettismo (“di tutto un po’”), ma come il richiamo di una mediazione nel
profondo della differenza che viene ad insinuarsi nelle identità più salde»55.
Il “ritorno del terzo” può essere considerato la metafora della post-modernità, se si va a
vedere come LYOTARD definisce La condizione postmoderna nella introduzione del saggio
così intitolato: «L’oggetto di questo studio è la condizione del sapere nelle società più
sviluppate. Abbiamo deciso di chiamarla “postmoderna”. La definizione è corrente nella
letteratura sociologica e critica del continente americano. Essa designa lo stato della cultura
dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura, delle arti a
partire dalla fine del XIX secolo. Tali trasformazioni saranno messe qui in relazione con la
crisi delle narrazioni»56. Molte delle categorie in discussione sono quelle di cui discutiamo in
questa sede, indicate nei passi degli Autori su riportati57.
55
Ivi, p. 87.
LYOTARD, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, 1979, Milano, 1981, p. 5.
57
Su questi temi mi sia permesso di rinviare il lettore al saggio di ALEO e PICA, Sistemi giuridici Complessità @
Comunicazione, Acireale-Roma, 2009.
56
www.koreuropa.eu
57
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
La crisi e almeno l’insufficienza della causalità e le relative ragioni sono profili
essenziali della crisi della modernità, e l’alternativa può essere definita fra semplificazione e
complessità.
La codificazione, forse l’invenzione più importante della modernità, ha presupposto (fra
l’altro) la straordinaria capacità di semplificazione, dei problemi e delle soluzioni, della
cultura illuministica, la fiducia e la pretesa definitorie (anche delimitative) e ordinative della
ragione, della cultura razionalistica, la nettezza delle distinzioni (fra bene e male) della cultura
cattolica. L’“età della decodificazione”58 è figlia della crisi delle certezze di queste culture.
In confronto alla complessità perdono capacità definitoria sia la forma della legge che
l’analisi causale, che sono entrambi pilastri della teoria giuridica moderna. C’è
corrispondenza fra questi due problemi, perché la causalità esprime una soglia semantica di
tipo qualitativo: (nel suo significato minimo) la condizione senza la quale non si sarebbe
verificato.
4. Insufficienza della causalità nelle argomentazioni relative ai modelli
collettivi e/o organizzati
Proprio i penalisti dovrebbero avere percezione (consapevolezza) dei limiti della
causalità (nonché della capacità pre-definitoria della forma della legge), con riferimento alle
problematiche del concorso di persone nel reato, delle organizzazioni criminali, dei delitti con
autori e vittime collettivi. Ma proprio i penalisti sono più legati ai dogmi e alle spiegazioni
causali. Ciò potrebbe spiegarsi con l’esigenza di certezza del diritto e il principio di
personalità della responsabilità penale. Meno si spiega che si parli di organizzazioni criminali,
e si argomenti in materia, a prescindere dalla teoria dell’organizzazione, o riducendo le
problematiche dell’organizzazione alle nozioni dell’associazione. (Mentre gli studiosi di tutte
le altre scienze attraversano la teoria dell’organizzazione).
58
L’espressione è di IRTI, L’età della decodificazione, Milano, 1979.
www.koreuropa.eu
58
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Nei libri di diritto penale59 (e nelle sentenze dei giudici) c’è scritto che la soglia della
responsabilità per il concorso di persone nel reato è costituita dal “contributo causale” alla
realizzazione del reato, alla verificazione del fatto costitutivo del reato. Addirittura qualcuno
ha scritto che il contributo debba essere condicio sine qua non dell’evento (per come
verificatosi)60.
L’espressione “contributo causale” dovrebbe significare il carattere “causale” del
contributo. E “causale” dovrebbe significare quello che c’è scritto (negli stessi libri) nel
capitolo sul rapporto di causalità: la condizione senza la quale l’evento non si sarebbe
verificato (condicio sine qua non), che inoltre può essere considerata adeguata al verificarsi
dell’evento (secondo l’id quodplerumqueaccidit, ovvero ciò che avviene nella maggior parte
dei casi, considerata l’esperienza dei casi simili).
Il contributo parziale ad una dimensione generale non può essere argomentato nei
termini generali (ci si scusi la ripetizione) della causalità: né nel senso della condicio sine qua
non61 né tantomeno in quello dell’adeguatezza causale.
Il palo nella rapina non può essere considerato in alcun modo “causale”, e tuttavia
nessuno vorrà dubitare della sua responsabilità. Il palo non può essere definito condicio sine
qua non della rapina, ovvero la rapina si può fare anche senza il palo: correndo maggiori
rischi e in caso di successo dividendo il bottino in un minor numero di parti; e una rapina
complicata si può fare meglio con due pali: minimizzando il rischio, aumentando le
probabilità di successo e quindi di un maggior risultato, e aumentando anche il numero di
parti in cui dividere il bottino. Questa è teoria dell’organizzazione, analisi del rapporto fra
costi e benefici, e non c’entra niente con la causalità, con l’analisi causale. Men che meno il
palo può essere considerato (di per sé solo) condizione adeguata della rapina.
59
Per tutti v. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, 16ª ed. aggiorn. e integr. da CONTI, Milano,
2003, pp. 563 ss.
60
PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, e GRASSO, Art. 110, in ROMANO e GRASSO,
Commentario sistematico del codice penale. II. Art. 85-149, Milano, 1990, pp. 146 ss., 3ª ed., 2005, pp. 159 ss.
61
V. invece PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, op. cit, GRASSO, Art. 110, op. cit. Per le critiche v.
PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, 8ª ed., Milano, 2003, pp. 554 ss., e MANTOVANI, Diritto
penale. Parte generale, 6ª ed., Padova, 2009, pp. 514 ss.. PAGLIARO ha criticato la qualificazione come “causale”
del contributo nel concorso di persone nel reato senza tuttavia pervenire a una diversa definizione teorica
generale dal punto di vista oggettivo.
www.koreuropa.eu
59
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Questo è il problema dei tre corpi, insolubile con la causalità, ovvero del terzo escluso
dalla semplificazione della modernità. Ovviamente il problema si complica con l’aumento
delle variabili: più propriamente, si complessifica, ma se viene affrontato in termini
funzionalistici.
Contributo “causale” (dei libri di diritto penale e delle sentenze) non vuol dire
contributo “alla causalità” (ovvero alla verificazione) dell’evento costitutivo del reato (che di
per sé non sarebbe sbagliato): sia perché in tal modo non viene definito proprio il contributo
(singolarmente), che invece è oggetto della valutazione; sia perché questa valutazione non ha
di per sé carattere propriamente “causale”.
L’argomento (pure proposto62 – per salvare la baracca!) che il contributo è condicio sine
qua non del fatto per come in concreto questo è stato realizzato non può essere in alcun modo
condiviso: perché contraddice le connotazioni di astrattezza e generalità (della comparazione
fra gli insiemi degli eventi dei tipi di cui si tratta) che sono essenziali del giudizio di causalità
(la ricerca delle leggi di verificazione degli eventi); contraddice la logica causale; in concreto,
perché è sempre vero, per qualunque caratteristica del fatto (senza la quale cioè il fatto
sarebbe stato diverso) e dunque elude l’esigenza di argomentazione cui è diretta l’analisi
causale.
È possibile che in concreto il singolo contributo sia così rilevante per l’intero da esserne
condicio sine qua non. Ma questo non può essere indicato come criterio generale della
responsabilità per il concorso di persone nel reato.
La concezione c.d. della causalità “agevolatrice” o “di rinforzo”63, con cui si cerca di
salvare la rilevanza della causalità nella problematica del concorso di persone, esprime un
significato di causalità comunque diverso da quelli della condicio sine qua non e
dell’adeguatezza, accolti in generale dalla dottrina penalistica: “causalità agevolatrice” è anzi
a rigore una contraddizione in termini, perché la causalità vuole costituire una condizione di
sufficienza della spiegazione (della verificazione); questa concezione esprime un significato
62
PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, cit., p. 80; ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 564; GRASSO, Art. 110,
cit., 1990, pp. 146 ss., 3ª ed., 2005, pp. 159 ss.. Per le critiche v. PAGLIARO, Principi cit., 8ª ed., pp. 557 ss.,
nonché Il reato, in GROSSO – PADOVANI – MAGLIARO (a cura di), Trattato di diritto penale, II, Milano, 2007, pp.
380 ss..
63
Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 6ª ed., cit., p. 515.
www.koreuropa.eu
60
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
comunque più vicino a quello funzionalistico, della utilità; inoltre, incontra l’obiezione (che
riguarda in generale la teoria dell’accessorietà del concorso di persone nel reato) circa la non
necessità che il rapporto fra i diversi contributi sia tra principale e secondario, ovvero appunto
accessorio.
“Contributo causale” è propriamente in generale una contraddizione in termini.
Il singolo contributo ad una dimensione collettiva ovvero organizzata può essere
argomentato e valutato nei termini generali della funzionalità: della parte rispetto al tutto.
Funzionalità, ovvero utilità: maggiore probabilità di conseguimento del risultato, possibilità di
conseguimento di un miglior risultato, riduzione dei costi, riduzione dei rischi.
La problematica penalistica del concorso di persone non può essere ridotta senz’altro a
quella dell’organizzazione64, che pure ne è connotazione principale: perché il (singolo)
contributo può ben essere penalmente rilevante ancorché assolutamente non preventivato (per
es. il passante che aiuta il reo anziché la vittima).
Prima di continuare va fatta un’osservazione concreta sulla nostra dottrina e sulla nostra
giurisprudenza, in materia di concorso di persone nel reato e di definizione e argomentazione
della responsabilità per i delitti associativi: spesso le argomentazioni adottate (in modo
precipuo, nelle più recenti pronunce della Corte di cassazione) sono chiaramente di carattere
funzionalistico, e talvolta anche puntuali e raffinate, ma definite “causali” e perciò
ovviamente frutto dell’esperienza e del buon senso ma senza la necessaria consapevolezza
scientifica della teoria generale dell’organizzazione.
La nozione del concorso di persone nel reato, segnatamente dell’art. 110 c.p. («Quando
più persone concorrono nel medesimo reato [...]»), prima (in senso logico) di quelle dei delitti
associativi, viene criticata di carenza di tassatività e determinatezza, e considerata oggetto di
necessità di tipizzazione.
La storia della codificazione e della cultura penalistica è caratterizzata da tentativi di
tipizzazione dei contributi concorsuali, rimasti infruttuosi.
Secondo la Commissione GROSSO, «Questo criterio amplissimo, che dà rilievo a
contributi anche non rigorosamente causali, fa rilevare sul terreno del concorso condotte che
64
INSOLERA, Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, cit. e voce Concorso di persone nel reato,
in Dig. disc. pen., vol. II, 1988, pp. 437 ss., I aggiorn., 2000, pp. 66 ss..
www.koreuropa.eu
61
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
si sono limitate ad incrementare il rischio della produzione dell’evento, concede
indiscriminata rilevanza ad ogni condotta agevolatrice o di rinforzo, deve essere superato in
sede di riforma. Attraverso una norma che dia invece rilevanza soltanto a condotte
sicuramente causali in ordine alla condotta di un altro concorrente o al comune evento
criminoso attraverso una dettagliata descrizione delle condotte tipiche». «In via
esemplificativa, una formulazione possibile che tenga conto delle sopramenzionate esigenze
di tipizzazione degli apporti causali potrebbe essere la seguente: concorre nel reato chiunque
abbia partecipato o istigato alla sua esecuzione ovvero rafforzato il proposito di altro
concorrente o agevolato l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza»65.
La prima indicazione della Commissione PISAPIA sul «Concorso di persone nel reato» è
stata quella di «Prevedere che: a) concorre nel reato chi partecipando alla sua deliberazione,
preparazione o esecuzione ovvero determinando o istigando altro concorrente, o prestando un
aiuto obiettivamente diretto alla realizzazione medesima, apporta un contributo causale alla
realizzazione del fatto».
Abbiamo detto che il contributo causale non può essere argomentato nei termini
generali della causalità: il che non esclude che concretamente il singolo contributo possa
essere considerato causale rispetto all’evento, sia nel senso della condicio sine qua non che in
quello dell’adeguatezza rispetto alla realizzazione della fattispecie.
Adesso aggiungiamo che la nozione di contributo (di una parte a un tutto), in linea di
principio: a) non è tipizzabile, b) è senza soglia.
Già la nozione di causalità non è tipizzabile: una persona si può uccidere in un numero
infinito di modi possibili (secondo la razionalità e fantasia dell’autore). La causalità non è un
fatto, di cui si può descrivere il modello (tipico), ma un criterio di valutazione. Il dolo e la
colpa sono criteri di valutazione. La nostra cultura non si pone il problema di tipizzare queste
nozioni, perché esse rientrano nella tradizione culturale più lontana e profonda, fanno parte
del nostro dna o background culturale. e sono nozioni, a ben vedere, senza soglia: non è
definibile il minimo del dolo, o il minimo della colpa. Ad un certo grado di consistenza il
giudice ritiene la presenza del dolo, della colpa; come del nesso di causalità. Eppure la nostra
65
Sta in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, p. 622.5.
www.koreuropa.eu
62
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
cultura giuridica si pone il problema di tipizzare il concorso di persone nel reato, come (ed a
maggior ragione) le nozioni di partecipazione e di concorso eventuale o esterno nei delitti
associativi.
Men che meno può essere tipizzabile la nozione di contributo... alla causalità. Il
contributo, da un canto, può esser dato in un numero infinito di modi possibili (secondo la
razionalità e fantasia del suo protagonista), d’altro canto, viene valorato (assume il valore e
quindi il significato di contributo, alla dimensione collettiva) secondo l’uso che poi ne fanno
gli altri protagonisti della dimensione collettiva (e secondo la loro razionalità e fantasia).
La funzione essenziale della disciplina del concorso di persone nel reato è di definizione
(ed assimilazione) della responsabilità dei contributi, alla realizzazione del fatto costitutivo
del reato, “atipici”, ossia singolarmente non costitutivi della fattispecie (nei suoi aspetti sia
oggettivi che soggettivi). Tipizzare la... atipicità mi sembra davvero improbabile. Cosa
diversa è qualsiasi una norma (qui ov’è definito un criterio, di valutazione e di misura) possa
essere costruita e riscritta meglio.
La distinzione della pena secondo la diversa tipologia del contributo (autore, coautore,
istigatore, complice, come per esempio nel codice tedesco e nel codice ZANARDELLI), che è in
tal caso una (ulteriore) funzione precipua della disciplina del concorso di persone nel reato,
incontra la forte obiezione che la tipologia (formale qualitativa) del contributo non è di per sé
misura della sua rilevanza concreta, cioè un contributo di qualsiasi tipo può essere in concreto
più consistente o viceversa meno consistente che uno di qualsiasi altro tipo: l’istigatore può
avere nel caso concreto una rilevanza maggiore che l’autore, o il complice fornire un
contributo essenziale per la dimensione concreta del fatto come realizzato.
La nozione di contributo è di per sé senza soglia: si può contribuire in un modo
piccolissimo, e tuttavia appunto rilevante, alla edificazione di un evento di dimensioni pure
ingenti (io invio un euro per la ricerca sul cancro, o affiggo un volantino pubblicitario di un
evento importantissimo). È lo stesso dire che adottato un (qualsiasi) criterio di misura, come
di valutazione, tutto è misurabile, l’infinitamente piccolo come l’infinitamente grande.
Problema in sé diverso è quello secondo cui la misura del penalmente rilevante debba
essere di una certa consistenza. È un problema generale del diritto penale, e riguarda
parimenti la consistenza economica necessaria a costituire il reato di furto o quello di truffa. A
www.koreuropa.eu
63
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
mio avviso questo problema non può essere risolto adeguatamente in sede di definizione del
reato, se non di criteri generali, ma soprattutto, nella sostanza (quale che ne sia la collocazione
ovvero denominazione formale), in termini di discrezionalità dell’azione penale.
Circa i problemi che stiamo ponendo, e a proposito di complessità e legalità, va fatto
rilevare come nel nuovo codice penale francese, del 1994, e nel sistema della discrezionalità
dell’azione penale: a) siano stati eliminati tutti i minimi edittali; b) siano state eliminate, di
conseguenza, tutte le circostanze attenuanti del reato; c) sia stato adottato il criterio generale
dell’assorbimento, delle pene di varie infrazioni entro la pena dell’infrazione più grave, fra
quelle commesse dalla stessa persona.
Quest’ultima soluzione, ulteriore rispetto alle nostre prassi in materia di reato
continuato (queste già assai ulteriori in confronto allo schema e alla ratio originari del
codice), esprime il significato di una funzione penale interdittiva della pericolosità in atto
dell’individuo, quale si evince soprattutto dalla tipologia dei reati commessi, e dal reato più
grave fra quelli commessi. È una funzione ulteriore rispetto alla funzione generalpreventiva. È
una funzione peculiare della storia, e delle prassi, dei delitti politici e dei delitti associativi.
Un’altra considerazione necessaria è che (tutto) il diritto del terzo millennio si
arricchisce di criteri di valutazione, e di attribuzioni all’operatore di funzioni da realizzare, in
concreto, (e quindi di un ambito di discrezionalità concreta di tipo anche operativo), che sono
appunto diversi e ulteriori rispetto ai termini tradizionali della forma della legge e
segnatamente della fattispecie. Ciò pone ovviamente il problema di una diversa e ulteriore
costruzione delle garanzie.
Nella concezione classica nella forma della legge sono definite la soglia dell’illecito e
quella della garanzia. Nella realtà attuale, per ragioni reali, politiche e culturali, la forma della
legge è sempre più dilatata ed elastica, nella definizione dell’illecito, il che quindi richiede la
precisazione dei criteri di prova e di argomentazione, e la problematica delle garanzie
dev’essere costruita parimenti secondo una logica e in termini (anche) funzionalistici.
L’associazione è come tale una struttura organizzativa, costituita da accordi
(convenzioni) di carattere generale. La nozione di organizzazione presuppone inoltre la
predisposizione di risorse e mezzi materiali. Queste nozioni sono di tipo dinamico,
processuale, e non possono essere rappresentate con le categorie della causalità.
www.koreuropa.eu
64
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
In generale la nozione di organizzazione sposta il problema dalla dimensione soggettiva
dello “scopo”, delle “finalità”, dell’associazione alla dimensione oggettiva della
“funzionalità” della struttura (di persone e di mezzi) rispetto alla realizzazione di una attività
di tipo delittuoso.
La previsione dell’art. 270 del codice ROCCO (di «Associazioni sovversive») ebbe
origine, come abbiamo detto, con riferimento diretto, e dichiarato, alle associazioni
comuniste, socialiste e anarchiche. Vassalli ha riferito come ROCCO ai suoi studenti
dell’Università di Roma spiegasse che i legislatori avevano fatto grande fatica a rappresentare
in termini normativi movimenti politici esistenti. E che queste norme riguardavano le
associazioni volte alla diffusione di idee politiche sovversive, perché quando si passasse
all’azione subentrerebbero i delitti associativi di cui agli artt. 304, 305 e 306 del codice
(cospirazione politica mediante accordo e mediante associazione e banda armata).
Orbene, la riforma radicale avvenuta con la legge 24.2.2006 n. 85 costituisce l’eccesso
opposto, ma soprattutto ha reso la previsione sostanzialmente inapplicabile: «Chiunque nel
territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette e idonee a
sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, ovvero a
sopprimere violentemente ogni ordinamento politico e giuridico dello Stato, è punito con la
reclusione da cinque a dieci anni». La partecipazione è punita da uno a tre anni e le pene sono
aumentate per coloro che ricostituiscono le associazioni di cui sia stato ordinato lo
scioglimento. La figura è rimasta tuttavia meno grave di quella delle associazioni terroristiche
(di «Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine
democratico») dell’art. 270 bis, la cui costituzione è punita da sette a quindici anni, e la cui
partecipazione è punita da cinque a dieci anni.
Le Brigate Rosse non sono state, e non erano, “idonee”, “a sovvertire violentemente gli
ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, ovvero a sopprimere violentemente
ogni ordinamento politico e giuridico dello Stato”, e non lo sono state, e non lo sono, neppure
le strutture di al-Qaida e Osama Bin Laden in confronto all’ordinamento e alla democrazia
statunitensi.
www.koreuropa.eu
65
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
5. Partecipazione e concorso esterno nei delitti associativi
La partecipazione o appartenenza all’associazione delittuosa è costituita dalla
correlazione funzionale stabile della persona con la struttura e quindi con l’attività
dell’associazione, con la condivisione delle finalità di questa. Condivisione soggettiva ma
anche oggettiva: così dei risultati e proventi delle attività. La relazione funzionale stabile può
essere costituita dall’accordo formale, cui segua la reciproca disponibilità, ovvero dalla
effettività di questa disponibilità, attestata dalle prestazioni corrispettive.
È membro dell’associazione colui, che vi abbia aderito formalmente, ovvero nei fatti,
sulle cui prestazioni si può fare quindi legittimo preventivo affidamento, sulle quali si fa (cioè
di fatto) preventivo affidamento. È coerente sia con la dottrina penalistica che con la teoria
dell’organizzazione che le nozioni penalistiche di questa vengano dedotte, ex post, dalla
effettività delle condotte realizzate, segnatamente da quelle aventi rilevanza penale, dalle
correlazioni interpersonali e organizzative costituite, per la realizzazione di attività delittuose.
Come abbiamo già osservato, nessuno penserebbe di ridurre ovvero ricostruire la
problematica del concorso di persone nel reato con riferimento alla dimensione (formale)
dell’accordo.
Come altresì abbiamo detto, essenziale del concetto di organizzazione è quello di
ricorsività (di reiterazione in termini di reciprocità) fra le prestazioni dei diversi soggetti che
ne costituiscono così la struttura. E in tal senso il concetto sociale (ovvero anche sociologico)
di convenzione è già diverso da quello di accordo o di contratto.
Il concorso eventuale o esterno nei delitti associativi.
Il contributo, rilevante (utile) per la struttura e/o per l’attività dell’associazione
delittuosa, fornito da chi non faccia parte della stessa, è costitutivo del concorso eventuale o
esterno nel delitto associativo.
In termini di teoria dell’organizzazione, da una parte, la connotazione di stabilità
(essenziale dell’analisi e) della nozione di funzionalità riguarda gli effetti del contributo, che
dunque può essere anche singolo, per la struttura e/o l’attività dell’associazione, considerate
(queste) in termini generali. Così, questo contributo va tenuto distinto dal concorso nel
www.koreuropa.eu
66
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
singolo reato: che tuttavia, per la sua dimensione e rilevanza concreta (in funzione
dell’associazione e dell’attività di questa, considerate in generale), può costituire anche
concorso nel delitto associativo.
D’altra parte, la differenza fra la partecipazione all’associazione e il concorso esterno è
che la prima è il risultato di, ed è costituita da, una convenzione di carattere generale, fra il
soggetto e l’associazione, il contributo costitutivo del concorso esterno è (dev’essere stato)
oggetto di una negoziazione specifica, fra l’associazione e il soggetto; altrimenti non era
preventivabile in quanto esigibile.
Dal punto di vista sistematico e formale, la disciplina generale del concorso di persone
nel reato, che ha la funzione essenziale – abbiamo visto – di definire e assimilare alla
responsabilità del reato quella dei contributi atipici alla realizzazione di esso, è parimenti
applicabile (e direi anche ovviamente) ai reati a concorso necessario: per gli autori dei
contributi “atipici” alla realizzazione di questi. Possono farsi gli esempi di colui che istiga i
rissanti: concorre alla rissa cui non partecipa; e di colui che presta la casa per lo svolgimento
di una relazione incestuosa: al cui reato dunque concorre senza parteciparvi.
Fra i reati a concorso necessario – cui è applicabile la disciplina generale del concorso
di persone nel reato – non si possono certo escludere, non v’è ragione per escludere, i delitti
associativi. Anzi. Per questi la disciplina sembra particolarmente necessaria.
Nel codice napoleonico era lo sforzo di tipizzazione sia dei contributi concorsuali
(costitutivi della disciplina generale della “complicità”) che dei contributi alle associazioni e
alle bande delittuose di chi non ne fa parte.
Art. 59: «I complici di un crimine o di un delitto, saranno puniti colla stessa pena degli
autori di questo crimine o di questo delitto, salvi i casi nei quali la legge avesse diversamente
disposto». Art. 60: «Saranno puniti come complici di una azione qualificata come crimine o
delitto, coloro i quali, con doni, promesse, minacce, abuso di autorità o di potere,
macchinazioni o male arti, avranno provocata questa azione, o dato delle istruzioni per
commetterla; Coloro che avranno procurato delle armi, degl’istrumenti o qualunque altro
mezzo che avrà servito all’azione, sapendo che di ciò doveva farsi uso per la medesima;
Coloro che avranno scientemente aiutato od assistito l’autore o gli autori dell’azione nei fatti
che l’avranno preparata o facilitata, od in quelli che l’avranno consumata; salve però le pene
www.koreuropa.eu
67
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
che saranno specialmente prescritte nel presente Codice contro gli autori di cospirazioni o di
provocazioni attentatorie alla sicurezza interna od esterna dello stato, anche nel caso in cui il
crimine che era l’oggetto dei cospiratori o dei provocatori, non fosse stato commesso». Art.
61: «Coloro che, conoscendo la condotta criminosa di malfattori che esercitano brigantaggio o
violenze contro la sicurezza dello Stato, la pace pubblica, le persone o le proprietà, loro
somministrano abitualmente alloggio, luogo di ritirata o d’unione, saranno puniti come loro
complici».
Inoltre, nell’art. 96, la previsione della pena delle bande armate (la pena di morte e la
confisca dei beni del condannato) riguarda parimenti chi «si sarà messo alla testa di bande
armate, o vi avrà esercitato una funzione o comando qualunque», «quelli che avranno diretto
l’associazione, levato o fatto levare, organizzato o fatto organizzare le bande, o che loro
avranno, scientemente e volontariamente, somministrato o procurato delle armi, munizioni e
istrumenti pel crimine, od avranno inviato dei convogli di viveri, o che avranno in qualunque
altro modo tenuto intelligenze coi direttori o comandanti delle bande»66.
Ancora, nella disciplina dell’associazione di malfattori, secondo l’art. 267, «gli autori, i
direttori dell’associazione, ed i comandanti in capo o sottocomandanti di queste bande,
saranno puniti coi lavori forzati a tempo», secondo l’art. 268, «Saranno punite colla
reclusione tutte le altre persone incaricate di un servizio qualunque in queste bande, e quelle
che avranno scientemente e volontariamente somministrato alle bande o alle loro divisioni
delle armi, munizioni, istromenti atti al crimine, alloggio, ritirata o luogo di unione».
Nel codice ZANARDELLI, nelle previsioni degli artt. 132 e 249 (corrispondenti agli artt.
307 e 418 del codice Rocco), di assistenza ai partecipi di banda armata ed associazione per
delinquere, era fatta salva la disciplina generale del concorso di persone nel reato.
66
Art. 96 del codice penale napoleonico: «Chiunque, sia per invadere dei beni demaniali, delle proprietà o danari
pubblici, piazze, città, fortezze, posti, magazzini, arsenali, porti, vascelli o bastimenti appartenenti allo Stato, sia
per saccheggiare o dividere delle proprietà pubbliche o nazionali, o quelle di una generalità di cittadini, sia in
fine per far attacco o resistenza alla forza pubblica, mentre agisce contro gli autori di questi crimini, si sarà
messo alla testa di bande armate, o vi avrà esercitato una funzione o comando qualunque, sarà punito colla
morte, ed i suoi beni saranno confiscati». «Saranno applicate le stesse pene a quelli che avranno diretto
l’associazione, levato o fatto levare, organizzato o fatto organizzare le bande, o che loro avranno, scientemente e
volontariamente, somministrato o procurato delle armi, munizioni e istrumenti pel crimine, od avranno inviato
dei convogli di viveri, o che avranno in qualunque altro modo tenuto intelligenze coi direttori o comandanti delle
bande».
www.koreuropa.eu
68
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Art. 132: «Chiunque, fuori dei casi preveduti nell’art. 64, dà rifugio o assistenza o
somministra vettovaglie alla banda menzionata nell’articolo precedente, o in qualsiasi modo
ne favorisce le operazioni, è punito con la detenzione da sei mesi a cinque anni»67.
La previsione dell’art. 249 è identica con riferimento all’associazione per delinquere:
«Chiunque, fuori dei casi preveduti nell’articolo 64, dà rifugio o assistenza, o somministra
vettovaglie agli associati, o ad alcuno tra essi, è punito con la reclusione sino ad un anno». Ma
vi è aggiunta la previsione del secondo comma: «Va esente da pena colui che somministri
vitto o dia rifugio ad un prossimo congiunto».
La disciplina richiamata dell’art. 64 è quella generale «Del concorso di più persone in
uno stesso reato»68.
Le previsioni degli artt. 307 e 418 del codice ROCCO sono, come si è accennato,
corrispondenti a quelle degli artt. 132 e 249 del codice ZANARDELLI.
La formula di esclusione del concorso di persone nel reato, introduttiva di queste
previsioni, è stata pure intesa dalla Corte di cassazione come riferita alle ipotesi di concorso
67
Siamo (nel codice ZANARDELLI) fra le «Disposizioni comuni ai capi precedenti», «Dei delitti contro la
sicurezza dello Stato».
Art. 131: «Chiunque, per commettere alcuno dei delitti preveduti negli articoli 114, 117, 118 e 120, forma una
banda armata, o esercita nella medesima un comando superiore od una funzione speciale, è punito con la
reclusione o con la detenzione da dieci a quindici anni». «Tutti gli altri che fanno parte della banda sono puniti
con la reclusione o con la detenzione da tre a dieci anni».
Art. 133: «Vanno esenti da pena per i fatti preveduti nei due articoli precedenti: 1° coloro che, prima della
ingiunzione dell’Autorità o della Forza pubblica, o immediatamente dopo, disciolgano la banda o impediscano
che la banda commetta il delitto per il quale era formata; 2° coloro che, non avendo partecipato alla formazione o
al comando della banda, prima della detta ingiunzione, o immediatamente dopo, si ritirino senza resistere,
consegnando o abbandonando le armi».
68
Libro I, titolo VI, la disciplina generale «Del concorso di più persone in uno stesso reato». Art. 63: «Quando
più persone concorrano nella esecuzione di un reato, ciascuno degli esecutori e dei cooperatori immediati
soggiace alla pena stabilita per il reato commesso». «Alla stessa pena soggiace colui che ha determinato altri a
commettere il reato; ma all’ergastolo è sostituita la reclusione da venticinque a trent’anni, e le altre pene sono
diminuite di un sesto, se l’esecutore del reato lo abbia commesso anche per motivi propri». Art. 64: «È punito
con la reclusione per un tempo non minore dei dodici anni, ove la pena stabilita per il reato commesso sia
l’ergastolo, e negli altri casi con la pena stabilita per il reato medesimo diminuita della metà, colui che è
concorso nel reato: 1° con l’eccitare o rafforzare la risoluzione di commetterlo, o col promettere assistenza od
aiuto da prestarsi dopo il reato; 2º col dare istruzioni o col somministrare mezzi per eseguirlo; 3° col facilitarne
l’esecuzione, prestando assistenza od aiuto prima o durante il fatto». Art. 65: «Le circostanze e le qualità inerenti
alla persona, permanenti o accidentali, per le quali si aggrava la pena di alcuno fra quelli che sono concorsi nel
reato, ove abbiano servito ad agevolarne la esecuzione, stanno a carico anche di coloro che le conoscevano nel
momento in cui vi sono concorsi; ma la pena può essere diminuita di un sesto, e all’ergastolo può essere
sostituita la reclusione da venticinque a trent’anni». Art. 66: «Le circostanze materiali che aggravano la pena,
ancorché facciano mutare il titolo del reato, stanno a carico anche di coloro che le conoscevano nel momento in
cui sono concorsi nel reato».
www.koreuropa.eu
69
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
necessario costitutive (direttamente) del delitto associativo: e questo argomento era utilizzato
per escludere la configurabilità del concorso eventuale nel delitto associativo69. Ma invece
quella formula («fuori dei casi di concorso nel reato») riproduce identicamente il riferimento
formale del codice ZANARDELLI alla (all’art. 64 della) disciplina generale del concorso
(eventuale) di persone nel reato.
I delitti di assistenza agli associati degli artt. 307, 418 e poi anche 270 ter70
(rispettivamente, della banda armata, dell’associazione per delinquere e di tipo mafioso,
dell’associazione sovversiva e di quella terroristica) sono costituiti dalle prestazioni in favore
degli associati (originariamente di rifugio o vitto, oggi anche ospitalità, mezzi di trasporto,
strumenti di comunicazione71) agli associati (anche) come singoli (“a taluna delle persone che
partecipano all’associazione”) e anche occasionalmente: infatti con l’aggravante che
l’assistenza sia prestata “continuatamene”. La non punibilità del fatto commesso in favore di
un prossimo congiunto è prevista in tutte e tre le norme.
Lo schema del codice è abbastanza semplice: da un lato, la responsabilità per il delitto
associativo; dall’altro, la responsabilità per il delitto di assistenza agli associati (come singoli,
con l’aggravante che sia prestata continuatamene e la non punibilità del fatto commesso in
favore di un prossimo congiunto), «fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento»
(il delitto di favoreggiamento personale costituito dal fatto di aiutare il soggetto a eludere le
investigazioni dell’autorità); nel mezzo, la responsabilità per il concorso nel delitto
associativo, costituita dai contributi forniti all’associazione, considerata in termini generali, da
chi non vi partecipi, non ne faccia parte.
La Cassazione, ammettendo in linea di principio la configurabilità del concorso
eventuale nel delitto associativo, ha pure ritenuto che in concreto ciò riguardi unicamente (o
essenzialmente) le ipotesi di concorso morale (per esempio, nel caso dell’ex mafioso che
aveva istigato il figlio a entrare nell’organizzazione di cui egli non faceva più parte), perché
invece il contributo materiale sarebbe direttamente costitutivo della figura delittuosa
69
Cass. I, sent. 2348 del 27.6.1994 (ud. 18.5.1994), in Guida al diritto de Il Sole-24 Ore de 31.10.1994, pp. 70
ss..
70
Inserito con l’art. 1 d.l. 18.10.2001 n. 374, conv. con modif. in l. 15.12.2001 n. 438.
71
Modifica introdotta con lo stesso art. 1 d.l. 374/2001 conv. con modif. in l. 438/2001.
www.koreuropa.eu
70
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
associativa72 (o altrimenti irrilevante, aggiungerei io). Questa posizione risulta, in particolare,
legata alla dimensione “contrattualistica” (cioè fatta di accordi formali, che sopra abbiamo
esaminato) del delitto associativo.
La Cassazione a sezioni unite ha altresì limitato la rilevanza del concorso eventuale o
esterno nel delitto associativo ai casi e momenti di “fibrillazione”, di “emergenza”, nella vita
dell’associazione, da dover questa ricorrere (quindi eccezionalmente) al contributo di estranei:
contributo anche “episodico”, “unico”, ma che « serva per consentire all’associazione per
mantenersi in vita, anche solo in un determinato settore, onde poter conseguire i propri
scopi»73. (La concezione causalistica!).
Invece è assolutamente normale che qualsiasi struttura organizzativa di qualsiasi tipo di
attività abbia bisogno, e si avvalga, di contributi di soggetti che non ne fanno parte, cioè che
non ne sono elementi organici (organicamente inseriti, stabili): contributi, per attività diverse
da quelle svolte tipicamente dai membri della struttura organizzata, che quindi vanno di volta
in volta negoziati, cioè non sono direttamente e senz’altro esigibili e preventivabili; ma che
certo sono ben lontani dall’essere, e non si può richiedere che siano (perché abbiano rilevanza
penale), singolarmente necessari per mantenere in vita l’associazione, o un settore di questa.
In modo particolare, quanto più una organizzazione criminale ha collegamenti, intrecci
e connivenze nell’ambiente sociale circostante (si pensi ai collegamenti della mafia con la
società, con le istituzioni pubbliche, con l’economia, ma anche ai collegamenti dei gruppi
terroristici), tanto più è normale il contributo dei soggetti anche estranei e quindi si pone, in
concreto, il problema della dimensione penalistica del concorso esterno.
Un’osservazione tecnica particolare. Quando veniva esclusa e comunque revocata in
dubbio la configurabilità del concorso esterno nel delitto associativo è stata introdotta nel
sistema la circostanza aggravante (sottratta al bilanciamento) dell’art. 7 d.l. 13.5.1991 n. 152,
conv. con modif. in l. 12.7.1991 n. 203, per i delitti «commessi avvalendosi delle condizioni
72
Cass. I, 13.2.1990, AGLIERI ed altri. Per questa posizione v. già CONTENTO, Il concorso di persone nei reati
associativi e plurisoggettivi (contributo alla ricerca CNPDS-CRS sulla riforma della parte generale del codice
penale), 1983.
73
Cass. SS.UU., 28.12.1994, ud. 5.10.1994, Demitry, in Cass. pen., 1995, pp. 842 ss., con nota di IACOVIELLO, Il
concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere.
www.koreuropa.eu
71
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
previste dall’articolo 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle
associazioni previste dallo stesso articolo»74.
Per i fatti autonomamente delittuosi che agevolano l’attività dell’associazione di tipo
mafioso, questa circostanza copre l’identico spazio del concorso esterno, come pure l’intero
contenuto della circostanza si sovrappone a quello tipico del delitto associativo, per i soggetti
cioè che fanno parte dell’associazione. Il contenuto della circostanza è autonomo per i fatti, di
per sé delittuosi, commessi da soggetti estranei all’associazione che si avvalgono, piuttosto,
del contributo dell’associazione mafiosa. Viceversa, l’autonomia del concorso esterno (ma
come pure della partecipazione) rispetto alla circostanza aggravante, riguarda tutti i fatti (in
sé) non delittuosi a prescindere, appunto, dalla correlazione con l’esistenza e l’attività
dell’associazione mafiosa.
Appare certo inverosimile che l’avvenuta introduzione della circostanza aggravante di
cui all’art. 7 d.l. 152/1991 sia stata utilizzata dalla Corte di cassazione come argomento per
(ricostruire il sistema del codice del 1930 nel senso di) escludere la configurabilità del
concorso eventuale o esterno nei delitti associativi75.
Ora la Cassazione a sezioni unite richiede il contributo causale per l’esistenza e il
rafforzamento dell’associazione, che si sia estrinsecato in un tangibile vantaggio per
l’associazione76.
Contributo causale è, come abbiamo già detto, in generale, una contraddizione in
termini. Il contributo di una parte a un tutto può essere apprezzato nei termini generali della
funzionalità. Può avvenire, in concreto, che il singolo contributo sia così rilevante da essere
(singolarmente) indispensabile, determinante, per l’intero, ma questo non può essere indicato
come il criterio generale di argomentazione della rilevanza del contributo a un intero.
«1. Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste
dall’articolo 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo
stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà». «2. Le circostanze attenuanti, diverse da quelle
previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1 non possono
essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena
risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante». Il secondo comma è stato così modificato con
l’art. 5 comma 1 l. 14.2.2003 n. 34.
75
Cass. I, sentenze 18.5.1994 nn. 2342 e 2348.
76
Cass. SS.UU. sent. 22327 del 30.10.2002, dep. 21.05.2003, Carnevale, riv. 224181, e poi Cass. SS.UU., sent.
33748 del 12.07.2005, dep. 20.09.2005, Mannino, riv. 231673.
74
www.koreuropa.eu
72
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Occorre riconoscere, tutti, che il contenuto argomentativo della sentenza Mannino due,
come di altre, è di tipo anche, abbastanza, sostanzialmente, funzionalistico. Tuttavia, in primo
luogo, non è possibile qualificare la rilevanza del contributo (in generale) come causale, e il
problema non è affatto, né prevalentemente, nominalistico.
Soprattutto, si richiede (sul piano probatorio) la verifica del vantaggio costituito dal
contributo per l’associazione: così, nel rapporto dell’associazione mafiosa con la politica, il
conseguimento di appalti pubblici. L’accordo, l’impegno, di un soggetto che è rappresentativo
e si fa garante dei comportamenti di un insieme di persone, che gli sono sottoposte e ne sono
condizionate, costituisce di per sé il rafforzamento della dimensione organizzativa
dell’associazione delittuosa, che può contare sulle prestazioni dei componenti di quel
determinato gruppo. Il rafforzamento della struttura ovvero dimensione organizzativa
dell’associazione riguarda anche, ed eminentemente, il novero degli accordi di carattere
generale o particolare circa le attività e le prestazioni su cui l’associazione può contare per la
realizzazione delle sue attività.
Funzionale significa “che serve” (a). La partecipazione all’associazione non è un delitto
di evento (ma è costituita dalla convenzione di carattere generale fra il singolo e
l’associazione). Men che meno lo è il concorso esterno (costituito anche, ed eminentemente,
dall’accordo di carattere particolare relativo ad una determinata prestazione, funzionale
all’esistenza ed all’attività dell’associazione considerata in generale). Il delitto associativo è
un delitto a consumazione anticipata, fondato di per sé sulla manifestazione di disponibilità
del soggetto. Problema in sé diverso è quello della prova.
In generale, comunque, l’evoluzione della giurisprudenza in questa materia conferma
appieno la validità dell’impostazione seguita in questa sede. La ricostruzione delle
caratteristiche concrete della associazione di volta in volta in oggetto, per la definizione dei
ruoli e delle relazioni concrete tra le persone e con i delitti, è chiaramente di tipo sistemicofunzionalistico, affatto diversa dall’analisi di tipo causalistico fondata sulle massime
d’esperienza, e comunque la si definisca. Ma il chiarimento anche nominalistico appare
essenziale, dal punto di vista sostanziale.
www.koreuropa.eu
73
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
6. I contributi della teoria dell’organizzazione alla problematica del reato
politico
La teoria dell’organizzazione consente di ridefinire la problematica penalistica del reato
politico.
Il reato politico è a dimensione necessariamente organizzativa. Il singolo reato, del
singolo soggetto, compiuto per finalità politiche di qualsivoglia natura, non merita rilevanza
penalistica particolare: a prescindere dal collegamento (funzionale) con una dimensione
generale organizzativa.
Così si capisce anche perché il problema non può essere risolto nei termini (causalistici)
della “idoneità”.
Nell’art. 241 c.p., «Attentati contro la integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato»
era punito (con la pena di morte e poi con l’ergastolo) «Chiunque commette un fatto diretto a
sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero,
ovvero a menomare l’indipendenza dello Stato», nonché «chiunque commette un fatto diretto
a disciogliere l’unità dello Stato, o a distaccare dalla madre Patria una colonia o un altro
territorio soggetto, anche temporaneamente, alla sua sovranità».
Con la riforma operata con l’art. 1 l. 24.2.2006 n. 85, la previsione dell’art. 241 c.p., del
delitto di «Attentati contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato» è che «Salvo che
il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti violenti diretti e idonei a sottoporre il
territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a
menomare l’indipendenza o l’unità dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a
dodici anni». «La pena è aggravata se il fatto è commesso con violazione dei doveri inerenti
l’esercizio di funzioni pubbliche».
Neppure un soggetto che rivesta un ruolo politico o militare di somma rilevanza può
singolarmente compiere atti “idonei” a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso
alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza o l’unità dello Stato.
E invece l’attività del singolo può essere rilevante nel collegamento con una o più
organizzazioni ovvero con uno o più Stati diversi.
www.koreuropa.eu
74
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
L’aggravante della finalità terroristica può essere così sostanzialmente ridefinita nei
termini della funzionalità del delitto commesso rispetto alla realizzazione di un programma
delittuoso, eminentemente riferibile alla struttura organizzativa di una associazione.
L’organizzazione, come abbiamo già rilevato, è un processo, una dinamica, un
fenomeno. Nella dimensione organizzativa del reato politico, è “politica”, nel senso della
latitudine della “democrazia”, la scelta se attribuire rilevanza penale anche alla sola attività
(ideologica) di propaganda, e anche del singolo.
L’accordo fra più persone al fine di commettere un delitto contro lo Stato (art. 304 c.p.),
mentre può essere considerato sostanzialmente irrilevante se intervenuto fra persone del tutto
comuni, viceversa può avere da solo una grande rilevanza organizzativa, e una reale
dimensione di pericolosità, se intervenuto fra soggetti che sono rappresentanti e garanti di
altrettante diverse strutture organizzative.
7. Le figure di attentato, complotto e associazione di malfattori nel codice
penale francese del 1994
Nel codice penale francese del 1994, nel libro quarto «Descrimes et délitscontre la
nation, l’État et la paixpublique», la prima sezione del capitolo secondo riguarda le previsioni
«De l’attentat et ducomplot».
Secondo l’art. 412-1, «Costituisce un attentato il fatto di commettere uno o più atti di
violenza di natura tale da mettere in pericolo le istituzioni della Repubblica o da portare
pregiudizio [«porteratteinte», arrecare danno] all’integrità del territorio nazionale».
«L’attentato è punito fino a trent’anni di detenzione criminale e a tre milioni di franchi di
ammenda». «Le pene sono portate alla detenzione criminale fino a perpetuità e a cinque
milioni di franchi di ammenda quando l’attentato è commesso da una persona depositaria
dell’autorità pubblica».
Secondo l’art. 412-2, «Costituisce un complotto la risoluzione stabilita [«arrêtée»,
presa, assunta] fra più persone di commettere un attentato quando questa risoluzione è
concretizzata da uno o più atti materiali». «Il complotto è punito fino a dieci anni di prigione e
a un milione di franchi di ammenda». «Le pene sono portate fino a vent’anni di detenzione
www.koreuropa.eu
75
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
criminale e a due milioni di franchi di ammenda quando l’infrazione è commessa da una
persona depositaria dell’autorità pubblica».
Alla fine del medesimo libro è stata posta la previsione «Della partecipazione a una
associazione di malfattori».
Secondo l’art. 450-1, «Costituisce una associazione di malfattori qualsiasi gruppo
formato o intesa stabilita in vista della preparazione, caratterizzata da uno o più fatti materiali,
di uno o più crimini o di uno o più delitti puniti fino a dieci anni di prigione». «La
partecipazione a una associazione di malfattori è punita fino a dieci anni di prigione e a un
milione di franchi di ammenda».
Secondo l’art. 450-2, «Qualsiasi persona che abbia partecipato al gruppo o all’intesa
definiti
nell’articolo
450-1
è
esentata
dalla
pena
se,
prima
del
processo
[«avanttoutepoursuite», lett. “prima di ogni perseguimento”], ha rivelato l’esistenza del
gruppo o dell’intesa alle autorità competenti e permesso l’identificazione degli altri
partecipanti».
Nell’art. 450-3 sono state previste le «pene complementari», interdittive: dei diritti
civici, civili, familiari, di esercitare una funzione pubblica, un’attività professionale o sociale,
del soggiorno.
Prima di parlare delle modifiche successive di questa disciplina (dell’art. 450-1) vanno
fatte alcune considerazioni.
La prima considerazione riguarda la collocazione dell’attentato, del complotto e della
associazione di malfattori nel medesimo libro dei crimini e delitti contro la nazione, lo Stato e
la pace pubblica.
La seconda considerazione riguarda la richiesta di «uno o più atti materiali» da cui sia
«concretizzata» la risoluzione costitutiva del complot e di «uno o più fatti materiali» da cui sia
«caratterizzata» l’attività costitutiva del delitto di association de malfaiteurs e il riferimento di
questa figura anche allo scopo di realizzare un solo crimine o delitto grave (punito con la
prigione fino a dieci anni).
La figura dell’association de malfaiteurs, diretta contro le persone o i beni (per il
riferimento al fenomeno del banditismo), era stata profondamente modificata con la legge 8182 del 2.2.1981. Secondo quell’art. 265 (la previsione già napoleonica come appunto
www.koreuropa.eu
76
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
modificata), «Chiunque avrà partecipato ad un’associazione formata o ad un’intesa stabilita in
vista della preparazione, concretizzata da uno o più fatti materiali, di uno o più crimini contro
le persone o i beni, sarà punito con la prigione da cinque a dieci anni e ne potrà essere
interdetto il soggiorno». Nel secondo comma, l’esclusione della pena per chi abbia rivelato
l’associazione o l’intesa e «permesso l’identificazione delle persone in questione».
La modifica aveva giustificazione per colpire la «grande delinquenza professionale» e la
«preparazione dei grandi crimini», che il vecchio testo «non permetteva di lottare
efficacemente»: «Nel quadro della preparazione delle grandi infrazioni, in effetti, i
protagonisti sono generalmente scelti colpo per colpo in funzione delle loro attitudini
particolari e per la realizzazione della sola infrazione avuta di mira»77.
Ulteriori considerazioni, relative al testo normativo dell’association de malfaiteurs del
codice del 1994, riguardano la generalizzazione (ai crimini e delitti di ogni tipo), la
limitazione ai delitti gravi (puniti con la prigione fino a dieci anni) e la corrispondenza della
pena della partecipazione all’associazione di malfattori a quella di tali delitti-scopo.
In tal modo, la figura (che copre dunque uno spazio coperto nel nostro sistema dalla
disciplina del tentativo e nel sistema anglosassone dalla figura della conspiracy) diventa
sostanzialmente una figura di parte (ovvero di carattere) generale.
L’ultima, importante, considerazione riguarda la precisazione contenuta nella circolare
(del 14.5.1993) che ha accompagnato e commentato l’emanazione del codice, che «Le
disposizioni dell’art. 267 che incriminavano precipuamente la complicità per fornitura di
mezzi del delitto di associazione di malfattori non sono state riprese, nella misura in cui esse
non presentano alcuna utilità in confronto alle regole generali della complicità»78 (corsivo
nostro). Si argomenta così l’abbandono di ogni tentativo di tipizzazione dei contributi
all’associazione, diversi dalla partecipazione stabile, in considerazione della applicabilità
della disciplina generale della complicità (corrispondente al nostro concorso di persone nel
reato).
ROSSAT, Le nouveaurégimedesinfractionspénalesdans la loi “Securité et liberté”, in Revue internationale de
criminologie et de policetechnique, 1/1981, pp. 10 ss.; riportato da INSOLERA, L’associazione per delinquere,
cit., p. 288.
78
Sta in Code pénal. Nouveau code pénal, Paris, 1993-1994, p. 2204.
77
www.koreuropa.eu
77
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Nei codici penali tedesco, svizzero,
SPAGNOLO,
portoghese sono puniti (oltre
ovviamente alla partecipazione): chi «sostiene» un’associazione terroristica (§ 129a StGB);
chi «sostiene» l’«organizzazione nella sua attività criminale» (art. 260 ter c. p. svizzero);
«Coloro che con i loro aiuti economici o di qualsiasi altro tipo, comunque rilevante,
favoriscono la fondazione, l’organizzazione o l’attività» delle associazioni sia per delinquere
che razzistiche (art. 518 c.p.
SPAGNOLO);
chiunque «appoggia» sia un’associazione per
delinquere che un’organizzazione terrorista «in particolare fornendo armi, munizioni e
strumenti del delitto, protezione o locali per le riunioni, o qualsiasi aiuto al fine del
reclutamento di nuovi elementi» (artt. 299 e 300 c.p. portoghese).
8. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale
organizzata (Palermo 2000)
La Convenzione delle nazioni unite contro la criminalità transnazionale organizzata,
aperta alla firma nella Conferenza di Palermo dei giorni 12-15 dicembre 2000, ratificata nel
nostro ordinamento con la legge 16.3.2006 n. 146, è stato il primo strumento giuridico
formale in cui vien posto il problema di un approccio di carattere generale e sistematico alla
problematica della criminalità organizzata e, può ben dirsi, di una definizione di carattere
generale della criminalità organizzata.
Nell’art. 1 è indicato l’«Oggetto» della Convenzione «di promuovere la cooperazione
per prevenire e combattere più efficacemente la criminalità transnazionale organizzata»79.
Nell’art. 3 è definito l’«Ambito di applicazione» della Convenzione, relativo «alla
prevenzione, alle investigazioni e all’esercizio dell’azione penale»: a) per le infrazioni
stabilite conformemente agli artt. 5, 6, 8 e 25 della stessa Convenzione, cioè rispettivamente
di «partecipazione a un gruppo criminale organizzato», «riciclaggio dei proventi del
crimine», «corruzione» e «intralcio alla giustizia»; b) per le «infrazioni gravi», secondo la
definizione contenuta nell’art. 2 della Convenzione, «quando queste infrazioni sono di natura
transnazionale e vi è implicato un gruppo criminale organizzato».
La traduzione è mia, dal testo francese: per questo l’uso del termine “infrazione”, che ho voluto mantenere
(“infraction pénale” nel codice francese, sinonimo del nostro “reato”). Fra le lingue in cui è stato redatto il testo
della Convenzione non c’è l’italiano.
79
www.koreuropa.eu
78
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Nel paragrafo 2 dell’art. 3 è definita a tali fini l’«infrazione [...] di natura
transnazionale»: se «a) è commessa in più di uno Stato; b) è commessa in uno Stato, ma una
parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione e controllo avviene in un
altro Stato; c) è commessa in uno Stato, ma in essa è implicato un gruppo criminale
organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato, o d) è commessa in uno Stato
ma ha effetti sostanziali in un altro Stato».
Questa definizione è stata riprodotta nell’art. 3 della legge 146/2006 di ratifica della
Convenzione nel nostro ordinamento, con la precisazione che deve trattarsi di un reato punito
con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni (v. appena avanti nella
Convenzione) e che deve esservi coinvolto un gruppo criminale organizzato.
Nell’art. 2 della Convenzione è definita in generale la «Terminologia» usata al suo
interno. Fra le altre definizioni ivi contenute, «Ai fini della presente Convenzione:
a) L’espressione “gruppo criminale organizzato” designa un gruppo strutturato, che
esiste da un certo tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto con
lo scopo di commettere una o più infrazioni gravi o infrazioni stabilite conformemente
alla presente Convenzione, per trarne, direttamente o indirettamente, un vantaggio
finanziario o un altro vantaggio materiale;
b) L’espressione “infrazione grave” designa una condotta che costituisce un’infrazione
passibile di una pena privativa della libertà personale di cui il massimo non deve
essere inferiore a quattro anni o di una pena più elevata;
c) L’espressione “gruppo strutturato” designa un gruppo che non si è costituito
occasionalmente per commettere immediatamente un’infrazione e che non ha
necessariamente dei ruoli formalmente definiti per i suoi membri, né continuità nella
composizione ovvero una struttura elaborata».
Seguono tante altre definizioni.
L’art. 4 della Convenzione riguarda la «Tutela della sovranità» degli Stati: «1. Gli Stati
Parti adempiono agli obblighi di cui alla presente Convenzione coerentemente con i principi
dell’uguaglianza sovrana, dell’integrità nazionale e del non intervento negli affari interni di
altri Stati». «2. Nulla nella presente Convenzione legittima uno Stato Parte a intraprendere nel
www.koreuropa.eu
79
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
territorio di un altro Stato l’esercizio della giurisdizione o di funzioni che sono riservate
esclusivamente alle autorità di quell’altro Stato dal suo diritto interno».
La lotta contro la criminalità organizzata e il terrorismo richiederebbe il superamento
del principio di territorialità statale della giurisdizione, e l’adozione di criteri di universalità
della giurisdizione. Ma questi tempi appaiono ancora lontani, e queste soluzioni
presuppongono il superamento di problemi sia politici che tecnici assai complessi.
L’art. 5 della Convenzione riguarda la «Penalizzazione della partecipazione a un
gruppo criminale organizzato»:
«1. Ogni Stato Parte adotta le misure legislative e di altra natura necessarie a conferire il
carattere d’infrazione penale, quando commessa intenzionalmente:
a) A una o a entrambe delle seguenti condotte, come infrazioni distinte da quelle che
comportano il tentativo di un’attività criminale o la sua consumazione:
i)
Al fatto di accordarsi con una o più persone per commettere un’infrazione grave
per un fine concernente direttamente o indirettamente il raggiungimento di un
vantaggio economico o altro vantaggio materiale e, quando lo esige il diritto
interno, implicante un atto commesso da uno dei partecipanti in virtù di questa
intesa o che coinvolge un gruppo criminale organizzato;
ii)
Alla partecipazione attiva di una persona, consapevole sia dello scopo e
dell’attività criminale generale di un gruppo criminale organizzato sia della sua
intenzione di commettere le infrazioni in questione:
a. Alle attività criminali del gruppo criminale organizzato;
b. Ad altre attività del gruppo criminale organizzato quando questa persona sa
che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione dello scopo criminale
summenzionato;
b) Al fatto di organizzare, dirigere, facilitare, incoraggiare o favorire in modo di un aiuto
o di consigli la commissione di una infrazione grave in cui è coinvolto un gruppo
criminale organizzato».
«2. La conoscenza, l’intenzione, lo scopo, la motivazione o l’intesa rappresentati nel
paragrafo 1 del presente articolo possono essere dedotti da circostanze di fatto obiettive».
www.koreuropa.eu
80
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Gli artt. 6, 7 e 8 della Convenzione riguardano l’incriminazione del riciclaggio dei
proventi del crimine, del riciclaggio di denaro e della corruzione, l’art. 9 le misure «per
promuovere l’integrità e prevenire, rivelare e punire la corruzione dei pubblici ufficiali», l’art.
23 la penalizzazione dell’intralcio alla giustizia.
Con riferimento a queste infrazioni, nell’art. 10 è prevista e disciplinata la
«Responsabilità delle persone giuridiche», l’art. 11 riguarda le incriminazioni, il giudizio e le
sanzioni, l’art. 12 riguarda il sequestro e la confisca dei beni che ne sono il prodotto o di
valore corrispondente (la confisca c.d. “per equivalente”) nonché dei mezzi adottati per
commetterle, l’art. 13 riguarda la cooperazione internazionale ai fini di tale confisca. Le altre
disposizioni riguardano misure di cooperazione fra gli Stati per le menzionate finalità.
Occorre ricordare che alla Convenzione sono annessi: il Protocollo rivolto a prevenire,
reprimere e punire la tratta delle persone, in particolare delle donne e dei bambini; il
Protocollo contro il traffico illecito di migranti per terra, aria e mare e il Protocollo contro
la fabbricazione e il traffico illecito delle armi da fuoco, di loro parti, elementi e munizioni;
protocolli, aventi dunque ad oggetto attività tipiche delle forme di criminalità transnazionale
organizzata e contenenti fra l’altro le definizioni di tutte le relative terminologie (che sarebbe
assai interessante esaminare ma che non è possibile fare in questa sede)
Dal riferimento della Convenzione alle attività delittuose volte a trarre, direttamente o
indirettamente, vantaggio finanziario o altro vantaggio materiale restano esclusi, ovviamente,
i reati di terrorismo, che pure presuppongono una consistente dimensione organizzativa e che
possono essere ricompresi entro la categoria generale, e la problematica generale, della
criminalità organizzata: ciò, eminentemente, per la ragione politica che diversamente molti
Paesi, più o meno coinvolti con il terrorismo o che comunque non possono permettersi
posizioni dure contro il terrorismo, non avrebbero firmato la Convenzione.
Nella nozione di gruppo criminale organizzato, e nei criteri della relativa
penalizzazione, sono riprodotte le problematiche, e le esperienze, dei delitti associativi, della
conspiracy e della dimensione attuale dell’association de malfaiteurs.
La nozione è limitata alla finalità di realizzare infrazioni gravi; è costituita dalla finalità
di realizzare anche una sola infrazione grave, di natura complessa, da richiedere la stabilità
dell’organizzazione; è caratterizzata dalla stabilità del vincolo («un gruppo strutturato, che
www.koreuropa.eu
81
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
esiste da un certo tempo»); non ne sono richieste né una struttura elaborata né ruoli
formalmente definiti per i suoi membri né continuità nella sua composizione.
Non è indicata, nella Convenzione, alcuna correlazione fra la pena del delitto
associativo e quella dei delitti oggetto e scopo dell’associazione, che pure può essere
considerata essenziale per la sistematizzazione della materia della responsabilità penale per le
forme associative, per i contributi dati alla struttura organizzativa di un’attività delittuosa.
9. Le modifiche introdotte più recentemente nel codice penale francese
Proprio sotto quest’ultimo profilo, appare assai interessante come all’indomani
dell’apertura alla firma della Convenzione di Palermo la figura dell’association de
malfaiteurs dell’art. 450-1 del codice francese sia stata modificata (con la legge n. 2001-420
del 15.5.2001), oltre che nella soglia minima di gravità dei delitti oggetto e scopo
dell’associazione, con la differenziazione della pena della partecipazione all’associazione
secondo la gravità delle infrazioni che ne sono oggetto e scopo: «Costituisce un’associazione
di malfattori qualsiasi gruppo formato o intesa stabilita in vista della preparazione,
caratterizzata da uno o più fatti materiali, di uno o più crimini o di uno o più delitti puniti con
almeno cinque anni di prigione». «Quando le infrazioni preparate sono crimini o delitti puniti
fino a dieci anni di prigione, la partecipazione a un’associazione di malfattori è punita fino a
dieci anni di prigione e a 150.000 euro di ammenda». «Quando le infrazioni preparate sono
delitti puniti con almeno cinque anni di prigione, la partecipazione a un’associazione di
malfattori è punita fino a cinque anni di prigione e a 75.000 euro di ammenda».
Con la stessa legge 2001-420 del 15-5-2001 era stato introdotto nel codice il delitto
dell’art. 450-2-1: «Il fatto di non potere giustificare risorse corrispondenti al proprio tenore di
vita, essendo in relazioni abituali con una o più persone dedite alle attività previste nell’art.
450-1, è punito fino a cinque anni di prigione e a 75.000 euro di ammenda». Questa norma è
stata poi abrogata con l’art. 24 della legge n. 2006-64 del 23.1.2006.
Con la legge n. 98-468 del 17.6.1998 (dunque prima della Convenzione di Palermo) è
stata stabilita, nel nuovo art. 450-4 del codice penale francese, la responsabilità penale delle
www.koreuropa.eu
82
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
persone giuridiche (le «personnes morales»), con pene pecuniarie e interdittive, per la
correlazione con il delitto di associazione di malfattori. In generale la responsabilità penale
delle persone giuridiche era stata prevista nel codice nel testo originario del 1994 (art. 121-2).
Con la legge n. 2004-204 del 9.3.2004, recante adeguamenti della giustizia alle
evoluzioni della criminalità, è stata prevista, con l’art. 450-5 del codice penale, la confisca dei
beni delle persone fisiche e giuridiche responsabili del (della forma più grave del) delitto di
associazione di malfattori: «Le persone fisiche e giuridiche riconosciute colpevoli delle
infrazioni previste nel secondo alinea dell’articolo 450-1 e nell’articolo 450-2-1 [questo, come
abbiamo visto, abrogato nel 2006] incorrono ugualmente nelle pene complementari della
confisca di tutti o parte dei loro beni, quale che ne sia la natura, mobili o immobili, divisi o
indivisi».
Nell’art 222-34 è punito con la reclusione criminale fino a perpetuità e l’ammenda fino
a 7.500.000 euro «Il fatto di dirigere od organizzare un gruppo avente come oggetto la
produzione, la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione, il trasporto, la detenzione,
l’offerta, la cessione, l’acquisizione o l’uso illeciti di stupefacenti».
Negli artt. 222-35 e -36, i fatti di produzione o fabbricazione, importazione o
esportazione, puniti rispettivamente fino a vent’anni di reclusione criminale e fino a dieci anni
di prigione, sono puniti fino a trent’anni di reclusione criminale se «commessi in banda
organizzata»; nonché la previsione in tutti questi casi dell’ammenda fino a 7.500.000 euro.
Nell’art. 222-40 è stabilito che il tentativo di queste infrazioni è punito con le stesse
pene.
Nell’art. 222-42 è stabilita altresì per questi fatti la responsabilità penale anche delle
persone giuridiche.
10. La definizione penalistica sistematica della criminalità organizzata.
Conclusioni
Problema di questo inizio del terzo millennio è la definizione generale della criminalità
organizzata. Meglio, tecnicamente, l’edificazione della problematica della criminalità
organizzata come problematica di carattere generale, e di parte generale, del diritto penale, per
www.koreuropa.eu
83
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
un approccio di carattere generale e sistematico alle forme e ai fenomeni di criminalità
organizzata; differenziata, poi, secondo le caratteristiche dei delitti che possono essere
considerati tipici, e quindi definitori dal punto di vista penalistico, della forma organizzativa
di cui si tratta.
Con la codificazione ottocentesca si è compiuto il processo di generalizzazione delle
problematiche, e sistematizzazione delle discipline, del tentativo, del concorso di persone nel
reato, delle circostanze del reato, che nelle legislazioni precedenti erano previste in modo
specifico e frammentario accanto alle singole figure delittuose. Il che non ha certo eliminato
le ipotesi speciali e le discipline precipue. Oggi lo stesso problema riguarda la problematica e
le nozioni della criminalità organizzata. Altresì, e non sono sicuro che il problema sia affatto
distinto, la criminalità organizzata e il terrorismo devono costituire oggi le priorità
penalistiche, da affrontare in modo sistemico e sistematico, cioè oltre le forme della
legislazione speciale, nonché emergenziale. Le risorse principali del diritto penale vanno
riservate a questi fenomeni.
Problema ulteriore,
pure connesso.
Nella
globalizzazione, nella dimensione
necessariamente transnazionale delle risposte istituzionali, vanno semplificate, e rese
omogenee, le nozioni e le procedure.
Già all’interno del nostro solo ordinamento, la congerie delle figure delittuose autonome
associative, delle relative circostanze aggravanti, i rapporti fra le diverse forme di
responsabilità (dei delitti associativi, del concorso nei delitti associativi, dei delitti realizzati
nel contesto dell’associazione, delle relative circostanze aggravanti), con i profili sostanziali,
processuali, giurisdizionali, dell’esecuzione, che vi sono connessi, creano problemi sia
interpretativi che pratici enormi; problemi, che lasciano per lo più aperti dubbi e incertezze. Il
senso addirittura (forse) del paradosso si coglie col fatto che una stessa organizzazione
criminale può essere riconducibile a diverse figure delittuose associative, e quindi costituire
anche le correlative diverse circostanze aggravanti, nonché le responsabilità per i singoli
concreti delitti. Con tutti i problemi che ovviamente conseguono.
Ebbene, si pensi a proiettare questi problemi nel rapporto con gli altri Paesi, con i
sistemi culturali, giuridici, giurisdizionali, istituzionali, degli altri Paesi, molti culturalmente
assai distanti dal nostro.
www.koreuropa.eu
84
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Il confronto con gli altri sistemi può avvenire solo attraverso nozioni facilmente
condivisibili, nonché comprensibili.
Nozioni sofisticatissime, e anche sfuggenti, come molte di quelle di cui abbiamo fin qui
discusso, non sono condivisibili; e sono espressione, anzi, di una grande frammentazione del
nostro stesso sistema penale.
Il problema della definizione generale (delle nozioni) della criminalità organizzata può
essere affrontato nel modo seguente: da una parte, le nozioni generali e comuni della teoria
dell’organizzazione; dall’altra, le comuni nozioni delittuose (omicidio, estorsione, furto,
delitti di produzione e traffico degli stupefacenti), che possono essere considerate tipiche
(oggetto tipico, oggetto sociale), e quindi definitorie, dal punto di vista penalistico, della
organizzazione di cui si tratta in concreto; le une e le altre, così, costitutive della nozione
penalistica di organizzazione criminale.
Questo schema, e queste nozioni, sono a mio avviso comprensibili da tutti, di diverse
estrazioni culturali e latitudini geografiche: e come tali più facilmente condivisibili. Ma
(proprio per questo) servirebbero già, nella nostra pratica, come in parte dovrebbe essere
emerso in questo lavoro, a definire meglio i contenuti delle nozioni penalistiche
dell’organizzazione criminale, con i relativi profili probatori.
Le pene delle (forme di) responsabilità per la (il contributo personale alla)
organizzazione criminale non possono non essere parametrate, fra altro, ma innanzitutto,
all’entità
penalistica
dell’attività
oggetto
dell’organizzazione:
ai
delitti
tipici
dell’organizzazione (che quindi ne sono definitori dal punto di vista penalistico) e all’entità
quantitativa dell’attività delittuosa della stessa. E, d’altro canto, alle tipologie ed entità delle
relazioni personali e quindi rilevanza dei contributi personali all’organizzazione.
In questo modo, tecnicamente comprensibile, verrebbe risolto il nodo della dimensione
sociologica delle nozioni dei fenomeni criminali, e ridotta, dal punto di vista specifico
penalistico, la relativa complessità.
L’analisi fin qui svolta, sulle dimensioni dei fenomeni criminali e le caratteristiche delle
risposte istituzionali, entrambe progressivamente e inevitabilmente transnazionali, induce una
considerazione. Nell’epoca moderna il diritto è stato mantenuto separato, fra l’altro, dalla
problematica della guerra: si pensi alla fine della prima guerra mondiale alla polemica sul
www.koreuropa.eu
85
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
rifiuto degli olandesi di consegnare il Kaiser alle potenze vincitrici che volevano processarlo e
alla posizione di KELSEN favorevole a quel rifiuto, con l’argomento appunto della differenza e
quindi della distinzione del diritto dalla guerra. Oggi, si può dire, da una parte, il diritto adotta
tecniche e metodiche di tipo militare nei confronti dei fenomeni del terrorismo e della
criminalità organizzata, comunque difformi dalle tecniche giuridiche tradizionali. Dall’altra, il
diritto si pone seriamente il problema di regolamentare, e delimitare, anche la guerra: certo,
con grandi difficoltà, politiche, pratiche e concettuali. Si pensi alla creazione con lo Statuto di
Roma del 17.7.1998 della Corte penale internazionale permanente, per i crimini di guerra,
contro l’umanità e di genocidio, e al fatto però che dei cinque Paesi del Consiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite non abbiano sottoscritto lo Statuto gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.
Le osservazioni che possono chiudere questo saggio riguardano la problematica delle
garanzie: di fronte alla complessità, delle attività umane, della società, della cultura, della
politica, delle risposte istituzionali.
La concezione illuministica, razionalistica e cattolica del diritto, e del diritto penale in
modo particolare, credeva nella delimitazione, formale, con la forma della legge, della soglia
sia dell’illecito, e precipuamente del delitto, come della garanzia. La soglia definita nella
legge è il limite che il cittadino non deve superare per non commettere un illecito (tra
parentesi, nella concezione liberale, il cittadino può fare tutto ciò che non sia espressamente e
formalmente vietato). La soglia è il limite definito nella legge che il funzionario non deve
superare nella gestione delle tecniche di accertamento e giudizio degli illeciti.
Oggi, questo concetto di soglia è abbastanza in difficoltà, concrete e culturali, di fronte
alla complessità, rispettivamente, dei fenomeni e degli illeciti, della società e della cultura e
della politica, delle risposte istituzionali: complessità, rispetto a cui diventano insufficienti sia
la capacità pre-definitoria della forma della legge sia i criteri tradizionali definitori e
argomentativi causalistici. La legge contiene sempre più criteri, di valutazione e
argomentazione, e assegna direttamente agli operatori funzioni da realizzare in concreto. Così
la discrezionalità non è solo di tipo valutativo, fra più e meno dei criteri valutativi definiti
nella legge, ma anche di tipo operativo, fra meglio e peggio, più opportuno e meno opportuno,
perfino fra più e meno conveniente, in relazione a determinati obiettivi da realizzare e ai
relativi parametri.
www.koreuropa.eu
86
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Anche la problematica delle garanzie deve essere arricchita, quindi, in senso
funzionalistico.
Garanzie non sono più soltanto i limiti legali. Garanzie sono anche quelle della prova,
della razionalità del procedimento, dell’argomentazione e della motivazione dei giudizi, della
collegialità dei giudici, della professionalità e della formazione, dei controlli, delle
responsabilità, di tutti gli operatori della giustizia.
La problematica ovvero la teoria dell’organizzazione, che contribuisce a ridefinire e a
riempire di significato le nozioni di responsabilità, e quindi arricchisce i contenuti della prova
e delle argomentazioni, di tutti sistemi complessi, contribuisce pure, ovviamente, a supportare
e arricchire le analisi relative alle strutture istituzionali, agli uffici e ai procedimenti della
prevenzione e repressione, nonché della collaborazione internazionale, sotto i profili tanto
dell’efficienza quanto delle garanzie del cittadino.
www.koreuropa.eu
87
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
A PROTEÇÃO DO CONSUMIDOR BRASILEIRO NO
COMÉRCIO ELETRÔNICO INTERNACIONAL
César Leandro de Almeida Rabelo
Mestrando em Direito Público pela Universidade FUMEC
Desirée Lorraine Prata
Bacharel em Direito pela Universidade FUMEC e Advogada militante
RESUMO: O presente trabalho tem por escopo apresentar o crescimento dos contratos
eletrônicos no âmbito nacional e internacional, o que permite a livre circulação de divisas e
mercadorias, abrindo todo mercado nacional e internacional. Com isso, surgiu uma
preocupação com os contratos internacionais de consumo, exigindo a criação de um quadro
normativo que confira certeza jurídica aos particulares nas suas atividades transnacionais,
protegendo o consumidor de eventuais quebras contratuais
PALAVRAS-CHAVE: Contrato eletrônico; Internet; Consumidor; Proteção
1. Introdução
A integração econômica nos últimos anos acabou por ampliar o volume de contratos
internacionais feitos através da Internet, bem como a possibilidade de acesso imediato dos
consumidores ao mercado internacional, portanto houve um aumento do número de conflitos
jurídicos decorrentes de tais situações. Conseqüentemente com a abolição das barreiras para a
livre circulação dos fatores produtivos, surgiu uma preocupação com os contratos
internacionais de consumo, exigindo a criação de um quadro normativo que confira certeza
jurídica aos particulares nas suas atividades transnacionais.
A Internet com sua característica globalizada e democrática coloca o consumidor em
contato direto com o fornecedor estrangeiro, criando uma relação internacional de consumo,
raramente ocorrida antes da era virtual. As conseqüências jurídicas deste fato se mostram
quando percebemos que as normas de proteção e as regras tradicionais do comércio
internacional se confrontam gerando insegurança ao consumidor.
O consumidor necessita da determinação de questões primordiais, como por exemplo,
para que este obtenha seu direito, deverá encontrar um tribunal competente para decidir sobre
www.koreuropa.eu
88
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
suas pretensões e caso este tribunal se encontre em outro país, qual legislação será aplicada
para que se veja garantido os seus interesses.
O consumidor pode enfrentar problemas fundamentais devido à estrutura tradicional do
Direito Internacional Processual: primeiro, resulta enorme o esforço do consumidor na
procura de um tribunal adequado para realização dos seus direitos. Além disso, existe o risco
dele não encontrar um tribunal competente em seu próprio país, enfrentando assim os custos e
a incerteza de um processo no estrangeiro.
2. Os contratos eletrônicos: aspectos gerais
A partir do momento em que há a celebração do contrato eletrônico com o site
responsável pela venda, (note-se que se trata de um site cuja sede social não está no Brasil),
cria-se, obviamente, uma obrigação de adimplemento do contrato celebrado entre o vendedor
virtual estrangeiro e o consumidor brasileiro. Com efeito, caso a empresa vendedora possua
filial ou sucursal em território brasileiro, estas serão acionadas em eventual processo judicial.
A Constituição da República, em seu artigo 5.º, inciso XXXII, prevê a proteção estatal
do consumidor através de lei ordinária. Essa lei é o Código de Defesa do Consumidor, (Lei n.º
8078/90). A proteção do Código abrange todas as pessoas, sejam elas físicas ou jurídicas,
desde que estas sejam destinatárias finais do produto ou do serviço.
Deve-se consignar que, após duríssimos anos que levaram à consolidação do respeito ao
consumidor brasileiro, através do advento da lei de proteção e defesa consumerista, o
comércio eletrônico não possui o condão de afastar a sua aplicabilidade. O comércio virtual
deve ser entendido apenas como um meio de efetuar as transações, assim como o telefone ou
o telefax.
O Direito Internacional Privado e Processual possui fundamental importância prática
para as relações comerciais estabelecidas entre as pessoas, sendo sabido que a liberdade de
escolha é um dos pilares contemplados pelo ordenamento jurídico brasileiro como mais ativo
instrumento de proteção e defesa do consumidor, portanto é de suma importância a
uniformização das normas jurídicas, pois são as mesmas que oferecem novas soluções para a
disciplina das relações consumeristas internacionais.
www.koreuropa.eu
89
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
O avanço em larga escala destes tipos de problemas clama por soluções que sejam ao
mesmo tempo adequadas aos tempos da nova economia, e mantenham a obediência ao
sistema legal vigente em nosso país. Além disso, lembramos que será necessário um
entendimento dos governos dos países envolvidos, buscando minimizar os prejuízos e
padronizando os acordos internacionais sempre que possível.
Com o aumento progressivo das relações internacionais de troca, ao longo das últimas
décadas, faz-se necessário um corpo de normas substantivas e uniformes, hábil a regulamentar
tais transações, de forma a assegurar proteção suficiente e eficaz ao consumidor eletrônico.
O consumidor não pode ser prejudicado, seja em questões como segurança, qualidade,
garantias ou o próprio acesso à justiça, como conseqüência de ter adquirido produto ou
serviços com defeitos e vícios, através do meio eletrônico, conflito cada vez mais presente nos
dias atuais. Tais conflitos se devem ao fato das transações através da Internet serem cada dia
mais populares entre a sociedade moderna mundial, inclusive a brasileira.
3. Características
O contrato eletrônico, para Semy Glanz, “é aquele celebrado por meio de programas de
computador ou aparelhos com tais programas, dispensando ou exigindo assinatura codificada
ou senha”.
A principal característica do contrato eletrônico é o meio utilizado para sua celebração,
assim como para o cumprimento da obrigação ou execução, mas pode ocorrer de forma total
ou parcial através do sistema eletrônico, segundo Ricardo Lorenzetti .
As partes podem enviar suas declarações de vontade digitalmente ou receber e-mail
com a proposta, assinar depois de imprimi-la e devolver ao emitente. Para o cumprimento da
mesma forma, é possível receber o bem imaterial por download e pagar com cheque, ou
receber o bem pelo correio e pagar com transferência eletrônica bancária.
Para MARIA EUGÊNIA REIS FINKELSTEIN , embora o meio eletrônico seja empregado
para celebração do contrato, vale lembrar que serão utilizadas as mesmas regras aplicadas aos
contratos por meio físico.
www.koreuropa.eu
90
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Portanto, podemos dizer que o que difere o contrato eletrônico do dito tradicional é a
questão do meio probante, da proposta e da aceitação. Desta forma, a identificação daquele
que emite a mensagem é primordial, exigindo-se assinatura eletrônica, código secreto, cartão
magnético, criptografia, impressão digital ou reconhecimento de voz. Ao empresário
fornecedor cabe a responsabilidade sobre:
a) a integridade sobre o acesso do consumidor e sua identificação;
b) a integridade da informação transmitida;
c) a confidencialidade, permitindo o acesso apenas às partes contratantes.
O princípio do ônus da prova deverá imperar a favor do consumidor hipossuficiente,
sendo regra estrutural de ordem pública.
O contrato eletrônico por se tratar de contrato entre ausentes, devido ao fornecedor e
consumidor se encontrarem em países distintos, havendo um lapso de distância, mas não
necessariamente de tempo, dada a natureza do meio eletrônico, podemos apontar duas
possibilidades, uma quando a contratação ocorre com trocas de e-mails ou com lapso
temporal claro, e outra quando há um diálogo em chats ou instant Messenger.
O art. 428 do Código Civil de 2002 prevê, in verbis:
Art. 428 - Deixa de ser obrigatória à proposta:
I – se, feita sem prazo a pessoa presente, não foi imediatamente aceita;
II – se, feita sem prazo a pessoa ausente, tiver decorrido tempo suficiente para chegar à resposta ao
conhecimento do proponente;
III – se, feita a pessoa ausente, não tiver sido expedida a resposta dentro do prazo dado;
IV – se, antes dela, ou simultaneamente, chegar ao conhecimento da outra parte a retratação do
proponente.
A previsão consumerista do art. 49 do CDC vem, não de forma direta, acompanhar o
critério internacionalista da norma indicativa pátria, o art. 9º, §2º da LICC, ou seja, a
obrigação resultante do contrato reputa-se constituída no lugar em que residir o proponente.
A conclusão contratual entre ausentes forma-se no momento em que o proponente tem
conhecimento da resposta do aceitante, de seu conteúdo. Já a Teoria da Agnição tem como
concluído o contrato no momento em que a resposta é aceita pelo oblato, sendo que esta se
divide em modalidade expedição e recepção. Na modalidade da recepção, exige-se o
recebimento da resposta enviada por parte do solicitante, mesmo que não a leia. Na
www.koreuropa.eu
91
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
modalidade da expedição, sendo esta a regra adotada pelo nosso direito, considera-se
concluído o contrato no momento em que é expedida a correspondência que contém a
resposta afirmativa.
Para alguns autores, esta regra adotada pelo Direito Brasileiro pode ser perfeitamente
aplicável aos contratos eletrônicos internacionais de consumo. Portanto, na falta de
regulamentação especial, os contratos eletrônicos, pelo Direito Brasileiro, obedecem aos
mesmos requisitos de validade dos contratos tradicionais, ainda que existam algumas
particularidades dos contratos internacionais, cuja internacionalidade pode ser caracterizada
pelo fato ou ato jurídico que deva ter um elemento de estraneidade que os conecte ao menos a
dois ordenamentos diversos.
Para Strenger :
“uma das características dos contratos internacionais é a sua vinculação a um ou mais sistemas jurídicos
estrangeiros, além de outros dados de estraneidade, como o domicílio, a nacionalidade, a lex voluntatis, a
localização da sede, centro das principais atividades, e até a própria conceituação legal”.
A evolução tecnológica e a globalização dos mercados acarretaram mudanças profundas
nos padrões de produção, provocando a intensificação da formação de blocos de integração e
aumento do comércio internacional, já que consumir bens e serviços se tornou muito fácil,
surgindo a partir de então problemas práticos devidos à implantação do comércio eletrônico
em diversas economias mundiais, que trouxeram como conseqüência desafios legais que
ainda esperam por respostas efetivas.
4. A proteção do consumidor no âmbito nacional e internacional
Atualmente a proteção do consumidor é considerada um direito humano fundamental
por estar positivado pela Constituição da Republica de 1988, em seu art 5º XXXII, este
princípio saiu da esfera meramente econômica e social e passou a merecer destaque em nossa
legislação.
Esta matéria é de suma importância no mundo moderno já que o volume de acordos
tanto bilaterais como multilaterais têm crescido enormemente para fomentar o comércio
internacional. MAZZOULI (2002, p.146) ilustra o exposto utilizando informações do Ministério
das Relações Exteriores, salientando que o Brasil na época do Império concluiu 183 atos
www.koreuropa.eu
92
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
internacionais, 200 atos na Primeira República e somente nos primeiros anos do governo do
Presidente Fernando Henrique Cardoso, foram celebrados 392 atos bilaterais e 143
multilaterais.
Desta forma, a aplicação destas normas de direito internacional em conexão com
interesses privados deve estar em sintonia com o Direito Constitucional. Se estas normas
internacionais forem de encontro aos direitos fundamentais tutelados em nossa constituição,
devem ser desprezadas e se ampliarem o grau de proteção ao homem, devem ser aplicadas
imediatamente, segundo o art 5º, §§ 1º e 2º da CR/1988.
A tutela do consumidor não é assunto característico dos últimos anos, mas constitui
matéria com determinado passado histórico.
O Código de Hamurabi já previa algumas leis de proteção ao consumidor em casos de
serviços deficientes nas Leis 233 e 235 (FILOMENO, 2001, p.22). Também o Código de Massú,
vigente na Mesopotâmia, Egito Antigo e Índia do séc XIII a.C. acabava por proteger os
consumidores indiretamente ao tentar regular as trocas comerciais (PERIN, 2003, p.6).
No direito romano clássico, o vendedor era responsável pelos vícios da mercadoria a
menos que os ignorassem. No Período Justiniano, a responsabilidade passou a ser atribuída ao
vendedor independente de seu conhecimento do vício. Se a venda tivesse sido feita de má-fé,
cabia ao vendedor ressarcir o consumidor devolvendo a quantia recebida em dobro.
Nas últimas décadas, os países viram a necessidade de se unirem em blocos a fim de
reduzirem barreiras tarifárias e incrementarem o comércio internacional para competirem no
mundo globalizado. Os consumidores passaram a contar com a facilidade de poder adquirir os
mais variados produtos e serviços originários de qualquer parte do mundo.
Entretanto, esta facilidade também veio acompanhada de uma série de dificuldades que
demonstram a fragilidade do consumidor nas relações de consumo. Esta vulnerabilidade, já
reconhecida nas relações de consumo nacionais, se tornava ainda maior devido às diferenças
de idiomas e legislações.
Proteger o consumidor, reconhecendo a desigualdade entre os protagonistas do
mercado, significava proteger o próprio sistema capitalista e o desenvolvimento destes novos
mercados.
www.koreuropa.eu
93
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Com efeito, apenas após o crescimento dos grupos de defesa do consumidor e um longo
período de mobilização da opinião pública para chamar a atenção dos legisladores para
adoção de medidas protetivas é que o papel do consumidor, o "protagonista esquecido" nos
tratados de integração , foi levado em consideração.
O Sherman Antitrust Act de 1890 foi a primeira manifestação moderna da necessidade
de proteção do consumidor (MARQUES, 2004, p.319). Mas apenas em 1962, com a mensagem
do Presidente Kennedy ao Congresso dos EUA, conhecida como "Declaração dos Direitos
Essenciais do Consumidor", através da qual se elencavam seus quatro direitos básicos, quais
sejam direito à segurança, informação, escolha e direito de ser ouvido, consolidando, portanto
a idéia de sua tutela.
Posteriormente, já na década de 70, foi a vez da Europa se manifestar sobre o assunto
principalmente através do Conselho da Europa em 1973 e da Comunidade Econômica
Européia em 1975.
Na mesma época, a Comissão de Direitos Humanos das Organizações das Nações
Unidas (ONU), em sua 29a sessão reconheceu como direitos fundamentais e universais do
consumidor, aqueles direitos contidos na Declaração dos Direitos Essenciais do Consumidor
dos Estados Unidos.
Finalmente em 1985, a Assembléia Geral da
ONU
editou a resolução n. 39/248 de
10/04/1985 sobre a proteção ao consumidor, positivando o princípio da vulnerabilidade no
plano internacional. As diretrizes constituíam um modelo abrangente descrevendo oito áreas
de atuação para os Estados a fim de prover proteção ao consumidor. Dentre elas:
a) proteção dos consumidores diante dos riscos para sua saúde e segurança;
b) promoção e proteção dos interesses econômicos dos consumidores;
c) acesso dos consumidores a uma informação adequada;
d) educação do consumidor;
e) possibilidade de compensação em caso de danos;
f) liberdade de formar grupos e outras organizações de consumidores;
Logo estas organizações teriam a oportunidade de apresentarem suas visões nos
processos decisórios que as afetassem.
www.koreuropa.eu
94
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Estas
diretrizes
internacionalmente
forneceram
reconhecidos,
um
importante
desenhados
conjunto
especialmente
de
para
objetivos
os
básicos
países
em
desenvolvimento a fim de ajudá-los a estruturar e fortalecer suas políticas de proteção ao
consumidor.
Em seguida, foram aprovadas as resoluções do Conselho Econômico e Social (julho/88
e julho/90). Em nível regional, a International Organization of Consumers Unions ( IOCU),
uma organização não governamental mundial de defesa do consumidor, celebrou em
Montevidéu, em outubro de 1986, sua primeira conferência regional para América Latina e
Caribe. Pouco depois em março de 1987, a
ONU,
também em Montevidéu, impulsionou a
realização de um encontro com um pouco mais de 20 países e algumas organizações de
consumidores para discutir a aplicação das diretrizes no continente.
A partir daí, vários países passaram a abordar a questão da proteção do consumidor
dentro da jurisdição interna seja adaptando ou elaborando sua legislação. O Brasil, Argentina,
Peru, Honduras, Equador, Chile, Costa Rica, México, Paraguai e Uruguai promulgaram leis
específicas sobre o tema, sendo que os três primeiros, além de El Salvador, incluíram a tutela
do consumidor em suas constituições. Outros países como Bolívia, Guatemala, Trinidad e
Tobago, Nicarágua e Colômbia estavam em processo de elaboração de suas legislações.
O sucesso desta investida se deu graças à monitoração e assistência da
ONU
aos países
das Américas e Ásia (MARQUES, 2004, p.323) e, finalmente, em dezembro de 2002, a proteção
do consumidor foi declarada direito fundamental pelos presidentes dos quatro Estadosmembros do Mercosul.
5. A proteção do consumidor no brasil como direito humano fundamental
Para CANÇADO TRINDADE (1997, p.17) a idéia dos direitos humanos é tão antiga quanto
à história das civilizações, e tem como objetivo: “afirmar a dignidade da pessoa humana, lutar
contra todas as formas de dominação, exclusão e opressão, em prol da salvaguarda contra o
despotismo e a arbitrariedade, e na asserção da participação na vida comunitária e do
princípio da legitimidade".
www.koreuropa.eu
95
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Segundo o autor, o reconhecimento destes direitos básicos acaba por formar padrões
mínimos universais de comportamento e respeito ao próximo, observando as necessidades e
responsabilidades dos seres humanos. Os direitos humanos são vinculados ao bem comum,
tendo em vista a emancipação do ser humano de todo o tipo de servidão, inclusive a de ordem
material.
Os direitos do homem foram conformados no século XVII, expandindo-se no século
seguinte ao se tornar elemento básico da reformulação das instituições políticas. Atualmente,
não se denominam mais direitos do homem, mas sim, direitos humanos, terminologia mais
politicamente correta (FERREIRA, 1996, p.14). Portanto, direitos humanos fundamentais ou
direitos fundamentais têm o mesmo significado.
CANOTILHO (1998, p.369) distingue os direitos do homem dos direitos fundamentais,
sendo os primeiros, "direitos válidos para todos os povos e em todos os tempos" e os
segundos são os direitos do homem jurídico-institucionalmente garantidos e limitados no
tempo e espaço.
BONAVIDES (2000, p. 514-518) acredita que os direitos fundamentais são os direitos do
homem que as Constituições positivaram, recebendo destas um nível mais elevado de
garantias ou segurança. Cada Estado, pois, tem seus direitos fundamentais específicos.
Entretanto, o autor acrescenta que os direitos fundamentais estão vinculados aos valores de
liberdade e da dignidade humana, nos levando assim ao "significado de universalidade
inerente a esses direitos como ideal da pessoa humana".
Nesta mesma esteira, CANOTILHO (1998, p. 353-356) ensina que a positivação dos
direitos fundamentais, considerados "naturais e inalienáveis" do indivíduo, pela Constituição
como normas fundamentais constitucionais é que vincula o direito. Sem o reconhecimento
constitucional, estes direitos seriam meramente aspirações ou ideais, seriam apenas "direitos
do homem na qualidade de normas de ação moralmente justificadas".
A doutrina atualmente classifica estes direitos em direitos humanos fundamentais de
primeira, segunda, terceira e quarta dimensões, temos que ressaltar que tais direitos são
duramente criticados por diversos autores já que estes direitos se completam, se expandem, se
acumulam e não se substituem ou se sucedem, e cujos conteúdos ensejariam os princípios:
liberdade, igualdade e fraternidade.
www.koreuropa.eu
96
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Direitos de primeira dimensão ou direitos de liberdade seriam os direitos e garantias
individuais e políticos clássicos, as chamadas liberdades públicas. Visavam inibir a
interferência indevida do Estado na vida do cidadão.
Os direitos de segunda dimensão ou direitos de igualdade referem-se aos direitos
sociais, econômicos e culturais, surgidos no início do século XX. Eram os direitos de caráter
social. Neste caso, a interferência do Estado era desejada para garantir a igualdade material
dos indivíduos.
Direitos de terceira dimensão ou direitos de solidariedade ou fraternidade são os direitos
da coletividade, de titularidade coletiva ou difusa. Dentre eles se encontram o direito à paz,
meio ambiente equilibrado, à comunicação, a proteção do consumidor, dentre outros (DE
LUCCA,
2003, p.426).
BONAVIDES (2000, p. 524-526) cita ainda uma quarta dimensão de direitos originários
do mundo globalizado. São eles os direitos à democracia, à informação, ao pluralismo e
seriam estes direitos que possibilitariam a legítima globalização política.
Para CANÇADO TRINDADE (1997, p.23-24), não há como dividir os direitos humanos
invocando certas categorias de direitos em razão de sua "pretensa natureza jurídica". Separar
o econômico do social e do político a fim de negar-lhes os meios eficazes de implementação,
não deveria resistir aos imperativos de proteção dos direitos humanos. Daí a necessidade da
consolidação de obrigações erga-omnes de proteção diante de uma concepção integral e
abrangente dos direitos humanos que envolvam todos os seus direitos: civis, políticos,
econômicos e culturais.
No entanto, a expansão e generalização da proteção internacional dos direitos humanos
enfrentam ultimamente tentativas de categorizações de direitos, inclusive em relação às
pessoas protegidas, ou pela relação com o Estado (se é um direito que proteja o homem do
Estado ou pelo Estado). A I Conferência Mundial dos Direitos Humanos realizada em Teerã
em 1968, pôs termo a esta discussão, afirmando que a realização plena dos direitos civis e
políticos seria impossível sem o gozo dos direitos econômicos, sociais e culturais
(BONAVIDES, 2000, p.360).
Como visto anteriormente, a partir da resolução n. 39/248 de 10/04/1985 da
Organização das Nações Unidas (ONU), diversos países passaram a enfrentar a questão da
www.koreuropa.eu
97
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
proteção do consumidor incluindo o Brasil, que juntamente com a Argentina, apresentam as
melhores e mais avançadas legislações nesta matéria dentro do Mercosul.
A Constituição da República de 1988 consagra a defesa do consumidor no artigo 5º,
XXXII, que versa sobre os direitos e garantias fundamentais, ou seja, "O Estado promoverá,
na forma da lei, a defesa do consumidor". Desta forma, o legislador obrigou o Estado a
promover a proteção do consumidor, elevado a direito fundamental do cidadão.
A defesa do Consumidor também está prevista no art. 170, V, da Constituição Federal
brasileira, onde deve-se garantir a melhoria da qualidade de vida dos cidadãos pela
implementação de uma política de nacional de consumo.
Finalmente, o Congresso Nacional conforme orientação de nossa Carta Magna,
elaborou a Lei 8.078 de 11/09/1990 de proteção ao consumidor, criando o Código de Defesa
do Consumidor (CDC). Por se tratar de um verdadeiro "microssistema jurídico", já que nele se
encontram normas de direito penal, civil, constitucional, processuais penais, civis e
administrativas, com caráter de ordem pública (DORNELLES, 2003, p.46) e constituir legislação
extremamente avançada, O Código Brasileiro de Defesa do Consumidor acabou por
influenciar as legislações dos outros países do Mercosul.
Neste sentido então, sendo a proteção do consumidor um direito fundamental já
declarado pela ONU, positivado em nossa constituição e reconhecido pelos países-membros do
Mercosul como já dito anteriormente, necessário se faz nos ater mais detalhadamente na
internacionalização de tratados de direitos humanos em nossa legislação.
5. As garantias do consumidor brasileiro no comércio eletrônico
internacional
No direito brasileiro, a princípio, as relações de consumo, quando são enquadradas nas
definições do CDC, ou seja, nas definições de consumidor, fornecedor e produto ou serviço,
será esta Lei especial que regerá a questão consumerista.
É notório que as relações de consumo, em função das características das relações
contemporâneas e pela facilidade trazida pela rede mundial de computadores, têm ocorrido
cada vez mais entre consumidores e fornecedores de diferentes países, estabelecendo uma
www.koreuropa.eu
98
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
relação internacional entre pessoas, físicas e jurídicas, sendo denominada pela doutrina como,
relação de Direito Internacional Privado, com suas normas conflituais ou de solução de
conflitos.
Segundo Amílcar de Castro, “encontram-se fatos e relações que, pelas suas
características, superam os limites da vida real interna de determinado Estado” ,portanto,
podemos afirmar que existe um elemento externo a um dos pólos, ou seja, ao sistema legal da
nação, havendo o surgimento de um fato anormal a este direito. Sem a existência do elemento
externo, não há fato anormal ao direito do respectivo país e a questão deverá ser tratada
exclusivamente pelo ordenamento nacional.
A apresentação do elemento de estraneidade faz com que dois ou mais ordenamentos
jurídicos possam estar relacionados com a tutela sobre os interesses conflitantes entre as
partes.
Cada Estado pode avocar para si a jurisdição sobre a matéria, além de possuir regras
materiais diferentes, e como dificilmente haverá um direito uniforme ou uniformizado entre
os países, estes se preocuparam em resolver tais conflitos, denominados “conflitos de 1º
grau”.
Para tanto, os Estados criaram normas internas, normas de Direito Internacional
Privado, tidas como normas indicativas, que determinarão e sistematizarão o direito aplicável
ao caso concreto com elemento de estraneidade. Neste caso, a competência internacional
daquele país já estará fixada e um possível conflito jurisdicional persistirá.
Os Estados estão sujeitos à limitações sobre os poderes de jurisdição em casos que
tratem de interesses ou atividades estrangeiras. Ainda que
disponha de certa
discricionariedade na determinação dos critérios da matéria pertinente à jurisdição nacional,
cada Estado é obrigado a exercer com moderação a tarefa de invocar jurisdição em casos que
envolvam algum elemento estrangeiro.
Sob a perspectiva jurídico-internacional, o termo jurisdição compreende três categorias
de poderes:
a) jurisdição legislativa, que se constitui na "jurisdição para prescrever" um princípio ou
norma legal, seja por lei, decreto executivo, regulamentação administrativa ou por
jurisprudência;
www.koreuropa.eu
99
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
b) jurisdição judicial, que nada mais é do que a "jurisdição para adjudicar" demandas
judiciais;
c) jurisdição executiva, determinada pela "jurisdição para fazer cumprir" leis e
regulamentos, bem como ordens e decisões judiciais.
A noção tradicional da extensão dos poderes de jurisdição exprimia que um país deteria
poderes absolutos para regular pessoas e coisas que se encontrassem dentro de suas fronteiras,
bem como condutas que nele ocorressem. Como a eficácia da lei no espaço se confundia com
os limites territoriais de uma nação, tentativas de exercícios de poderes fora dos respectivos
limites territoriais não eram legitimadas pelo direito dos povos e, eventualmente,
ocasionavam conflitos armados entre as soberanias envolvidas.
No entanto, graças a mudanças econômicas e a avanços na tecnologia, as relações entre
pessoas de diferentes territórios tornaram-se cada vez mais comuns. A aproximação entre as
nações e o crescimento das transações internacionais dificultava a aplicação de uma
concepção estrita de territorialidade. A solução veio com a criação de um sistema reconhecido
pela comunidade internacional, que enumerava circunstâncias em que se justificaria a sujeição
de cidadãos e residentes de um país à autoridade de outro. Assim, com o intuito de solucionar
conflitos de jurisdição, desenvolveram-se os seguintes critérios básicos:
1) o princípio da nacionalidade;
2) o princípio da nacionalidade passiva;
3) o princípio protetor;
4) o princípio universal.
No contrato de consumo realizado por meios eletrônicos o consumidor continua com a
mesma proteção antes conferida pelas leis precedentes. Mesmo regras de conteúdo processual
também se mostram aplicáveis na instrumentalização de obrigações oriundas de transações
realizadas em meio eletrônico, mas a realidade das redes eletrônicas abertas e a disseminação
do comércio eletrônico trouxeram fatalmente uma constatação: a de que as leis em vigor não
são suficientes a oferecer respostas a todas as necessidades do consumidor nesses novos
ambientes virtuais. A novidade das relações nesse tipo de ambiente sugere a existência de
certas inadequações e lacunas na lei vigente que necessitam serem reparadas.
www.koreuropa.eu
100
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Por fim, podemos dizer que as regras de competência internacional do Estado emanam,
em primeiro lugar, de seu próprio ordenamento. São regras de direito processual compostas
por um sistema dinâmico que pode ser chamado de Direito Processual Internacional. Este
sistema, como parte do Direito Internacional Privado, terá ainda como fonte regras a partir do
Direito Internacional Público, normas costumeiras e acordos internacionais, os Tratados,
visando à solução dos conflitos de jurisdição que se instalem nas relações multiconectadas.
Portanto, a competência internacional da Justiça brasileira está fixada, sendo exclusiva,
segundo nossa posição em razão do art. 101 inciso I do CDC, ou concorrente conforme o
inciso II do art. 88 do CPC, local de cumprimento da obrigação, o magistrado deverá
socorrer-se de nossas normas indicativas em relação à presente demanda.
6. Conclusão
O Direito Internacional Privado e Processual diverso e próprio de cada país produziria
freqüentemente resultados insatisfatórios, tornando cada vez mais urgente à necessidade da
internacionalização nas zonas de integração econômica com o objetivo da harmonização do
Direito Internacional Privado e Processual.
Observando o Direito interno podemos deduzir pelo conflito internacional entre
ordenamentos jurídicos e concluir pela necessidade de uniformização das normas indicativas e
harmonização dos direitos do consumidor.
Enquanto o apelo de uma sociedade global interligada pela Internet nos parece
vantajoso, a sua viabilidade depende em muito da superação de desafios relacionados a
diferenças culturais, políticas, econômicas e, principalmente, legais.
A criação da Internet gerou um fundamental debate acerca de sua regulamentação. Para
muitos, seus primeiros desenvolvimentos representavam uma terra sem lei onde a liberdade
de expressão reinava suprema, a partir dessa concepção surgiram grupos representados por
vários setores da sociedade, que advogam contra qualquer forma de censura e regulamentação
de conteúdo na rede mundial de computadores.
Apesar dos fortes argumentos e dos discursos por vezes eloqüentes em defesa de uma
Internet livre, fato é que a maioria dos governos criou medidas para reafirmar sua presença
www.koreuropa.eu
101
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
também no mundo virtual. Adotou-se um posicionamento contrário à auto-regulamentação da
Internet. Novas leis foram editadas em áreas como propriedade industrial, contratos,
privacidade e crime, com o objetivo de regular praticamente todas as formas possíveis de
atividade na Rede.
Com a crescente freqüência de negócios e outras relações sociais conduzidas on-line,
aumentou a expectativa de aplicação extraterritorial das leis. Pessoas físicas e jurídicas devem
analisar cautelosamente o lugar a que dirigem suas relações via web, qual o público atingido
por sua mensagem e estar preparadas para enfrentar litígios de acordo com as leis daquela
jurisdição.
Diante da problemática exposta, nos posicionamos a favor de um esforço multilateral
que vise à criação de um entendimento comum para questões ocorridas a partir do
ciberespaço. É evidente que quanto maior o grau de consenso sobre determinada matéria de
direito internacional, mais apropriado ao judiciário de cada país proferir julgados sobre tal
área. O órgão julgador pode concentrar seus esforços na aplicação de um princípio em
concordância aos interesses da comunidade internacional, ao invés de se empenhar na tarefa
por vezes subjetiva de estabelecer um princípio inconsistente com a justiça das nações.
www.koreuropa.eu
102
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
REFERÊNCIAS
ALBERTIN, Comércio Eletrônico: modelos, aspectos e contribuições de sua aplicação. 2. ed.,
São Paulo, 2000
ALMEIDA, A proteção jurídica do consumidor, São Paulo, 2002
ARAÚJO, Contratos internacionais: autonomia da vontade no Mercosul e convenções
internacionais, Rio de Janeiro, 2004
ARRIGHI, La protección de los consumidores y el Mercosur in Revista de Direito do
Consumidor, 2
ATHENIENSE, Direito na Informática e Direito Processual, Belo Horizonte, 2003
BLUM, A internet e os tribunais, in http://www.modulo.com.br/noticias/artigo_entrevista/aopice.htm (acesso em 01 jul 2011)
BONAVIDES, Curso de direito constitucional, São Paulo, 2000
CANÇADO TRINDADE, Tratado de direito internacional dos direitos humanos, Porto Alegre,
1997, v.i - ii
CANOTILHO, Direito constitucional e teoria da Constituição, Coimbra, 1998
CASTRO, Os meios eletrônicos e a tributação, in Seminário SSJ Direito.com, Rio de Janeiro,
30 de junho de 2000
CHALOULT, ALMEIDA, (Org.), Mercosul, NAFTA e ALCA: a dimensão social, São Paulo, 1999
DALLARI, A. Constituição e tratados internacionais, São Paulo, 2003
DE LUCCA, Direito do consumidor, São Paulo, 2003
DE LUCCA, Direito do consumidor: aspectos práticos: perguntas e respostas, Bauru, 2000
DORNELES, Tutela administrativa dos consumidores no Brasil como paradigma aos países do
Mercosul, Curitiba, 2003
FELLOUS, Proteção do consumidor no Mercosul e na União Européia, São Paulo, 2003
FERREIRA FILHO, Direitos humanos fundamentais, São Paulo, 1996
FILOMENO, Manual de direitos do consumidor, São Paulo, 2001
FORGIONI, Apontamentos sobre aspectos jurídicos do e-commerce, in Revista de
Administração de Empresas, 2000, n. 4, p. 70-83
GAMBOGI, Contratos via internet, Belo Horizonte, 2001
www.koreuropa.eu
103
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
GARCEZ, (Coord.) A arbitragem na era da globalização, Rio de Janeiro, 2ª ed., 1999
HOUAISS, VILLAR, Dicionário Houaiss da Língua Portuguesa, Rio de Janeiro, 2001
MARQUES, Confiança no comércio eletrônico e a proteção do consumidor: um estudo dos
negócios jurídicos de consumo no comércio eletrônico, in Revista dos Tribunais, 2004
MARQUES, Contratos no Código de Defesa do Consumidor, in Revista dos Tribunais, 2002
MARQUES, Mercosul como legislador em matéria de direito do consumidor: crítica ao projeto
de protocolo de defesa do consumidor, in Revista de Direito do Consumidor, v. 26, p. 53-76
MARQUES, O Código Brasileiro de Defesa do Consumidor e o MERCOSUL: estudos sobre a
proteção do consumidor no Brasil e no MERCOSUL, Porto Alegre, 1994
MARQUES, Regulamento comum de defesa do consumidor: primeiras observações sobre o
Mercosul como legislador da proteção do consumidor, in Revista de Direito do Consumidor,
v. 23-24, p. 79-103
MARQUES, União Européia legisla sobre cláusulas abusivas: um exemplo para o Mercosul?
Texto na íntegra e comentários sobre a Diretiva 93/13/CEE, in Revista de Direito do
Consumidor, v. 21, p. 300-310
MAZZUOLLI, Direitos humanos, Constituição e os tratados internacionais, São Paulo, 2002
MEDEIROS, O poder de celebrar tratados: competência dos poderes constituídos para
celebração dos tratados à luz do direito internacional, do direito comparado e do direito
constitucional brasileiro, Porto Alegre, 1995
MEDEIROS, O Poder legislativo e os tratados internacionais, Porto Alegre, 1983
MORAES, Código de defesa do consumidor: o princípio da vulnerabilidade no contrato, na
publicidade, nas demais práticas comerciais, Porto Alegre, 1999
PERIN JUNIOR, A globalização e o direito do consumidor: aspectos relevantes sobre a
harmonização legislativa dentro dos mercados regionais, Barueri, 2003
PIOVESAN, Direitos humanos e o direito constitucional internacional, São Paulo, 1996
SILVA, Arbitragem dos Contratos Comerciais no Brasil, Belo Horizonte, 1997
www.koreuropa.eu
104
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
L’AUSTERITE EUROPEENNE: UN CHOIX
DISCUTABLE
Nancy De Leo
Assistant à l’enseignement à l’Université Kore de Enna
RESUME: Les plans d’austérité, imposés aux Pays victimes de la crise économique, ont provoqué une guerre
sociale au sein de l’Union Européenne. Le but de cet article est celui d’analyser, de une manière critique, les
mesures économiques mis en place par l’UE, principalement vis-à-vis de la pensée des Prix Nobel à l’économie,
Joseph Stiglitz et Paul Krugman. Pour régler le marché il est nécessaire l’intervention des Etats en économie.
L’absence de solidarité entre les pays membres, engendre une externalité négative entre eux. Au fur et à mesure
la réponse politique des Institutions européennes est insuffisante face aux exigences des citoyens européens
MOTS CLES: Crise économique ; Austérité ; Union Européenne ; Euro
La crise économique et les mesures d’austérité imposées par la Union Européenne, aux
Pays victimes de la crise économique-financière, ont des conséquences négatives sur le bienêtre de la collectivité et des Institutions Européennes.
Les plans d’austérité imposés à la Grèce, comme à l’Italie et à l’Espagne, ont produit
une grave crise du système social et du niveau de l’emploi, en imposant des coupes
budgétaires, dans la dépense publique et l’augmentation de la pression fiscale. Le taux de
chômage, ainsi que, la pression fiscale augmentent et touchent les classes moyennes de la
population.
Souvent le système sanitaire national ne parvient pas à fournir une assistance minimale.
La réduction des allocations de chômage, les transformations sur le système de la retraite, la
suppression des services sociaux, les réductions des coûts de l’instruction et de la culture, sont
les quelques mesures adoptées par les Etats membres de l’Union Européenne.
Le scénario social et politique de ces pays est catastrophique. Les différentes
manifestations de protestation, ayant eu lieu en Grèce, témoignent du fait que les citoyens
n’ont pas accepté de telles mesures, les sacrifices sociaux et économiques qui en dérivent. La
souffrance sociale en échange du sauvetage de l’Euro et de l’Union Monétaire, l’avenir nié
aux jeunes générations, la liquidation de biens du patrimoine culturel national, l’humiliation
de la même dignité humaine.
www.koreuropa.eu
105
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
L’Euro Groupe, l’organisme qui réunit les Ministres de l’Economie et des Finances des
Pays de l’Euro, a décidé de sauver les banques en échange de contrôles sur la mise à point de
quelques mesures économiques, qui imposent un frein sur la dépense publique en accentuant
la crise. Organismes de contrôle: la Commission Européenne, la Banque Centrale Européenne
et le Fonds Monétaire International.
Des tels choix se révèlent discutables, en ce qui concerne la mise au point de deux
importantes analyses récentes, qui ont comme protagoniste trois économistes de renommée
mondiale JOSEPH STIGLITZ1, PAUL KRUGMAN2 e RICHARD LAYARD, lesquels retiennent
l’austérité contre-productive pour sortir de la crise.
Analysant le rôle des marchés financiers, le prix Nobel à l’économie JOSEPH STIGLITZ
affirme qu’eux mêmes ne sont pas stables. Au contraire, ils ont généré des «bulles
déstabilisantes3» et les mesures de l’austérité ne corrigent pas ces insuccès du marché. Le
marché financier a été la cause d’un retard, entre le potentiel de l’économie et ce qui
correspond réellement à l’économie (dans le produit final). Ce qui engendre des graves
conséquences4. Sur les causes de la crise, STIGLITZ retient qu’elle n’est pas due aux excès des
dépenses, mais au comportement des gouvernements face aux marchés financiers. Puisque les
marchés seuls ne fonctionnent pas, le gouvernement doit jouer un rôle important. Les
politiques d’austérité empireront la situation de crise, parce que suite aux externalités5, elles
Pour l’analyse de STIGLITZ, on se réfère à l’intervention à la Conférence de Rome Oltre l’austerità, le 2 mai
2012, organisée par la Fondazione Italianieuropei.
Pour plus d’informations et pour approfondir la pensée politique économique de STIGLITZ, Globalization and its
Discontents, New York, 2003, ID., The Price of Inequality: the Avoidable causes and invisible costs of
Inequality, New York, 2012, et avec SEN, FITOUSSI, Mismeasuring our lives: why GDP doesn’t add up, New
York, 2010.
2
Pour l’analyse de KRUGMAN on se réfère au Manifeste pour le bon sens économique, publie par le Financial
Times et écrit avec l’économiste LAYARD, le 28 june 2012.
Sur le thème spécifique cf. KRUGMAN, End this Depression, Now!, New York, 2012.
3
STIGLITZ pendant la Conférence de Rome, affirme que les marchés étaient inefficace avant la crise, parce qu’ils
allouaient les ressources uniquement au marché immobilier.
4
Avec cette affirmation STIGLITZ ne veut pas affirmer que l’on doit abandonner les marchés financiers, mais au
contraire, il en confirme l’importance pour le bon fonctionnement de l’économie. Mais il déclare que lorsque
40% des profits d’une société est placé dans le secteur financier, ce dernier ne produit pas de croissance, mais
instabilité. Les mesures fiscales peuvent aider à diriger l’économie vers un parcours plus constructif.
5
STIGLITZ affirme que les externalités sont un facteur important, dans un monde intégré comme le nôtre. Parce
que ce qui arrive dans un Pays a des conséquences sur les autres. Les Etas Unis ont pollué le marché avec les
prêts subprime. C’est pourquoi il est important que la solidarité rentre à faire partie des Etats membre de l’Union
1
www.koreuropa.eu
106
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
s’élargiront aussi dans les autres Pays de l’UE. Le facteur des externalités, pour STIGLITZ,
devient aussi une excellente mesure pour améliorer la croissance des Pays en crise. Un autre
facteur important, analysé par STIGLITZ, est celui de la relation entre la demande et l’offre. En
effet, il croit que les réformes ne doivent pas être exécutées seulement d’un point de vue de
l’offre, parce qu’en réalité c’est la demande qui guide la production, les mesures du point de
vue de l’offre aggrave l’absence de demande agrégée6. Même la réduction des inégalités
augmenterait la demande de bien et services.
Sur le Manifeste pour le bon sens économique, PAUL KRUGMAN et RICHARD LAYARD
insistent sur l’importance de l’augmentation de la dépense individuelle. Ils soutiennent que la
dépense d’une personne devient le revenu d’une autre, le résultat de l’effondrement de la
dépense a été une dépression économique qui a empiré la dette publique. Le prix Nobel à
l’économie, KRUGMAN, soutient qu’il faut élargir la demande. Il affirme qu’en 1930, le même
discours structurel a été utilisé contre les politiques d’achats proactives dans les Etats Unis,
mais suite à l’augmentation des achats entre le 1940 et le 1942, la production est augmentée
du 20%. Le problème de 1930, comme celui d’aujourd’hui, était donc la pénurie de demande,
non de l’offre. Un autre point sur lequel les économistes concordent c'est l’importance de la
hausse de la dépense publique, qui agit comme force de stabilisation, en soutenant l’achat qui
ne peut être fait par les privés. Par conséquent, STIGLITZ soutient que les investissements
publics7ont été la base de la croissance de l’économie américaine, après la Grande
Dépression. Les investissements publics ont aussi un effet positif sur les privés, parce qu’ils
en augmentent le revenu. Dans son discours à Rome, STIGLITZ donne des conseils à l’Union
Européenne, parce que si l’Allemagne faisait preuve de stimulus économiques, les effets pourraient aider les
Pays voisins, et les bénéfices se propageraient soit sur soi-même soit sur les voisins.
6
Concrètement STIGLITZ se réfère au marché du travail aux Etas Unis, qui est considéré le plus flexible au
monde. Seulement en augmentant la croissance et en générant des nouveaux emplois à temps plein, la demande
de bien augmentera. Aussi les politiques salariales encourageraient la demande: on a une meilleure distribution
des revenus.
7
L’économie européenne et des Etats Unis est en train de vivre une restructuration massive. STIGLITZ croit
qu’elles sont victimes de leur succès. Il faut tenir compte des changements en cours. Si l’offre productive dans le
secteur manufacturier est plus importante que la demande du point de vue global, cela signifie que l’emploie
diminuera, et que les investissements doivent le faire en technologie, infrastructures, pour restructurer
l’économie selon les transformations dans le monde. Si on ne investit pas, la restructuration n’arrivera jamais, les
inégalités augmenteront et l’économie ne croîtra plus.
www.koreuropa.eu
107
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Européenne pour sortir de la crise; conseils, que selon le prix Nobel, sont aussi en ligne avec
les traités, mais pour lesquels il est nécessaire une volonté politique8.
Parmi lesquels on retrouve l’utilisation de la Banque Européenne d’Investissements, un
fond qui puisse aider les investissements, même pour les économies qui sont sans liquidité,
développant le crédit aux petites et grandes entreprises, ainsi que l’institution d’un Fond de
solidarité Européen pour la stabilisation, pour permettre aux Pays d’avoir accès à des crédits à
dépenser en politiques pour la croissance et pour l’occupation.
Enfin il parle d’un scénario futur catastrophique, dans le cas où l’Union Européenne se
concentre seulement sur l’austérité: si l’euro parvient à se sauver seulement par le biais d’un
chômage important, surtout dans les pays déjà en crise, la crise se développera. Enfin, il
conseille aux Pays de ne pas se concentrer sur ce qu’il définit « fétichisme des dettes », c’est à
dire sur le déficit, et rebondit sur la nécessité de restructurer l’économie avec investissements.
Dans ce sens, avec KRUGMAN et LAYARD, il confirme que en se concentrant sur le
déficit public, qui est le résultat d’une crise incitée par l’effondrement des entrées, on
augmente la pression fiscale en élevant les réductions des dépenses du secteur privé. Selon le
contenu du Manifeste pour le bon sens économique, la priorité des gouvernements doit être
celle de réduire le chômage, avant que tout cela ne rende encore plus difficile la reprise
économique. KRUGMAN et LAYARD, enfin, insistent sur l’absence de relation entre les coupes
budgétaires et la confiance des investisseurs, sujet qui tient à cœur aux gouvernements. Les
deux économistes avec un exemple simple, rejettent l’argumentation. Parce qu’ils expliquent,
que, par exemple, au Japon le fait d’avoir une dette publique, qui dépasse désormais le 200%
du PIB9 annuel, et le downgrade des agences de rating, n’ont pas eu aucun effet sur les taux
d’intérêts. Les signataires du Manifeste pour le bon sens économique10, affirment que les
coupes budgétaires n’inspirent pas confiance aux entreprises, parce que ces derniers
investissent, seulement, lorsqu’ils peuvent prévoir des clients avec un pouvoir nécessaire au
En réalité le choix néolibéral de l’Union Européenne, par ça nature, refuse l’ingérence de l’Etat et de la
politique tout court. Cf. VONTOBEL, Die Wohlstands maschine. Das Desaster des Neoliberalismus, Zurich,
1998.
9
Produit Intérieur Brut.
10
Pour renforcer leur thèse, les économistes utilisent les études du Fonds Monétaire International. Selon cette
étude dans 173 de cas de coupes budgétaires, le résultat à été la contraction économique.
8
www.koreuropa.eu
108
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
déclenchement des dépenser. Ne pas apprendre, par les erreurs du passé, semble être le sujet
central qui conduit les gouvernements européens, dans leurs prises de positions.
Il faudrait que l’économie soit à disposition des citoyens, de sorte à ce qu'elle se rende
utile pour la plupart d’entre eux. Déjà ARISTOTE dans Ethique à Nicomaque définit
l’économie comme une finalité humaine qui doit être utilisée par la politique pour le bien
humain11. Un autre Prix Nobel AMARTYA SEN, dans son Ethique et économique, demandait à
l’économie12 un retour à l’objectif primaire, c'est-à-dire les personnes réelles avec leurs vraies
exigences.
Enfin l’estime du Fond Monétaire International ne présageait rien de bien, parce que
selon son dernier World Economy Outlook13, l’Eurozone pourrait revenir aux niveaux de
croissance d’avant la crise, en 2016, parce que la crise dans la zone euro s’est intensifiée,
malgré les mesures de politique économique adopté jusqu’aujourd’hui14. Les perspectives à
court terme pour la zone euro, sont révisés à la baisse15. Les politiques d'austérité augmentent
le rapport entre la dette publique et le produit intérieur brut (PIB), car ils réduisent le second.
Le récent Working Paper du Fonds monétaire international16 a confirmé cette tendance,
indiquant que le resserrement budgétaire sur l'activité économique réduit le PIB.
En définitive l’Union Européenne n’a pas réussi non plus à achever cette Union
économique, vu qu’il manque des aspects macroéconomiques communs, comme la taxation
commune, l’occupation, le compte public, la croissance et autre. En Europe mis à part la
monnaie et le contrôle sur les taux d’intérêts des prêts, gérés par la Banque Centrale
Européenne, et le contrôle des comptes publics gérés par le Conseil e par la Commission, les
autres aspects restent dans la sphère des Pays membres, générant déséquilibres entre eux. Dès
le début de la crise économique, la totalité du projet européen tourne exclusivement autour du
11
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Bari, 2004, 1094b p. 4 et suivantes.
SEN, Etica ed Economia, Bari, 2004, p. 8 et suivantes.
13
http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2012/01/pdf/text.pdf
14
International Monetary Fund, World Economic Outlook: Coping with High Debt and Sluggish Growth, October
2012, p. 62 ss. http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2012/02.
15
International Monetary Fund, World Economic Outlook Update: Gradual Upturn in Global Growth during
2013, January 2013, p.1 ss. http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2013/update/01/
16
International Monetary Fund, The Challenge of the debt reduction during fiscal consolidation, 8 march 2013,
http://www.imf.org/external/pubs/cat/longres.cfm?sk=40381.0 pag. 4ss.
12
www.koreuropa.eu
109
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
sauvetage de l’Union monétaire. L’unité politique est incomplète tandis que celle
économique-monétaire s’alimente toute seule.
A l’embarras créé par l’austérité économique s’unissent les politiques publiques
absentes17. Ce que les citoyens perçoivent est, donc, un corps étranger à leurs réalités sociales,
économiques et culturelles18. Conséquence naturelle, vue la dégradation des conditions de vie
des citoyens: c’est l’actuelle crise de consensus que la Union Européenne et les
gouvernements nationaux sont en train de vivre.
S’il est vrai, que le processus européen s’est développé à travers la médiation des
stratégies proposées (par les gouvernements, par les institutions internes et externes, par les
forces politiques, par intérêts sociaux organisés et mouvements associés européens) et entre
les intérêts protégés par les participants au procès, sous les pressions de changements sociaux,
culturels et économiques19, aujourd’hui le projet est à adapter aux nouvelles demandes.
Considéré le père du libéralisme, JOHN RAWLS20, soutient qu’une société libérale et juste
se fonde avec le consensus des citoyens vis à vis des gouvernements. Tout au long de ces
derniers mois, les leaders européens se sont occupés seulement de trouver un accord avec
l’Union bancaire, qui aura le but de restructurer les instituts bancaires en difficulté, en les
recapitalisant à travers des fonds nationaux obtenus par la taxation sur les banques. Un procès
qui gravera, quasi certainement, sur les opérations bancaires des citoyens. Si du moins les
banques poursuivaient leur but originaire, celui de dépôt des épargnes et prêts pour
investissements des clients, cela serait utile pour une reprise des consommations et donc de
l’économie.
On ne doit pas oublier le manque de perception des politiques de l’Union Européenne, comme la Politique
Agricole, le Fond Européen pour la pêche, le Fond Social et d’autres, guère perçus par les citoyens. Les raisons
de cet insuccès peuvent être cherchées soit dans l’incapacité des gouvernements nationaux de les rende
accessibles à tous, soit dans l’absence d’un lien entre les réelles exigences des citoyens et les politiques
publiques européennes.
18
L’introduction de zones ou de régions à objectifs convergents, qui aurait dû diminuer la distance entre les Etats
membres, a généré deux effets négatifs. Non seulement l’homologation de modèles culturels, sociaux et
économiques, de l’autre, mais elle a aussi augmenté la distance économique entre eux. Le premier est le produit
de la globalisation, le deuxième la conséquence de la mauvaise gestion administrative de ces régions.
19
ATTINÀ - NATALICCHI, L’Unione Europea. Governo, istituzioni, politiche, Bologna, 2007
20
RAWLS, Il diritto dei popoli, Torino, 2001, p.44 et suivantes. RAWLS définit la justice politique comme l’effort
des gouvernants pour protéger l’indépendance politique et les libertés culturelles, afin de garantir la sécurité et le
bien être des citoyens.
17
www.koreuropa.eu
110
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Au contraire, l’institution bancaire se comporte désormais comme un spéculateur
financier, dans le but de faire enrichir ses propres actions. L’Union Européenne continue à
protéger ses banques, en renonçant à ses citoyens. Le cas récent de Chypre montre une fois de
plus, un tel choix. En échange d'un financement de l'UE et du IMF, Chypre est obligé de
prélèvements forcés sur les dépôts bancaires de tous les citoyens 21.
Cette situation génère un malaise dans la société et provoque l'émergence de
mouvements et partis politiques opposés à l'intégration européenne et l'euro.
Si l’Union Européenne fête son Prix Nobel de la paix, à l’intérieur des Pays membres la
crise économique, quant à elle, a déclenché la première guerre sociale depuis sa naissance.
21
Eurogroup Statement on Cyprus, 16 march 2013 http://eurozone.europa.eu/documents/. On doit garder à
l'esprit que Chypre est une zone stratégique pour les intérêts de la Russie et de la politique méditerranéenne de
l'Union européenne. En fait, l'UE se félicite de toute aide financière de la Fédération de Russie à Chypre.
www.koreuropa.eu
111
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
RETI DI IMPRESA INNOVATIVE, APPALTI
PUBBLICI E COMPETITIVITÀ INTERNAZIONALE
Roberto Di Maria
Professore Associato di Diritto costituzionale nell’Università Kore di Enna
Carmelo Provenzano
Assistant Professor di Economia applicata nell’Università Kore di Enna
ABSTRACT. Il presente articolo spiega come di fronte alla crisi economica e finanziaria
mondiale, la rete di impresa, può costituire una forma organizzativa di successo in grado
dare slancio all’economia nazionale ed europea. Le reti d’impresa innovative si fondano
sulla fiducia reciproca fra i partner. Esse vengono create nel tempo e favoriscono la
circolazione dell’informazione, la diffusione della conoscenza e la generazione
dell’innovazione. La fiducia, inoltre, riduce l’incertezza e i costi di transazione e limita i
comportamenti opportunistici da parte di agenti free-rider. Tuttavia, il successo di tali forme
organizzative dipende non solo da tali processi ma anche dall’interplay tra le imprese e le
istituzioni politiche e dalle loro interazioni con il sistema formativo di ricerca. Con la legge
33/2009 il legislatore italiano ha disciplinato il «contratto di rete» come uno strumento
attraverso il quale due o più imprese possono esercitare in comune una o più attività
economiche allo scopo di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul
mercato. Tale contratto, affiancandosi ai tradizionali strumenti di promozione della
collaborazione tra imprese, ha permesso di superare la logica dei cd. distretti territoriali, e
senza incidere sull’autonomia delle singole imprese può permettere a quest’ultime di
effettuare una cooperazione più snella e flessibile. Inoltre, la legge 11 novembre 2011, n. 180
disciplina la partecipazione delle reti di impresa nell’ambito delle procedure per
l’aggiudicazione di contratti pubblici. Così facendo si è cercato di abbattere alcune barriere
all’entrata che impedivano l’accesso agli appalti pubblici delle micro, piccole e medie
imprese. Il presente articolo, inoltre effettua delle considerazioni sull’efficacia dell’intervento
pubblico a favore delle reti di impresa e sottolinea l’importanza di diversi fattori tra i quali le
diversità territoriali e le esigenze di innovazione, flessibilità e di efficienza imposte dalla
competitività internazionale.
KEY WORDS: reti di impresa; innovazione; fiducia; competitività internazionale; appalti
pubblici.

Il presente contributo è frutto del lavoro congiunto dei due Autori; tuttavia, in particolare, a Roberto Di Maria si
deve la redazione del par. 2, mentre a Carmelo Provenzano quella dei par. 1, e 3. Nel par. 4 sono invece
contenute le riflessioni conclusive, ricavate dalla comune riflessione dei Coautori.
www.koreuropa.eu
112
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
1. Introduzione.
Di fronte alla crisi economica e finanziaria mondiale i paesi membri dell’Europa e, in
particolare, l’Italia devono superare le debolezze strutturali del loro modello di
specializzazione produttivo. I fattori cruciali che hanno caratterizzato il secondo miracolo
italiano degli anni Ottanta come il radicamento territoriale, i legami familiari, il know how e la
creatività delle imprese italiane, sembrano non più in grado di garantire la competitività
internazionale.
In questo scenario, la rete di impresa, può costituire una forma organizzativa di successo
in grado dare slancio all’economia nazionale. Essa, per la prima volta nel 2008, è stata
regolamentata come un nuovo istituto giuridico diretto a promuovere una forma organizzativa
snella e flessibile in grado di supportare forme di collaborazioni anche distanti e rafforzare
l’integrazione della filiera.
Le reti d’impresa innovative si fondano sulla fiducia reciproca fra i partner. Esse
vengono create nel tempo e favoriscono la circolazione dell’informazione, la diffusione della
conoscenza e la generazione dell’innovazione. La fiducia, inoltre, riduce l’incertezza e i costi
di transazione e limita i comportamenti opportunistici da parte di agenti free-rider1. Tuttavia,
il successo di tali forme organizzative dipende non solo da tali processi ma anche
dall’interplay tra le imprese e le istituzioni politiche e dalle loro interazioni con il sistema
formativo di ricerca2.
A partire dagli anni Ottanta, la letteratura economica ha analizzato la natura e il ruolo delle reti d’imprese. Cfr.
GRANDORI, SODA, Inter-firm networks: Antecedents, mechanisms and forms, in “Organization Studies”, 1995,
16, pp. 183-214; MENRD, The economics of hybrid organizations, in Journal of Institutional and Theoretical
Economics, 2004, 160, pp. 345-376. Lo scopo delle reti d’impresa è quello di minimizzare i costi di transazione,
in un ambiente caratterizzato da incertezza, informazione incomplete e comportamenti opportunistici. Cfr.
WILLIAMSON, Markets and hierarchies: Analysis and antitrust implications: A study in the economics of internal
organization, New York, 1975. I costi di transazione sono legati alla ricerca della controparte, , alla valutazione
della qualità dell’oggetto o del servizio proposto dalla controparte, alla contrattazione dei termini dello scambio,
alla determinazione dei termini del contratto, alla acquisizione di informazioni, alla condivisione di economie
esterne. Cfr. KRANTON, Reciprocal exchange: A self-sustaining system, in American Economic Review, 86, pp.
830-851. KALI, 1999 Endogenous business networks, in Journal of Law, Economics & Organizations, 15, 1996,
pp. 615-636. Se da un lato, la rete ottiene i benefici dell’integrazione senza sostenere i costi della gerarchia,
dall’altro lato, può generare effetti negativi sui soggetti interni ed esterni alla rete, favorendo comportamenti
collusivi causano sia inefficienza statica che dinamica dell’allocazione delle risorse.
2
ETZKOWITZ, The triple helix: University-industry-government innovation in action, London, 2008.
1
www.koreuropa.eu
113
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
La formazione di queste forme organizzative innovative, inoltre, può crearsi
spontaneamente o essere favorita da interventi pubblici specifici. Oltre ai benefici di carattere
fiscale, sul fronte della politica industriale è interessante osservare come di recente diversi
bandi di finanziamento e procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti pubblici
promuovono lo sviluppo di logiche di rete.
Nella seconda sezione, verrà messo in evidenza, come di fronte alla difficile crisi
internazionale che stiamo attraversando, con la legge 33/2009 il legislatore ha disciplinato il
«contratto di rete» come uno strumento attraverso il quale due o più imprese possono
esercitare in comune una o più attività economiche allo scopo di accrescere la reciproca
capacità innovativa e la competitività sul mercato. Tale contratto, affiancandosi ai tradizionali
strumenti di promozione della collaborazione tra imprese, ha permesso di superare la logica
dei cd. distretti territoriali, e senza incidere sull’autonomia delle singole imprese può
permettere a quest’ultime di effettuare una cooperazione più snella e flessibile. Inoltre, la
legge 11 novembre 2011, n. 180 disciplina la partecipazione delle reti di impresa nell’ambito
delle procedure per l’aggiudicazione di contratti pubblici. Così facendo si è cercato di
abbattere alcune barriere all’entrata che impedivano l’accesso agli appalti pubblici delle
micro, piccole e medie imprese. Sulla base dei benefici che questo strumento può produrre in
termini di competitività del sistema imprenditoriale, l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti
Pubblici ha avviato una procedura di consultazione ed ha effettuato la segnalazione n. 2 del 27
settembre 2012, dalla quale sono emersi sia le potenzialità applicative della fattispecie
nell’ambito della contrattualistica pubblica, sia delle criticità da risolvere e delle modifiche da
effettuare. Successivamente, il d.l. 18.ottobre 2012, n. 179, convertito – con modificazioni –
dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, ha disciplinato alcuni aspetti del Codice dei Contratti
(d.lgs.12 aprile 2006, n. 263). Inoltre, il 23 aprile 2013, la medesima Autorità ha
ulteriormente emesso la determinazione n. 3 su «partecipazione delle reti di impresa alle
procedure di gara per l’aggiudicazione di contratti pubblici ai sensi degli articoli 34 e 37 del
d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163».
Nella terza sezione, verrà messo in evidenza come la singola impresa di piccole e medie
dimensioni non è in grado da sola di essere competitiva nel processo di globalizzazione ma
deve sfruttare sia la capacità collettiva di un’area territoriale di mettere in moto le energie e le
www.koreuropa.eu
114
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
risorse localmente disponibili e di attrarre forze produttive, risparmi e consumi dall’esterno;
che i benefici dei differenziali dei costi di produzione (in particolare del costo del lavoro) e
l’economie cognitive di scopo derivanti dall’adesione ad una rete di imprese transnazionali.
Il concetto di territorio non si esaurisce nel luogo fisico che ospita e contribuisce a
creare la rete di legami tra imprese, bensì si estende all’insieme di valori culturali, sociali e
alle relazioni fiduciarie che caratterizzano i suoi attori economici, sociali e istituzionali.
Inoltre, le reti non vanno vincolate e relegate al territorio (anch’esso definito come rete) ma
vanno interpretate come network che favoriscono l’ibridazione delle conoscenze e delle
competenze locali e globali. Infine, verrà sottolineato come per comprendere l’evoluzione
della rete così concepita occorre effettuare delle considerazioni sul mercato del lavoro
italiano, sulle sue rigidità e sugli effetti delle offshoring. L’accezione che noi adottiamo di
“rete di impresa”, non solo tiene conto degli aspetti legali, fiscali e di mercato ma si riferisce
anche a relazioni non di mercato, non necessariamente gerarchiche bensì centrate sul concetto
di fiducia e di cooperazione oltre che di competizione tra i nodi e che collegano gli attori tra
loro.
Infine, nell’ultima sezione verranno effettuate delle conclusioni sull’efficacia
dell’intervento pubblico a favore delle reti di impresa. Verrà messo in evidenza che,
nonostante la crescita interaziendale mediante le reti sia una possibile strategia volta a
superare il sottodimensionamento del nostro tessuto produttivo, essa per essere efficace deve
tenere conto di diversi fattori tra i quali le diversità territoriali e le esigenze di innovazione,
flessibilità e di efficienza imposte dalla competitività internazionale.
2. Reti di impresa e procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti pubblici
L’ordinamento giuridico italiano, attraverso il relativo contratto, ha disciplinato – anche
se in ritardo rispetto agli altri ordinamenti3 – la “rete” come soggetto giuridicamente rilevante,
L’art. 6 bis, d.l. 25 giugno 2008, n. 112 ha individuato la forma giuridica delle reti di imprese, attraverso un
decreto di Ministro dello Sviluppo Economico, di concerto con quello dell’Economia e delle Finanze, della
forma giuridica delle c.d. “reti di imprese”. Questa normativa (dall’art.1, co. 366 e ss., l. 23 dicembre 2005, n.
266) ha esteso i benefici destinati ai distretti industriali alle reti. Il summenzionato art. 6 bis è stato poi abrogato
dall’art. 1, co. 2, l. 23 luglio 2009, n. 99; contestualmente, sono state effettuate modifiche a tale disciplina del
3
www.koreuropa.eu
115
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
al quale sono collegate alcune agevolazioni fiscali nonché destinati alcuni bandi di
finanziamento4.
In particolare, l’art. 3, co. 4 ter, d.l. 10 febbraio 2009, n. 5 – prima rivisto dall’art. 42,
co. 2 bis, d.l. 78/2010 e poi integrato dall’art. 45, co. 1, d.l. 83/2012 – afferma che con il
contratto di rete «più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e
collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal
fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in
ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi
informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero
ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria
impresa»5. Dalla lettura del testo emerge come il concetto di rete supera quello dei distretti: la
forma della rete è un mezzo di cooperazione più flessibile che possiede sia elementi di
stabilità, tipici delle forme societarie e consortili, che le caratteristiche di flessibilità proprie
dei contratti riconducibili alla figura della joint venture.
Attraverso il contratto di rete, dunque, gli imprenditori migliorano la propria capacità
innovativa ed incrementano la propria competitività e, per raggiungere questo scopo, si
contratto di rete, estendendo l’ambito di applicazione dalle s.p.a. alle altre forme di organizzazione dell’attività
aziendale.
4
I richiamati vantaggi fiscali, amministrativi e finanziari, sono definiti dall’art. 42, d.l. 31 maggio 2010, n. 78,
come modificato in sede di conversione.
5
Cfr., sul punto, CAFAGGI, IAMICELI (a cura di), Reti di imprese tra crescita e innovazione organizzativa.
Riflessioni da una ricerca sul campo, Bologna, 2007; CAFAGGI, Il contratto di rete nella prassi. Prime
riflessioni, in Contratti, 2011, 5, 504; ID., Il nuovo contratto di rete: “Learning by doing”, in Contratti, 2010,
12, 1143; MACARIO, Relational contracts e Allgemeiner Teil: il problema e il sistema, in NAVARRETTA (a cura
di), Il diritto europeo dei contratti fra parte generale e norme di settore, 2008, 123 ss.; VETTORI, Contratto di
rete e sviluppo dell’impresa, in Obbl. e contr., 2009, 390 ss; GRANIERI, Il contratto di rete: una soluzione in
cerca di problema?, in Contratti, 2009, 10, 934; MESSINEO, Contratto plurilaterale e contratto associativo, in
Enc. Dir., X, Milano, 1962, p. 146. L’art. 3, co. 4 ter e ss., del citato d.l. n. 5/2009 individua espressamente nella
figura dell’imprenditore il soggetto attivo della rete; non è chiaro se tale indicazione si riferisce esclusivamente
allo status di imprenditore definito dall’art. 2082 c.c. o, invece, se si estende a qualsiasi “operatore economico”
(i.e. i liberi professionisti). Un’interpretazione più restrittiva attribuisce lo status di imprenditore soltanto ai
soggetti iscritti presso il Registro delle imprese; quest’ultima sarebbe coerente con il co. 4 quater, art. 3, che
impone l’iscrizione del contratto di rete «nella sezione del registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun
partecipante». Gli effetti del contratto decorrono dal momento in cui è stata effettuata l’ultima delle iscrizioni
prescritte a carico di tutti coloro che ne sono stati sottoscrittori originari.
www.koreuropa.eu
116
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
obbligano – sulla base di un programma comune di rete – a collaborare in forme e in ambiti
predeterminati6.
La pubblicità del contratto di rete avviene per atto pubblico o per scrittura privata
autenticata da ciascun imprenditore o legale rappresentante delle imprese che aderiscono alla
rete; il contratto viene trasmesso ai competenti uffici del registro delle imprese mediante il
modello standard7. Il contratto di rete è un contratto plurilaterale, aperto e di durata8.
I suddetti elementi caratteristici sono il risultato dell’intervento del legislatore con l’art
42, d.l. n. 78/2010, che ha superato l’ambiguità della disciplina passata che stabiliva sia reti
bilaterali che plurilaterali: la frase «con il contratto di rete due o più imprese» è stata
6
Le collaborazioni tra imprese possono essere ricondotte alla fattispecie del contratto di rete solo se presentano
gli elementi indicati nel comma 4 ter, del citato art. 3 (lett. a, b, c, b, f) d.l. n. 5/2009; tra questi assumono
particolare importanza: l’indicazione degli obiettivi strategici di innovazione e di innalzamento della capacità
competitiva dei partecipanti, nonché le modalità concordate tra gli stessi per misurare l’avanzamento verso tali
obiettivi; la definizione di un programma di rete che contenga l’enunciazione dei diritti e degli obblighi assunti
da ciascun partecipante, unitamente alle modalità di realizzazione dello scopo comune.
7
Il contratto di rete deve indicare i seguenti dati: il nome, la ditta, la regione o la denominazione sociale di ogni
partecipante; l’indicazione dello scopo comune, degli obiettivi strategici e le modalità attraverso le quali si
vogliono raggiungere; la definizione di un programma di rete; i criteri di valutazione dei conferimenti nel caso di
istituzione di un fondo comune patrimoniale; la durata del contratto; le modalità di adesione al contratto, le cause
e le condizioni di recesso; i poteri di gestione e rappresentanza conferiti ad un organo comune, nel caso esso sia
nominato; le regole relative all’assunzione delle decisioni e alle modifiche del programma medesimo. L’art. 3,
co 4 quater, d.l. n. 5/2009 ha inizialmente disciplinato l’obbligo di iscrizione del contratto di rete nel registro
delle imprese contraenti. L’art. 42, co. 2 ter, d.l. n. 78/2010 , stabilisce che il contratto di rete dev’essere iscritto
nella sezione del registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante, con decorrenza degli effetti.
Dall’esecuzione dell’ultima delle iscrizioni prescritte a carico di tutti coloro che ne sono stati sottoscrittori
originari, decorrono gli effetti del contratto. L’art. 45, co. 2, d.l. n. 83/2012 afferma che le modifiche del
contratto di rete devono essere depositate e iscritte presso la propria sezione del registro delle imprese e che nel
caso sia prevista l’istituzione di un fondo patrimoniale comune, il contratto di rete può essere iscritto nella
sezione ordinaria del registro delle imprese nella cui circoscrizione è fissata la propria sede, acquisendo cosi
soggettività giuridica. La circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 15/E del 14/4/2011, ritiene che il regime di
pubblicità del contratto di rete sia prescritto «a fini di efficacia del contratto sia tra le parti, sia verso i terzi,
compresa l’Amministrazione finanziaria».
8
Il contratto di rete ha una struttura aperta, ed è quindi suscettibile di adesione da parte di altri imprenditori
successivamente alla data di stipulazione del medesimo con cui si è costituita la rete. La legge lascia ampia
libertà ai contraenti nell’indicare le modalità attraverso le quali si prevede l’allargamento soggettivo degli
aderenti alla rete. Nel caso in cui i successivi adempimenti non vengano stabiliti inizialmente, un’eventuale
richiesta di adesione successiva può essere accolta soltanto con il consenso negoziale di tutti gli aderenti alla
rete; in particolare, la proposta contrattuale di adesione deve inviarsi al soggetto preposto all’attuazione del
contratto se identificato o a tutti gli aderenti alla rete (che sono chiamati ciascuno ad esprimere il proprio
consenso o dissenso per l’accettazione della proposta) e ciò per applicazione analogica di quanto previsto
dall’art.1332 c.c.
www.koreuropa.eu
117
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
sostituita, infatti, dal riferimento a «più imprenditori», precisando, quindi, che le parti della
rete sono gli imprenditori e non le imprese9.
Il “programma di rete” è essenziale per la validità del contratto: la carenza ne determina
la nullità; l’art. 4 ter, l. 33/2009 stabilisce che devono essere espressamente indicate le
modalità di realizzazione dello scopo comune e lo statuto regolante i diritti e le obbligazioni
che gli imprenditori che aderiscono alla rete si impegnano a rispettare 10 . Il contenuto del
programma di rete può riguardare semplici linee guida o descrizioni più specifiche delle
attività, delle obbligazioni e dei diritti delle imprese aderenti alla rete stessa; con l’art. 42, d.l.
n. 78/2012 si è disciplinata, poi, la facoltà di istituire un fondo patrimoniale ed un organo
comune e successivamente – con l’art. 45, co. 1, d.l. n. 83/2012, modificativo dell’art. 3, co. 4
ter, d.l. n. 5/2009 – si è altresì stabilito che tale organo potesse essere destinato a svolgere
attività, anche commerciale, con i terzi in rappresentanza (o mandato) della rete. Il suddetto
organo, nell’eseguire il mandato, non può svolgere atti non finalizzati alla realizzazione del
programma11.
Il finanziamento delle reti può dipendere dall’apporto iniziale o successivo delle
imprese partecipanti, da contributi a fondo perduto di enti pubblici o da prestiti concessi da
enti pubblici e istituti di credito. Con riferimento a questi ultimi, occorre peraltro specificare
se la rete è dotata di autonomia patrimoniale.
9
Cfr. MARIOTTI, Detassazione degli utili destinati al fondo patrimoniale comune per incentivare le reti di
imprese, in Corriere Tributario, n. 12/2011, p. 951 ss.; MIELE, RUSSO, Investimenti, agevolazione concessa a
termine, in Il Sole 24 Ore, del 7 marzo 2011; MARASÀ, Contratti di rete e consorzi, in Il Corriere del merito, n.
6/10; SCARPA, La responsabilità patrimoniale delle imprese contraenti per le obbligazioni assunte a favore di
una rete tra loro costituita, in Resp. civ., 2010, p. 406; ZANELLI, Reti di imprese: dall’economia al diritto,
dall’istituzione al contratto, in Contr. e impr., 2010, p. 952 ss.; MALTONI, Il contratto di rete. Prime
considerazioni alla luce della novella di cui alla l. 122/2010, in Notariato, 2011, p. 65 ss. L’art. 5, co. 4 ter, d.l.
n. 5/2009 stabilisce che gli imprenditori che vogliono aderire alla rete possono scambiare con altre imprese
partecipanti informazioni, prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica e tecnologica ed esercitare in
comune una o più attività oggetto dell’attività di impresa esercitata da ciascun aderente.
10
Il contratto di rete non indica in modo determinato le prestazioni di ciascun aderente ma definisce un progetto
e un programma con adempimenti abbozzati inizialmente e determinabili successivamente, sulla base dei
risultati intermedi ottenuti e di quelli finali da perseguire attraverso la collaborazione di tutte le imprese.
11
L’organo comune coordina le singole attività e controlla che ciascun membro della rete effettui gli
adempimenti previsti dal contratto di rete; esso stila anche eventuali regolamenti e protocolli che disciplinano il
comportamento delle imprese partecipanti e può anche occuparsi di controllare le nuove adesioni e gestire le
eventuali richieste di recesso. L’organo comune fornisce informazioni utili agli imprenditori aderenti ed assume
un ruolo importante nella governance della rete.
www.koreuropa.eu
118
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Per effetto delle previsioni di cui alla l. 134/2012 – riguardo le obbligazioni contratte
dall’organo comune – i terzi possono far valere i propri diritti esclusivamente sul fondo
patrimoniale; tali modifiche permettono dunque agli istituti di credito di valutare le reti come
soggetti giuridici dotati di autonomia patrimoniale: in particolare gli istituti di credito non
valutano soltanto le singole imprese, bensì l’economicità, la sostenibilità ed il reale contributo
del progetto indicato nel contratto di rete12.
Inoltre, con riferimento al contratto di rete di impresa nell’ambito delle procedure di
gara per l’aggiudicazione di contratti pubblici, occorre sottolineare che – nel rispetto della
normativa U.E. – la l. 11 novembre 2011, n. 180 (cfr. «Norme per la tutela della libertà
d’impresa. Statuto delle imprese») ha previsto che la Pubblica Amministrazione e le Autorità
competenti devono «semplificare l’accesso agli appalti delle aggregazioni fra micro, piccole e
medie imprese, privilegiando associazioni temporanee di imprese, forme consortili e reti di
impresa, nell’ambito della disciplina che regola la materia dei contratti pubblici», purché ciò
non causi un incremento degli oneri finanziar13.
Trattandosi di una forma strategica competitiva, in grado di far fronte alla grave
congiuntura economica, l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici ha avviato delle
consultazioni in merito al testo «Misure per la partecipazione delle reti di impresa alle
procedure di gara per l’aggiudicazione di contratti pubblici» ed ha effettuato una segnalazione
(n. 2 del 27 settembre 2012) in accoglimento della quale è stato emanato il d.l. n. 179/2012
(cfr. «Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese», c.d. “Decreto Sviluppo bis”)
convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, la quale rivede il Codice dei
Contratti, aprendo la strada del mercato degli appalti anche alle reti di impresa.
Al fine di permettere la partecipazione delle reti di impresa alle procedure di gara per
l’aggiudicazione di contratti pubblici, occorreva però un intervento legislativo volto a
modificare gli articoli 34 e 37, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (c.d. “Codice dei Contratti”): il
nuovo art. 34, co. 1, lett. e) bis, ammette a partecipare alle procedure di affidamento dei
Gli istituti di credito, valutano l’investimento del progetto è attribuiscono un merito creditizio che migliora il
rating delle singole imprese che partecipano alla rete. Tale miglioramento scaturisce dai benefici positivi che le
imprese ricevono dalla partecipazione alla rete e che si concretizzano in una maggiore credibilità, coerenza
fattibilità e sostenibilità del business plan della rete.
13
Cfr. art. 13, co. 2, lett. b).
12
www.koreuropa.eu
119
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
contratti pubblici «le aggregazioni tra le imprese aderenti al contratto di rete ai sensi
dell’articolo 3, comma 4-ter, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con
modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33»; la stessa norma afferma anche che «si
applicano le disposizioni dell’articolo 37». In particolare l’art. 34, così modificato, include la
possibilità di inserire tra i soggetti a cui possono essere assegnati i contratti le imprese
aderenti ad una rete, ma non qualsiasi operatore economico14.
L’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici ha specificato, inoltre, alcune indicazioni
pratiche per la partecipazione alle gare: essa ritiene opportuno che si chiariscano, attraverso
un atto a carattere generale, le modalità di partecipazione delle reti di impresa alle procedure
di gara15.
Queste modalità di partecipazione devono tener conto, in primis, che la finalità del
contratto di rete non è quella di creare un soggetto giuridico distinto dai sottoscrittori ma di
effettuare una cooperazione organizzata tra diversi operatori economici, attraverso lo scambio
di informazioni e di prestazioni e mediante l’esercizio in comune di una o più attività relative
all’oggetto della propria impresa: i contraenti devono indicare espressamente nel programma
della rete lo scopo di partecipare congiuntamente alle procedure di gara; in secundis, tali
modalità si differenziano sulla base sia dei diversi gradi di strutturazione della rete, sia degli
specifici oggetti previsti dalle gare16.
L’art. 3, co. 4 ter e ss. del citato d.l. n. 5/2009 stabilisce che i possibili sottoscrittori devono rivestire lo status
di imprenditori definito dall’art. 2082 c.c. Il contratto di rete, infatti viene iscritto nella sezione del registro delle
imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante (art. 3, co. 4 quater). Tuttavia la natura e la finalità della rete
richiede il superamento di questa limitazione e la scelta della nozione comunitaria di “operatore economico”.
Quest’ultima definizione permette altre entità economica in grado di offrire beni e servizi sul mercato, di aderire
alla rete anche se non possiedono il sopracitato status giuridico di imprenditore.
15
Secondo l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici l’elenco contenuto nell’art. 34 non è tassativo. A tal
proposito, il legislatore lascia all’interprete la scelta di identificare i limiti di compatibilità tra le ordinarie regole
valevoli per i raggruppamenti temporanei (RTI) e consorzi. Nello specifico il nuovo comma 15 bis, art. 37,
stabilisce che «le disposizioni di cui al presente articolo trovano applicazione, in quanto compatibili, alla
partecipazione alle procedure di affidamento delle aggregazioni tra le imprese aderenti al contratto di rete, di cui
all’articolo 34, comma 1, lettera e-bis». La medesima Autorità ha proposto di effettuare su tale atto una seconda
consultazione di stazioni appaltanti e operatori di mercato al fine di identificare alcune criticità e individuare
soluzioni condivise.
16
Queste differenziazioni assumono maggiore rilevanza se si considera il co. 4 ter, art. 3, d.l. n. 5/2009 che, nel
regolare l’iscrizione del contratto di rete nel registro delle imprese, stabilisce che – se è prevista la formazione di
un fondo comune – la rete può iscriversi nella sezione ordinaria del registro delle imprese nella cui circoscrizione
è stabilita la sua sede e, con tale iscrizione, «la rete acquista soggettività giuridica» (art. 3, co. 4 quater). Se la
rete vuole acquistare soggettività giuridica «il contratto deve essere stipulato per atto pubblico o per scrittura
14
www.koreuropa.eu
120
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
La flessibilità della rete, è attenuta dall’istituzione di un organo comune che conferisce
una maggiore stabilità del rapporto associativo: esso è il rappresentante della rete e parte della
medesima; ad esso spetta il potere di presentare domande di partecipazione e le offerte, nelle
procedure di gara.
Affinché la rete sia qualificata a partecipare alle procedure di gara, occorre che tutte le
imprese aderenti alla rete possiedano i requisiti generali di cui all’art. 38 del Codice dei
Contratti, e li attestino in conformità alla vigente normativa 17 . A seconda del grado di
strutturazione della rete, è poi possibile distinguere tre fattispecie: la rete dotata di soggettività
giuridica e organo di rappresentanza; la rete dotata di rappresentanza comune, ma senza
soggettività giuridica; e infine la rete priva anche di organo di rappresentanza18.
Nel caso in cui la rete sia dotata sia di soggettività giuridica sia di un organo comune
che agisce in rappresentanza della rete, le domande e le offerte nella partecipazione alle gare
vengono presentate da quest’ultimo: esso stesso è, infatti, parte della rete ed agisce in
rappresentanza della stessa, impegnando tutte le imprese della rete, salvo diversa indicazione
in sede di offerta19. In analogia con quanto disciplinato dall’art. dall’art. 37, co. 7, del Codice
– con riferimento ai consorzi di cui all’art. 34, co. 1, lett. b) – è previsto poi che l’organo
comune debba specificare, in sede di offerta, quali imprese aderiscono alla rete e quali
partecipano alla gara; alle imprese indicate è vietato partecipare in altre forme, diverse dalla
rete, alla medesima gara.
Nel programma della rete deve rientrare la partecipazione congiunta a procedure di gara
e tutte le imprese – compreso l’organo comune – devono possedere i requisiti di
privata autenticata, ovvero per atto firmato digitalmente a norma dell’articolo 25 del decreto legislativo 7 marzo
2005, n. 82».
17
Essendo la rete “strutturalmente” assimilata, dal Codice, al raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) i
requisiti speciali di qualificazione e di partecipazione sono individuati dall’art. 37 del Codice e dagli artt. 92 e
275 del Regolamento per gli appalti di lavori, servizi e forniture (d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207); dall’art. 90, co.
1, lett. g), del Codice e dall’art. 261, co. 7, del Regolamento, con specifico riferimento ai servizi di ingegneria e
architettura.
18
Occorre inoltre tenere conto delle diverse forme che può assumere il contratto di rete: atto pubblico, scrittura
privata autenticata, o atto firmato digitalmente a norma degli articoli 24 o 25 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82
(Codice della amministrazione digitale, CAD); quest’ultima forma non è ammessa nel caso di acquisto della
soggettività giuridica.
19
Affinché l’organo comune possa stipulare il contratto in nome e per conto dell’aggregazione delle imprese,
occorre che il contratto di rete debba specificare il conferimento del mandato e che siano presenti tutti i requisiti
stabiliti dall’art. 37, a partecipare alle procedure di gara ed a stipulare i relativi contratti.
www.koreuropa.eu
121
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
qualificazione richiesti per partecipare alle gare20. Nel caso di rete dotata di organo comune
con potere di rappresentanza, ma priva di soggettività giuridica, la volontà di partecipare alla
gara dovrà essere confermata dalle singole imprese retiste e deve essere confermata all’atto
della partecipazione, mediante la sottoscrizione della domanda o dell’offerta; in questo caso la
forma del contratto di rete deve essere per atto pubblico, scrittura privata autenticata o con
firma digitale autenticata.
In assenza dei requisiti di forma previsti «sarà obbligatorio conferire un nuovo mandato
nella forma della scrittura privata autenticata».
Nel caso di rete dotata di organo comune privo di potere di rappresentanza o di reti
sprovviste di organo comune, si applicano le regole previste dal Codice per i c.d.
“raggruppamenti di impresa”; in particolare, devono essere rispettate le seguenti formalità:
sottoscrizione dell’offerta o della domanda di partecipazione di tutte le imprese retiste
dell’aggregazione che vogliono partecipare all’appalto; sottoscrizione dell’impegno che, in
caso di aggiudicazione dell’appalto, sarà conferito attraverso un mandato collettivo speciale
con rappresentanza ad una delle imprese retiste partecipanti alla gara, per la stipula del
relativo contratto. Inoltre è ammesso il conferimento del mandato prima della partecipazione
alla gara.
Nel caso di rete invece priva di organo comune, attraverso il mandato collettivo speciale
sarà possibile identificare la mandataria.
Come detto, le imprese retiste partecipano nella forma di RTI e sono disciplinate
dall’art. 37 del Codice che, nel co. 16, stabilisce come al mandatario sia concessa la
rappresentanza esclusiva, anche processuale, dei mandanti nei confronti della stazione
appaltante per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall’appalto, anche
Con riferimento ai lavori pubblici, la qualificazione in tale settore è regolamentata dall’art. 37, co. 3 e 13, del
Codice, che stabiliscono una corrispondenza effettiva tra le quote di qualificazione da riferirsi all’aggregazione
delle imprese “retiste” che partecipa all’appalto, le quote di partecipazione e quote di esecuzione dei lavori. Tali
quote devono essere specificate nell’offerta, a pena di esclusione, al fine di permettere alla stazione appaltante di
verificarne i requisiti. Nel co. 11 sono stabilite ulteriori regole relative alla ripartizione tra mandataria e
mandanti; nel co. 6 sono considerati i raggruppamenti di tipo verticale; nel co. 11 sono disciplinate le opere di
notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica; nel co. 4 è stabilito che devono essere
specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici retisti.
20
www.koreuropa.eu
122
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
dopo il collaudo – o atto equivalente – fino alla estinzione di ogni rapporto. Rimane
comunque la possibilità della stazione appaltante di far valere la responsabilità dei mandanti.
Con riferimento alla responsabilità solidale all’interno delle reti d’impresa nei confronti
della stazione appaltante, del subappaltatore e dei fornitori, occorre infine sottolineare che
tale responsabilità – ai sensi del co. 5, art. 37 del Codice – riguarda soltanto i soggetti della
rete che partecipano alla gara, ma non anche i sottoscrittori del contratto di rete che non
abbiano partecipato alla specifica procedure di gara, tramite l’aggregazione. Se in ordine alle
problematiche relative alla esecuzione del contratto, emerge la necessità di assicurare la
stabilità del contratto di rete per un periodo necessario a garantire l’esecuzione del contratto di
appalto, per quanto riguarda invece le modifiche soggettive, occorre precisare che l’eventuale
uscita di un’impresa dal contratto di rete non ha effetto ai fini dell’appalto.
I casi di recesso non espressamente disciplinati sono ammissibili soltanto se i soggetti
rimanenti possiedano i requisiti di qualificazione per le prestazioni oggetto dell’appalto, e se
tale recesso non è effettuato per evitare una sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei
requisiti in capo al componente che recede; occorre precisare, tuttavia, che il recesso o
l’estromissione dal contrato di rete non implica quella dal contratto con la stazione appaltante:
l’impresa dunque può uscire dalla rete, ma non dall’aggregazione/RTI che ha siglato il
contratto di appalto21.
3. Reti di Imprese Innovative e Competizione Internazionale
La natura della rete d’impresa è quella di un accordo stabile e di lungo periodo che
permette alle imprese di condividere delle risorse materiali e immateriali, di migliorare il
funzionamento delle attività economiche e non economiche e di raggiungere uno scopo
comune. Come sopra affermato, l’art. 42 della Legge 122/2010 regola lo scopo della rete.
Esso afferma che lo scopo deve essere quello di “accrescere, individualmente e
collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato”. Tale
scopo costituisce il fine ultimo della cooperazione tra le imprese, quindi la rete deve
21
I casi di modifiche soggettive ammissibili sono indicati nei co. 18 e 19 dell’art. 37 del Codice.
www.koreuropa.eu
123
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
consentire alle imprese che vi aderiscono, di aumentare i propri ricavi, o di diminuire i propri
costi e di conseguenza di raggiungere profitti più elevati. Anche se la legge non specifica le
modalità attraverso le quali vengono perseguiti tali obiettivi, esse devono essere individuate e
successivamente esplicitate nel contratto di rete d’impresa. Tale operazione costituisce un
elemento essenziale per l’inizio e lo svolgimento dell’attività della rete.
L’accordo si basa su un rapporto di fiducia tra gli aderenti alla rete che aiuta a far
diminuire in modo sostanziale i comportamenti opportunistici da parte di altri soggetti e
inoltre agevola la circolazione di risorse essenziali come quello della conoscenza.
Nella norma che disciplina la rete d’impresa non viene indicato un numero minimo
d’imprese per formare la rete, tale numero dipende, infatti, dall’oggetto della rete stessa.
Inoltre, non viene fissato alcun limite di natura territoriale o merceologica, per cui all’accordo
possono far parte agenti economici provenienti da diverse parti del territorio italiano (possono
aderire all’accordo ance filiali di società estere) ed operanti in settori produttivi
completamente diversi.
Le reti di impresa 22 , sulla base della terminologia dei grafi e della Social Network
Analysis, è costituita da un insieme di attori e di relazioni di carattere reciproco o unilaterale
che formano un intreccio di collegamenti diretti e indiretti tra gli attori stessi23. All’interno
della rete si intessono tali collegamenti al fine di scambiare informazioni e know how (cd. reti
del sapere), di scambiare prestazioni e creare rapporti contrattuali stabili (cd. reti del fare) ; di
realizzare progetti di investimento comune di ricerca, di produzione e di commercializzazione
(cd. reti del fare insieme).
Le imprese all’interno della rete sono caratterizzate da link diretti e indiretti. Si ha un link diretto quando, ad
esempio, due o più imprese operano in un processo di R&S, condividendo il loro know-how pregresso, capitale
e/o personale destinato all’attività specifica. Si ha un link indiretto, invece, quando un’impresa è collegata
direttamente ad una o più imprese e riesce a beneficiare dei rapporti di collaborazione che questa o quest’ultime
hanno con altre imprese. In particolare, se l’impresa i è collegata con l’impresa j da un link diretto e l’impresa j e
connessa direttamente con l’impresa k, allora l’impresa i e l’impresa k sono collegate indirettamente. A tal
proposito nel modello di JACKSON e WOLINSKY (1996) è possibile determinare il valore in termini informativi e
il beneficio derivante da ogni link diretto. Tuttavia, tale modello, non tenendo conto dei problemi di
coordinamento e di monitoraggio che possono derivare da comportamenti opportunistici, non aiuta a determinare
la dimensione ottimale della rete. Cfr. JACKSON, WOLINSKY, A strategic model of social and economic networks,
in Journal of Economic Theory, 1996, 71, pp 44-74.
23
Jackson, Social and economic networks, Princeton, 2008.
22
www.koreuropa.eu
124
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Mentre il fabbisogno finanziario è limitato nelle reti del sapere e del fare richiedono,
esso, invece, è più rilevante nelle reti del fare insieme 24.
All’interno delle reti di impresa innovative si possono diffondere economie di scala
esterne all’impresa ma interne al network. I costi fissi all’interno della rete non vengono
duplicati, i fattori produttivi e i brevetti vengono condivisi, nonché si ottengono numerosi
vantaggi derivanti dal coordinamento delle linee di ricerca. Tali vantaggi non riguardano solo
una maggiore capacità da parte dell’impresa di controllare il comportamento dei rivali, ma si
riferiscono soprattutto alla maggiore circolazione, all’interno del network di risorse materiali
e immateriali. Tale circolazione si basa non solo su contratti e norme scritte ma viene anche
effettuata sulla base di norme e valori condivisi dalle imprese partner.
Il vincolo di partecipazione al contratto di reti di impresa innovative, non
necessariamente dipende dal confronto del valore attuale dei profitti attesi che si ottengono
dall’attività di ricerca in collaborazione con quello dell’attività di ricerca svolta
singolarmente. Tale confronto, infatti, non sempre è possibile, in quanto in presenza di
radicale incertezza non è possibile effettuare un’analisi preventiva di efficienza. Assume
un’importanza cruciale dunque il ruolo della fiducia personale e istituzionale che con intensità
e livelli diversi si avvantaggiano della complementarietà e/o sostituibilità delle conoscenze,
dei processi e dei prodotti e di altri benefici derivanti da una cooperazione stabile 25 creata
all’interno della rete. Assume, inoltre un’importanza notevole il ruolo dei contesti e del
territorio.
Nelle reti del sapere, l’aspetto finanziario, poco rilevante, riguarda i costi vivi necessari alla costituzione e
all’attività di scambio di informazioni tra associati. In questi casi i contributi da parte di enti pubblici, in parte o
in buona parte a fondo perduto, soddisfano il fabbisogno di finanziamento. Nelle reti del fare, il finanziamento è
di entità maggiore e viene affrontato prevalentemente dalle imprese che aderiscono alla rete. Esso viene
utilizzato prevalentemente per fare magazzino o pubblicità comune. Nelle reti del fare insieme, il finanziamento
assume una rilevanza notevole rispetto alle precedenti e diventa cruciale per la costituzione della rete. Tali
finanziamenti infatti devono coprire investimenti in R&S, investimenti per fini produttivi comuni e investimenti
per fini distributivi comuni. In questa tipologia di rete il rischio di free-rider da parte delle imprese partecipanti
alla rete è molto alto.
25
Secondo, Jackson e Wolinsky, una rete è definita stabile quando per ogni link che la sostituisce, nessun nodo
può aumentare i suoi payoffs mediante la soppressione di un qualsiasi link diretto che lo vede partecipe e nessuna
coppia di nodi può migliorare in senso paretiano mediante la creazione di un link diretto che le unisca. Cfr.
JACKSON, WOLINSKY, op. cit., p. 44-74.
24
www.koreuropa.eu
125
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
A tal proposito, negli ultimi anni, i contesti economici hanno subito un processo di
trasformazione e si sono sempre più radicati sulla conoscenza e sull’innovazione, dove
ciascuna impresa costituisce il nodo di una rete di relazioni cooperative con altre imprese.
Giacomo Becattini sostiene, infatti, che bisogna studiare l’impresa come un’unità con
una precisa identità collettiva e afferma che «l’ape […] interessa di meno, quello […]
interessa lo sciame», cioè sostiene che occorre porre maggiore attenzione sul sistema26. Il
territorio, attraverso un virtuoso processo di identificazione può essere inteso come uno
spazio relazionale che con il suo DNA culturale e storico, con i suoi vantaggi comparati e con
la sua vocazione economica, costituisce una delle principali chiavi di lettura attraverso cui
vanno letti la complessità produttiva delle aree locali e i loro possibili futuri scenari socioeconomici. La dimensione territoriale è un elemento denso di significati, intrecciato da una
fitta rete di relazioni con una propria dinamica interna. Lo sviluppo, si presenta, così, come il
risultato di diversi agenti economici, privati e locali, competenti ed innovatori che possono
essere immaginati come sopra accennato come i nodi della rete di relazioni e di dotazioni
economiche, sociali e culturali.
L’impresa di piccole dimensioni, dunque, ha un forte radicamento territoriale, e insieme
ad altre imprese forma i cosiddetti distretti industriali27 che rappresentano una delle criticità
del modello italiano di sviluppo.
Giacomo Becattini suggerisce di soffermare l’attenzione sull’impresa come parte di un sistema e non solo
come entità unitaria. L’impresa di piccole dimensioni ha causa di problemi strutturali e finanziari presenta
singolarmente una scarsa propensione all’internazionalizzazione e all’innovazione. Essa se inserita nel circuito
della rete nazionale e internazionale può meglio specializzarsi e sfruttare l’efficiente divisione smithiana del
lavoro. Cfr. BECATTINI, Distretti industriali e Made in Italy. Le basi socio culturali del nostro sviluppo
economico, Torino, 2001.
27
I distretti industriale sono aree produttive caratterizzate da un’elevata concentrazione di imprese che hanno
caratterizzato la competitività del sistema produttivo italiano. Il distretto è stato analizzato per la prima volta da
Alfred Marshall che lo ha definito come «un’entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese, facenti
generalmente parte di uno stesso settore produttivo, localizzato in area circoscritta, tra le quali vi è
collaborazione ma anche concorrenza». Successivamente, altri studi hanno messo in evidenza i vantaggi
derivanti dall’operare in specifiche aree geografiche e dallo sfruttamento di relazioni radicate in un ambiente
socioculturale circoscritto. In tale contesto, le imprese di piccole dimensioni, superano i loro limiti e, attraverso il
sistema di relazioni generate all’interno del distretto, sviluppano le loro competenze e le loro conoscenze.
Giacomo Becattini, a tal proposito, definisce il distretto «un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla
compresenza attiva, in un’area territoriale naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di
persone e di una popolazione di imprese industriali». BECATTINI, Il distretto industriale, 2001, Torino.
26
www.koreuropa.eu
126
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
La rete d’impresa in questa accezione distrettuale28 ha avuto e può ancora avere un forte
impatto sulla struttura produttiva italiana nonostante alcune problematiche evidenti della
stagnazione economica degli ultimi anni. Per assolvere a questa funzione essa deve
qualificarsi come rete innovativa di l’eccellenza dotata di una forte tradizione ed un solido
rapporto con il territorio ma anche aperta al processo d’internazionalizzazione. Essa, infatti,
sia attraverso relazioni orizzontali territoriali, che mediante relazioni verticali non
necessariamente riferite ad un territorio specifico può favorire economie esterne alle imprese
e interne alla rete e può promuovere un processo produttivo internazionale, tecnologicamente
avanzato ed efficiente29.
Le condizioni ambientali favorite dalla rete favoriscono dunque una diversificazione del
sistema internazionale ed una specializzazione della singola impresa locale. Le nostre imprese
italiane, sono chiamate a mantenere le loro posizioni nel mercato internazionale, da un lato
attraverso progressive riduzioni di costi medi unitari e dall’altro mediante la ricerca di nuovi
mercati. In passato esse sono state in grado di essere leader nella competizione internazionale
attraverso i nostri prodotti tipici. Tuttavia la forza del made in Italy si è dispiegata
prevalentemente in un mercato a dimensione sostanzialmente data, cioè un mercato europeo
che oggi, però, risulta insufficiente e molto piccolo rispetto al “resto del mondo”.
L’integrazione dei mercati ha favorito nuovi paesi emergenti che prima attraverso l’imitazione
e poi mediante l’emulazione hanno condotto delle politiche commerciali molto aggressive. Le
nostre imprese, invece non solo non possono più beneficiare della svalutazione monetaria che
ha caratterizzato gli anni del boom economico, ma sono soprattutto danneggiate dalle mancate
28
La legge n. 317 del 1991 ha disciplinato per la prima volta i distretti industriali come «aree territoriali
caratterizzate da elevata concentrazione di piccole e medie imprese con particolare riferimento al rapporto tra la
presenza delle imprese e la popolazione residente, nonché alla specializzazione produttiva dell’insieme delle
imprese». Questa legge inoltre invitava le regioni ad individuare i distretti sulla base dei rigidi parametri definiti
dal decreto Guarino, 21 aprile 1993. In seguito, l’art.3 della legge n.266 del 1997 stanziava 25 miliardi (di lire)
per ciascuno degli anni 1998 e 1999, per cofinanziare i programmi regionali di sviluppo dei servizi e dell’ICT
nei distretti. Infine la legge n.266 del 2005 è stato introdotto un sistema di semplificazione amministrativi che
consentivano un miglioramento dell’efficienza e di accesso al credito. Con questa norma, inoltre si è previsto un
nuovo regime fiscale di promozione dei distretti.
29
L’impresa dello sciame rappresenta il territorio, perché contiene la cultura, rappresenta la sua tradizione ed è
influenzata dalla sua storia. C’è dunque una forte relazione tra l’impresa e i luoghi fisici e sociali di riferimento.
Ogni impresa intesa come ape dello sciame è parte di un tutto ben strutturato, avendo dei ruoli e dei rapporti ben
coordinati. Quando invece l’impresa non appartiene ad uno sciame essa opera individualmente. Questo è
prevalentemente il caso delle imprese del Mezzogiorno che privilegiano una configurazione di integrazione
verticale e non curano relazioni reciproche nel territorio di insediamento. Cfr. BECATTINI, cit.
www.koreuropa.eu
127
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
riforme strutturali nel mercato del lavoro. La scarsa produttività e una non adeguata
innovazione organizzativa hanno generato uno stato d’inerzia diffuso ed hanno causato la
perdita di posizioni delle nostre imprese nel nuovo scenario competitivo internazionale.
La globalizzazione, utilizzando una metafora darwiniana30, sembra costituire una sorta
di cambiamento ambientale che mette in pericolo la sopravvivenza delle imprese italiane
intese come specie a rischio di estinzione caratterizzate da una fragile struttura produttiva. In
questa nuova prospettiva dinamica occorre ripensare a come le nostre imprese devono
adattarsi al cambiamento. E’ necessario cioè favorire una mutazione organizzativa in grado di
far fronte ai nuovi problemi di inefficienza dinamica.
La forma organizzativa della rete, come sopra accennato, sembra capace di offrire
soluzioni efficaci ed efficienti a molte delle criticità che caratterizzano soprattutto le micro e
piccole imprese 31 , spesso non in grado di superare individualmente le sfide imposte dalla
competizione internazionale. Lo strumento della rete permette ad imprese appartenenti a
territori ed aree diverse di realizzare progetti comuni orientati alla crescita del livello
tecnologico, alla generazionale dell’innovazione e all’accrescimento della competitività. Esso
può dar luogo ad un nuovo modello di capitalismo – noto come Quarto Capitalismo –
costituito da imprese ambiziose di piccole e medie dimensioni che vogliono operare oltre i
confini nazionali e creare reti lunghe differenziandosi notevolmente dall’impresa «classica
distrettuale» ancora arroccata nel territorio di appartenenza32.
30
Cfr. LI DONNI, PROVENZANO, Politica Industriale ed Evoluzione dei Settori Industriali: Alcune Implicazioni di
Evolutionary Economic. Storia e Politica, 2008, p.212-229. Cfr. LI DONNI, PROVENZANO, L’evoluzione
Darwiniana e L’interplay Dinamico tra Routine Procedurali e Prosociali. Nuova Economia e Storia, 2012, n.12; p.17-44.
31
Il regime fiscale, insieme a fattori di ordine culturale ed economico sembrano aver determinato in Italia una
bassa propensione alla crescita dimensionale da parte delle micro e piccole imprese. Esiste, infatti una
percezione diffusa tra gli imprenditori che all’aumentare delle dimensioni, diminuiscono le «opportunità di
evasione».
32
CHIARVESIO, MICELLI, mettono, a tal proposito, in evidenza una serie di vantaggi che contraddistingue queste
imprese. Esse sono più dinamiche rispetto a quelle tradizionali, sono mediamente più grandi, appartengono in
genere ad un gruppo industriale ed ottengono in un terzo dei casi una posizione di leadership di mercato. Esse
sono innovative, investono sulla ricerca, sul design e sulla comunicazione. CHIARVESIO, MICELLI, Oltre il
distretto come sistema: le strategie delle imprese fra locale e globale, 2007.
www.koreuropa.eu
128
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Questo processo di internazionalizzazione, che inizia a svilupparsi in Italia a partire
dagli anni Settanta33, è stato affiancato, successivamente, dal processo di deregolamentazione
del mercato del lavoro che ha caratterizzato molti paesi europei. Il dibattito dottrinale e
politico si è dunque concentrato sui costi della manodopera 34 e sugli effetti dell’offshoring
sull’occupazione e sulle dinamiche salariali. Dalla letteratura economica ed empirica35 emerge
come il maggior costo del lavoro in Italia rispetto al livello medio dei paesi europei ha causato
alla delocalizzazione internazionale delle imprese attraverso la forma organizzativa delle reti.
Si noti che l’effetto per cui l’offshoring diventa più facile è conseguente alla durata prefissata
dei contratti e al minore radicamento aziendale dei lavoratori temporanei36.
L’internazionalizzazione produttiva delle imprese si estende sia al trasferimento
all’estero di attività precedentemente realizzate nel territorio nazionale che alla sostituzione di
subfornitori nazionali con quelli esteri. Mentre negli anni Ottanta essa riguardava le grandi
imprese, a parte degli anni Novanta ha coinvolto anche le PMI sotto forma di rete d’impresa
transnazionali 37 . Quest’ultime, mediante relazioni commerciali, accordi tecno-produttivi e
comuni investimenti diretti all’estero hanno ottenuto vantaggi di produttività, una maggiore
propensione all’innovazione e alla R&S e una forza lavoro più qualificata38.
33
A partire dagli anni Settanta, la competizione internazionale ha spinto le imprese dei paesi industrializzati a
delocalizzarsi e a far parte di reti di imprese transazionali che sfruttano differenziali di costo di produzione, del
lavoro e beneficiano dell’avvicinamento ai mercati di sbocco. Cfr. BARBA NAVARETTI, VENABLES, Multinational
Firms in the World Economy, Princeton, 2004; trad. it., Le multinazionali nell’economia mondiale, Bologna,
2006.
34
MANKIW, SWAGEL, The politics and economics of offshore outsoucing, in Journal of Monetary Economics,
2006, 53, 5, p. 1027-1056.
35
Il fenomeno della delocalizzazione internazionale favorisce sia un aumento della produttività – cfr. DAVERI,
JONA-LASINIO, Off-shoring and productivity growth in the Italian manufacturing industries, in CESifo Economic
Studies, 2008, 54, 3, p. 414-450 – che un incremento relativo della domanda di lavoro qualificato, cfr.
ANTONIETTI, ANTIOLI, Production offshoring and skill composition of Italian manufacturing firms: A
counterfactual analysis, in OPENLOC Working Paper, 2009, n. 3.
36
BERTON, RICHIARDI, SACCHI, Flex-insecurity. Perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Bologna,
2009.
37
MARIOTTI, MUTINELLI, Italia multinazionale 2006. Le partecipazioni italiane all’estero e estere in Italia,
2008, Soveria Mannelli.
38
BUGAMELLI, CIPOLLONE, INFANTE, L’internazionalizzazione delle imprese italiane negli anni Novanta, in
Rivista Italiana degli Economisti, 53, p. 349-386. CASTELLANI, ZANFEI, Multinational firms, innovation and
productivity, Cheltenham, 2006. BENFRATELLO, RAZZOLINI, Firms’ productivity and internationalization
choices: Evidence for a large sample of Italian firms, in PISCITELLO, SANTANGELO (a cura di), Multinationals
and local competitiveness, Milano, 2008. FEDERICO, Outsourcing versus integration at home and abroad and
firm heterogeneity, in Empirica, 37, 2010, 1, p. 47-63.
www.koreuropa.eu
129
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
4. Alcune conclusioni sull’efficacia delle politiche d’intervento pubblico a favore
delle reti d’impresa innovative
Il contratto di rete rappresenta un quid novi nel panorama delle modalità di
aggregazione di imprese permesse dal Codice dei contratti. La Commissione europea nel
201039, ha sottolineato che la “particolarità del contratto di rete è che le imprese partecipanti
mantengono la loro autonomia sotto il profilo giuridico (…), questa nuova figura giuridica
lascia alle imprese la libertà di decidere quale tipo di cooperazione attuare e con quali mezzi,
senza imporre alcuna forma di obbligo strutturato, come l’istituzione di un fondo o altre
forme di fusione”. La Commissione ha inoltre precisato che “mentre altre figure giuridiche di
cooperazione strutturata, come le associazioni temporanee di imprese, raggruppano per un
certo periodo di tempo società che intendono svolgere una determinata operazione, nella rete
di imprese, (…), il contratto definisce un programma comune (come un programma
industriale) con il quale le società partecipanti mirano ad accrescere, individualmente o
collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato. Il
contratto istituisce quindi la forma più flessibile e generale di associazione tra imprese,
fissando un numero limitato di norme al solo scopo di assicurare la trasparenza e la stabilità
delle relazioni contrattuali”.
Inoltre, l’Unione Europea, ha intrapreso una politica che mira all’ottenimento di una
maggiore trasparenza della regolamentazione dei rapporti tra pubblica amministrazione e
contraente privato. Quest’approccio si pone l’obiettivo di garantire che l’amministrazione non
«operi favoritismi verso alcuno dei soggetti che partecipano alla selezione per l’affidamento
all’appalto» 40 . Tale obiettivo sarà raggiunto soltanto se aumenta la partecipazione delle
imprese estere alle gare nazionali, e solo se saranno abbattute le barriere all’entrata delle
piccole e medie imprese. Le norme comunitarie tendono ad aprire il mercato a tutti gli
operatori economici a prescindere dalla dimensione.
Bruxelles, 26.01.2011 C(2010)8939; Aiuto di Stato N 343/2010 – Italia – Sostegno a favore della costituzione
di reti di imprese.
40
Cfr. FIDONE, Un’applicazione di analisi economica del diritto: la procedura per la scelta del cessionario ne
c.d. project financing, in corso di pubblicazione negli atti della prima conferenza annuale del SIDE (Italian
Society of Law and Economics), presso la facoltà di Economia di Siena “R.M.Goodwin”, Siena 25-27.11.2005.
39
www.koreuropa.eu
130
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
La percentuale di appalti aggiudicati alle PMI dipende dallo Stato a cui si fa riferimento,
infatti sono molteplici le difficoltà che le imprese devono superare all’entrata nel mercato e
possono essere più evidenti in alcuni Stati. Gli ostacoli possono essere per esempio: oneri
burocratici eccessivi, grande entità degli appalti, difficoltà nel reperire le informazioni, scarsa
conoscenza delle procedure di appalto, problemi nel reperire partner all’estero con cui
cooperare, pagamenti tardivi delle autorità aggiudicatrici. Dato che le difficoltà incontrate
dalle PMI sono molto numerose, esiste un documento chiamato Codice di buone pratiche che
orienta le autorità aggiudicatrici riguardo le modalità di applicazione delle direttive
comunitarie e circa le norme nazionali che non ostacolano l’accesso alle PMI. Solo pochi
Stati hanno stilato uno specifico programma in favore dell’accessibilità delle PMI agli appalti.
Ci sono però delle soluzioni per far diminuire le difficoltà riscontrate dalle PMI: migliorare la
qualità delle informazioni fornite, superare le difficoltà connesse all’entità degli appalti,
fissare livelli di capacità e requisiti finanziari proporzionati, garantire che i pagamenti siano
effettuati puntualmente. Nelle pagine precedenti, è emerso come con la legge 11 novembre
2011, n. 180, sia stata introdotta la partecipazione delle reti di impresa nell’ambito delle
procedure per l’aggiudicazione di contratti pubblici, nel tentativo di abbattere alcune barriere
all’entrata che impedivano l'accesso agli appalti pubblici delle micro, piccole e medie
imprese41.
Con riferimento al mercato del lavoro, è stato, anche, accennato che in Italia, esso è
stato per molto tempo rigido e caratterizzato da costi elevati. L’Italia, dunque, ha cercato di
seguire le raccomandazioni dell’ OCSE che indicavano di rendere più facile il ricorso a
contratti di durata prefissata soprattutto per le piccole e medie imprese. Questo percorso è
stato scandito da due leggi molto importanti: la legge 196/1997 (Pacchetto Treu) e il d.lgs.
276/2003 (legge Biagi). Esso si è tradotto in un processo di riforma, comune ad altri paesi
europei, di ampliamento delle forme contrattuali. Nonostante le resistenze del sindacato e di
altre parti sociali si è avviata in Italia una strategia di riforma del mercato del lavoro.
L’obiettivo principale è stato quello di incrementarne la flessibilità e la produttività.
41
Cfr. DI MARIA, PROVENZANO, Efficienza Competitività ed Innovazione della Pubblica Amministrazione:
Alcune considerazioni Economico-Giuridiche sul modello Consip, in KorEuropa, 1, 137 – 159 (disponibile
all’indirizzo http://www.unikore.it/index.php/roberto-di-maria-e-carmelo-provenzano#.Ua4NTtJU_rw).
www.koreuropa.eu
131
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
La politica italiana negli ultimi anni ha dunque cercato di favorire meccanismi più
efficienti cercando, da un lato, di supportare il percorso di sviluppo dei distretti e, dall’altro
lato, di stimolare il nuovo modello organizzativo della filiera produttiva che si basa sul
sistema relazionale delle reti d’impresa.
La nuova forma aggregativa della rete permette di supportare la capacità competitiva
soprattutto nei mercati esteri, di raggiungere economie di scala di sistema tipiche delle media
e grande impresa, senza rinunciare ai vantaggi e alla flessibilità della piccola dimensione e di
incrementare la performance economica delle imprese che vi aderiscono.
Ma come questa politica dev’essere condotta per essere efficace? Queste ed altre
domande sono state sollevate dalla teoria economica che cerca di identificare le caratteristiche
necessarie per favorire le reti innovative ed i distretti tecnologici. Comprendere queste
condizioni ci permette di effettuare delle considerazioni anche sull’efficacia delle politiche
attuate e di quelle potenziali da attuare.
Tra le diverse criticità è opportuno, innanzitutto, sottolineare che in Italia non esistono
settori specializzati ed aree ad elevata intensità teconologica. Non esistono distretti
tecnologici (DT) italiani, o meglio, non esistono aree con un numero elevato di imprese che
presentano le caratteristiche qualitative e quantitative richieste per potersi definire DT.
Un’attenzione molto importante va dedicata dalle politiche di intervento pubblico all’aspetto
della promozione e della governance dei distretti tecnologici e delle reti di impresa
innovative. A tal proposito, l’Unione Europea ha previsto aiuti di stato a favore di ricerca,
sviluppo e innovazione (RSI), per il periodo 2007-2013, stimolando, in particolare, la ricerca
effettuata in forma collaborativa.
La politica della Nuova Programmazione in Italia non ha raggiunto gran parte degli
obiettivi prefissati. In particolare il tentativo di promuovere i distretti industriali nel
Mezzogiorno d’Italia, non ha sortito gli effetti desiderati. L’obiettivo di creare delle filiere
sotto forma di reti di imprese che non necessitano di un patrimonio relazionale peculiare dello
sciame delle imprese distrettuali, può costituire un’occasione di svolta per l’economia del Sud
d’Italia. La politica di promozione di reti innovative può essere più appropriata per il Sud,
perché conferisce alle imprese una dimensione più flessibile e soprattutto non si fonda su
un’astratta e messianica mobilitazione generalizzata dal basso dei sistemi locali. Essa cioè ha i
www.koreuropa.eu
132
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
caratteri di una politica attiva e selettiva basata su logiche di pick up the winner. 42 Tale
politica, inoltre, non si deve fondare su sporadici bandi della legge 488, ma deve basarsi sulla
creazione di nuclei operativi dedicati ad analisi di intervento con ampia capacità operativa.
Una condizione importante per condurre un intervento pubblico efficace ed efficiente è quello
di individuare gli strumenti necessari per la misurazione dell’impatto della politica industriale
sia nel medio che nel lungo periodo.
Le venture capital che assumono una forma a rete costituiscono, a tal proposito, uno
strumento flessibile, autonomo e responsabile. Esse operano sul mercato con un ben definito
budget che va verificato nel medio e nel lungo periodo. Tra gli obiettivi che possono essere
raggiunti attraverso questo mezzo vi sono quelli di una maggiore integrazione produttiva e di
un aumento della solidità della struttura produttiva locale. In tal modo, molte delle cause di
dispersione che accompagnano gli investimenti produttivi nel mezzogiorno possono essere
maggiormente controllate e attenuate. Non solo, questo strumento è in grado di saltare la
dimensione della localizzazione territoriale se accompagnato da una politica di filiera in grado
di aumentare la capacità di attrazione delle risorse finanziarie, materiali e immateriali. Il
Mezzogiorno, infatti è impossibilitato a competere con le altre aree depresse dell’Unione
Europea a causa della sua “fiscalità generale” penalizzante e degli aspetti ambientali e
strutturali svantaggiosi.
Occorre dunque dare maggior rilievo agli assets materiali legati alle grandi opere
infrastrutturali che agli assets immateriali collegati al capitale umano e alla capacità di
arricchimento delle funzioni produttive con attività terziarie a elevato contenuto di
innovazione. Le relazioni e i mix di strategie delle reti devono permettere una mutazione
genetica del territorio da area follower e passiva ad una leader ed innovativa. Per far ciò
occorre una governance razionale delle diverse istituzioni intermedie che favoriscono lo
sviluppo locale, si pensi per esempio, ai centri di servizio, alle agenzie regionali di sviluppo,
alle agenzie per l’innovazione ecc.
PURPURA, PROVENZANO, L’industria Manifatturiera Siciliana tra Eccellenze e Ritardo di Sviluppo: Alcune
considerazioni per la Politica Industriale, in BUSETTA (a cura di), Sicilia 2015. Obiettivo Sviluppo: un traguardo
possibile, 2009, p. 342-366.
42
www.koreuropa.eu
133
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Un’analisi condotta da Cresta43 , sulla base del ruolo e dell’efficacia degli strumenti
intermedi di questa governance, ha classificato le regioni italiane in cinque gruppi: regioni
modello, regioni in corsi, regioni in stand by, regioni in ritardo e regioni borderline.
Da queste considerazioni, nasce la consapevolezza di allargare la filiera produttiva a
settori non industriali e di estendere la collaborazione a soggetti diversi dalle imprese come le
associazioni di categoria, consorzi, università, fondazioni e istituzioni attive nel campo
dell’innovazione e della ricerca, etc.
Il nuovo scenario dello sviluppo dev’essere dunque caratterizzato da nuovi modelli
aggregativi prevalentemente di tipo funzionale e, in misura sempre minore, su quelle di tipo
territoriale. Se da un lato, infatti le politiche di sviluppo locale devono essere finalizzate a
migliorare le condizioni di contesto, dall’altro lato le nuove forme organizzative devono
svincolarsi dalle loro aree geografiche di riferimento per favorire il processo di innovazione e
di competitività internazionale.
CRESTA, Il ruolo della governance nei distretti industriali. Un’ipotesi di ricerca e classificazione, Milano,
2008.
43
www.koreuropa.eu
134
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Nota bibliografica
ANTONIETTI e ANTIOLI, 2009, Production offshoring and skill composition of Italian
manufacturing firms: A counterfactual analysis, OPENLOC Working Paper n. 3.
BARBA NAVARETTi e VENABLES, 2004, Multinational Firms in the World Economy,
Princeton, Princeton University Press; trad. it., Le multinazionali nell’economia
mondiale, Bologna, 2006.
BECATTINI, 1998, Distretti industriali e Made in Italy. Le basi socio culturali del
nostro sviluppo economico, Torino.
BECATTINI, 2001, Il distretto industriale, Torino.
BELLANDI, 1982, Il distretto industriale, in L’industria, 3.
BENFRATELLO e RAZZOLINI, 2008, Firms’ productivity and internationalization
choices: Evidence for a large sample of Italian firms, in Multinationals and local
competitiveness, a cura di L.Piscitello e G. Santangelo, Milano.
BERTON, RICHIARDI e SACCHI, S. 2009, Flex-insecurity. Perché in Italia la flessibilità
diventa precarietà, Bologna.
BUGAMELLI, CIPOLLONE e INFANTE, L. 2000, L’internazionalizzazione delle imprese
italiane negli anni Novanta, in «Rivista Italiana degli Economisti», 53, p. 349-386.
CAFAGGI, IAMICELI, Reti di imprese tra crescita e innovazione organizzativa.
Riflessioni da una ricerca sul campo, Bologna, 2007.
CAFAGGI, il contratto di rete nella prassi. Prime riflessioni, in Contratti, 2011, 5, 504.
CAFAGGI, Il nuovo contratto di rete: “Learning by doing”, in Contratti, 2010, 12,
1143.
CAFAGGI, Reti di imprese tra crescita e innovazione organizzativa, Bologna, 2007,
279.
CASTELLANI e ZANFEI, 2006, Multinational firms, innovation and productivity,
Cheltenham, Edward Elgar.
CRESTA, 2008, Il ruolo della governance nei distretti industriali. Un’ipotesi di ricerca
e classificazione, Milano.
CHIARVESIO e MICELLI, 2007, Oltre il distretto come sistema: le strategie delle
imprese fra locale e globale.
DAVERI e JONA-LASINIO, 2008, Off-shoring and productivity growth in the Italian
manufacturing industries, in «CESifo Economic Studies», 54, 3, p. 414-450
DI MARIA, PROVENZANO, Efficienza Competitività ed Innovazione della Pubblica
Amministrazione: Alcune considerazioni Economico-Giuridiche sul modello Consip.
In vol. 1 Rivista KorEuropa.
www.koreuropa.eu
135
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
ETZKOWITZ, 2008, The triple helix: University-industry-government innovation in
action, London.
FEDERICO, 2010, Outsourcing versus integration at home and abroad and firm
heterogeneity, in «Empirica», 37, 1, p. 47-63.
FIDONE, Un’applicazione di analisi economica del diritto: la procedura per la scelta
del cessionario ne c.d. project financing, in corso di pubblicazione negli atti della
prima conferenza annuale del SIDE (Italian Society of Law and Economics), presso la
facoltà di Economia di Siena “R.M.Goodwin”, Siena 25-27.11.2005.
GRANDORI e SODA, 1995, Inter-firm networks: Antecedents ,mechanisms and forms, in
“Organization Studies”, 16, pp. 183-214.
GRANIERI, Il contratto di rete: una soluzione in cerca di problema? Contratti, 2009,
10, 934 .
JACKSON e WOLINSKY, 1996 A strategic model of social and economic networks, on
“Journal of Economic Theory”, 71, p. 44-74.
JACKSON, 2008, Social and economic networks, Princeton University Press.
KALI, 1999, Endogenous business networks in “Journal of Law, Economics &
Organizations”, 15, pp. 615-636.
KRANTON, 1996, Reciprocal exchange: A self-sustaining system, in “ American
Economic Review”, 86, pp. 830-851.
LI DONNI, PROVENZANO, 2012. Politica Industriale ed Evoluzione dei Settori
Industriali: Alcune Implicazioni di Evolutionary Economic. Storia e Politica; p.212229.
LI DONNI, PROVENZANO, (2012). L’evoluzione Darwiniana e L’interplay Dinamico tra
Routine Procedurali e Prosociali. Nuova Economia e Storia, vol. n.1-2; p.17-44.
MACARIO, Relational contracts e Allgemeiner Teil: il problema e il sistema.
MALTONI, Il contratto di rete. Prime considerazioni alla luce della novella di cui alla
L. n. 122/2010, in Notariato, 2011, 65.
MANKIW e SWAGEL, 2006, The politics and economics of offshore outsoucing, in
«Journal of Monetary Economics», 53, 5, p. 1027-1056.
MARASÀ, “Contratti di rete e consorzi”, in Il Corriere del merito, n.6/10.
MARIOTTI e MUTINELLI, 2008 Italia multinazionale 2006. Le partecipazioni italiane
all’estero e estere in Italia, Sovaria Mannelli, Rubbettino.
MARIOTTI, Detassazione degli utili destinati al fondo patrimoniale comune per
incentivare le reti di imprese, in Corriere Tributario, n. 12/2011, pagg. 951 e ss.
MENRD, C. 2004, The economics of hybrid organizations, in “Journal of Institutional
and Theoretical Economics”, 160, pp. 345-376.
www.koreuropa.eu
136
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
MESSINEO, Contratto plurilaterale e contratto associativo, in Enc. Dir., X, Milano,
1962, p. 146.
MIELE e RUSSO, Investimenti, agevolazione concessa a termine, in Il Sole 24 Ore, del
7 marzo 2011.
NAVARRETTA, Il diritto europeo dei contratti fra parte generale e norme di settore,
2008, 123 ss.
PURPURA, PROVENZANO, L’industria Manifatturiera Siciliana tra Eccellenze e Ritardo
di Sviluppo: Alcune considerazioni per la Politica Industriale, in “Sicilia 2015.
Obiettivo Sviluppo: un traguardo possibile”, a cura di P. Busetta, Ediz. Liguori 2009,
342-366.
SCARPA, La responsabilità patrimoniale delle imprese contraenti per le obbligazioni
assunte a favore di una rete tra loro costituita, in Resp. civ., 2010, 406
VETTORI, Contratto di rete e sviluppo dell'impresa, in Obbl. e contr., 2009, 390.
WILLIAMSON, 1975, Markets and hierarchies: Analysis and antitrust implications: A
study in the economics of internal organization, New York, Free Press.
ZANELLI, Reti di imprese: dall’economia al diritto, dall’istituzione al contratto, in
Contr. e impr., 2010, 952.
www.koreuropa.eu
137
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
LA TUTELA E LA CIRCOLAZIONE DEI BENI
CULTURALI NELL’UNIONE EUROPEA
Antonella Galletti
Cultore di diritto dell’Unione europea nell’Università Kore di Enna
ABSTRACT: Nell’attuale quadro normativo europeo i riferimenti al dato culturale sono molteplici, ma è ancora
assente una trattazione organica del tema e il settore di riferimento è la cultura considerata in senso più ampio,
secondo quanto disposto dall’art. 151 del TCE, ora articolo 167 del TFUE. Il diritto dei beni culturali sembra
rimanere confinato nelle frontiere nazionali. È evidente, pertanto, che l’azione dell’Unione europea sia rivolta al
plurale concorrendo, quindi, allo sviluppo “delle culture” degli Stati membri e non di una cultura propriamente
europea. Nel settore dei beni culturali l’attività normativa di diritto secondario ha avuto come obiettivo quello di
conciliare nel mercato interno la libera circolazione dei beni culturali con le esigenze di protezione degli stessi.
Prima dell’adozione del regolamento 3911/92, relativo all’esportazione dei beni culturali, e della direttiva 7/93,
relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, gli Stati si
limitavano, infatti, ad effettuare controlli alle frontiere esclusivamente con riguardo ai beni rientranti nel
proprio patrimonio
PAROLE CHIAVE: Convenzione Unidroit; Tutela giuridica dei beni culturali; Regolamento 3911/92; Direttiva 7/93
1. Introduzione
«La battaglia dei beni culturali che ci vede tutti impegnati come cittadini di questo Paese,
archivio e museo del genere umano, è in primo luogo una battaglia culturale: se non ci
convinceremo della necessità e della convenienza di coesistenza e rispetto delle forme
culturali […] contribuiremo alla dispersione e alla distruzione del sapere accumulato e delle
possibilità di sviluppo civile insite nel patrimonio dei beni culturali1».
Tutelare il patrimonio culturale significa tutelare la storia ma anche la natura
contemporanea di un popolo.
Il modello europeo costituisce un esempio unico di coesistenza tra culture differenti ma,
al contempo e sotto vari profili, affini, cosicché la connotazione “culturale” di tale
ordinamento è apparsa con sempre maggiore rilievo2.
È stato il Trattato di Maastricht3 a segnare il passaggio verso un progetto di unificazione
europea di più ampio respiro, aprendo la strada ad un più determinante intervento dell’Unione
1
CARILE, Prefazione, in MEZZETTI (a cura di), I beni culturali. Esigenze unitarie di tutela e pluralità di
ordinamenti, Padova, 1995, , IX.
2
CHIAVARELLI, Il prestito e lo scambio, in CASINI (a cura di), La globalizzazione dei beni culturali, Bologna,
2010, pp.114 ss.
www.koreuropa.eu
138
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
in materia di beni culturali, tradizionalmente escluso sul presupposto del necessario rispetto
delle identità nazionali dei singoli Stati membri4.
Dal 1993 la cultura rientra tra le competenze dell’Unione e la stessa deve essere tenuta
in considerazione in tutte le azioni e nell’adozione di atti (in materia normativa e finanziaria)
anche al fine di promuovere la diversità e il dialogo interculturale.
Nell’attuale quadro normativo europeo i riferimenti al dato culturale sono molteplici5,
ma è ancora assente una trattazione organica del tema e il settore di riferimento è la cultura
considerata in senso più ampio, secondo quanto disposto dall’art. 151 del TCE, ora articolo 167
del TFUE6.
L’Unione europea vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale
europeo (articolo 3 del TUE, EX articolo 2 del TUE), appoggia ed integra l’azione degli Stati
membri nella conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea
(articolo 167 del
TFUE).
Si tratta di principi da considerare in modo certamente positivo
nell’ambito del riconoscimento a livello europeo di una valorizzazione dei beni culturali.
Il diritto dei beni culturali sembra, nondimeno, rimanere confinato nelle frontiere
nazionali7, anche per l’evidente difficoltà di disegnare un quadro di interventi dell’Unione
3
Firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1993.
VITALE, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, in CASINI (a cura di), op. cit.,
p. 182.
5
In particolare, gli articoli 3 TUE, 6, 13, 107, 165, 198, 207 TFUE.
6
Articolo 167 TFUE: “1. L’Unione contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto
delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune. 2. L’azione
dell’Unione è intesa ad incoraggiare la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, ad appoggiare e ad
integrare l’azione di questi ultimi nei seguenti settori: - miglioramento della conoscenza e della diffusione della
cultura e della storia dei popoli europei, - conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza
europea, - scambi culturali non commerciali, - creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo. 3.
L’Unione e gli Stati membri favoriscono la cooperazione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali
competenti in materia di cultura, in particolare con il Consiglio d’Europa. 4. L’Unione tiene conto degli aspetti
culturali nell’azione che svolge a norme di altre disposizioni dei trattati, in particolare ai fini di rispettare e
promuovere la diversità delle sue culture. 5. Per contribuire alla realizzazione degli obiettivi previsti dal presente
articolo: - il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa
consultazione del Comitato delle regioni, adottano azioni di incentivazione, ad esclusione di qualsiasi
armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri; - il Consiglio, su proposta della
Commissione, adotta raccomandazioni.
7
Da parte degli Stati membri c’è stata, e c’è ancora oggi, la tendenza a considerare la disciplina del patrimonio
culturale come un “dominio riservato”, una materia, cioè, che deve essere regolata dalla legge del luogo ove si
trovano i beni culturali, sui quali lo Stato esercita una potestà di governo che, in linea di principio, non trova
limitazioni nel diritto internazionale classico. Così, FRANCIONI, Protezione internazionale del patrimonio
culturale: interessi nazionali e difesa del patrimonio comune della cultura, Milano, 2000, p.12.
4
www.koreuropa.eu
139
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
adeguati. Le stessa definizione di “bene culturale” e di “patrimonio culturale” varia, inoltre,
negli ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri e si sottrae a qualsiasi forma di
armonizzazione, che peraltro lo stesso articolo 167 del TFUE esclude espressamente8.
È possibile, tuttavia, dedurre nel riferimento al patrimonio culturale di importanza
europea, contenuto nel sopracitato articolo, un segno di un più forte coinvolgimento delle
istituzioni dell’Unione nelle politiche culturali. Si tratta, di fatto, di una nozione flessibile, in
grado di favorire il dinamismo che contraddistingue il settore della cultura ma, proprio per
questo, necessiterebbe di una precisazione di contenuto. Il legislatore europeo, al contrario,
non fornisce una definizione europea di patrimonio culturale.
A tal proposito l’unica soluzione è quella di accogliere una nozione di patrimonio
culturale che includa tutto ciò che ha un interesse archeologico, storico o artistico. Ne
consegue che anche l’identità culturale europea potrebbe acquisire, nell’ambito degli obiettivi
sanciti dall’articolo 3 del TUE, specifico rilievo9.
La salvaguardia dell’opposto interesse alla protezione delle diversità culturali nazionali,
ostacola, però, l’elaborazione di politiche comunitarie più incisive e l’aspirazione ad una
cultura comune europea10.
La questione potrebbe essere, quindi, quella di intendere il patrimonio culturale
dell’Unione non solo come “somma” dei singoli patrimoni nazionali degli Stati membri ma
come la “selezione di quelle testimonianze di civiltà suscettibili di caratterizzare la
dimensione culturale europea11”.
2. I beni culturali nelle disposizioni dei trattati dell’Unione europea
Il modo più corretto per riflettere sul processo d’integrazione europea non può
prescindere dal considerare che si tratta di un processo in costante modificazione e,
8
In proposito, ACCETTURA, I beni culturali tra ordinamento europeo e ordinamenti nazionali, in Aedon, 2003,
n.2.
9
VITALE, op. cit., p. 185.
10
DEGRASSI, Cultura e istituzioni. La valorizzazione dei beni culturali negli ordinamenti giuridici, Milano, 2008,
pp. 190-201.
11
PAPA, Strumenti e procedimenti della valorizzazione del patrimonio culturale, Napoli, 2006, p. 91.
www.koreuropa.eu
140
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
soprattutto, che l’integrazione ha assunto in una lunga fase iniziale una connotazione in
prevalenza settoriale e quasi esclusivamente economica.
Questo ci permette di capire come solo a partire dal Trattato di Maastricht la cultura
ottenga dignità di menzione soltanto in una norma e come, a tutt’oggi, al tema della cultura
sia riservato il solo Titolo XIII, a sua volta unicamente formato dall’articolo 167del TFUE, che
ha modificato, in modo per nulla significativo, l’articolo 151 del TCE.
L’articolo 167 del
TFUE,
così come il vecchio articolo 151delTCE, non è altro che una
norma programmatica priva di quella diretta applicabilità che caratterizza alcune norme anche
dei trattati, e pervasa da una “sottesa sussidiarietà12” che emerge dalla funzione che ha
l’Unione di contribuire allo sviluppo delle culture degli Stati membri.
È evidente, pertanto, che l’azione dell’Unione europea, destinata alla diffusione della
cultura dei popoli europei e della tutela del patrimonio culturale di importanza europea, degli
scambi e della conservazione artistica, sia rivolta al plurale concorrendo, quindi, allo sviluppo
“delle culture” degli Stati membri e non di una cultura propriamente europea, sintesi del
“retaggio culturale comune” al quale si riferisce anche l’articolo 167TFUE, comma 1.
Ciò serve a chiarire i limiti entro i quali è possibile parlare di un “patrimonio culturale
europeo”, oggetto dell’azione dell’Unione, e a sottolineare la difficoltà di affermare una vera
politica comune in questo settore, proprio per la insufficienza e l’inadeguatezza delle
competenze che i trattati, anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, attribuiscono
all’Unione europea.
L’articolo in questione (articolo 167 del TFUE) è il frutto di un compromesso che, se per
un verso, tiene conto dell’esigenza di riconoscere competenze più ampie ed introdurre
procedure decisionali più rapide, per l’altro incontra le resistenze degli Stati alla delega di
un’ulteriore “fetta” di sovranità a vantaggio dell’Unione.
L’articolo 167
d’integrazione
TFUE
europea
segna comunque un passaggio importante nella storia del processo
e
nell’evoluzione
dell’ordinamento
comunitario
laddove,
dall’esclusione di ogni ingerenza delle norme e delle istituzioni comunitarie sulle discipline
nazionali degli Stati membri in materia di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio
FRIGO, Beni culturali e diritto dell’Unione Europea, in www.olir.it/areetematiche/166/documents/frigo_
relazione 2010_roma_cesen.pdf.
12
www.koreuropa.eu
141
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
culturale, si passa all’esplicita previsione di una specifica competenza in materia di
conservazione e protezione del patrimonio culturale europeo13.
Ciò nonostante, pur rappresentando un’importante base giuridica, se ne riscontrano i
limiti e le indubbie ambiguità.
Se da un lato, infatti, viene richiamato il “retaggio culturale comune” degli Stati
membri, dall’altro se ne evidenziano le diversità nazionali e regionali. L’Unione, limitandosi
ad incoraggiare la cooperazione degli Stati, ed escludendo qualsiasi armonizzazione delle
disposizioni legislative nazionali, sembra riservarsi una competenza piuttosto limitata14.
Risulta quindi evidente che, al di là di ogni esplicita individuazione di una possibilità di
intervento dell’Unione nel settore culturale, la tutela e la conservazione dei patrimoni culturali
nazionali restano appannaggio degli Stati. Ne è conferma l’introduzione da parte del Trattato
di Maastricht del 3° comma dell’articolo 92 del TCE, oggi articolo 107 del TFUE15, 3° comma,
lettera d, il quale in materia di aiuti di stato definisce come compatibili con il mercato interno
quelli destinati alla cultura e alla conservazione del patrimonio, a condizione che non alterino
gli scambi e la concorrenza nell’Unione.
13
PONTRELLI, La gestione, la valorizzazione e la circolazione dei beni del patrimonio culturale del diritto interno
e comunitario, in JAMBRENGHI (a cura di), La cultura e i suoi beni giuridici, Milano, 1994 p.63.
14
VARESE, La politica culturale europea: cronache di una storia, in Economia della cultura, 2000, p.13 ss..
15
Articolo 107 TFUE: “1. Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella
misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse
statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la
concorrenza. 2. Sono compatibili con il mercato interno: a) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli
consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall'origine dei prodotti; b) gli
aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali; c) gli aiuti
concessi all'economia di determinate regioni della Repubblica federale di Germania che risentono della divisione
della Germania, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici provocati da tale
divisione. Cinque anni dopo l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, il Consiglio, su proposta della
Commissione, può adottare una decisione che abroga la presente lettera. 3. Possono considerarsi compatibili con
il mercato interno: a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia
anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione, nonché quello delle regioni di cui
all'articolo 349, tenuto conto della loro situazione strutturale, economica e sociale; b) gli aiuti destinati a
promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse; c) gli aiuti destinati ad agevolare lo
sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in
misura contraria al comune interesse; d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del
patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell'Unione in misura contraria
all'interesse comune; e) le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su proposta della
Commissione”.
www.koreuropa.eu
142
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Gli interventi dell’Unione nel settore della cultura dovranno inoltre escludere, come
precedentemente affermato, “qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e
regolamentari degli Stati membri16”.
Del resto è stata la stessa Commissione europea, nella sua Comunicazione del 1989 17, a
sottolineare come l’idea di un’armonizzazione delle legislazioni nazionali nel settore dei beni
culturali risulti piuttosto irrealizzabile nel momento in cui gli Stati considerano l’uscita dal
proprio territorio degli oggetti d’arte come “violazione” del patrimonio nazionale e non come
condivisione con altri Paesi di un patrimonio comune europeo.
Un’armonizzazione nel settore, oltre che di non facile attuazione, non sarebbe neanche
auspicabile. Essa vieterebbe o sottoporrebbe a restrizioni in tutti gli Stati membri, secondo gli
stessi criteri, l’esportazione di oggetti che fanno parte del patrimonio nazionale ma l’ostacolo
non verrebbe eliminato: è l’uscita dal territorio nazionale che viene vista come una violazione
del patrimonio, e la circostanza di sapere che il bene in questione godrà della stessa
protezione in un altro Stato membro non è sufficiente. In altre parole, l’armonizzazione non
abolirebbe il ricorso all’articolo 36 del TFUE18 (ex articolo 30 del TCE).
In assenza, quindi, di un’attribuzione di competenza di carattere generale in tema di
tutela del patrimonio culturale europeo e dei singoli Stati membri, i trattati si occupano in
realtà soltanto dei beni culturali mobili in modo quasi esclusivamente indiretto, facendo
sorgere il problema dell’applicabilità a questa particolare categoria di beni di norme che
16
Articolo 167 TFUE, 5° comma.
Comunicazione del 22 novembre 1989 al Consiglio, relativa alla protezione del patrimonio nazionale avente
un valore artistico, storico o archeologico, nella prospettiva della soppressione delle frontiere interne nel 1992,
COM(89) 594 def.
18
Articolo 36 TFUE: “Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni
all’importazione, all’esportazione o al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di
pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali,
di protezione del patrimonio artistico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e
commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né
una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri”. Come osservato dalla Commissione nella
Comunicazione COM(89) 594 def., esiste una notevole differenza tra la salvaguardia del patrimonio nazionale e
le altre eccezioni alla libera circolazione delle merci (articolo 30 TCE, oggi articolo 36 TFUE). La maggior parte
delle eccezioni previste nell’articolo summenzionato sono invocate per restringere le importazioni e possono
essere quindi eliminate, in quanto ostacoli alla libera circolazione, da un’eventuale armonizzazione delle norme e
regolamentazioni in questione. Invece il problema della protezione del patrimonio nazionale sussisterebbe anche
se tutti gli Stati membri avessero un’unica legislazione. Infatti, mentre per la tutela della salute, dell’ambiente
ecc., si tratta unicamente di trovare un livello comunitario, in materia di protezione del patrimonio nazionale gli
Stati ragionano in termini di salvaguardia del “loro” patrimonio.
17
www.koreuropa.eu
143
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
hanno scopi diversi da quelli di una loro tutela o valorizzazione. Si tratta, nello specifico, di
quelle norme create fin dagli inizi del processo d’integrazione europea quali norme poste a
garanzia di alcune libertà fondamentali e, in particolare, della libera circolazione delle merci.
In tale ottica si deve innanzitutto esaminare l’articolo 26 del
TFUE19,
norma dichiarata
direttamente applicabile dalla Corte di giustizia, e che assicura la libera circolazione delle
merci, delle persone, dei servizi e dei capitali nell’ambito del mercato interno, come pure
l’articolo 28 del
TFUE20,
laddove evidenzia che l’Unione doganale tra gli Stati membri
comporta il divieto dei dazi doganali all’importazione e all’esportazione e di tasse di effetto
equivalente, nonché l’adozione di una tariffa doganale comune con i Paesi terzi.
Di notevole importanza sono anche gli articoli 3421 e 3522 del TFUE, dichiarati anch’essi
dalla Corte di immediata applicabilità, e che vietano le restrizioni quantitative
all’importazione e all’esportazione, nonché qualsiasi misura di effetto equivalente.
Come si nota, le suddette disposizioni non fanno nessun riferimento alla nozione di
bene culturale, ma sono sicuramente norme di rilievo nell’ordinamento dell’Unione che hanno
ad oggetto “le merci”. Ciò pone il problema di decidere se sia possibile equiparare la nozione
di beni culturali a quella di merci. A tal proposito la Corte di giustizia ha avuto modo di
pronunciarsi sul punto in una famosa sentenza del 1968, nella quale ha stabilito che la natura
di merci, con conseguente assoggettabilità all’allora Trattato
CE,
deve essere riconosciuta
anche agli oggetti di interesse artistico, storico e archeologico, qualora si tratti di beni
suscettibili di una valutazione economica23.
Articolo 26 TFUE: “1. L’Unione adotta le misure destinate all’instaurazione o al funzionamento del mercato
interno, conformemente alle disposizioni dei trattati. 2. Il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere
interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo
le disposizioni dei trattati. 3. Il Consiglio, su proposta della Commissione, definisce gli orientamenti e le
condizioni necessari per garantire un progresso equilibrato nell’insieme dei settori considerati”.
20
Articolo 28 TFUE: “1. L’Unione comprende un’unione doganale che si estende al complesso degli scambi di
merci, dei dazi doganali all’importazione e all’esportazione e di qualsiasi tassa di effetto equivalente, come pure
l’adozione di una tariffa doganale comune nei loro rapporti con i paesi terzi. 2. Le disposizioni dell’ articolo 30 e
del capo 3 del presente titolo si applicano ai prodotti originari degli Stati membri e ai prodotti provenienti da
paesi che si trovano in libera pratica negli Stati membri”.
21
Articolo 34 TFUE: “Sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché
qualsiasi misura di effetto equivalente”.
22
Articolo 35 TFUE: “Sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’esportazione nonché qualsiasi
misura di effetto equivalente”.
23
Corte di giustizia, 10 dicembre 1968, in causa 7/68, Commissione c. Italia, in Raccolta, p. 562.
19
www.koreuropa.eu
144
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Si deve però aggiungere che la regola generale posta dagli articoli 34 e 35 del
trova un temperamento nel già richiamato articolo 36 del
TFUE,
TFUE
cioè nell’unica disposizione
che ha espressamente ad oggetto, tra le altre, la tutela dei beni di interesse culturale, ed in base
alla quale agli Stati membri viene concesso di introdurre o di mantenere quei limiti
all’importazione, all’esportazione e al transito che trovino una giustificazione nella
“protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale”.
A questo punto si tratta di esaminare quale sia l’ampiezza delle prerogative lasciate agli
Stati in materia di limiti alla circolazione dei beni culturali e ciò può essere fatto confrontando
le varie versioni linguistiche dell’articolo 36 del TFUE.
Il testo italiano, insieme a quello portoghese e spagnolo, sembra consentire agli Stati
una discrezionalità relativamente ampia, consentendo loro di mantenere quelle restrizioni che
siano giustificate dall’esigenza di protezione del “patrimonio artistico, storico o archeologico
nazionale”. Al contrario, in altre versioni linguistiche, ed in particolare in quella inglese e
francese, le prerogative nazionali appaiono più limitate, trattandosi della salvaguardia dei
“tesori nazionali di valore artistico, storico o archeologico”. Non sembra controverso che
“patrimonio nazionale” e “tesori nazionali” rimandano a due nozioni concettualmente diverse
della quali la prima consentirebbe alle autorità statati di includere tra le categorie dei beni
oggetto di una disciplina di tutela anche beni che non potrebbero farsi rientrare nella
seconda24.
Nell’interpretare norme di diritto comunitario primario o secondario aventi significato
diverso nelle varie versioni linguistiche la Corte di giustizia ha spesso applicato lo stesso
metodo riconducibile essenzialmente ai seguenti criteri. In primo luogo, ogni volta che una
norma è rivolta a tutti gli Stati membri, l’esigenza di un’interpretazione uniforme esclude una
considerazione separata del testo in una sola versione linguistica, ma necessita, invece, che
essa venga interpretata con l’obiettivo di assicurare il perseguimento dello scopo voluto dalla
disposizione alla luce delle altre versioni linguistiche25. In secondo luogo, le diverse versioni
24
FRIGO, op.
cit..
Corte di giustizia, 12 novembre 1969, in causa 29/69, Erich Stauder c. City of Ulm, in Raccolta, p. 419, punto
3; Corte di giustizia, 17 luglio 1997, in causa C-219/95, Ferriere Nord Spa c. Commissione, in Raccolta, p.I4411, punto 15; Corte di giustizia, 20 novembre 2001, in causa C-268/99, Aldona Malgorzata et al. c.
Staatssecretaris van Justuitie, in Raccolta, p. I-8615, punto 47.
25
www.koreuropa.eu
145
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
linguistiche di una disposizione di diritto dell’Unione devono essere interpretate in modo
uniforme e, in caso di divergenze, la norma deve essere interpretata alla luce dell’economia
generale e dell’obiettivo perseguito dal complesso delle disposizioni alle quali essa
appartiene26.
Ebbene, se si utilizzano per l’articolo 36 del
TFUE
le regole interpretative sopra
richiamate, non sembra problematico affermare che i testi inglese e francese sono più
conformi all’oggetto, allo scopo e ai contenuti del trattato di quanto lo siano i testi italiano,
spagnolo e portoghese. In effetti, l’articolo 36 del TFUE comprende un numero tassativamente
limitato di eccezioni alla regola generale posta dagli articoli 34 e 35 del
TFUE
in tema di
divieto di restrizioni quantitative agli scambi. Trattandosi di una norma di deroga, una sua
interpretazione estensiva sarebbe contraria al
TFUE
ed incompatibile con l’equilibrio tra gli
obblighi da esso derivanti e le prerogative assegnate agli Stati membri.
3. La disciplina dei beni culturali nelle fonti di diritto europeo derivato: il
regolamento 3911/92/CEE e la direttiva 93/7/CEE.
Nel settore dei beni culturali l’attività normativa di diritto secondario ha avuto come
obiettivo quello di conciliare nel mercato interno la libera circolazione dei beni culturali con
le esigenze di protezione dei tesori aventi valore artistico, storico o archeologico.
In effetti, prima dell’adozione del regolamento 3911/92 relativo all’esportazione dei
beni culturali27, successivamente abrogato dal regolamento 116/200928, e della direttiva 93/7
relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato
membro29, gli Stati si limitavano principalmente ad effettuare controlli alle frontiere con
26
Corte di giustizia, 27 ottobre 1977, in causa 30/77, Regina c. Pierre Bouchereau, in Raccolta, p. 01999, punto
14; Corte di giustizia, 7 dicembre 1995, in causa C-449/93, Rockfon A/S c. Specialarbejderforbundet i Danmark,
in Raccolta, p.I-4291, punto 28; Corte di giustizia, 17 dicembre 1998, in causa C-236/97, Skatteministrerietc.
Codan, in Raccolta, p. I-8679, punto 28; Corte di giustizia, 9 gennaio 2003, in causa C-257/00, Nani Givanec.
Secretary of State for the Home Department, in Raccolta, p. I-345, punto 37.
27
Regolamento (CEE)n. 3911/92 del 9 dicembre 1992 del Consiglio relativo all’esportazione dei beni culturali.
28
Il Regolamento (CE)n. 116/2009 del 18 dicembre 2008 del Consiglio relativo all’esportazione dei beni culturali
ha sostituito il precedente regolamento n. 3911/92, già modificato in modo sostanziale a più riprese. Il nuovo
Regolamento ha quindi una funzione essenzialmente di codificazione ai fini di maggiore chiarezza (cfr.
considerando 1 del regolamento n. 116/2009).
29
Direttiva (CEE)n. 93/7del 15 marzo 1993 del Consiglio relativa alla restituzione dei beni culturali usciti
illecitamente dal territorio di uno Stato membro.
www.koreuropa.eu
146
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
riguardo ai beni rientranti nel proprio patrimonio, mentre i beni che provenivano da altri Stati
membri non erano soggetti ad efficienti controlli in caso di esportazione.
La realizzazione del mercato interno non poteva ignorare l’eliminazione dei controlli
alle frontiere, con la conseguenza di determinare misure destinate ad assicurare un controllo
più uniforme delle esportazioni allo scopo di evitare l’elusione delle norme nazionali di
protezione mediante l’esportazione in un Paese terzo attraverso il transito in un altro Stato
membro le cui norme sulla circolazione dei beni culturali fossero maggiormente permissive di
quelle dei Paesi d’origine.
Con riguardo alla definizione di “bene culturale” entrambi gli atti sono corredati da un
identico allegato che contiene l’elenco delle categorie di beni culturali suscettibili di rientrare
nell’ambito di applicazione del Regolamento e della Direttiva, in armonia con le prerogative
degli Stati membri.
In particolare, il Regolamento non fornisce una definizione propria di bene culturale, in
quanto al suo articolo 1 chiarisce che per “beni culturali” si intendono i beni elencati
nell’allegato 1, fatti salvi i poteri degli Stati membri ai sensi dell’articolo 36 del
TFUE30,precisando
nei considerando che tale allegato ha soltanto lo scopo di definire le
categorie di beni culturali che dovrebbero formare l’oggetto di particolare protezione negli
scambi con i Paesi terzi, senza incidere sulla libertà degli Stati membri ai sensi del suddetto
articolo 3631.
La Direttiva, a sua volta, chiarisce nei considerando che l’allegato non ha l’obiettivo di
definire i beni che fanno parte del patrimonio nazionale ai sensi dell’articolo 36 del
TFUE,
ma
unicamente quello di dare una definizione dei beni suscettibili di essere classificati come tali e
di formare oggetto di un procedimento di restituzione.
Per quanto riguarda la circolazione, il regolamento 3911/92 prevede che l’esportazione
di beni culturali al di fuori del territorio dell’Unione sia subordinata alla presentazione di una
Articolo1 del regolamento 116/2009: “Fatti salvi i poteri degli Stati membri ai sensi dell’articolo 30 del
trattato” (oggi, art. 36 TFUE) “«per beni culturali» s’intendono, ai fini del presente regolamento, i beni elencati
nell’allegato I”.
31
Considerando 7 del regolamento 116/2009: “L’allegato I del presente regolamento ha lo scopo di definire le
categorie di beni culturali che dovrebbero formare oggetto di particolare protezione negli scambi con i paesi
terzi, ferma restando la libertà degli Stati membri di definire i beni da considerare patrimonio nazionale ai sensi
dell’articolo 30 del trattato” (oggi, art. 36 TFUE).
30
www.koreuropa.eu
147
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
licenza di esportazione che deve essere rilasciata, su richiesta dell’interessato, dalle singole
autorità competenti dello Stato membro “di origine”, cioè dallo Stato nel cui territorio si
trovava il bene alla data del 1° gennaio 199332. Gli Stati possono tuttavia negare la licenza
qualora i beni in questione rientrino tra quelli oggetto di una legislazione di tutela del
patrimonio nazionale.
Con riferimento al tema della restituzione, la direttiva 93/7 presenta alcuni aspetti
comuni al sistema della Convenzione Unidroit del 199533 sul ritorno internazionale dei beni
culturali rubati o illecitamente esportati, prevedendo l’obbligo di restituzione dei beni
rientranti nel suo ambito di applicazione che siano usciti illecitamente dal territorio di uno
Stato membro. A tal fine gli articoli 4-9 della Direttiva prevedono per lo Stato membro
richiedente la possibilità di presentare davanti all’autorità giudiziaria competente dello Stato
membro richiesto un’azione di restituzione, stabilendo l’obbligo di introdurre nelle
legislazioni statali norme che consentano la restituzione anche nell’ipotesi di acquisto in
buona fede, a condizione che il giudice sia “convinto che il possessore abbia usato, all’atto
dell’acquisizione, la diligenza richiesta34”.
Una vera e propria politica culturale europea va, naturalmente, ben oltre i profili qui
esaminati.
Le nuove disposizioni in materia di cultura introdotte dal Trattato di Maastricht e
sostanzialmente riconfermate dal Trattato di Lisbona contengono dei limiti molto precisi che
fanno dell’intervento dell’Unione poco più di un sostegno alle già esistenti politiche culturali
dei singoli Stati membri.
Emerge, quindi, che allo stato attuale la disciplina dell’Unione dei beni culturali non
può prescindere dalle legislazioni nazionali e non ci sono elementi che facciano prevedere un
cambiamento di questo indirizzo35.
32
La data del 1° gennaio è rimasta inalterata rispetto alla data già prevista dal regolamento n. 3911/93, che era
stata stabilita in coincidenza con l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne ai fini della realizzazione del
mercato unico.
33
La Convenzione Unidroit del 24 giungo 1995 sul ritorno internazionale dei beni culturali rubati o illecitamente
esportati è in vigore dal 1° luglio 1995.
34
Articolo 9 della direttiva n. 93/7.
35
MEZZETTI, op. cit., p. 25.
www.koreuropa.eu
148
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
www.koreuropa.eu
149
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
O MODELO EUROPEU E A QUESTÃO DA CIDADANIA
Janaína Rigo Santin
Pós Doutora em Direito pela Universidade de Lisboa e Professora da Faculdade de Direito da
Universidade de Passo Fundo
RESUMO: A pesquisa problematiza a questão da cidadania europeia e do déficit democrático das instituições
supranacionais. A situação de crise por que passam as instituições nacionais em face do processo de globalização
traz consigo um déficit democrático, o que provoca uma série de gravames sociais. E essa problemática torna-se
mais evidente na União Europeia, que se encontra em um momento crucial sobre quais competências que deve
assumir para tomar as decisões fundamentais capazes de fazer frente à globalização. E para isso precisa adotar
mecanismos ágeis e rápidos de decisão, com a transferência maior de competências para as instituições europeias,
a qual necessariamente deve vir unida a uma maior democratização dessas instituições, eis que o déficit
democrático da Europa é algo bastante presente. É uma questão não só de funcionalidade e operacionalidade como
também de democracia. Defende-se a ideia de que os cidadãos europeus devem ter o poder de efetivamente
participar dos assuntos comunitários, evoluindo-se a democracia representativa para uma democracia participativa
em âmbito supranacional
PALAVRAS-CHAVE: Cidadania europeia, Participação, Constitucionalismo europeu
1. Considerações Iniciais
Em face da evolução do Estado Moderno, o conceito de Cidadania obteve diversas
conotações, todas elas voltadas de acordo com o momento histórico que a humanidade passava, e
naturalmente com o modelo social imposto pela forma estatal da época.
Os Estados na ordem mundial atual são, em sua maioria, estruturas sociais democráticas.
Diante disso, a noção de cidadania, que remonta a épocas primitivas da sociedade, se faz de suma
importância, visto que sem a participação da população nos desígnios do Estado, a democracia
perde seu foco, destoando dos objetivos a que se propõe. É a cidadania, enquanto fundamento da
democracia, que deve promover a participação, fazendo com que os cidadãos, através do poder
originário que possuem, cobrem e também ajudem seus governantes a tomar decisões que sejam
benéficas a todos.
Todavia, frente ao contexto social apresentado hodiernamente, relevante se faz uma análise
mais profunda nos aspectos que tangenciam a questões da cidadania e da democracia. A crise que
se abate sobre a sociedade, demonstra a fraqueza de estruturas até então consideradas inabaláveis,
www.koreuropa.eu
150
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
como o Estado, o que denota uma realidade difícil. Vive-se em um mundo que desconhece
fronteiras, e que com o advento da globalização “plugou” sociedades até então de complicada
interconexão. Porém, no momento presente, da “informação simultânea”, ao invés de corroborar
o propósito democrático, invocando as sociedades para uma participação mais efetiva dentro dos
Estados, alienou-a, dificultando a participação política do cidadão quando se tratam de
mecanismos institucionais supranacionais.
E essa problemática evidencia-se ainda mais no caso da União Europeia, que se encontra
em um momento crucial de decisão sobre quais competências deve assumir para tomar as
medidas fundamentais capazes de fazer frente à globalização e tudo o que dela decorre, como a
crise da dívida soberana de muitos de seus membros. Para isso precisa adotar mecanismos ágeis e
rápidos de decisão, com a transferência maior de competências para as instituições comunitárias.
Entretanto, essa transferência deve estar acompanhada necessariamente a uma maior
democratização dessas instituições, eis que o déficit democrático da Europa é algo bastante
presente. É uma questão não só de funcionalidade e operacionalidade como também de
democracia. Defende-se a ideia de que os cidadãos devem ter o poder de efetivamente participar
dos assuntos comunitários, evoluindo-se a democracia representativa para uma democracia
participativa em âmbito supranacional.
A globalização trouxe consigo fantásticas inovações ao mundo, sendo que, hoje, perguntase como é possível viver sem tais invenções tecnológicas. Porém, trouxe consigo também alguns
ônus para a sociedade. O cidadão passou a ficar à deriva dentro do Estado, pois, atualmente,
quem passa a influir nas políticas públicas nacionais cada vez mais são fontes supranacionais de
poder.
Decorrente disso, a cidadania vem se aprimorando, galgando novas características, com a
reorganização espacial dentro dos Estados. E a mistura desses fatores, que se complementam, traz
à tona a possibilidade de respostas aos novos desafios lançados à cidadania, nessa nova
formatação de mundo atualmente exposta.
www.koreuropa.eu
151
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
É em relação a esses aspectos que a presente pesquisa desenvolve-se, buscando demonstrar
a existência das mais tênues linhas de inter-relação entre conceitos que a todo instante são
suscitados, porém utilizados desvencilhados do seu correto sentido. Da mesma forma, visa trazer
propostas de possíveis soluções a estes problemas.
2. Desenvolvimento Histórico da Cidadania em face da Evolução do Estado
Moderno
Em toda a história da evolução humana, desde os tempos mais primitivos, o homem buscou
associação a outros homens para desenvolver e aprimorar suas técnicas, em busca de uma vida
melhor. Sendo um ser naturalmente associativo, o homem passou de um estágio de vida solitária
para uma vida em grupo. Esses agrupamentos humanos, pequenos inicialmente, foram
desenvolvendo-se, tomando proporções cada vez maiores. Automaticamente, irrompem, dentro
dos grupos, novas relações capazes de gerar conflitos e discordâncias1.
Para que a ordem nesses grupos fosse mantida criou-se uma pequena organização;
entretanto ainda não eram considerados sociedades. Posteriormente, devido a uma imensa gama
de fatores, tais grupos passaram a interagir e a se inter-relacionar, surgindo relações diversas das
existentes, o que tornou estas organizações sociais precoces cada vez mais complexas2.
Essas intrincadas relações exigiram novas formas organizacionais, o que fez desabrochar o
fenômeno estatal, trazendo para a história o elemento Estado com todas as suas características. E
o fenômeno estatal, entidade abstrata criada pelo direito e desenvolvida em especial na
modernidade, a partir de noções de contrato social, foi dotado da finalidade complexa de
organizar a sociedade incrustada sobre um território próprio, com população e normas próprias,
dotado de soberania, para que essa ordem social complexa possa desenvolver-se em vista ao bem
comum.
1
2
NASCIMENTO, Lições de História do Direito, 3ª ed., Rio de Janeiro, 1984, p. 12.
NASCIMENTO, op. cit., p. 13.
www.koreuropa.eu
152
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Em meio a todas estas transformações por que passava a humanidade, o homem começou a
ter um papel crucial dentro do desenvolvimento da sociedade, passando a ser qualificado como
cidadão. A origem da palavra remonta a Roma e Grécia, nas antigas Polis (cidades-estados) que
foram as precursoras de uma sociedade estatalmente organizada. Polites ou Cives eram para os
romanos os sócios da Polis ou Civitas. Cidadãos eram, portanto, todos os homens que
participavam do funcionamento da cidade-estado, os titulares de direitos políticos3.
A participação desses cidadãos era efetuada da forma direta, sem a existência de
representantes, visto que este instituto da representação privada só teve origem no mundo
moderno. Essa participação dava-se através da votação das leis e no exercício de funções
públicas, especialmente a judiciária. A participação dos cidadãos era tão importante que sem ela,
a Polis não existiria4.
Em Atenas, na Grécia, o principal privilégio dos então denominados cidadãos era a igual
liberdade da palavra nas assembléias do povo. Assim sendo, o grau de participação do povo
ateniense foi bem maior que o do povo romano. No campo Legislativo, as leis eram votadas pelo
povo reunido em comícios, por proposta de um magistrado. No campo judiciário, o juiz era
alguém do povo, e existiam regulamentos que permitiam ao condenado a penas graves de
recorrer diretamente ao julgamento popular5.
Vale enfatizar que, por cidadania, entendia-se a qualidade de o indivíduo pertencer a uma
sociedade, e estar adstrito a todas as implicações decorrentes da vida em sociedade. Logo,
cidadão era aquele que morava na cidade e participava dos seus negócios. Assim sendo, era
caracterizada por uma minoria, aqueles que podiam acessar cargos públicos, visto que os
estrangeiros, os escravos, as mulheres, os artesãos e os comerciantes eram discriminados e não
eram considerados cidadãos6.
3
COMPARATO, A Nova Cidadania, São Paulo, 1993, n. 28/29, p. 85-106, p. 23.
SILVEIRA, Cidadania. Disponível em: http://www1.jus.com.br/doutrina/texto.asp?id=78. Acesso mar. 2012.
5
COMPARATO, op. cit., p. 24.
6
SILVEIRA, op. cit..
4
www.koreuropa.eu
153
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Indubitavelmente, a civilização Greco-Romana tinha em seu ápice um extraordinário
desenvolvimento político. Porém, contrastando a isso, os indivíduos pertencentes a estas
sociedades não gozavam de liberdade privada alguma. Encontravam-se totalmente submetidos à
cidade-estado a qual pertenciam. Toda e qualquer atividade existente na Polis era controlada, das
roupas ao corte de cabelo, da religião à educação. Isso se explicava na medida em que se tratava
de moldar o caráter dos cidadãos para servir a Polis. Conforme ensina FÁBIO KONDER
COMPARATO, “o mundo greco-romano, matriz da civilização ocidental, era o espaço social da
sujeição e do poder absoluto, em contraste com a liberdade ativa que prevalecia na esfera
política”7.
Todavia, com o passar do tempo, entra em decadência o chamado “Império Romano”,
desaparecendo o modelo constituído pela civilização greco-romana, acarretando em séculos de
supressão da cidadania.
Roma, com seu império, esfacelou-se com a invasão dos bárbaros, e conseqüentemente o
seu poder central desapareceu. Os territórios passaram a ser divididos em feudos, para que assim
pudessem ser controlados autonomamente por seus senhores feudais. O poder passa, assim, de
uma centralização para uma descentralização, pois esta era a melhor forma de dominar os
territórios, em vista da imensidão de terras a serem conquistadas, o que contrastava com os meios
de dominação existentes, que eram mínimos8.
Esta nova forma de organização social foi denominada, na Europa, de Feudalismo, e pôs
um fim ao chamado Estado Medieval. Esse período caracterizou-se pela íntima ligação entre
Igreja e Estado. O Feudalismo criou uma hierarquização política, não sendo contra o Estado, mas
sim se fazendo como um meio propulsor para o seu advento9. Este modelo de organização social
7
COMPARATO, op. cit., p. 24.
BERUTTI-FARIA-MARQUES, História, Vol. 3, Belo Horizonte, 1993, p. 13.
9
MELLO, Curso de Direito Internacional Público, Vol. I, 11ª ed., Rio de Janeiro, 1997, p. 330.
8
www.koreuropa.eu
154
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
implantado era articulado “a partir do poder fragmentado de cada Senhor Feudal, e que se
alicerçava em uma relação indissolúvel entre o poder religioso e o poder político”10.
Com o novo quadro social que se desenhava na época, o chamado status civitatis, tão
presente na antiga civilização, foi suprimido, passando a existir um complexo sistema de relações
hierárquicas de dominação privada. Isso se explica pelo poder fragmentado, no qual cada senhor
feudal possuía sua quota-parte de poder, fazendo com que os indivíduos presentes nos feudos não
tivessem uma identidade própria, sendo nada mais do que servos do senhor feudal11.
Na metade do séc. XV, o Feudalismo tem sua força exaurida. Abate-se sobre o modo de
produção feudal uma profunda crise, enfraquecendo as bases sociais da época. Com o advento
desta grave crise, necessitava-se uma nova ordem que pudesse reorganizar a sociedade
desarticulada12.
Florescia, na época, movimentos com vistas à centralização do poder político e à expansão
territorial, o que culmina com a instauração do Regime do Absolutismo Monárquico, enterrando
de vez o espaço já limitado das liberdades. Com isso, passa a vigorar a ordem política Moderna a partir do séc. XVI - procurando desvencilhar a religião do Estado e fortalecer o vínculo político
do Estado para com os cidadãos. A centralização do poder deu-se nas mãos do Rei, sendo que o
Estado era visto na própria pessoa do Rei, perdendo a concepção de impessoalidade da
administração13.
Esse novo protótipo de Estado perdurou entre os séculos XVI e XVII, consolidando no
período a idéia de Estado-Nação, lastreado em uma regulamentação jurídica dos conflitos sociais
existentes. Esse Estado continua sendo “a expressão da hegemonia da nobreza que através da
reorganização estatal reforça sua dominação sobre a massa camponesa”14.
10
BEDIN, Estado, Cidadania e Globalização do Mundo: Algumas Reflexões e Possíveis Desdobramentos, in
OLIVEIRA (coord.), Relações Internacionais e Globalização, Ijuí, 1997, p. 126.
11
GOULART, Sociedade e Estado, in ROCHA (org), Teoria do Direito e do Estado, Porto Alegre, 1994, p. 26.
12
BERUTTI-FARIA-MARQUES, op. cit., p. 25.
13
BOBBIO, Direito e Estado no Pensamento de Emanuel Kant, 3ª ed, São Paulo, 2000, p. 17.
14
BERUTTI-FARIA-MARQUES, op. cit., p. 25.
www.koreuropa.eu
155
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Durante a existência do Estado Absolutista, o conceito de cidadania foi completamente
sufocado em nome do poder estatal, o qual se colocou acima de tudo, inclusive dos princípios
morais. Quanto aos princípios jurídicos, estes passaram a ser criação única do Estado, que tomou
para si o monopólio da produção jurídica, reduzindo o direito a uma criação estatal, tornando-o
passível das arbitrariedades impostas pelo soberano. Sobre isso BOBBIO explica que “Monarquia
Absoluta é a forma de Estado que não se reconhece mais outro ordenamento jurídico que não seja
o estatal, e outra fonte jurídica que não seja a lei”15. É assim a forma que o Estado tratava de
regular a sociedade, fazendo com que se perdesse a concepção de cidadania, tão importante nas
sociedades contemporâneas.
A nobreza foi fortalecida, e se investiu em métodos capazes de alongar as fronteiras
estatais. Um desses meios foi a navegação, que levou a um expansionismo marítimo estrondoso,
ocasionando o alastramento das práticas comerciais pelo mundo. Paralelo a isso, o Estado
começa a se desenvolver economicamente, e as práticas capitalistas vão aos poucos tomando
corpo, varrendo as últimas amarras feudais ainda vigentes. Logo, o capitalismo invade o arsenal
produtivo do Estado, instalando-se definitivamente16.
O Estado Moderno consegue firmar-se como um Estado soberano e centralizado. Porém,
diversas mudanças sociais ocorrem na época, em especial a partir da Revolução Francesa, em
1789. A principal delas é o crescimento de uma classe até então desprezada, a burguesia. Esta,
até então à margem do sistema, apossou-se dos meios de produção e, pela mão da economia,
buscou alcançar o poder questionando a ordem Absolutista vigente.
Com isso, a burguesia passa a ter um papel essencial no novo contexto social emergente,
acabando por refutar a ordem Absolutista, dando uma nova feição ao Estado Moderno, tornandoo um Estado Moderno Liberal. Isto foi possível mediante as Revoluções Burguesas ocorridas na
Inglaterra e na França, que propulsionaram a ascensão da burguesia ao poder17.
15
BOBBIO, op. cit., p. 19.
BEDIN, op. cit., p. 129.
17
MELLO, op. cit., p. 335.
16
www.koreuropa.eu
156
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
As revoluções burguesas são fatos marcantes para a história da evolução dos Estados e da
cidadania. Elas abriram o caminho para o capitalismo e, da mesma forma, romperam todos os
resquícios ainda existentes do feudalismo. Abriram as portas para o Modelo Liberal de Estado,
onde pela primeira vez o povo, até então sufocado, passa a ter ouvido o seu clamor. O Estado
continua com seu poder centralizado e soberano, mas passa a ser limitado por uma constituição e
por uma declaração de direitos18.
Como decorrência destas revoluções e transformações sofridas pelo Estado, começou a se
restabelecer a cidadania política abolida, reconhecendo o indivíduo como titular de direitos
próprios, e não derivados do grupo social19. Assim foi a visão que reconheceu que o cidadão de
qualquer lugar do mundo, em qualquer época, tem os mesmos direitos basilares, mesmo que não
reconhecidos pelo Estado, dando ensejo à Declaração Universal dos Direitos do Homem e do
Cidadão.
A partir deste momento, a nova cidadania passa a comportar duas dimensões, sendo uma
universal e outra nacional. Universal e pautada nos direitos humanos, uma vez que todo homem é
protegido em seus direitos naturais, independente de sua nacionalidade, conforme consagrado na
declaração; e nacional e pautada nos direitos fundamentais positivados nas cartas constitucionais
dos países, reconhecidos dentro de seu espaço vital20.
Entretanto, contrastando com o moderado avanço alcançado pela cidadania no campo
político, encontravam-se enormes discrepâncias no que tange ao campo social. Os trabalhadores
das indústrias, reformuladas pela Revolução Industrial, eram explorados de forma subumana. O
trabalho infantil era algo muito corriqueiro nas citadas indústrias. Nesse contexto, a classe
trabalhadora uniu-se, tornando-se força política, o que faz emergir os designados movimentos
socialistas. Mais uma vez, novos desafios são lançados ao Estado Moderno, que procura
novamente adaptar-se frente às novas questões21.
18
BERUTTI-FARIA-MARQUES, op. cit., p. 142.
COMPARATO, op. cit., p. 25.
20
COMPARATO, op. cit., p. 25.
21
BERUTTI-FARIA-MARQUES, op. cit., p. 152.
19
www.koreuropa.eu
157
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
O Estado torna-se intervencionista e ganha características sociais, passando a ser
denominado “Welfare State” ou Estado de Bem-Estar Social, no qual passam a ser reconhecidos
novos direitos sociais e econômicos à sociedade22.
A idéia tônica da nova cidadania consiste em fazer com que o povo tome parte do processo
de seu desenvolvimento e promoção social, através da participação. O próprio conceito de
cidadania, que vem se modificando através dos tempos, induz à necessidade da participação, o
que faz florescer bases democráticas no até então rígido terreno estatal. FÁBIO KONDER
COMPARATO, explica essa situação da seguinte forma:
A relevância da atuação administrativa do Estado Social é um fato sobejamente conhecido. Convém, no
entanto, advertir para a falsa dicotomia que se procura hoje inculcar, no tocante à distribuição eqüitativa do bemestar social, entre o estatismo e o privatismo. O princípio da participação popular permite evitar esses extremos,
introduzindo uma linha de ação mais democrática na administração da coisa pública 23.
Porém, o modelo social obteve determinados desvios em sua real função, tornando-se
incapaz de acompanhar as intensas mudanças sociais e as transformações político-econômicas
por que passava o mundo. Tais mudanças desestruturaram o Estado de Bem-Estar Social, que por
volta dos anos 70 entra em crise, proporcionando o advento do chamado Neoliberalismo. O
surgimento desta ideologia acaba por desequilibrar a economia, aumentando o custo social para a
sociedade, uma vez que o Estado passa a privatizar e aumentar impostos, visando uma solução
para a crise a partir do seu minimalismo24.
Em novembro de 1989, ocorre uma reunião em Washington, capital dos Estados Unidos
entre funcionários do governo norte-americano e dos organismos financeiros internacionais ali
sediados, como o Fundo Monetário Internacional e o Banco Mundial. Às conclusões dessa
reunião deu-se a denominação informal de “Consenso de Washington”, na qual se ratificou “a
proposta neoliberal que o governo norte-americano vinha insistentemente recomendando, por
22
WOLKMER, Pluralismo Jurídico, 3ª ed, São Paulo, 2001, p. 49.
COMPARATO, op. cit., p. 30.
24
WOLKMER, op. cit., p. 58.
23
www.koreuropa.eu
158
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
meio das referidas entidades, como condição para conceder cooperação financeira externa,
bilateral ou multilateral”25.
As propostas do Consenso de Washington nas 10 áreas a que se dedicou convergem para dois objetivos
básicos: por um lado, a drástica redução do Estado e a corrosão do conceito de Nação; por outro lado, o máximo de
abertura à importação de bens e serviços e à entrada de capitais de risco. Tudo em nome de um grande princípio: o da
soberania absoluta do mercado auto-regulável nas relações econômicas tanto internas quanto externas26.
Segundo CHOSSUDOVSCKY, inaugura-se uma “nova divisão de autoridade”, agora nas mãos
de instituições que agem em caráter supranacional, operando dentro do sistema capitalista global
como órgãos reguladores da política econômica dos países em desenvolvimento. Assim, o
próprio sistema democrático desses países é colocado a prova, já que “os eleitos para altos cargos
públicos atuam cada vez mais como burocratas e os credores do Estado tornaram-se depositários
do poder político real, agindo discretamente nos bastidores”27.
O mesmo cardápio de austeridade orçamentária, desvalorização, liberalização do comércio e privatização é
aplicado simultaneamente em mais de cem países devedores. Estes perdem a soberania econômica e o controle sobre
a política monetária e fiscal; seu Banco Central e Ministério da Fazenda são reorganizados (freqüentemente com a
cumplicidade das burocracias locais); suas instituições são anuladas e é instalada uma ‘tutela econômica’. Um
‘governo paralelo’ que passa por cima da sociedade civil é estabelecido pelas instituições financeiras internacionais
(IFIs). Os países que não aceitam as ‘metas de desempenho’ do FMI são colocados na lista negra. (...)A
reestruturação da economia mundial sob a orientação das instituições financeiras sediadas em Washington nega cada
vez mais aos países em desenvolvimento a possibilidade de construir uma economia nacional: a internacionalização
da política macroeconômica transforma países em territórios econômicos abertos e economias nacionais em
‘reservas’ de mão-de-obra barata e de recursos naturais28.
O Estado Neoliberal nada mais é do que um resgate da visão Liberal do Estado Moderno, e
atua sob o lema “menos Estado, mais mercado”29. Veja-se que este fator passa a ser agravado em
épocas de crise financeira por que passa o modelo europeu de bem estar social. Os Estados se
25
BATISTA JÚNIOR, O Consenso de Washington: A Visão Neoliberal dos Problemas Latino-Americanos, 2. ed., São
Paulo, 1994, p. 5.
26
Idem, p. 26-27.
27
CHOSSUDOVSKY, A Globalização da Pobreza: Impactos das Reformas do FMI e do Banco Mundial, Tradução por
MARYLENE PINTO MICHAEL, 1. ed., São Paulo, [s.d.], p. 20.
28
CHOSSUDOVSKY, A Globalização da Pobreza: Impactos das Reformas do FMI e do Banco Mundial, Tradução por
MARYLENE PINTO MICHAEL, 1. ed. São Paulo, [s.d.], p. 28 e 30.
29
BEDIN, op. cit., p. 129.
www.koreuropa.eu
159
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
vêem obrigados a fazer drásticos cortes nos gastos sociais e com a máquina pública, com vistas a
reequilibrar seu sistema financeiro e refinanciar suas dívidas.
Nesse contexto, deduz-se facilmente porque as propostas neoliberais – além de defenderem
a omissão do Estado, a liberdade absoluta do mercado e a abertura da economia nacional ao
capital pela privatização de empresas e serviços públicos – também defendem a
desregulamentação e flexibilização das normas que tratam dos direitos sociais, para, com essa
prática, debilitar e até extinguir direitos conquistados tão duramente durante séculos de evolução
histórica. Dessa forma, criam um ambiente de concorrência, para o qual não faz sentido nem
manter mecanismos institucionais redutores da desigualdade social, nem assegurar os direitos
sociais.
Contemporaneamente não é possível analisar a situação estatal e a da cidadania fora da
ordem globalizada, que produz grandes efeitos sobre a soberania estatal e sobre a população em
si, que, indubitavelmente, é a maior prejudicada nesse modelo de Estado desvencilhado de suas
funções básicas. As políticas nacionais passam a estar à margem dos movimentos internacionais
de capital, e a necessidade de reequilíbrio financeiro leva países que por décadas atuaram com
grandes déficits orçamentários a conter seus gastos e cortar despesas, em especial nas políticas
públicas sociais.
A expressão cidadania, atualmente, está inserida em todo o mundo, com sentidos e
intenções diferentes. Possui um caráter de “estratégia política”30, pelo fato de expressar e
responder a um conjunto de desejos, interesses, aspirações, de uma imensa parte da sociedade,
porém não se confundindo com toda a sociedade. Sem dúvida, essa noção de cidadania deriva
dos movimentos sociais enquanto engendradores de uma nova forma de inserção de espaços além
das fronteiras nacionais, para a ascensão dos cidadãos aos meios de participação previstos, e com
isso buscar intervir nos rumos das decisões políticas que digam respeito aqueles diretamente
atingidos por elas, independente das fronteiras especiais e temporais.
30
DAGNINO (org.), Anos 90: Política e Sociedade no Brasil, São Paulo, 1994, p. 103.
www.koreuropa.eu
160
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
3. O modelo europeu e a questão da cidadania: haverá um espaço público
europeu?
Um dos objetivos da União Europeia encontra-se no artigo B do Tratado da União
Europeia, e é o do “reforço da defesa dos direitos e dos interesses nacionais dos seus Estadosmembros, mediante a instituição de uma cidadania da União; (...)”. Logo, denota-se a
preocupação fundamental em concretizar um nível de cidadania capaz de abraçar toda a União
Europeia, indo além das fronteiras dos estados-membros que a compõe.
Na noção de cidadania europeia encontra-se o direito a livre circulação e permanência no
território dos Estados-membros de qualquer cidadão (artigo 8. A, n. 1); bem como abarca também
um conjunto de direitos políticos, como por exemplo o direito eleitoral ativo e passivo nas
eleições municipais (artigo 8. B, n. 1); nas eleições para o Parlamento Europeu no Estadomembro de sua residência (artigo 8, B, n. 2); direito de petição ao Parlamento Europeu (artigo 8.
D) e direito de queixa ao Provedor de Justiça (artigo 8, D, 2. parágrafo).
Entretanto, sabe-se que o espaço público europeu não traz nenhum debate público nas
instituições europeias. Não há um espaço público real na Europa, em que a cidadania participe,
decidindo. Não há um reconhecimento do pluralismo do conflito e nem uma articulação deste
conflito mediante mediações políticas. O que há é uma defesa de interesses nacionais nos órgãos
supranacionais.
A teoria de INGOLF PERNICE do constitucionalismo multinível parte da idéia de
transferência de legitimidade democrática dos cidadãos de cada Estado Membro para a União
Europeia e suas instituições31. Porém, as decisões nos órgãos comunitários estão umbilicalmente
ligadas às estruturas estatais, sendo muito difícil esta transferência de legitimidade. Trata-se de
uma perda de qualidade democrática, em verdade.
31
PERNICE, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European Constitution-Making revisited?, in,
Common Market Law Review, 1999, n. 36. Disponível em: http:www.whi-berlin.de/documents/whi-paper0499.pdf.
Acesso em 04 nov. 2010, p. 707.
www.koreuropa.eu
161
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Os setores eurocéticos afirmam que ainda não está presente uma identidade, um povo
europeu. Falta, portanto, o sujeito do processo constituinte, o coletivo singular de um povo, capaz
de se definir a si próprio como uma nação democrática. E nessa senda o conceito de povo
também é bastante problemático. Autores entendem que é este conceito de povo que une os
países, e como não há um povo europeu, não é possível uma constituição europeia32. Porém,
povo não é um conceito coerente para a idéia de sociedade multicultural e pluralista, como a
europeia. A categoria povo dá a idéia de uniformidade, engloba e faz homogêneo um conjunto de
pessoas. Porém, na União Europeia não há uniformidade, singularidade, mas sim uma sociedade
pluralista e multicultural com uma identidade de interesses33.
Nas palavras de DIETER GRIMM34, a língua também é um elemento importante para se
construir um modelo político comum, não havendo essa característica na Europa. Logo, para o
autor, ainda não há um povo europeu nem estruturas identitárias comuns, como um espaço
público promotor de uma identidade coletiva. Logo, seria muito difícil criar um espaço
democrático comum, em que necessidades e interesses sociais pudessem ser debatidos por
amplos setores da sociedade. E os setores eurocéticos confirmam este pensamento, de que a falta
de uma língua comum dificultaria um debate público europeu. Da mesma forma, afirmam não
haver meios de comunicação nem partidos políticos europeus, componentes necessários para a
criação de um espaço público europeu35. Tudo isso complicaria a construção de uma comunidade
supranacional.
32
GRIMM, Constituição e Política, Tradução de GERALDO DE CARVALHO, Belo Horizonte, 2006.
HABERMAS, Por qué Europa necesita uma Constitución, in, Revista Bimestral de Pensamiento Social, La
Factoría,
2005,
n.
25-26,
p.
1-11.
Disponível
em:
http://www.revistalafactoria.eu/imprimir.php?tipo=articulo&id=274. Acesso em 05 nov. 2010, p. 6.
34
GRIMM, Constituição e Política, Tradução de GERALDO DE CARVALHO, Belo Horizonte, 2006.
35
A criação de um espaço público europeu passa necessariamente pela revisão das agendas dos meios de
comunicação de massa. O interesse dos cidadãos europeus nas questões que digam respeito a União Europeia é algo
que precisa ainda ser despertado. Nesse sentido são as conclusões do CES – Conselho Econômico e Social de
Portugal, conforme artigo 92 da Constituição Portuguesa. Veja-se: “O aparente desinteresse e a conseqüente
participação limitada dos cidadãos europeus no processo de construção europeia, podem estar também relacionados
com o facto de as problemáticas comunitárias estarem muitas vezes em plano secundário nas agendas dos meios de
comunicação de massa, que deverão ser sensibilizados para a necessidade e a importância de ajudarem ao
33
www.koreuropa.eu
162
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Entretanto, para HABERMAS, a ideia de constituição europeia não exige necessariamente
uma língua oficial36. Por exemplo, na Suíça há quatro línguas oficiais, e isso não impede que haja
uma comunidade constitucional. Na Espanha a diversidade de línguas também não impede uma
constituição comum, com autonomia política para as regiões-autonômas.
Dessa forma, o autor defende os seguintes pré requisitos funcionais de um projeto de União
Europeia, constituída democraticamente: a) a necessidade de um espaço público conjunto,
construído a partir de elementos de identidade capazes de construir uma identidade comum, “una
red que dé a los ciudadanos de todos los Estados miembros la misma oportunidad de tomar parte
en un amplio proceso de comunicación política concreta”; b) a emergência de uma sociedade
civil europeia e, por fim; c) a formação de uma cultura política que possa ser compartilhada por
todos os cidadãos europeus. Tais elementos seriam diferentes daqueles da modernidade,
tradicionais, como a língua e o povo37.
Concorda-se com o argumento habermasiano. O conceito de cidadania precisa ser
atualizado, fugir daquela visão tradicional da modernidade. Fundar uma cidadania de caráter
multilateral, a qual, na opinião de BALDOMERO OLIVER LEÓN38, geraria uma relação direta dos
cidadãos com a União Europeia e com as instituições comunitárias. Uma cidadania a ser
reconhecida pelos ordenamentos jurídicos dos Estados Membros. Afinal, o cidadão deve ser o
sujeito e fim mesmo da existência da União.
A cidadania europeia é reconhecida hoje por algumas iniciativas como, por exemplo, o
princípio geral de não discriminação por razão de nacionalidade, o qual assegura, mesmo que em
âmbito muito limitado, a participação política nas eleições ao Parlamento Europeu39. Também
nos mecanismos de âmbito local para possibilitar a votação dos residentes nas eleições
autárquicas ou municipais, decorrência do estabelecido no artigo 8, B, n. 1 do Tratado da União
esclarecimento das opiniões públicas. SERRA (Relator), O Futuro da Europa (estudo), Série “Estudos e
Documentos”, Lisboa, 2005, p. 23.
36
HABERMAS, op. cit., p. 5-8.
37
HABERMAS, op. cit..
38
LEÓN, El Derecho de Sufragio como Elemento Estructural de la Ciudadania Europea, in, Revista de Derecho
Constitucional Europeo, n. 4, 2005, p. 197-218. Disponível em: http://www.ugr.es/~redce/. Acesso em 05 nov. 2010.
www.koreuropa.eu
163
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Europeia, o qual aponta para a capacidade eleitoral ativa nas eleições municipais (fenômeno que
já era concedido em alguns países europeus, como em Portugal)40. E, por sua vez, o direito de
votar e de ser eleito para representante do Parlamento Europeu do seu país de residência 41. Mas
em eleições nacionais esse problema se agrava, eis que só os nacionais têm direito a voto, mesmo
residindo no estrangeiro. Porém, apenas estes mecanismos de democracia representativa são
poucos para constituir uma sociedade essencialmente democrática. É preciso avançar para uma
maior participação dos cidadãos nos processos políticos europeus.
A proposta é a ampliação do conceito de cidadania, para todos os que vivem na Europa,
independente de sua nacionalidade, possam participar das decisões comunitárias, sem suplantar a
cidadania de cada Europeu em seu país. É preciso manter a ideia de identidade nacional e, ao
mesmo tempo, fazer surgir a ideia de cidadania europeia, a partir dos estatutos jurídicos42.
A formação dos Estados modernos do século XIX permitiu a construção de identidades
nacionais, não tanto a partir da vontade dos indivíduos, mas de uma ação do poder político
dirigida a esse sentido, voltada à formação de uma Nação. Porém, na União Europeia, a
construção de uma identidade comum não pode ser dada da mesma forma, pois não pode
39
LEÓN, op. cit., p. 197-218.
A aplicação deste artigo não tem sido muito pacífica nos países europeus. Conforme MARCELO REBELO DE SOUSA,
como por exemplo o caso dos cidadãos portugueses residentes em Luxemburgo, os quais não puderam exercer o
direito de participação nas eleições locais e mesmo nas eleições para o Parlamento Europeu. SOUSA, A Cidadania
Europeia – Nível de Concretização dos Direitos, Possibilidade de Alargamento e suas Implicações, in PEREIRA et al,
Em Torno da Revisão do Tratado da União Europeia, Coimbra, 1997, p. 123.
41
SÓNIA GODINHO ressalta que o Parlamento Europeu, órgão com funções legislativas, orçamentais, consultivas e de
controle político, “é o único que goza de legitimidade democrática directa, na medida em que é eleito por sufrágio
universal e directo dos cidadãos europeus. A representação dos cidadãos é feita com base num princípio de
proporcionalidade degressiva com um limite mínimo de 6 deputados e um limite máximo de 96 por cada Estado,
sendo que a composição máxima do PE será de 750 deputados.” Para a autora, “o reforço dos seus poderes,
resultante da sua equiparação ao Conselho como órgão legislativo e orçamental (art. I-20, n. 1) e principalmente do
estabelecimento do procedimento de co-decisão (processo legislativo ordinário nos termos adoptados no art. I-34, n.
1) como regra na aprovação dos actos legislativos europeus constitui um avanço indiscutível de democracia no seio
da União.” Porém, a mesma autora alerta que, apesar disso, ainda subsistem decisões legislativas europeias que
prescindem do acordo do Parlamento Europeu, ou que tem sua participação meramente consultiva. GODINHO,
Federalismo e Constituição Europeia: será a Constituição Europeia uma Constituição Federal?, in MARTINS
(Coord.), Constitucionalismo Europeu em Crise? Estudos sobre a Constituição Europeia, Lisboa, 2006. p. 54-55.
42
BALAGUER CALLEJÓN, Los Tribunales Constitucionales en el Processo de Integración Europea, in, Revista de
Derecho Constitucional Europeo, 2007, n. 7. Disponível em: http://www.ugr.es/~redce/. Acesso em 05 nov. 2010.
40
www.koreuropa.eu
164
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
suplantar as identidades nacionais, substituindo-as. A construção de uma identidade europeia
deve ser dada a partir da ideia de cidadania e de pertencimento, de um estatuto jurídico comum43.
A partir das conclusões de HABERMAS, entende-se que é preciso avançar, no sentido de
criação de um espaço público europeu, uma cidadania europeia, uma unidade entre os cidadãos
integrantes deste grande bloco. Nas palavras do autor “la opacidad en los procesos de toma de
decisión a escala europea y la ausencia de posibilidad de participación em ellos produce
desconfianza entre los ciudadanos44. É preciso constituir-se um vínculo de solidariedade entre as
pessoas, uma identidade comum capaz de ser projetada em suas instituições, a fim de que se
desenvolva um sentido de pertencimento e participação política pelos cidadãos ao nível de
instituições européias e não, apenas, nacionais.
De nada adianta falar de uma constituição europeia quando não se constrói conjuntamente
um sistema democrático, um espaço em que haja um debate público sobre problemas comuns, em
que sejam mediados os conflitos. A constituição não é fruto apenas de uma vontade política, nem
pode, em Estados Democráticos de Direito, ser imposta. São necessárias condições políticas,
culturais, jurídicas e sociais para que se permita falar de um direito constitucional comum. Talvez
ainda não seja a hora de haver uma constituição europeia, eis que tais condições ainda não
existem, bem como inexiste um espaço público de discussão e interrrelação pessoal entre os
cidadãos europeus e seus representantes. Porém, é preciso caminhar para a criação de um espaço
público de decisões fundamentais na Europa, combatendo a fragmentação da cidadania europeia
nos espaços públicos estatais45.
O problema da Europa hoje são as competências que deve assumir para tomar as decisões
fundamentais capazes de fazer frente à globalização. E para isso precisa adotar mecanismos ágeis
e rápidos de decisão, com a transferência maior de competências para as instituições europeias, a
qual necessariamente deve vir unida a uma maior democratização dessas instituições, eis que o
43
BALAGUER CALLEJÓN, La Constitución Europea trás El Consejo Europeo de Bruxelas y El Tratado de Lisboa, in,
Revista de Derecho Constitucional Europeo, 2007, n. 8, p. 11-41. Disponível em: http://www.ugr.es/~redce/. Acesso
em 05 nov. 2010, p. 33-35.
44
HABERMAS, op. cit., p. 6.
www.koreuropa.eu
165
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
déficit democrático da Europa é algo bastante presente. É uma questão não só de funcionalidade e
operacionalidade como também de democracia.
4. Considerações finais
Frente a todas as considerações, fica clara a existência de um déficit democrático na União
Europeia, provocado pelo descaso à cidadania, visto que as instituições comunitárias, por tentar
subsistir a uma ordem globalmente imposta, deixam à deriva o cidadão, seus anseios e
perspectivas, tornando-o uma engrenagem a mais da máquina comunitária, sendo que ele é a peça
principal desta engrenagem, ou seja, o formador da sociedade.
Há uma situação crescente de declínio da governabilidade tanto das democracias avançadas
quanto das democracias em desenvolvimento, ocasionada pela crise fiscal e pelo processo de
globalização, que desterritorializa e potencializa que novas instituições de poder, grande parte
delas alheias aos estados nacionais, passem a desestruturar toda a teia institucional constituída na
modernidade. A perda da governabilidade e do apoio da sociedade civil por um governo é um
problema grave, senão fatal, já que a governabilidade é confundida com a legitimidade do poder,
ou seja, com o apoio dos governantes perante a sociedade civil.
Sabe-se que tradicionalmente, nos regimes democráticos, a governabilidade é obtida a partir
dos seguintes fatores: a) da capacidade de suas instituições jurídico-políticas intermediar os
interesses estatais e os interesses da sociedade civil; b) do oferecimento de medidas de
responsabilização e accountability por parte dos políticos e dos burocratas em favor da sociedade;
c) de uma limitação das demandas sociais e do seu atendimento pelo governo; d) da existência de
um contrato social básico, nos moldes hobbesianos, capaz de garantir às sociedades atuais
padrões básicos de legitimidade e governação46.
Agora, é preciso avançar para uma maior governabilidade na União Europeia,
aprofundando e incrementando instituições jurídico-políticas capazes de intermediar os interesses
45
BALAGUER CALLEJÓN, La Constitución, cit., p. 20.
www.koreuropa.eu
166
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
sempre conflitantes internos de cada país, de seus diversos grupos sociais, regiões e etnias, como
também os interesses heterogêneos das nações. Aumentar o espaço de participação dos cidadãos
europeus na gestão e no controle dos órgãos e instituições supranacionais. Ou seja, é preciso
manter o modelo europeu de democracia, de accountability e de respeito aos direitos
fundamentais, adequando-o agora para o âmbito supranacional.
Há uma transformação, em que não se pode mais aplicar no processo de integração europeia
modelos antigos. É preciso criar novas categorias, porque se está frente de uma nova realidade. E
é necessário compreendê-la para, a partir daí elaborar estas novas categorias.
Alguns afirmam que a, a partir da crise fiscal deste início de século, a Europa está em parte
estagnada, e precisa encontrar formas criativas de avançar. Para PETER SLOTERDIK, está em voga
a forma de transição neste novo milênio da modernidade, capaz de se chegar a “uma nova criação
de forma política, para lá do Império – acima do Império – acima dos Estados-nação -, e então
uma coisa se torna clara: a política do futuro depende em larga medida de uma modernização da
função visionária ou profética da inteligência”47.
Para fazer frente às novas demandas, é preciso aumentar o poder político, o âmbito de
competência da União Europeia, bem como encontrar novas formas de participação cidadã e
accountability de seus representantes, com vistas a superar o déficit democrático dos órgãos
comunitários. Esta é a única saída para os Estados europeus manterem seu sistema de vida e sua
cultura constitucional e política, com a garantia dos direitos fundamentais, em especial dos
direitos sociais.
Nesse contexto há de interpretar-se a cidadania europeia paralela à cidadania dos Estadosmembros e desta dependente, pois os direitos que a integram serão reconhecidos
automaticamente a quem for nacional de um Estado-membro. Nas palavras de MARCELO REBELO
DE
SOUSA, “o acolhimento dos direitos políticos dos cidadãos europeus, bem como do próprio
46
PEREIRA, A reforma do estado nos anos 90: lógica e mecanismos de controle, Brasília, 1997, p. 45-46.
SLOTERDIK, Se a Europa Acordar. Reflexões sobre o programa duma potência mundial no termo de sua ausência
política, Trad. de MANUEL RESENDE, Lisboa, 2008, p. 51.
47
www.koreuropa.eu
167
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
conceito de cidadania europeia, representa um passo na evolução do Direito Comunitário e de
todo o processo de integração europeia”48.
Logo, a democratização da União Europeia reclama instituições políticas capazes de
representar e/ou intermediar interesses entre instituições europeias e sociedade civil, canais de
ligação entre a representação e a cidadania, a fim de proporcionar uma relação dialógica entre os
atores envolvidos e decisões mais afinadas com o interesse público.
Sabe-se que o desafio de consolidação da democracia e o seu aprendizado é um caminho
árduo e tortuoso, a ser conquistado dia após dia. No dizer de CLAUDE LEFORD, seguido por
MARILENA CHAUÍ, democracia é uma constante invenção, a ser inventada no cotidiano, criandose novos direitos e reafirmando-se os já estabelecidos, reinstituindo-se o social e o político. Tem
um caráter aberto e subversivo, questionando suas instituições e se recriando a todo o momento49.
Devido a tais fatores, novas alternativas devem ser buscadas para reformular o atual quadro
social. A cidadania deve sofrer uma renovação em sua configuração clássica, atrelada ao Estado
Nacional. Deverá estar assentada em critérios democráticos de participação política que não a
confine apenas na representação e no ato de votar, tanto nas instituições nacionais como
comunitárias. Implica, portanto, em uma articulação entre democracia participativa e
representativa, sendo que para esta ser possível, é necessário que o cenário político comunitário e
nacional seja redefinido e ampliado.
Uma das razões fundamentais da sedução que a noção de uma nova cidadania europeia
exerce hoje em dia é a possibilidade de que ela traga respostas aos desafios deixados pelo
fracasso tanto de concepções teóricas, como de estratégias políticas que não foram capazes de
articular essa multiplicidade de dimensões que, nas sociedades contemporâneas, integram hoje a
busca de uma vida melhor. Dessa capacidade de articular os múltiplos campos onde se trava hoje
48
SOUSA, op. cit., p. 128.
LEFORT, A invenção democrática: os limites do totalitarismo, São Paulo, 1983; CHAUÍ, Cultura e democracia, 7.
ed., São Paulo, 1997, p. 209.
49
www.koreuropa.eu
168
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
a luta pela construção da democracia e pelo seu aprofundamento, depende o futuro da nova
cidadania europeia enquanto estratégia política, social e econômica.
www.koreuropa.eu
169
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
5. Referências Bibliográficas
BATISTA JÚNIOR, O Consenso de Washington: A Visão Neoliberal dos Problemas LatinoAmericanos, 2. ed., São Paulo, 1994
BEDIN, Estado, Cidadania e Globalização do Mundo: Algumas Reflexões e Possíveis
Desdobramentos, in OLIVEIRA, ODETE MARIA DE (coord.), Relações Internacionais e
Globalização, Ijuí, 1997
BERUTTI, FARIA, MARQUES, História, Vol. 3, Belo Horizonte, 1993
BOBBIO, Direito e Estado no Pensamento de Emanuel Kant, 3ª ed. São Paulo, 2000
BALAGUER CALLEJÓN, La Constitución Europea trás El Consejo Europeo de Bruxelas y El
Tratado de Lisboa. Revista de Derecho Constitucional Europeo, n. 8, 2007, p. 11-41
BALAGUER CALLEJÓN, Los Tribunales Constitucionales en el Proceso de Integración Europea.
Revista de Derecho Constitucional Europeo, n. 7, 2007
CHAUÍ, Cultura e democracia, 7. ed., São Paulo, 1997
CHOSSUDOVSKY, MICHEL. A Globalização da Pobreza: Impactos das Reformas do FMI e do
Banco Mundial. Tradução por MARYLENE PINTO MICHAEL. 1. ed. São Paulo: Moderna, [s.d.]
COMPARATO, A Nova Cidadania, São Paulo, n. 28/29, 1993, p. 85-106
SILVEIRA,
CLÁUDIA
MARIA
TOLEDO.
Cidadania.
http://www1.jus.com.br/doutrina/texto.asp?id=78 Acesso mar. 2012
Disponível
em:
DAGNINO, Anos 90: Política e Sociedade no Brasil, São Paulo, 1994
GODINHO, Federalismo e Constituição Europeia: será a Constituição Europeia uma Constituição
Federal?, in MARTINS, ANA MARIA GUERRA (Coord.), Constitucionalismo Europeu em Crise?
Estudos sobre a Constituição Europeia, Lisboa, 2006
GOULART, Sociedade e Estado, in ROCHA, LEONEL SEVERO (org), Teoria do Direito e do Estado.
Porto Alegre, 1994
GRIMM, DIETER, Constituição e Política, Tradução de GERALDO DE CARVALHO, 2006
HABERMAS, JÜRGEN. Por qué Europa necesita uma Constitución, in Revista Bimestral de
Pensamiento Social. La Factoría, n. 25-26, 2005. p. 1-11
PERNICE, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European ConstitutionMaking revisited?, in Common Market Law Review, n. 36, 1999
LEFORT, A invenção democrática: os limites do totalitarismo, São Paulo, 1983
www.koreuropa.eu
170
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
OLIVIER LEÓN, El Derecho de Sufragio como Elemento Estructural de la Ciudadania Europea, in
Revista de Derecho Constitucional Europeo, n. 4, 2005, p. 197-218
MELLO, Curso de Direito Internacional Público, Vol. I, 11ª ed. Rio de Janeiro, 1997
NASCIMENTO, Lições de História do Direito, 3ª ed. Rio de Janeiro, 1984
PEREIRA, A reforma do estado nos anos 90: lógica e mecanismos de controle, Brasília, 1997
SERRA, (Relator). O Futuro da Europa (estudo). Série “Estudos e Documentos”. Lisboa, 2005
SLOTERDIK, Se a Europa Acordar. Reflexões sobre o programa duma potência mundial no termo
de sua ausência política, Trad. de MANUEL RESENDE, Lisboa, 2008
SOUSA, A Cidadania Europeia – Nível de Concretização dos Direitos, Possibilidade de
Alargamento e suas Implicações, in PEREIRA, et al. Em Torno da Revisão do Tratado da União
Europeia, Coimbra, 1997
WOLKMER, Pluralismo Jurídico, 3ª ed. São Paulo, 2001
www.koreuropa.eu
171
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
TRENT’ANNI DI REPUBBLICA TURCA DI CIPRO
DEL NORD* (Almeno sono cessate le violenze)
Augusto Sinagra
Professore Ordinario di Diritto dell’Unione europea nell’Università “Sapienza” di Roma
ABSTRACT: Il 15 novembre prossimo si compirà il 30° anniversario della proclamazione della Repubblica Turca
di Cipro del Nord, nella pienezza e indipendenza delle sue funzioni giuridiche e politiche; proclamazione di
indipendenza unanimemente votata il 15 novembre 1983 dal Parlamento turco-cipriota, espressione della libera
volontà popolare della Comunità turca di Cipro.
Si tratta di una circostanza che dovrebbe indurre a riflettere essenzialmente e preliminarmente su due punti: il
primo è che l’esistenza dello Stato turco-cipriota non può essere negata perché diversamente significherebbe
negare la realtà (per finalità politiche di illecita sopraffazione) e che da ciò deriva come diretto corollario che
rispetto alla “questione cipriota” non c’è da ricercare ancora una soluzione. La soluzione è stata adottata il 15
novembre 1983, e dopo ormai trent’anni tale soluzione si è consolidata e non può essere messa in discussione.
Al più potrà porsi il problema di ricercare una diversa soluzione per la cosiddetta “questione cipriota”, quale
potrebbe essere quella di uno Stato federale fortemente decentrato e con competenze centrali relative alle sole
politiche coessenziali alla statualità (monetaria, estera, di difesa)
PAROLE CHIAVE: Cipro turca; questione cipriota; riconoscimento internazionale; secessione; Repubblica Turca
di Cipro del Nord; Trattato di garanzia del 1960
Il 15 novembre prossimo si compirà il 30° anniversario della proclamazione della
Repubblica Turca di Cipro del Nord, nella pienezza e indipendenza delle sue funzioni
giuridiche e politiche; proclamazione di indipendenza unanimemente votata il 15 novembre
1983 dal Parlamento turco-cipriota, espressione della libera volontà popolare della Comunità
turca di Cipro.
Si tratta di una circostanza (che è un fatto, non una opinione) che dovrebbe indurre a
riflettere essenzialmente e preliminarmente su due punti: il primo è che l’esistenza dello Stato
turco-cipriota non può essere negata perché diversamente significherebbe negare la realtà (per
finalità politiche di illecita sopraffazione) e che da ciò deriva come diretto corollario che
rispetto alla “questione cipriota” non c’é da ricercare ancora una soluzione. La soluzione è
stata adottata, come detto, il 15 novembre 1983, e dopo ormai trent’anni tale soluzione si è
consolidata e non può essere messa in discussione. Al più potrà porsi il problema di ricercare
una diversa soluzione per la cosiddetta “questione cipriota”, quale potrebbe essere quella di
*
Studio apparso in rete il 2 gennaio 2013 sulla Rivista “Eurasia”.
www.koreuropa.eu
172
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
uno Stato federale fortemente decentrato e con competenze centrali relative alle sole politiche
coessenziali alla statualità (monetaria, estera, di difesa).
Tale soluzione fu proposta con il famoso piano Annan che presupponendo
correttamente l’esistenza di una piena e legittima statualità turco-cipriota nell’Isola,
sottoposto a referendum fu approvato a larghissima maggioranza dalla Comunità turcocipriota, ma respinto con pari larghissima maggioranza dalla Comunità greco-cipriota.
La verità, che pur si tace, è che i greco-ciprioti pretendono di trattare -se pur con
larghezza (ma c’é poi da fidarsi dei greci?)- la Comunità turco-cipriota dell’Isola come
minoranza. Al contrario la Comunità turco-cipriota deve essere intesa come componente
politicamente, storicamente e giuridicamente pari (anche se non numericamente) alla
Comunità greco-cipriota; in altri termini, come Comunità co-fondatrice della Repubblica di
Cipro creata con l’Accordo tri-partito anglo-greco-turco di Zurigo del 1960 che, ponendo fine
al dominio coloniale inglese (rimangono tuttavia sull’Isola ancora oggi due munite basi
militari britanniche), riconosceva alla Comunità turco-cipriota dell’Isola parità politica,
storica e giuridica rispetto alla Comunità greco-cipriota, creando la Repubblica unitaria di
Cipro su base bi-comunitaria e bi-zonale.
L’altro aspetto sul quale occorre riflettere nell’occasione del trentesimo anniversario
della creazione della Repubblica Turca di Cipro del Nord, è che, appunto, da trent’anni
sull’Isola sono cessate le violenze e i massacri greco-ciprioti in danno dei turco-ciprioti. E
questo non pare un risultato da poco, il cui merito va ascritto al pur tardivo (se fosse avvenuto
prima, si sarebbero risparmiate molte altre vite umane) intervento militare turco del 20 luglio
e 8 agosto 1974, deciso per la deliberata inerzia delle Autorità britanniche inutilmente
sollecitate dal Governo di Ankara, che pure avevano il dovere di intervenire a difesa
dell’ordine costituzionale di Cipro e dell’integrità fisica delle persone come previsto dall’art.
14 del Trattato di garanzia del 1960 che in tal senso facoltizzava le tre Potenze garanti: non
intervenne il Governo di Atene la cui allora Giunta militare aveva proprio essa scatenato il
colpo di Stato del 5 luglio 1974 ponendo a Capo dello Stato il famigerato Nikos Sampson,
ricercato per pluriomicidi; non intervenne il Governo di Londra per evidente opportunismo
politico; non poteva che intervenire, dunque, il Governo di Ankara. L’intervento di questo fu
www.koreuropa.eu
173
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
qualificato come legittimo con Risoluzione del 26 luglio 1974 dell’Assemblea parlamentare
del Consiglio d’Europa.
Si è detto che cessarono i massacri scatenati dalle Forze armate greche e greco- cipriote
e dalle forze terroristiche greche dell’EOKA e, poi, EOKA bis. Azioni finalizzate alla
realizzazione della megali idea dell’enosis, cioè l’annessione dell’Isola di Cipro alla Grecia.
Esattamente come i greci fecero a Creta nel 1904 dove la maggioritaria popolazione turca fu
interamente sterminata o costretta per il terrore a fuggire in Turchia e in altri luoghi.
Ora, da parte greca, oltre alla abnorme pretesa di trattare la Comunità turco-cipriota
come minoranza, si pretende anche di porre termine alla Garanzia militare del Governo di
Ankara: ciò senza offrire alcuna credibile garanzia circa il non ripetersi del tentativo di
soluzione cretese a Cipro.
Da parte greca si fa valere l’eccessiva presenza militare turca a Cipro in funzione di
garante dell’integrità e dell’indipendenza dello Stato, oltre che dell’integrità fisica degli
abitanti turchi e turco-ciprioti, ma non si dice che quanto alla sua politica difensiva (che nel
passato è stata ben chiaramente aggressiva) le Autorità greco-cipriote seguono il modello
elvetico e cioè dopo il normale servizio militare le persone vengono congedate
temporaneamente con facoltà di portare con se le armi, con successivi e ripetuti richiami per
addestramento e aggiornamento nell’uso delle nuove armi con la conseguenza che oggi, come
ieri e in qualsiasi momento, le Autorità greco-cipriote possono mettere in campo circa 92 mila
soldati ready combat!
La legittimità dell’esistenza dell’indipendente Repubblica Turca di Cipro del Nord trova
il suo fondamento anche nella pertinente Risoluzione della Organizzazione per la
Cooperazione e la Sicurezza in Europa che afferma la legittimità dell’autodeterminazione dei
popoli e del suo eventuale successivo e conclusivo atto di secessione, sulla base della
verificata situazione che vede una etnia presente sul territorio e nel quadro di uno Stato
unitario non pienamente partecipe della vita politica, democratica ed amministrativa dello
Stato stesso. E tale era la situazione della Comunità turco-cipriota sull’Isola quando fu
proclamata la Repubblica Turca di Cipro del Nord. Con l’aggravante specifica, nel caso di
Cipro, di una preordinata, deliberata e violenta esclusione fin dai primissimi anni ’60 della
Comunità turco-cipriota da ogni partecipazione politica e amministrativa alla vita dello Stato;
www.koreuropa.eu
174
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
così come specificamente disponeva la Costituzione di Cipro del 1960. Non può, quindi,
dubitarsi del legittimo esercizio dello ius secessionis da parte della Comunità turca di Cipro.
La vicenda del Kosovo è emblematica in tal senso. Quel che è singolare, però, è che
mentre una numerosa pluralità di Stati ha “riconosciuto” il nuovo Stato kosovaro anche a
seguito del molto discutibile parere reso il 22 luglio 2010 dalla Corte Internazionale di
Giustizia, così riconoscendo legittima la secessione del Kosovo dalla Serbia, la Comunità
internazionale, in ciò sollecitata fin all’inizio dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, non
“riconosce” lo Stato turco-cipriota che ha rapporti diplomatici con la Turchia e altri Stati ed
ha relazioni economiche, commerciali e culturali con molti Stati (l’Italia è il suo quarto
partner commerciale), oltre ad essere Stato membro della Conferenza Internazionale Islamica.
Si tratta di due evidenti situazioni dispari e tale disparità è la evidente conseguenza delle
convenienze o delle sconvenienze politiche che finiscono con il prevalere sulla regola
giuridica, sulla logica, sul buon senso e soprattutto su di un parametro pur minimo di giustizia
quanto meno in termini, appunto, di parità di trattamento.
Della irrilevanza di qualsiasi atto di “riconoscimento” che si pretende giuridicamente
necessario a fini “costitutivi” e/o “dichiarativi” dell’esistenza dello Stato, non sembra proprio
il caso di parlarne per non riesumare antiche memorie tardo-medioevali da Respublica
Christiana (oggi forse sostituita proprio dall’ONU in quella sua specifica funzione
prevaricatrice).
Lo Stato turco-cipriota esiste e vive nella sua soggettività giuridica, nella sua sovranità
politica e nella sua indipendenza esterna non già perché “riconosciuto”, ma in quanto Ente
capace di realizzare, attraverso le sue Istituzioni politiche e democratiche, una effettiva ed
esclusiva capacità di governo e di controllo del suo territorio definito da frontiere politiche
certe e militarmente garantite. Si tratta di uno Stato che vive in quanto Ente collettivo politico
capace di “azionare” l’ordinamento giuridico internazionale perché direttamente titolare di
diritti e destinatario di obblighi; in quanto Ente collettivo politico di forma e contenuto
statuale, le norme del suo ordinamento giuridico entrano inevitabilmente in gioco nel sistema
e secondo le regole del diritto internazionale privato per quel che riguarda i rapporti intersoggettivi tra persone fisiche e giuridiche.
www.koreuropa.eu
175
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Si dice che i greco-ciprioti furono cacciati dai turchi e costretti a trovare rifugio nel sud
dell’Isola, ma non si dice che la divisione dell’Isola in due realtà territoriali ed etniche si era
determinata per effetto dell’Accordo di Vienna del 1975 intervenuto tra il Presidente turcocipriota Rauf R. Denktas e l’Arcivescovo (Dio ci perdoni) Makarios, con il patrocinio delle
Nazioni Unite, e relativo alla separazione delle due Comunità con il volontario spostamento
dei greci al sud e dei turchi al nord; e ciò a seguito del ricordato e doveroso intervento militare
turco che oggi verrebbe chiamato certamente “intervento umanitario”. Ma questo per i turchi
... non vale perché nel profondo della sub-cultura largamente diffusa permane ancora
l’immagine del turco con la scimitarra in mano o il ricordo delle scorrerie dei Saraceni (che
turchi non erano), o ancora il ricordo del trattamento riservato a Marcantonio Bragadin.
Anche se da quei fatti di Famagosta sono passati più di cinquecento anni. Specularmente ci si
potrebbe chiedere, come fece Indro Montanelli: quanto ancora dobbiamo sopportare dai Greci
dopo tremila anni per un Socrate o un Platone?!....
E’ questa sub-cultura che tende ad addebitare ogni responsabilità e ogni eccidio ai turchi
tanto da accusarli, in occasione dell’intervento militare del 20 luglio 1974, di “crimini di
guerra e contro l’umanità”. Qui davvero è il “bue che dice cornuto all’asino” con una
affermazione tanto priva di ogni pur minimo riscontro, quanto mai prima osata pronunciare.
Si accusano i turchi anche di uso di esplosivi al napalm contro la popolazione inerme ed altre
nefandezze, ma al di la della menzogna non si ricorda, tra i tanti analoghi casi, il consapevole
sacrificio del Cap. Pilota Ercan (dal quale prende il nome l’Aeroporto internazionale della
Repubblica Turca di Cipro del Nord) il quale, colpito dalla contraerea greca, per evitare che
l’aereo precipitasse su di un centro abitato proprio da greco-ciprioti, continuò a condurre
l’aereo per portarlo in zona disabitata e morendo nello schianto.
L’aspetto paradossale della “questione cipriota” consiste, poi, nel fatto che il Consiglio
di Sicurezza dell’ONU ritiene ancora in vigore la Costituzione del 1960 dell’allora Stato
unitario bi-zonale e bi-comunitario cipriota che all’art. 111 preclude l’adesione di Cipro a
qualsiasi Organizzazione internazionale della quale già non facciano parte i due Stati di
“riferimento”, e cioè la Grecia e la Turchia; con conseguente e radicale illegittimità della
adesione di Cipro all’Unione europea, salvo che, come è ovvio, non si capisca che l’adesione
all’Unione europea ha riguardato e riguarda soltanto la Repubblica greco-cipriota; circostanza
www.koreuropa.eu
176
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
questa confermata dal fatto che gli obblighi discendenti da tale adesione e la relativa
normativa dell’Unione europea non trovano e non possono trovare alcuna applicazione ed
efficacia nell’ambito territoriale di pertinenza dello Stato turco-cipriota.
Se, poi, si volesse ritenere che la Costituzione del 1960 non è più la Costituzione di
Cipro poiché “superata” dagli eventi politici che hanno caratterizzato la complessiva vicenda,
non si capisce la ragione per la quale debba venire in linea di conto la sola successiva
Costituzione greco-cipriota che in alcun modo può riguardare e vincolare la Comunità turcocipriota alla cui elaborazione e votazione essa non ha mai partecipato. Tale Costituzione
riguarda solo la Repubblica greco-cipriota, con la ulteriore ed inevitabile conseguenza di
prendere atto e “riconoscere” anche l’esistenza, la legittimità e l’effettività dello Stato turcocipriota. Profili, questi, in alcun modo “travolti” dalla “sentenza” del 21 marzo 2011 della
Corte europea di Strasburgo, resa nel caso “Loizidou” che evocò in giudizio il Governo turco
di Ankara per pretesa violazione del diritto alla tutela dei suoi beni. La Corte di Strasburgo
con questa sua pronuncia palesemente politica ritenne fondata la legittimazione passiva dello
Stato turco e correlativamente intese come inesistente la Repubblica Turca di Cipro del Nord
(ritenuto uno “Stato fantoccio”) per il solo fatto -di per sé inespressivo- della presenza, per
esigenze difensive, di contingenti militari turchi sull’Isola.
Si dice, poi, che a Nicosia/Lefkosa permane l’unico “muro” in Europa dopo la caduta di
quello di Berlino. Chi si lamenta di questo è evidentemente afflitto da sindromi murarie
poiché non distingue tra funzione e funzione che può essere rappresentata da un muro o da
qualsiasi altro strumento di divisione. Non è accettabile un muro come quello di Berlino che
divideva un popolo, una lingua, un comune sentire, una comune tradizione e un comune
territorio. Al contrario, è moralmente, oltre che politicamente, da difendere ogni altro muro,
come quello di Nicosia/Lefkosa, che divide due popoli differenti per lingua, tradizioni, storia,
religione, costumi e aspirazioni, e che garantisce attraverso l’effetto separatorio, che non si
ripetano ulteriori violenze e massacri.
Da ultimo si fa valere anche (a titolo di ulteriore responsabilità dei turchi) che la
Comunità turca di Cipro ha un tenore di vita, di sviluppo e di crescita ben inferiore a quello
della Comunità greca dell’Isola. Anche a tale riguardo si dice solo una parte della verità e si
sottace l’altra e che cioè i responsabili di tale situazione (vera fino ad un certo punto perché il
www.koreuropa.eu
177
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
tenore di vita e il tasso di sviluppo nella Repubblica Turca di Cipro del Nord é in costante
crescita) sono -e da sempre- le Autorità greche e greco-cipriote che strangolano la Comunità
turca dell’Isola attraverso le peggiori forme di embargo, di sabotaggio economico e di
ostacolo allo svolgimento di liberi commerci.
Basti ricordare due circostanze: una relativa all’inizio della “questione cipriota” quando
le Autorità greche e greco-cipriote impedivano alla Croce Rossa Internazionale di fornire
bende e garze ai turco-ciprioti massacrati in quanto ciò era ritenuto “materiale bellico
strategico”; l’altra (tra le tante) ancora presente e che vede l’impossibilità di collegamenti
aerei e marittimi diretti della Repubblica Turca di Cipro del Nord con molti Stati a causa
dell’embargo e del sabotaggio greco e greco-cipriota. Sabotaggio del quale è complice
consapevole la Comunità internazionale la quale, non riconoscendo i passaporti turco-ciprioti,
pretenderebbe di fare del territorio a nord dell’Isola di Cipro una specie di gigantesco campo
di concentramento a cielo aperto.
A ciò cerca di supplire il Governo di Ankara che munisce della sua bandiera gli
aeromobili e le navi turco-cipriote, come munisce del suo passaporto i cittadini turco-ciprioti.
E anche questo è preso a pretesto per denunciare asserite interferenze turche a Cipro del Nord,
e per affermare falsamente, come ha fatto la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo,
che la Repubblica Turca di Cipro del Nord sia uno “Stato fantoccio” in quanto propaggine del
potere statuale turco di Ankara.
www.koreuropa.eu
178
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
I LICENZIAMENTI COLLETTIVI DOPO LA
RIFORMA 2012 ALLA LUCE DELLA DIRETTIVA
N.98/59/CE
Andrea Sitzia
Ricercatore di Diritto del Lavoro nell’Università di Padova
ABSTRACT: La legge n. 92 del 2012 ha apportato alcune modifiche alla disciplina dei licenziamenti collettivi,
consistenti in una serie di cambiamenti alla procedura prescritta dalla legge n. 223 del 1991.
Questa riforma riveste una portata rilevante in termini sia pratici che di sistema. Essa, infatti, da un lato, si
colloca all’interno di un’ importante revisione degli ammortizzatori sociali, con abolizione, seppure non
immediata, dell’indennità di mobilità, dall’altro interviene su due profili, oggetto di massimo interesse da parte
del legislatore comunitario e molto significativi della regolazione: quello della correttezza dello svolgimento
della procedura di informazione e consultazione e quello, strettamente complementare al primo, delle
conseguenze sanzionatorie in caso di vizi della medesima
PAROLE CHIAVE: Lavoro; Licenziamenti collettivi; Riforma 2012; Obblighi di consultazione
1. L’intervento del legislatore nella materia dei licenziamenti collettivi:
profili generali
La legge n. 92 dell’estate 2012, attraverso i commi da 44 a 46 dell’art. 1, ha apportato
alcune modifiche alla disciplina dei licenziamenti collettivi, consistenti in una serie di ritocchi
alla procedura prescritta dalla legge n. 223 del 1991.
In particolare, la riforma ha inciso sui seguenti profili:
1) con riferimento alla fase iniziale della procedura di informazione e consultazione si
consente ora espressamente la “sanatoria” di eventuali vizi della comunicazione di apertura
della procedura medesima (art. 1, co. 45, che incide sull’art. 4, co. 12, della legge n. 223 del
1991);
2) con riferimento alla fase finale della procedura viene modificato il termine per
l’effettuazione della comunicazione degli elementi prescritti dall’art. 4, co. 9 della legge n.
223 ai soggetti ivi previsti, assegnando ora un termine (non più contestuale) di 7 giorni dalla
comunicazione dei licenziamenti (art. 1, co. 44, che incide appunto sul co. 9 dell’art. 4 della
legge n. 223);
www.koreuropa.eu
179
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
3) con riferimento alla disciplina sanzionatoria in caso di licenziamenti collettivi
illegittimi viene riscritto l’art. 5, co. 3, della legge n. 223, raccordandone la regolazione alla
riforma dell’art. 18 St. lav.;
4) si prescrive l’applicazione del doppio termine di impugnazione del licenziamento
previsto dal testo, anch’esso novellato, dell’art. 6 della legge n. 604 del 1996 (art. 1, co. 46).
Nel loro complesso, queste correzioni di disciplina sono state giudicate per lo più1
“modeste”, ma a ben guardare, quale che sia la valutazione di impatto legislativo2, questa
parte della riforma riveste comunque una portata rilevante in termini sia pratici che di sistema.
Infatti, da un lato, si colloca all’interno di una profonda revisione degli ammortizzatori
sociali, con abolizione, seppure non immediata, dell’indennità di mobilità3, dall’altro
* Questo saggio è destinato al volume curato da CESTER, I licenziamenti dopo la legge n. 92 del 2012, di
prossima pubblicazione.
1
Si veda al riguardo, in particolare, la valutazione del disegno di legge data da ICHINO in
http://it.paperblog.com/pietro-ichino-valuta-il-disegno-di-legge-sul-lavoro-1016855/ ove l’A. assegna un
punteggio di 4 su 10 in termini di valutazione circa la coerenza dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo
(espressamente posto dal legislatore) del superamento del dualismo tra lavoratori protetti e non protetti nella
direzione della c.d. flexsecurity; diversamente, lo stesso A., ritiene che la modifica potrà avere un “peso pratico”
significativo (in questo caso il voto assegnato è pari ad 8 su 10). Si veda, analogamente, MARAZZA, L’art. 18,
nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, in Arg. dir. lav., 2012, 3, I, pp. 612 ss., qui pp. 634 ss. In senso
radicalmente difforme evidenzia un «gravissimo peggioramento della disciplina» ALLEVA, Punti critici della
riforma del mercato del lavoro, in http://www.paneacqua.info/2012/04/punti-critici-della-riforma-del-mercatodel-lavoro/.
2
In letteratura esistono alcuni studi che ricercano le implicazioni che i costi del licenziamento possono avere
sulla produttività, sulle dinamiche occupazionali e sulle scelte delle imprese di rimanere o meno all’interno del
mercato; in particolare, la dottrina economica ha analizzato se la presenza o meno dell’art. 18 possa essere causa
di un minore o maggiore sviluppo dimensionale dell’impresa. Per un’analisi in chiave economica relativa all’art.
18 (nel testo antecedente la riforma dell’estate 2012) cfr. SCHIVARDI, TORRINI, Identifying the effects of firing
restrictions through size contingent differencies in regulation, in Labour Economics, 2008, 15, pp. 482 ss.; si
veda altresì KUGLER, PICA, Effects of employment protection on worker and job fows: Evidence from 1990
reform, in Labour Economics, 2008, 15, pp. 78 ss., i quali, nell’esaminare la propensione di crescita, hanno posto
l’accento sulla variazione del comportamento delle imprese dopo la riforma del 1990. I risultati cui giungono gli
studi citati sembrano sottolineare che la propensione di crescita attorno al limite dimensionale diminuisce solo
del 2% e che anche in assenza del limite posto dall’art. 18 St. Lav. la struttura delle imprese italiane non
subirebbe un cambiamento sostanziale.
3
Per un’analisi critica delle ricadute della riforma dell’indennità di mobilità sulle procedure di licenziamento
collettivo cfr. FERRARO, Ammortizzatori sociali e licenziamenti collettivi nella riforma del mercato del lavoro, in
Mass. giur. lav., 2012, pp. 494 ss.; analogamente cfr.. SCARPELLI, I licenziamenti collettivi per riduzione di
personale, in FEZZI, SCARPELLI (a cura di), Guida alla riforma Fornero, 2012, in http://www.wikilabour.it, p. 92;
PELLACANI, Le modifiche alla disciplina dei licenziamenti collettivi, in PELLACANI (a cura di), Riforma del
lavoro, Milano,, 2012, pp. 267 ss., qui pp. 277s.; più in generale, sulla riforma degli ammortizzatori sociali di cui
alla seconda parte della legge n. 92 del 2012 cfr. VALLEBONA, La Riforma del Lavoro 2012, Torino, 2012 nonché
CINELLI, Gli ammortizzatori sociali nel disegno di riforma del mercato del lavoro, 2012, in
http://csdle.lex.unict.it/docs/generic/Il-dibattito-sulla-riforma-italiana-del-mercato-del-lavoro-/3206.aspx;
www.koreuropa.eu
180
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
interviene (per lo meno con riferimento alle modifiche apportate dai commi 45 e 46 dell’art.
1, sopra enumerate come prima e terza) su due profili, oggetto di massima attenzione da parte
del legislatore comunitario, molto significativi della regolazione: quello della correttezza dello
svolgimento della procedura di informazione e consultazione e quello, intimamente
complementare al primo, delle conseguenze sanzionatorie in caso di vizi della medesima.
Ragioni sistematiche inducono a ritenere preferibile anteporre all’analisi della riforma
del diritto nazionale una ricostruzione sintetica (e limitata ai profili rilevanti ai fini
dell’interpretazione delle norme interne oggetto dell’intervento legislativo) del parametro
comunitario di riferimento.
2. Il paradigma comunitario di riferimento: gli obblighi di informazione e
consultazione nella direttiva n. 98/59/CE
La direttiva n. 98/59/CE sui licenziamenti collettivi ha introdotto, come noto, una serie
di vincoli procedimentali all’esercizio dei poteri imprenditoriali4. Tali vincoli sono funzionali
alla predisposizione di un apparato di diritti di informazione e consultazione, a favore dei
SANDULLI, Il sistema pensionistico tra una manovra e l’altra. Prime osservazioni sulla legge n. 214 del 2011, in
Riv. dir. sic. soc., 2012, pp. 1 ss. Per una condivisibile critica all’impianto generale dell’intervento normativo in
materia di licenziamenti collettivi si veda FERRANTE, Modifiche nella disciplina dei licenziamenti collettivi, in
MAGNANI, TIRABOSCHI (a cura di), La nuova riforma del lavoro, in Le nuove leggi civili, Milano,, 2012, pp. 271
ss., il quale lamenta la totale assenza, nella novella, di un serio irrobustimento delle politiche attive di lavoro.
4
Al fondo della direttiva sui licenziamenti collettivi, così come delle direttive sui trasferimenti d’impresa (n.
77/187/CEE, modificata dalla dir. N. 98/50/CE e poi sostituita dalla direttiva n. 2001/23/CE), sui Comitati
Aziendali Europei (n. 94/45/CE, abrogata e sostituita dalla dir. n. 2009/38/CE) e di quella che istituisce un
quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori (n. 2002/14/CE), si pone
l’intendimento del legislatore comunitario di porre le premesse per una presenza sindacale non solo rivendicativa
ma anche propositiva; per un’analisi in questo senso cfr. ZOLI, La tutela delle posizioni strumentali del
lavoratore, Milano, , 1988, p. 78. Più di recente si veda LAULOM, Le cadre communautaire de la représentation
des travailleurs dans l’entreprise, in LAULOM (a cura di), Recomposition des systèmes de représentation des
salariés en Europe, Publications de l’Université de Saint-Étienne, 2005, p. 47; LO FARO, Le Direttive in materia
di crisi e ristrutturazioni di impresa, in SCIARRA, CARUSO (a cura di), Il lavoro subordinato, in Trattato di diritto
privato dell’Unione Europea dir. da AJANI e BENACCHIO, Torino, 2009, pp. 398 ss. Più in generale, in ordine al
tema della procedimentalizzazione dei poteri datoriali, si veda SUPPIEJ, CESTER, Rapporto di lavoro, voce del
Digesto, IV ed., Discipline priv., Sez. Comm., XII, Torino, 1996; con riferimento al licenziamento collettivo cfr.,
tra i tanti, TOPO, I licenziamenti collettivi, in CARINCI, PIZZOFERRATO (a cura di), Diritto del lavoro nell’Unione
europea, in Diritto del lavoro, Commentario dir. da CARINCI, Milano, Utet, 2010, pp. 714 ss.; PILATI, Le sanzioni
nei licenziamenti collettivi, in CARINCI (a cura di), Il lavoro subordinato, in BESSONE (dir. da), Trattato di diritto
privato, Torino, 2007, tomo III (a cura di S. MAINARDI), pp. 485 ss.; DE LUCA TAMAJO, BIANCHI D’URSO,
Licenziamenti individuali e collettivi nella giurisprudenza della Cassazione, Milano, 2006; SANTUCCI, I
licenziamenti collettivi tra questioni interpretative e nuove regole, Milano, Giuffré, 2005; TOPO, I poteri
dell’imprenditore nelle riduzioni di personale, Padova, 1996.
www.koreuropa.eu
181
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
rappresentanti dei lavoratori in azienda5, la cui attivazione è obbligatoria, per il datore di
lavoro, nell’imminenza di eventi, quali appunto il licenziamento collettivo, che possono
comportare mutamenti definitivi dei rapporti di lavoro.
3. L’oggetto e il fine della procedura di consultazione
L’art. 2 della direttiva 98/59 individua lo scopo e il contenuto minimo della
consultazione che il datore di lavoro deve avviare, «in tempo utile»6, ove preveda di effettuare
licenziamenti collettivi.
Lo scopo della consultazione è quello di «giungere ad un accordo» (art. 2.1) ed il suo
oggetto deve essere quello di esaminare «le possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti
collettivi, nonché di attenuarne le conseguenze ricorrendo a misure sociali di
accompagnamento intese in particolare a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei
lavoratori licenziati» (art. 2.2).
La direttiva introduce un vero e proprio «obbligo a trattare del datore di lavoro che,
partendo dai motivi addotti per “giustificare” i licenziamenti programmati, coinvolge sia la
ricerca di soluzioni, in tutto o in parte, alternative alla espulsione dei lavoratori eccedenti, sia
la predisposizione di misure atte a contenerne gli effetti sul piano sociale così come su quello
La cui definizione/identificazione viene demandata, ai sensi dell’art. 1.1, lett. b) della direttiva, alla normativa o
alla prassi in vigore negli Stati membri. La scelta di non intervenire nell’individuazione dei rappresentanti dei
lavoratori è una costante nel diritto dell’Unione Europea ed è funzionale, come evidenzia ampia parte della
dottrina, ad evitare di introdurre determinazioni eteronome in un settore così delicato e sensibile, in cui difetta
una prassi comune fra i diversi Stati membri (si veda, per una ricostruzione comparativa aggiornata a livello
europeo, Eurofound, Industrial Relations and Working Conditions Developments in Europe 2010, Publications
Office
of
the
European
Union,
Luxembourg,
2011,
consultabile
alla
pagina
Web
http://www.eurofound.europa.eu/pubdocs/2011/50/en/1/EF1150EN.pdf). Per un’efficace sintesi di queste
problematiche cfr. ROCCELLA, TREU, Diritto comunitario del lavoro, V ed., Padova, Cedam, 2009, spec. pp. 425
ss. ed ivi ampli riferimenti bibliografici; LO FARO, Le Direttive in materia di crisi e ristrutturazioni di impresa,
cit., p. 399; CARABELLI, La gestione delle eccedenze di personale in Europa. Gli Studi-Paese a confronti: il
quadro giuridico, Documenti CNEL, Roma, 1995, p. 35. Per una critica all’approccio comunitario sul punto, cfr.
HEPPLE, Community measures for the protection of workers against dismissal, in Common Market Law Review,
1977, p. 491.
6 Si noti che il diritto all’informazione “in tempo utile” è stato inserito tra i diritti fondamentali sanciti dalla
Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea firmata a Nizza nel 2000 e adattata a Lisbona nel 2007. In
ordine all’interpretazione del vincolo del “tempo utile” la Corte di Giustizia si è pronunciata indirettamente nel
Caso Junk del 2005 (Corte giust., 27 gennaio 2005, causa C-188/03, Irmtraud Junk c. Wolfang Kühnel, in Foro
It., 2005, IV, col. 186 ss., con nota di R. COSIO, Il licenziamento collettivo nel diritto europeo: le precisazioni
della Corte di giustizia), con una sentenza relativa all’interpretazione della nozione di licenziamento la cui
validità è condizionata dal previo espletamento delle procedure previste dalla direttiva.
5
www.koreuropa.eu
182
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
individuale dei singoli lavoratori coinvolti (programmi di riqualificazione e riconversione)»7.
Sul datore di lavoro, più in particolare, grava l’obbligo di fornire ai rappresentanti dei
lavoratori «tutte le informazioni utili»8 affinché questi possano formulare «proposte
costruttive» (art. 2.3).
La tutela del lavoratore, in questo modo, si gioca sul piano del controllo e della
partecipazione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori, atteso che la garanzia, per i
lavoratori, consiste nella possibilità (reale ed effettiva) attribuita ai loro rappresentanti di
conoscere, discutere e negoziare le motivazioni, le modalità ed i contenuti della decisione
aziendale di espellere, per ragioni tecnico-organizzative e produttive, parte dei dipendenti.
4. Il problema del rapporto tra procedura di consultazione e autonomia
delle scelte datoriali
L’art. 2.3, lett. b.i), come si è detto, impone al datore di lavoro di indicare per iscritto le
ragioni del progetto di licenziamento. Questo aspetto è di massima rilevanza, in quanto pone
il problema di capire se la direttiva intenda o no porre dei limiti alla libera determinazione
delle scelte datoriali.
A questo proposito è costante in dottrina l’affermazione secondo la quale la procedura
di consultazione non incide sull’an delle scelte datoriali ma è rivolta a valutarne e, ove
possibile, attenuarne, le conseguenze sul piano sociale e occupazionale. In altri termini, si
ritiene
che
la
direttiva
non
ponga
alcun
limite
alla
libera
determinazione
datoriale/imprenditoriale.
Questa conclusione viene dedotta dal fatto che la direttiva fornisce una definizione “acausale”9 di licenziamento collettivo, donde «qualsiasi decisione economico-organizzativa
7
Così GAROFALO, CHIECO, Licenziamenti collettivi e diritto europeo, in AA.VV., I licenziamenti per riduzione di
personale in Europa, Bari, 2001, p. 21.
8
La direttiva indica espressamente l’oggetto delle informazioni che il datore di lavoro deve fornire in forma
scritta ai rappresentanti dei lavoratori «nel corso delle consultazioni». In particolare, si tratta dei motivi del
progetto di licenziamento, del numero e delle categorie dei lavoratori eccedenti e di quelli abitualmente
impegnati, il periodo entro il quale si prevede di effettuare i licenziamenti e i criteri di scelta dei lavoratori, ove
questi siano per legge o per prassi nazionali determinati dal datore di lavoro, e infine il metodo per il calcolo di
eventuali indennità di licenziamento diverse da quelle previste dalla legislazione o dalla prassi nazionale.
9
L’art. 1.1, lett. a) della direttiva 98/59/CE definisce il campo di applicazione della medesima attraverso un
duplice criterio quantitativo e qualitativo. Sotto il profilo qualitativo, ai sensi e per gli effetti della direttiva, per
www.koreuropa.eu
183
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
dell’impresa legittima l’adozione di atti di risoluzione dei rapporti di lavoro»10. Detto questo,
occorre comunque evidenziare che di a-causalità può parlarsi «soltanto nel senso che qualsiasi
motivo non personale è idoneo a giustificare il licenziamento collettivo, non anche nel senso
di escludere la necessità di una verifica della veridicità ed effettività dei motivi giustificativi»;
«in altre parole al legislatore comunitario non interessa quali siano i motivi non personali che
inducono il datore di lavoro al licenziamento collettivo, ma interessa che essi esistano
11
effettivamente» . La direttiva, in sostanza, imponendo al datore di lavoro di comunicare ai
rappresentanti dei lavoratori (ed all’autorità pubblica competente) le ragioni del progettato
licenziamento, conferisce in qualche misura un rilievo al profilo causale dei recessi, nella
misura in cui il datore di lavoro è comunque chiamato a «certificare la non sussistenza di
motivi personali attraverso la dichiarazione della sussistenza di motivi non personali»
12
.
Questo implica due conseguenze massimamente rilevanti, delle quali si dovrà tenere
conto nell’interpretazione della riforma effettuata dal legislatore italiano.
In primo luogo occorre chiedersi quale sia la conseguenza nel caso in cui, a monte del
licenziamento dichiarato “collettivo”, si pongano ragioni di carattere soggettivo. Qualora,
invero, le ragioni del recesso non siano inerenti alla persona del lavoratore, la direttiva
impone (in presenza dei prescritti, concorrenti, requisiti di tipo quantitativo) l’attivazione
della procedura di consultazione, che, diversamente, non è obbligatoria, con la conseguenza
che i recessi seguiranno le regole previste dagli ordinamenti nazionali per i licenziamenti
individuali.
Un eventuale ampliamento, da parte degli ordinamenti interni, del campo di
applicazione delle regole in materia di licenziamento collettivo, peraltro, è sì consentito, ma a
condizione che possa considerarsi come un trattamento “più favorevole per i lavoratori” (art.
5 della direttiva). La valutazione del carattere migliorativo o peggiorativo di una tale
operazione normativa dipende da una complessa operazione di confronto tra il livello di
licenziamento collettivo si intende ogni licenziamento effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non
inerenti alla persona del lavoratore.
10
Così GAROFALO, CHIECO, Licenziamenti collettivi e diritto europeo, cit., p. 10.
11
Così CARABELLI, Relazione di sintesi sul tema «I licenziamenti collettivi», in Atti delle Giornate di Studio
dell’AIDLASS, Baia delle Zagare 25-26 giugno 2001 su «Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro», Milano,
Giuffré, 2002, p. 331.
12
CARABELLI, Relazione di sintesi, cit., p. 331.
www.koreuropa.eu
184
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
protezione riconosciuto (dall’ordinamento interno) al licenziamento individuale rispetto a
quello riconosciuto al licenziamento collettivo13.
La seconda implicazione di quanto sopra rilevato è che la nozione comunitaria di
licenziamento collettivo presuppone (e autorizza) comunque una verifica delle ragioni
produttive e organizzative14 nel senso che l’esplicitazione delle stesse non solo «consente di
visualizzare con chiarezza il rapporto di corrispondenza e, in ultima analisi, di congruità tra
situazione dell’impresa, scelte dimensionali e tipologie dei rapporti di lavoro coinvolti nel
licenziamento progettato, ma ha anche un effetto di “autolimitazione” preliminare e, in certa
misura, essenziale per tutto lo svolgimento della procedura. Dichiarando i motivi e le altre
coordinate quantitative e qualitative del progetto di licenziamento, il datore di lavoro tipizza
(tra tutte quelle ascrivibili all’esercizio della libertà d’impresa) le rationes e gli effetti delle
proprie scelte dimensionali oggetto del confronto con i rappresentanti dei lavoratori, oltre che
dell’intervento dell’autorità pubblica competente. Sicché, ben può dirsi che la veridicità e la
completezza delle informazioni fornite costituiscono altrettanti requisiti formali del corretto
adempimento dell’obbligo datoriale di consultazione dei rappresentanti dei lavoratori, con la
conseguenza che ove non siano pienamente rispettati il meccanismo partecipativo risulterà
falsato e violato, facendo scattare le conseguenze sanzionatorie dell’art. 6»15.
Gli Autori citati ritengono che i requisiti di veridicità e completezza delle informazioni
fornite costituiscano requisiti “formali” dell’adempimento. Sul punto ci si permette di
distaccarsi parzialmente in quanto, per le ragioni sopra specificate, i requisiti predetti si ritiene
che assumano un carattere sostanziale.
13
Sul punto cfr. GAROFALO, CHIECO, Licenziamenti collettivi e diritto europeo, cit., p. 33 s., i quali mettono in
luce molto opportunamente che il confronto evidenziato nel testo presenta difficoltà estremamente significative
anche in considerazione delle profonde “diversità strutturali” che solitamente caratterizzano i due sistemi
normativi (il sistema di regolazione dei licenziamenti collettivi tende ad essere proiettato verso gli effetti sociali
e verso la valenza collettiva dei licenziamenti espressione della libertà d’impresa del datore di lavoro, mentre le
regole relative ai licenziamenti individuali sono solitamente racchiuse nella dimensione del rapporto individuale
di lavoro con conseguente verifica della giustificatezza dei licenziamenti stessi).
14
Questa verifica, peraltro, nella prospettiva comunitaria, è funzionale alla sola necessità di applicare le
procedure di informazione e consultazione, e non al controllo di legittimità dei licenziamenti sul piano della loro
giustificatezza; sul punto cfr. R. DEL PUNTA, I licenziamenti per riduzione di personale: un primo bilancio
giurisprudenziale, in Lav. Dir., 1993, p. 143.
15
Così GAROFALO, CHIECO, Licenziamenti collettivi e diritto europeo, cit., p. 24.
www.koreuropa.eu
185
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
5. Il meccanismo sanzionatorio previsto dalla direttiva
La procedura di consultazione non deve essere considerata dall’imprenditore quale
vuota formalità, ma deve essere presa sul serio. La Corte di Giustizia, nel 1994, con due
importanti sentenze16 a conclusione di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione
nei confronti del Regno Unito per non corretta trasposizione delle direttive in materia di
licenziamenti collettivi e trasferimento d’impresa, ebbe ad affermare che «qualora una
disciplina comunitaria non contenga una specifica norma sanzionatoria di una violazione delle
sue disposizioni o rinvii in merito alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative
nazionali, l’art. 5 del Trattato impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte a
garantire la portata e l’efficacia del diritto comunitario. A tal fine, pur conservando un potere
discrezionale quanto alla scelta delle sanzioni, essi devono vegliare a che le violazioni del
diritto comunitario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini
analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza e
che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere di effettività, di
proporzionalità e di capacità dissuasiva»17.
L’art. 6 della direttiva 98/59 prevede che «gli Stati membri provvedono affinché i
rappresentanti dei lavoratori e/o i lavoratori dispongano di procedure amministrative e/o
giurisdizionali per far rispettare gli obblighi previsti dalla presente direttiva»18.
La direttiva n. 98/59 ha fissato, dunque, in caso di licenziamenti collettivi, una serie di
vincoli di tipo procedurale senza vincolare, sotto il profilo sostanziale, le scelte
16
Corte giust., 8 giugno 1994, causa C-383/92, Commissione c. Regno Unito e Corte giust., 8 giugno 1994,
causa C-382/92, Commissione c. Regno Unito. Per un commento si veda in particolare LORD WEDDEBURN OF
CHARTON, Il diritto inglese davanti alla Corte di giustizia. Un frammento, in Dir. rel. ind., 1994, 4, pp. 691 ss. e
LYON-CAEN, Il Regno Unito: allievo indisciplinato o ribelle indomabile, ivi, 1994, 4, pp. 679 ss.
17
Così il punto 40 della sentenza resa nella causa C-383/92, in tutto e per tutto analoga alla seconda.
18
Questa formulazione è risultata in seguito al non accoglimento della proposta della Commissione, che faceva
invece riferimento esplicito «all’annullamento dei licenziamenti collettivi, indipendentemente dalla esperibilità
di altre procedure». Cfr. al riguardo l’art. 5-bis della proposta modificata di direttiva del 31 marzo 1992, in
GUCE n. C 117/10 dell’8 maggio 1992. Il Comitato economico e sociale ebbe a rilevare, sul punto, che in
determinate circostanze non appariva adeguata la sanzione dell’annullamento e auspicava metodi diversi o
aggiuntivi per assicurare l’applicazione della direttiva.
www.koreuropa.eu
186
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
dell’imprenditore, che rimane libero di procedere ai licenziamenti19 e più in generale, di
organizzare la propria attività economica nel modo che ritiene più opportuno20.
6. Sulla natura individuale o collettiva dei diritti di informazione e
consultazione
L’ultimo aspetto su cui è necessario soffermarsi con riferimento alla disciplina
comunitaria richiede di verificare se il diritto all’informazione e consultazione è destinato ai
rappresentanti dei lavoratori o ai lavoratori considerati individualmente. Dall’impianto
letterale della direttiva emerge la prima soluzione (si vedano, in senso difficilmente
equivocabile, il decimo considerando e gli artt. 1.1, 2 e 39).
La natura collettiva del diritto all’informazione e consultazione deriva anche da una
interpretazione teleologica della direttiva, di recente chiaramente affermata dalla Corte di
Giustizia. L’informazione e la consultazione, invero, sono volte a consentire, da un lato la
presentazione di proposte costruttive in merito almeno alla possibilità di evitare o ridurre i
licenziamenti collettivi e di attenuarne le conseguenze nonché, dall’altro, la presentazione di
eventuali osservazioni all’Autorità pubblica competente; i rappresentanti dei lavoratori si
trovano quindi nelle condizioni più favorevoli al perseguimento dello scopo stabilito dalla
direttiva. La Corte di Giustizia ha chiarito che il diritto all’informazione e alla consultazione
va esercitato tramite i rappresentanti dei lavoratori21, atteso che il diritto è concepito a
vantaggio dei lavoratori intesi come collettività e presenta, pertanto, natura collettiva.
19
Corte giust., 7 settembre 2006, cause riunite da C-187/05 a C-190/05, punto 35.
Così Corte giust., 7 dicembre 1995, causa C-449/93, Rockfon c. Specialarbejderforbundet i Danmark, acting
on behalf of Søren Nielsen et alii, punto 21. Diversamente, parte minoritaria della dottrina ritiene che l’art. 6
della direttiva, se pure non prescrive espressamente le sanzioni prefigurate dalla proposta di direttiva, richiede
pur sempre sanzioni effettive. Richiamando le sentenze del 1994 questa dottrina afferma che la norma
sembrerebbe «evocare sanzioni di tipo reintegratorio piuttosto che meramente risarcitorio. Invero, poiché i
vincoli procedimentali introdotti dalla direttiva devono poter operare prima dell’attuazione delle “libere” scelte
dimensionali dell’impresa, sembra ragionevole ritenere che l’obbligo di assicurarne il rispetto (ex art. 6) possa
risolversi nell’imporre agli stati membri l’introduzione di meccanismi sanzionatori idonei a rimuovere i
licenziamenti collettivi intimati in violazione dei diritti di informazione e consultazione dei rappresentanti dei
lavoratori ovvero senza il corretto svolgimento della fase amministrativa di confronto» (in questo senso
GAROFALO, CHIECO, op. cit., p. 35).
21
Corte giust., 16 luglio 209, causa C-12/2008, Mono Car Styling SA c. Odemis et aa., in Giur. it., 2010, pp.
1338 ss., con nota di BRIZZI, Procedure di informazione e consultazione del personale in caso di licenziamenti
collettivi: l’interpretazione della Corte di giustizia, nonché in Dir. rel. ind., 2009, 4, pp. 1157 ss., con nota di
20
www.koreuropa.eu
187
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
7. La Riforma della legge n. 223 del 1991: la possibile “sanatoria” dei vizi
della comunicazione di apertura della procedura
Si è anticipato che l’art. 1, co. 45, della legge n. 92 del 2012 ha integrato l’art. 4, comma
12, della legge n. 223 del 1991, attribuendo ad un, non meglio identificato22, «accordo
sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo» lo specifico potere
di sanare gli eventuali vizi della comunicazione di apertura della procedura.
Questa
modifica
intende
disattivare
la
“trappola
procedurale”23
costituita
dall’interpretazione più rigida dell’art. 4, commi 2 e 3, della legge n. 223 del 1991, secondo
cui l’omissione della comunicazione contenente l’indicazione dei motivi dell’eccedenza, e di
tutti gli altri elementi prescritti dal co. 3 dell’art. 4, non può dirsi sanata dall’accordo
sindacale comprensivo dell’individuazione dei lavoratori da licenziare24, con conseguente
riconoscimento della sanzione, azionabile anche da parte dei singoli lavoratori25,
dell’inefficacia della procedura.
COSIO, Procedure di informazione e consultazione in caso di licenziamento collettivo; sul tema cfr. anche COSIO,
I licenziamenti collettivi, in FOGLIA, COSIO (a cura di), Il diritto del lavoro nell’Unione Europea, Milano, 2011,
pp. 281 ss.; in precedenza si veda, analogamente, Corte giust., 18 gennaio 2007, causa C-385/2005,
Confédération générale du travail et a. e Corte giust., 8 giugno 1994, causa C-383/92, Commissione c. Regno
Unito.
22
La legge non chiarisce alcunché in ordine ai caratteri che l’accordo sindacale deve avere per poter dispiegare il
previsto effetto “sanante”. Una lettura complessiva dell’art. 4 della legge n. 223 del 1991 (anche inseguito alla
novella legislativa) non sembra consentire altra interpretazione se non quella per cui l’accordo in parola debba
essere quello, gestionale, già previsto e disciplinato dalla norma medesima. In questo senso ANGIELLO,
Licenziamenti collettivi, in CARINCI, MISCIONE (a cura di), Commentario alla Riforma Fornero, in Dir. prat. lav.,
2012, Suppl. al n. 33, p. 86.
23
Così la definisce ICHINO, in http://it.paperblog.com/pietro-ichino-valuta-il-disegno-di-legge-sul-lavoro1016855, cit. Per un approccio critico nei confronti dell’intervento legislativo sul punto cfr. SCARPELLI, I
licenziamenti collettivi per riduzione di personale, cit., p. 96.
24
Cfr. al riguardo Cass., 18 luglio 2001, n. 9743 nella motivazione della quale si evidenzia che le comunicazioni
prescritte dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991 servono a consentire alle rappresentanze sindacali una
partecipazione con efficacia adeguata al ruolo loro assegnato nell’ambito di una vicenda dalla quale esce mutata
la stessa struttura dell’azienda (cfr., analogamente, Cass., 6 aprile 2012, n. 5582, in FI, 2012, I, col. 1734; Cass.,
16 settembre 2011, n. 18943, in LG, 2012, 4, pp. 367 ss., con nota di GALLOTTI, CUSMAI, Obbligo di correttezza
e trasparenza nella comunicazione dei motivi di apertura di mobilità; Cass., 2 marzo 2009, n. 5034, in Riv. it.
dir. lav., 2009, 3, II, pp. 768 ss., con nota di MARINELLI, La Corte di Cassazione e l’obbligo di comunicazione
nella procedura di mobilità; Cass., 9 settembre 2003, n. 13196, in Riv. giur. lav., 2004, II, pp. 752 ss.). Per una
critica all’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato si veda, da ultimo, MAZZOTTA, voce Licenziamento
collettivo, in Enc. Dir. annali, Vol. V, Milano, 2012, pp. 778 ss.
25
La legittimazione del lavoratore licenziato ad agire in giudizio per far valere omissioni o inesattezze delle
informazioni rese alle rappresentanze sindacali è stata riconosciuta più volte dalla giurisprudenza di legittimità;
si veda di recente Cass., 21 settembre 2011, n. 19233 in Foro it., 2011, I, col. 2963 ss. Sul tema, in dottrina, si
www.koreuropa.eu
188
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Ampia parte della giurisprudenza, peraltro, già nel regime normativo precedente alla
riforma dell’estate 2012, ammetteva un temperamento, ritenendo che sufficienza e
adeguatezza della comunicazione di avvio della procedura andassero valutate in relazione alla
finalità di corretta informazione delle rappresentanze sindacali, con la conseguenza che il
raggiungimento in concreto di un accordo gestionale rilevasse per valutare la completezza
26
della comunicazione iniziale .
Nella citata prospettiva giurisprudenziale non si tratta propriamente di una “sanatoria”
dei vizi della procedura, ma dell’attribuzione di rilevanza interpretativa al successivo accordo.
Si ritiene, in sostanza, che il giudice debba verificare comunque l’adeguatezza dell’originaria
comunicazione di avvio della procedura, non potendo escludersi che questa possa risultare
non di meno insufficiente ove il sindacato non sia stato posto in condizione di partecipare alla
trattativa con piena consapevolezza di ogni rilevante dato fattuale per l’obiettiva insufficienza
o reticenza di tale comunicazione27.
Il testo dell’art. 1, comma 45, della legge di riforma risolve il problema solo
parzialmente. La norma invero, se pure riconosce espressamente all’accordo sindacale la
possibilità di sanare eventuali vizi della comunicazione di avvio della procedura28, non
veda FOGLIA, Diritto di informazione e consultazione nella procedura di licenziamento collettivo, in Arg. dir.
lav., 2005, 1, pp. 169 ss.; critico VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, cit., p. 66.
26
Cass., 11 gennaio 2008, n. 528, in Guida Dir., 2008, 7, p. 22 ss., con nota di TATARELLI, Le carenze di apertura
della procedura sono sanate con un accordo sindacale; Cass., 8 novembre 2007, n. 23275, in Riv. it. dir. lav.,
2007, II, pp. 432 ss., con nota di GALARDI, Sull’obbligo di comunicazione nei licenziamenti collettivi; Cass., 11
luglio 2007, n. 15479; Cass., 2 agosto 2004, n. 14721, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, pp. 475 ss., con nota di SITZIA,
Licenziamento collettivo, cassa integrazione guadagni e vizi procedurali: un significativo contrasto fra sentenze
di cassazione; Cass., 5 giugno 2003, n. 9015, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, pp. 105 ss., con nota di BONI,
Licenziamenti collettivi e oneri procedurali: verso una svolta giurisprudenziale?; Cass., 20 novembre 1996, n.
10817, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, pp. 625 ss., con nota di MARINO, Procedure di consultazione sindacale nei
licenziamenti collettivi e omissione delle formalità previste dalla legge. Sulla questione si veda FOGLIA, Diritto
di informazione e consultazione nella procedura di licenziamento collettivo, cit., p. 171 ss.; ANGIELLO, La
violazione degli obblighi di comunicazione nel licenziamento collettivo, in Lav. giur., 2004, pp. 1121 ss.; ICHINO,
Il contratto di lavoro, vol. III, Tratt. CM, Milano, Giuffré, 2003, pp. 543 ss.; MONTUSCHI, Procedure e forme:
comunicare è bello?, in Arg. dir. lav., 2000, pp. 651 ss.; MARINO, Sulla violazione dell’obbligo di
«comunicazione» in caso di licenziamento per riduzione del personale, in Giust. civ., 1999, II, pp. 2477 ss.;
ZOLI, La procedura di licenziamento collettivo e il sistema delle fonti nel diritto del lavoro, in AA.VV., I
licenziamenti collettivi, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1997, pp. 310 ss.
27
Cass., 11 luglio 2007, n. 15479, cit.
28
In dottrina è stato sottolineato che la norma che attribuisce all’accordo gestionale forza “sananate” è
certamente espressione di un “rafforzamento” dell’accordo sindacale in sede di procedura per licenziamento
collettivo, ma deve leggersi come iscritta nell’ambito dell’obiettivo di flessibilizzazione perseguito dal
www.koreuropa.eu
189
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
chiarisce se ai fini dell’efficacia sanante basta il mero fatto della stipula di un accordo
gestionale (ex art. 5 della l. n. 223 del 1991), oppure se è, invece, necessaria, in linea con la
giurisprudenza sopra richiamata, un’esplicita manifestazione della prevista “sanatoria”,
consapevolmente espressa dalle rappresentanze sindacali.
La soluzione della questione richiede di tener conto del sistema comunitario di
riferimento in materia di diritti di informazione e (seria, trasparente ed effettiva) consultazione
dei lavoratori nel caso di licenziamento collettivo, sistema che, in ragione di quanto
evidenziato sopra al riguardo, non consente che siano sanate le carenze o reticenze
informative più rilevanti, mentre certamente consente una integrazione di informazioni
inizialmente carenti, nel corso della procedura.
Per ragioni di coerenza con il modello comunitario, dunque, si può ritenere che la norma
nazionale riformata debba interpretarsi nel senso che la stipulazione di un accordo sindacale29
non ha tuttora, di per sé, efficacia sanante30: la norma, invero, attribuisce alle parti31 la
“possibilità” di stipulare uno specifico accordo “di sanatoria” dei vizi di cui abbiano avuto
consapevolezza e che intendono espressamente superare32. Del resto, l’attribuzione di un
legislatore. In questo senso si veda CESTER, Licenziamenti: la metamorfosi della tutela reale, in CARINCI,
MISCIONE (a cura di), Commentario alla Riforma Fornero, in Dir. prat. lav., 2012, Suppl. al n. 33, pp. 547 ss.
29
Si ricorda, incidentalmente, che la novella incentiva la stipula dell’accordo sindacale anche attraverso la
previsione di un contributo addizionale a carico del datore di lavoro nel caso in cui l’accordo non venga
raggiunto. Nello specifico, in tutti i casi di recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato (dal 1° gennaio
2013) il datore di lavoro è tenuto a versare all’INPS una somma pari al 50% del trattamento mensile dell’Aspi
per ogni 12 mensilità di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni. Questo contributo non è dovuto, fino al 31
dicembre 2016, nei casi in cui sia dovuto il contributo di cui all’art. 5, co. 4, della legge n. 223 del 1991. Dal
2017, in caso di licenziamenti collettivi senza accordo sindacale, il contributo di licenziamento sarà moltiplicato
per 3 (cfr. art. 2, commi 31, 33 e 35 della legge n. 92 del 2012). Si veda in proposito, PELLACANI, Le modifiche
alla disciplina dei licenziamenti collettivi,cit., p. 269.
30
Efficacia sanante che può riguardare solo i vizi relativi al contenuto della comunicazione (completezza,
specificità, termini) e non altri vizi che riguardino l’espletamento e la conclusione della procedura.
31
I soggetti, cioè, di cui al comma 2 dell’art. 4 della legge n. 223 del 1991 (cfr. sul punto CARINCI, Complimenti,
dottor Frankenstein: il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, Relazione
tenuta al Convegno “La Riforma del mercato del lavoro”, 13 aprile 2012, Roma, Facoltà di Giurisprudenza,
Università Roma Tre, reperibile in http://csdle.lex.unict.it/docs/generic/Il-dibattito-sulla-riforma-italiana-delmercato-del-lavoro-/3206.aspx).
32
L’affermazione di cui al testo è supportata anche da un argomento letterale atteso che la legge specifica che i
vizi sono sanati non dall’accordo purchessia, ma “nell’ambito di un accordo”, il che lascia ritenere che la
sanatoria può operare solamente nel caso in cui i dati non comunicati nella dichiarazione di apertura della
procedura vengano comunicati e discussi nel corso dell’esame congiunto e l’accordo sia conseguentemente
raggiunto nella piena consapevolezza anche di detti dati. In questo senso CESTER, Il progetto di riforma della
disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in Arg. dir. lav., 2012, 3, I, pp. 547 ss., qui p. 582; analogamente
www.koreuropa.eu
190
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
“potere” alle parti lascia intendere che la sottoscrizione dell’accordo collettivo non abbia di
per sé efficacia sanante33.
Resta da chiedersi se l’accordo in parola debba necessariamente essere un accordo
specifico, diverso e separato rispetto all’accordo di chiusura della procedura, oppure se possa
essere incluso nell’ambito di quest’ultimo. Un’interpretazione, anche letterale, della norma
dovrebbe consentire di ritenere potenzialmente ammissibili entrambe le soluzioni atteso che il
legislatore richiede soltanto che l’accordo sia concluso “nel corso” della procedura (e quindi
non successivamente ad essa)34.
8. (Segue). La Riforma della legge n. 223 del 1991: la nuova disciplina
sanzionatoria per il caso di licenziamento collettivo illegittimo
Il co. 46 dell’art. 1 della riforma dell’estate 2012 concerne la materia sanzionatoria. La
novella può essere schematizzata come segue:
1) ove il licenziamento collettivo sia intimato senza l’osservanza della forma scritta, si
applica il regime sanzionatorio di cui all’art. 18, co. 1, St. lav. come riformato;
2) in caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, co. 12, della legge n. 223
del 1991, si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto art. 18;
3) in caso di violazione dei criteri di scelta si applica il regime reintegratorio di cui al
quarto comma del medesimo art. 18.
Al fondo dell’intervento del legislatore può leggersi l’obiettivo di realizzare un
riavvicinamento delle diverse fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo
(individuale e collettivo)35, con il conseguente abbandono del precedente regime
MARESCA, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all’art. 18 Statuto dei
Lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2012, 2, I, pp. 452 ss.; VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, cit., p. 66;
TATARELLI, Il licenziamento individuale e collettivo, IV ed., Padova, 2012, p. 460; ANGIELLO, Licenziamenti
collettivi, cit., p. 85.
33
Cfr., per una valutazione critica della norma sul punto, FERRANTE, Modifiche nella disciplina dei
licenziamenti collettivi, cit., p. 279.
34
Si veda, sul punto, ANGIELLO, Licenziamenti collettivi, cit., p. 86 il quale, condivisibilmente, ammette che
l’accordo con efficacia sanante possa essere incluso nell’accordo conclusivo della fase di consultazione.
35
Secondo Cass., 7 novembre 1998, n. 11251 (in Riv. crit. dir. lav., 1999, pp. 82 ss., con nota di MUGGIA) «il
discrimine tra il licenziamento individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo e il licenziamento per
riduzione di personale dipende unicamente dall’elemento numerico e non invece dalla diversa tipologia delle
ragioni dell’impresa». La giurisprudenza di legittimità, peraltro, pare essersi definitivamente assestata nel senso
www.koreuropa.eu
191
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
sanzionatorio unitario per il licenziamento collettivo, che viene ora raccordato con la
articolata disciplina prevista per i licenziamenti individuali36.
Il riallineamento, però, non è totale in quanto, mentre con riferimento alla violazione
della prescrizione della forma scritta per il licenziamento individuale e collettivo è prevista la
medesima sanzione dell’inefficacia, assistita dalla tutela reale piena di cui al primo comma
del nuovo art. 18 St. lav., le conseguenze per il caso di sussistenza degli altri vizi sono
diversificate.
Nel caso di violazione della procedura sindacale la sanzione (che in passato era quella
della tutela reale) è ora quella indennitaria forte (da 12 a 24 mensilità) del comma 5 dell’art.
18, cioè il terzo livello di tutela, mentre, nel licenziamento individuale per motivo oggettivo,
la violazione della nuova procedura preventiva, da svolgersi avanti la Direzione Territoriale
del Lavoro, comporta la tutela indennitaria debole del comma 6 (da 6 a 12 mensilità, una
tutela indennitaria dunque dimidiata rispetto a quella operante per il licenziamento collettivo).
Il maggior “costo” della violazione procedimentale nel licenziamento collettivo esprime
una valutazione del legislatore in termini di maggiore gravità, stante, in questo caso, la diversa
funzione della procedura. Una tale diversa graduazione delle tutele dovrebbe consentire una
tenuta della riforma in termini di legittimità costituzionale, considerato che la tutela reale non
37
può dirsi imposta né dalla Costituzione , né (per le ragioni viste al superiore § 2.3 di questo
capitolo) dal diritto comunitario, che impone esclusivamente una sanzione efficace, quale
verosimilmente può dirsi quella introdotta dalla novella.
di riconoscere al licenziamento collettivo la natura di istituto autonomo (cfr. Cass., 22 novembre 2011, n. 24566,
in Riv. it. dir. lav., 2012, II, pp. 618 ss., con nota di CALAFÀ, Sul definitivo assestamento della nozione di
licenziamento collettivo). Sul tema, amplius, prima della riforma, GAROFALO, Eccedenze di personale e conflitto:
profili giuridici, in Dir. lav. rel. ind., 1990, pp. 235 ss.; MAGRINI, Licenziamenti individuali e collettivi:
separatezza e convergenza delle tutele, ivi, 1990, pp. 313 ss.; con riferimento alla novella FERRANTE, Modifiche
nella disciplina dei licenziamenti collettivi, cit., pp. 272 ss.
36
In dottrina l’operazione legislativa è stata criticata in ragione del fatto che alle violazioni di tipo formale viene
attribuito rilievo superiore rispetto a quelle di tipo sostanziale. In questo senso PAPALEONI, Prime considerazioni
critiche sul progetto di riforma del mercato del lavoro: “Mons tremuit, etmus parietur”, 2012, in
http://csdle.lex.unict.it/docs/generic/Il-dibattito-sulla-riforma-italiana-del-mercato-del-lavoro-/3206.aspx.
Critiche sono espresse anche da SCARPELLI, I licenziamenti collettivi per riduzione di personale, cit., p. 97.
37
In questo senso VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, cit., p. 68; altra dottrina ha evidenziato che «a fronte
dei licenziamenti c.d. economici, individuali o collettivi, la reintegrazione – che non sia consensuale – non ha
molto senso» (così GHERA, Il ruolo dei giuristi e la riforma dei licenziamenti, in
http://www.pietroichino.it/?p=22113&print=1).
www.koreuropa.eu
192
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Non solo. Il sistema normativo italiano, per la verità, continua a consentire una tutela (di
fatto) “reale” per il caso di violazione della procedura di informazione e consultazione, ma
questa tutela risulta oggi di prerogativa esclusiva delle Organizzazioni sindacali tramite lo
strumento di cui all’art. 28 St. lav.38: ciò in quanto la revisione operata dalla novella riguarda
solamente le tutele azionabili dai singoli lavoratori e non l’art. 28 St. lav., che resta immutato.
Questo effetto della riforma, se certamente rappresenta una netta inversione di tendenza
rispetto al passato, non sembra porsi in contrasto con la sistematica del diritto comunitario,
atteso che, per le ragioni sopra evidenziate (cfr. § 2.4 di questo capitolo), la giurisprudenza
comunitaria ha affermato la natura collettiva dei diritti di informazione e consultazione39.
Fermo quanto sopra, restano da esaminare due ulteriori, rilevanti, profili.
Il regime sanzionatorio di cui si è detto viene definito dal legislatore attraverso il rinvio
al “terzo periodo” del settimo comma dell’art. 18 St. lav., che a sua volta rinvia al comma 5.
Un simile “giro di parole” (il significato etimologico del termine periodo è, appunto, girare
intorno), se pure consente di ritenere chiaramente individuata la sanzione indennitaria forte
del comma 540, non sembra essere il semplice effetto di una imprecisione lessicale/strutturale
dell’impianto normativo. In dottrina, invero, è stato evidenziato che «sorge il sospetto che
questa complicazione letterale nasconda in realtà l’intento di escludere che anche la totale
omissione della procedura – un vizio che, come dire, comporterebbe la totale inconsistenza
del licenziamento collettivo come tale – possa in qualche modo determinare l’applicazione
della tutela reintegratoria»41.
Il problema si pone in quanto il richiamo del solo terzo periodo del settimo comma può
essere letto nel senso di esprimere la volontà di escludere dal rinvio la restante porzione del
medesimo comma 7. Se così fosse, il sistema acquisterebbe questo significato:
Nel testo si parla di tutela sostanzialmente “reale” per riferirsi all’ordine di rimozione degli effetti che può (e
continuerà a poter) essere disposto dal giudice ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 28 St. lav.; in questo senso
anche SCARPELLI, I licenziamenti collettivi per riduzione di personale, cit., p. 98; FERRANTE, Modifiche nella
disciplina dei licenziamenti collettivi, cit., p. 282, il quale, nel concordare in ordine alla sopravvivenza del
sistema reintegratorio consentito all’azione collettiva, manifesta qualche perplessità sul piano della coerenza
concettuale del sistema normativo così come risulta dal mancato coordinamento delle due, diverse, tutele.
39
Cfr. Corte Giust., 16 luglio 2009, Mono Car, cit.
40
Cfr. MARAZZA, L’art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, cit., p. 634.
41
Così CESTER, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, cit., p. 584.
38
www.koreuropa.eu
193
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
a) la violazione della procedura non dovrebbe permettere al lavoratore licenziato (al di
fuori dell’ipotesi della violazione dei criteri di scelta) di chiedere ed ottenere la reintegra nel
posto di lavoro, nemmeno, sembrerebbe, per il caso in cui il giudice dovesse accertare che il
fatto posto a base del licenziamento non sussiste (parrebbe trattarsi dell’ipotesi di non
effettività della riduzione o trasformazione di attività o lavoro che determina la situazione di
eccedenza, da comunicare alle rappresentanze sindacali).
La possibilità di chiedere ed ottenere la caducazione del licenziamento in caso di
violazione della procedura diventa (o meglio resta), per i motivi già evidenziati, prerogativa
esclusiva delle Organizzazioni Sindacali ex art. 28 St. lav.;
b) il giudice del lavoro non sembrerebbe essere abilitato neppure, nel caso di
licenziamento collettivo, ad accertare il carattere disciplinare o discriminatorio del
licenziamento.
In relazione al primo profilo l’effetto sopra sottolineato sembra essere in linea con il già
rilevato intendimento del legislatore di fare salvo il principio di insindacabilità delle scelte
organizzative del datore di lavoro, consentendo a quest’ultimo la possibilità di realizzare
comunque la scelta riduttiva, confinando l’operatività della tutela reintegratoria reale di cui al
novellato comma 4 (azionabile dai lavoratori), solamente al caso della violazione dei criteri di
scelta. In relazione a quest’ultimo profilo (attinente alla violazione dei criteri di scelta), parte
della dottrina42 ha evidenziato che la grande discrezionalità valutativa rimessa al giudice in
materia di criteri di scelta sposterà su questo piano le incertezze operative oggi gravanti sul
datore di lavoro in relazione ai vizi di carattere formale43. La, condivisibile, notazione circa il
rischio di contenzioso sui criteri di scelta, impone di rilevare che un’efficace meccanismo di
disinnesco della criticità posta in evidenza si rinviene nella nuova disciplina sulla revoca del
42
ANGIELLO, Licenziamenti collettivi, cit., p. 89, il quale ritiene che, si affermerà, verosimilmente, la prassi di far
seguire alla procedura di mobilità una conciliazione individuale con i singoli lavoratori licenziati.
43
Analogamente, nel senso indicato nel testo, FERRARO, Ammortizzatori sociali e licenziamenti collettivi nella
riforma del mercato del lavoro, cit. In senso contrario, esprime un giudizio positivo con riferimento a questa
disposizione della novella SCARPELLI, I licenziamenti collettivi per riduzione di personale, cit., p. 98.
www.koreuropa.eu
194
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
licenziamento, ammessa dal co. 10 dell’art. 18 St. lav., il cui tenore letterale non sembra
consentire di escluderne l’applicazione ai licenziamenti collettivi44.
Diverso problema si pone invece con riferimento al secondo profilo posto in evidenza,
concernente il mancato richiamo del sistema sanzionatorio generale di cui al nuovo art. 18 St.
lav. nel caso della (accertata) sussistenza di ragioni disciplinari o discriminatorie del
licenziamento intimato. L’interpretazione letterale della norma (che sembra dunque stabilire
una inibizione del richiamato potere al giudice), rischia di provocare una scopertura del
sistema normativo capace di porre il nostro ordinamento in contrasto con i principi generali
costituzionali e comunitari, sia per l’evidente disparità di trattamento che si verrebbe a
determinare, sia per la violazione dei diritti fondamentali in caso di licenziamento
discriminatorio e violazione dei principi di cui all’art. 13 del Trattato dell’Unione Europea,
dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e della direttiva n. 2000/78/CE.
Inoltre, l’intenzione, che appunto sembra emergere dalla novella, di operare una
scissione del licenziamento collettivo rispetto alla sua struttura causale tipica (caratterizzata,
nel sistema comunitario, dall’assenza nel recesso di ragioni soggettive) sembra porre
concretamente la questione sopra anticipata al § 2.3 di questo capitolo, anche in termini di
coerenza dell’ordinamento rispetto all’art. 5 della direttiva di riferimento.
Posto quanto sopra, si tratta di capire quale regime sanzionatorio debba essere applicato
dal giudice nel caso in cui quest’ultimo accerti la natura disciplinare o discriminatoria del
licenziamento qualificato come collettivo dal datore di lavoro. La lettera della legge può
condurre a due diverse soluzioni.
In una prima prospettiva, valorizzando la ricostruzione proposta da autorevole dottrina,
secondo cui le previsioni dei periodi finali dei commi 6 e 7 dell’art. 18 St. lav. sono parziali e
superflue45, il problema potrebbe agevolmente essere risolto stante l’autonoma rilevanza dei
diversi vizi, sempre, gradatamente azionabili, dal lavoratore ricorrente.
44
Sulla revoca del licenziamento si vedano, in questo volume, i contributi di CORSO e di BARRACO. Resta inteso,
evidentemente, che, per quanto concerne la materia dei licenziamenti collettivi, la revoca è da ritenersi ammessa
esclusivamente con riferimento ai singoli licenziamenti individuali intimati a conclusione della procedura.
45
Così VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, cit., pp. 56 ss.; analogamente ANGIELLO, Licenziamenti
collettivi, cit., p. 88, il quale ammette che il lavoratore possa sempre chiedere al giudice, anche in caso di vizio
formale, una pronuncia sulla sostanza.
www.koreuropa.eu
195
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Diversamente, qualora si ritenesse di valorizzare la lettera e la (apparente) volontà del
legislatore risultante dal nuovo comma 3 dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991 (che sembra
escludere, per i motivi sopra specificati) la possibilità di farsi applicazione dei commi da 1 a 4
dell’art. 18 St. lav.), dovrebbe potersi ammettere una residua operatività, nel caso in parola,
della sanzione della nullità di diritto comune.
9. (Segue). La Riforma della legge n. 223 del 1991: il termine per
l’effettuazione delle comunicazioni finali e l’applicazione del termine di
impugnazione di cui al novellato art. 6 della legge n. 604 del 1996 (rinvio)
La novella dell’estate 2012 ha apportato due ulteriori ritocchi alla disciplina dei
licenziamenti collettivi.
Primo. Viene istituito un termine di 7 giorni, sostitutivo dell’originaria previsione di
contestualità ex art. 4, co. 9, della legge n. 223 del 1991, per la comunicazione finale della
procedura, contenente l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità con l’indicazione, per
ciascun soggetto, del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di
inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, nonché con puntuale indicazione delle
modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all’art. 5, co. 1, della legge n.
223 del 1991. Detto termine di 7 giorni decorre dall’intimazione dei licenziamenti. La
formulazione normativa pone un problema operativo in quanto non si comprende da quale
licenziamento il termine debba correre nel caso in cui i licenziamenti non avvengano in
un’unica soluzione. In dottrina si ritiene che la norma vada interpretata attribuendo rilievo al
primo licenziamento46.
Questa modifica normativa intende superare definitivamente la lettura meramente
cronologica della “contestualità” fatta propria da ampia parte della giurisprudenza47.
46
In questo senso cfr. TATARELLI, Il licenziamento individuale e collettivo, cit., p. 460.
In giurisprudenza veniva riconosciuta l’illegittimità dei licenziamenti nel caso di un intervallo di pochi giorni
tra l’intimazione e la successiva comunicazione finale. In questo senso si vedano, fra le tante, Cass., 1° dicembre
2010, n. 24341, in Foro It., 2011, I, col. 1135; Cass., 28 gennaio 2009, n. 2166, in Mass. giur. lav., 2009 pp. 465
ss.; Cass., 23 gennaio 2009, n. 1722; diversamente Cass., 8 marzo 2006, n. 4970 aveva ritenuto che la norma,
non specificando la misura cronologica della contestualità fra le comunicazioni, non esigesse che le
comunicazioni avvenissero nello stesso giorno.
47
www.koreuropa.eu
196
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
La regola della contestualità, peraltro, come evidenziato in dottrina, non costituiva il
mero portato di una imposizione burocratica ma serviva a «cristallizzare, in un reciproco
confronto, criteri di scelta dei licenziandi e scelte concrete, così da non lasciare troppo spazio,
dopo la comunicazione dei licenziamenti, per un adattamento dei criteri a misura di scelte già
compiute»48.
Secondo. L’ultima modifica attiene ai termini per l’impugnazione (stragiudiziale e
giudiziale) del licenziamento collettivo, che sono stati ricondotti interamente al sistema
vigente (anch’esso novellato) per il licenziamento individuale, con superamento della
precedente regola sul termine per l’impugnazione stragiudiziale, contenuta nell’art. 5, co. 3,
della legge n. 223 del 1991, che era pur sempre analoga a quella operante per il licenziamento
individuale.
48
Così CESTER, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, cit., p. 584, il quale in
ogni caso rileva che la novella, sul punto, è coerente con lo spirito generale della riforma. La maggior parte della
dottrina si è comunque espressa in senso favorevole alla riforma di cui al testo. Si veda al riguardo VALLEBONA,
La riforma del lavoro 2012, cit., pp. 67 s. nonché ANGIELLO, Licenziamenti collettivi, cit., p. 85.
www.koreuropa.eu
197
Giurisprudenza
198
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
NOTA ALLA SENTENZA DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA (27 novembre 2012, Causa C-566/10)
Anna Lucia Valvo
Professore ordinario di Diritto dell’Unione europea nell’Università Kore di Enna
1. Curioso destino quello dell’Italia che da Stato fondatore dell’Unione europea si
vede, oggi, costretta a ricorrere alla Corte di giustizia per ottenere l’uso della lingua italiana
quanto meno nei bandi di concorso interni all’Unione stessa. E, benché la Corte di giustizia
abbia stabilito (ammesso che ve ne fosse stato bisogno) che le lingue ufficiale dell’Unione
europea siano 231 e che la Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea deve essere pubblicata in
tutte le lingue ufficiali, la sentenza in commento, che indica una vittoria più apparente che
reale per l’Italia, in realtà la dice lunga su come stanno veramente le cose in Europea.
La vicenda trae origine dalla pubblicazione di alcuni bandi di concorso per
amministratori e assistenti nel settore dell’informazione, della comunicazione e dei media, a
cura dell’EPSO (European Personnel Selection Office) che è un organismo creato nel 2002 con
Decisione (2002/620/CE) del Parlamento e del Consiglio, con lo scopo specifico di occuparsi
della organizzazione delle procedure di assunzione dei funzionari UE.
Nel maggio del 2007, dunque, l’EPSO ha proceduto alla pubblicazione dei detti bandi di
concorso nella GUUE esclusivamente in lingua inglese, francese e tedesca.
Nei bandi in questione era stabilito che per l’ammissione al concorso e ai fini dello
svolgimento dei test di preselezione, per l’ammissione alle prove scritte e per lo svolgimento
di queste era richiesta, come prima lingua, la conoscenza approfondita di una delle lingue
ufficiali dell’Unione europea e “a scelta” la conoscenza soddisfacente del tedesco,
dell’inglese o del francese.
I bandi, inoltre, specificavano che tutte le comunicazioni fra i candidati e l’EPSO
sarebbero state nelle tre lingue indicate.

Nota a sentenza pubblicata sulla Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, n. 43, Roma, 2013.
Bulgaro, spagnolo, ceco, danese, tedesco, estone, greco, inglese, francese, irlandese, italiano, lettone, lituano,
ungherese, maltese, olandese, polacco, portoghese, romeno, slovacco, sloveno, finlandese, svedese.
1
www.koreuropa.eu
199
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Nei successivi mesi di giugno e luglio del 2007, l’EPSO procedeva con la
pubblicazione in Gazzetta, in tutte le lingue ufficiali, di due modifiche dei bandi precedenti,
nei quali però faceva rinvio alla versione integrale dei bandi già pubblicati in lingua inglese,
francese e tedesca.
2. L’Italia ha proposto ricorso al Tribunale chiedendo l’annullamento dei bandi in
questione contestando, da un canto, la mancata pubblicazione della versione integrale di
questi nelle 23 lingue ufficiali e, dall’altro, la limitazione arbitraria della scelta della seconda
lingua alle sole tre indicate anziché a tutte le lingue ufficiali dell’Unione europea, oltre che la
limitazione alle tre citate lingue per le comunicazioni con i candidati.
A sostegno delle ragioni italiane intervenivano nel primo grado di giudizio, la Lituania
e la Grecia.
Il Tribunale ha rigettato il ricorso ritenendo che la successiva pubblicazione delle
modifiche (che, tuttavia, per la versione integrale rinviava ai bandi pubblicati in sole tre
lingue) in tutte le lingue ufficiali era da considerare come rimedio alla mancata pubblicazione
integrale; l’Italia ha impugnato la sentenza per errore di diritto dinanzi alla Corte di giustizia.
La Corte di giustizia, in accoglimento delle istanze dell’Italia, ha annullato la sentenza
del Tribunale e, decidendo nel merito, ha annullato i bandi dell’ EPSO, anche se, in ossequio al
principio del legittimo affidamento (dei candidati selezionati) ha ritenuto di non annullare i
risultati del concorso.
3. In buona sostanza, la Corte di giustizia, sul punto della mancata pubblicazione della
versione integrale dei bandi nelle 23 lingue della
UE,
ha stabilito che la Gazzetta Ufficiale
deve riportare le pubblicazioni nelle dette lingue sul presupposto che il regime linguistico
dell’Unione europea definisce come lingue ufficiali e come lingue di lavoro delle Istituzioni
europee tutte le citate 23 lingue. Inoltre, lo Statuto dei Funzionari dell’Unione europea
stabilisce che i bandi di concorso devono essere pubblicati nella GUUE.
La Corte di giustizia ha ritenuto che la pubblicazione integrale del bando
esclusivamente in inglese, francese e tedesco fosse discriminatoria e incongrua nei confronti
dei potenziali candidati di lingua madre differente dalle tre indicate e che questi ultimi, al di là
www.koreuropa.eu
200
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
delle difficoltà di reperimento della Gazzetta ufficiale in una delle tre dette lingue, sono da
ritenere svantaggiati e, dunque, discriminati rispetto ai candidati di madre lingua inglese,
francese o tedesca, sotto il duplice profilo della corretta comprensione di quanto indicato nel
bando (e, dunque, della concreta individuazione dei requisiti richiesti ai fini della
partecipazione al concorso) e dei termini entro i quali inviare la domanda di partecipazione al
concorso.
4. Sul punto della restrizione alle sole tre indicate lingue nella “scelta” della seconda
lingua come requisito di partecipazione al concorso, la Corte di giustizia si è espressa nel
senso che una limitazione di tal genere deve trovare una giustificazione nell’effettivo
“interesse del servizio” stabilendo che “eventuali regole che limitano la scelta della seconda
lingua devono prevedere criteri chiari, oggettivi e prevedibili” onde consentire ai potenziali
candidati l’esatta conoscenza, e con congruo anticipo, delle competenze linguistiche in modo
da poter partecipare ai concorsi con le adeguate conoscenze linguistiche da questi richieste.
Poiché, tuttavia, né le Istituzioni interessate ai concorsi hanno adottato specifici
regolamenti interni aventi ad oggetto le modalità di applicazione relative ai regimi linguistici
e né la Commissione ha indicato l’esistenza di atti interni relativi alla limitazione ad alcune
con esclusione di altre nella scelta della seconda lingua ai fini della partecipazione ai concorsi
e né i bandi impugnati davano adeguata contezza circa i criteri sottesi alla indicazione della
sola lingua inglese, francese e tedesca, la Corte di giustizia ha ritenuto di accogliere le
doglianze dell’Italia con conseguente annullamento della sentenza di primo grado emanata dal
Tribunale.
5. Ancora una volta la Corte di giustizia dell’Unione europea si è resa garante
dell’innalzamento degli standard di tutela dei diritti dei cittadini europei.
La circostanza, tuttavia, rappresenta ben poca consolazione per l’Italia e per il peso
che essa riesce ad esprimere all’interno di una Unione ormai indiscutibile ostaggio di una
sorta di trilaterale europea (franco-anglo-tedesca) vocata alla cura non già dei cittadini, bensì
dei centri finanziari e monetari nazionali e internazionali così ben rappresentati in Italia dal
Prof. Mario MONTI affettuosamente premuroso verso banche e banchieri (ma non bancari).
www.koreuropa.eu
201
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
OLTRE IL LISSABON URTEIL: LA SAGA DELLE
“PENSIONI SLOVACCHE” E L’APPLICAZIONE
DELL’ULTRA VIRES REVIEW SECONDO IL GIUDICE
COSTITUZIONALE CECO
Fausto Vecchio
Assistant Professor nell'Università Kore di Enna
Affermando il principio secondo cui, in nome dell’interpretazione orientata verso il
rispetto del diritto europeo (europarechtsfreundlichkeit), l’ultra vires review è subordinato
all’accertamento di una violazione grave e sufficientemente qualificata del principio di
attribuzione,
la
sentenza
Honeywell
del
Bundesverfassungsgericht
sembrava
aver
definitivamente superato le polemiche di quanti avevano visto nelle affermazioni del Lissabon
urteil un pericoloso precedente: il fatto che i giudici costituzionali si siano sforzati di
elaborare un articolato iter argomentativo per evitare di dover dare concreta applicazione alla
minaccia dei controlimiti è stato interpretato come una nuova prova del buon funzionamento
dei meccanismi di “diplomazia giudiziaria” e in ultima analisi come una prova della
sostanziale innocuità della pronuncia del 2009. Tuttavia, dichiarando che una sentenza della
Corte di giustizia non può trovare applicazione perché adottata fuori dal quadro delle
competenze europee, una recentissima pronuncia (PL ÙS 5/12 del 31 gennaio 2012) del
Tribunale costituzionale ceco mostra la precarietà degli equilibri tra gli ordinamenti e riporta
d’attualità i timori di quanti hanno letto come una minaccia alcuni passaggi della dottrina che
ha ispirato la giurisprudenza tedesca.
Il retroscena di questa questione deve essere ricercato in un accordo internazionale
stipulato al momento della proclamazione di indipendenza della Repubblica Ceca e della
Slovacchia e finalizzato alla regolazione del trattamento previdenziale degli ex cittadini
cecoslovacchi. In particolare, secondo questo accordo, il regime applicabile in materia di
pensioni avrebbe dovuto essere individuato sulla base del criterio di residenza del datore di
lavoro. Applicando questo criterio si è dunque determinata una complessa situazione per cui

Nota a sentenza pubblicata sulla Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, n. 43, Roma, 2013.
www.koreuropa.eu
202
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
cittadini cechi si sono trovati affidati al (più povero) sistema previdenziale slovacco e hanno
ottenuto pensioni più basse di quelle che avrebbero ricevuto se fossero stati inseriti nel
sistema pensionistico nazionale. Nel tentativo di risolvere questa contraddizione, il giudice
costituzionale ceco (con la decisione PL ÙS 405/02), in nome del principio di eguaglianza e in
nome dell’obbligo costituzionale di garantire la sicurezza materiale agli anziani, ha sancito
l’obbligo di integrare le pensioni slovacche dei cittadini cechi che avessero permanentemente
risieduto sul territorio nazionale. Nell’evidente intento di non dare seguito a questo
provvedimento, il supremo tribunale amministrativo ha interpellato la Corte di giustizia con
due questioni pregiudiziali con le quali si chiede di verificare se l’obbligo di integrazione non
configuri una lesione del Regolamento CEE 1408/71 (con cui, in seguito all’ingresso della
Repubblica ceca nell’Unione, si era provveduto a europeizzare l’accordo internazionale alla
base della vicenda) o, in alternativa, se esso non configuri una lesione del principio di non
discriminazione in ragione della nazionalità. Di fronte ad una questione pregiudiziale non
priva di profili strumentali, il giudice europeo ha mantenuto un basso profilo e, dopo aver
escluso che l’europeizzazione dell’accordo ceco - slovacco impedisca di per se stessa la
possibilità di un reintegro, si è semplicemente limitato a sostenere che la soluzione del giudice
costituzionale è comunitariamente illegittima nel momento in cui riconosce ai soli cittadini
nazionali (e non anche agli altri cittadini comunitari) il diritto all’integrazione: secondo
quanto stabilito dalla Corte del Lussemburgo nel caso Landtova (C-399/09), in seguito
all’adesione all’Unione europea tocca alle istituzioni nazionali (secondo le regole del diritto
interno) scegliere se eliminare del tutto il supplemento integrativo oppure se estenderlo anche
a quei cittadini comunitari che per ipotesi si trovino a subire gli effetti dell’accordo. Forte di
questa decisione, con la sentenza 3 Ads 130/2008-204, il Tribunale amministrativo si è
sostanzialmente autoattribuito la competenza a operare la scelta prospettata dal giudice
europeo e ha statuito che l’ingresso nell’Unione europea ha modificato il quadro di
riferimento. Così, richiamandosi alla stessa giurisprudenza costituzionale (in particolare alla
decisione PL ÙS 50/04 e PL ÙS 19/08), ha concretamente denegato il diritto al reintegro e ha
proferito una sentenza provocatoria con cui ha esplicitamente sfidato i magistrati di Brno a
dichiarare l’inapplicabilità di un provvedimento fondato su una norma europea. Alla stessa
maniera, disconoscendo le ragioni dei giudici costituzionali, le istituzioni politiche ceche
www.koreuropa.eu
203
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
hanno immediatamente optato per la prima alternativa e hanno provveduto a positivizzare una
norma per cui, in ragione degli obblighi disposti dall’ordinamento europeo, si è esclusa la
possibilità di integrare le pensioni slovacche.
Da questa intricata situazione di partenza, prende lo spunto il ricorso individuale di un
cittadino ceco che chiede l’annullamento delle decisioni con cui i tribunali amministrativi gli
hanno negato l’integrazione di una pensione ottenuta in un momento successivo all’adesione
all’Unione. In particolare, egli lamenta che la decisione 6 Ads 52/2009-88 del supremo
tribunale amministrativo, disapplicando le indicazioni del giudice costituzionale (in favore di
quanto statuito dallo stesso tribunale amministrativo nel caso 3 Ads 130/2008-204), avrebbe
leso il suo diritto alla protezione giudiziale, il suo diritto alla sicurezza materiale nella fase
dell’anzianità ed il suo diritto all’eguaglianza.
Di fronte all’opportunità di tornare a pronunciarsi su una vicenda in cui un utilizzo
strumentale del diritto europeo è stato finalizzato alla riduzione delle prerogative individuali e
alla sovversione delle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, i giudici di Brno,
piuttosto che limitare le loro censure alle scorrettezze delle istituzioni ceche, scelgono di
coinvolgere anche la Corte di giustizia in una polemica squisitamente interna. Infatti, invece
che rivendicare per sé (escludendo quindi quella degli altri soggetti istituzionali che a vario
titolo sono intervenuti nella vicenda) la competenza a operare la scelta prospettata dal giudice
europeo,
i
magistrati
cechi
preferiscono
richiamarsi
ai
precedenti
del
Bundesverfassungsgericht e inaspettatamente dichiarano che il provvedimento europeo è ultra
vires: partendo dal discutibile presupposto che il Regolamento non offre una adeguata
copertura per l’intervento del giudice europeo, essi statuiscono che «based on the principles
explicitly stated by the Constitutional Court in judgment file no. PL. ÚS 18/09, we cannot do
otherwise than state, in connection with the effects of ECJ judgment of 22 June 2011, C399/09 on analogous cases, that in that case there were excesses on the part of a European
Union body, that a situation occurred in which an act by a European body exceeded the
powers that the Czech Republic transferred to the European Union under Art. 10a of the
Constitution» e quindi concludono che «this exceeded the scope of the transferred powers,
and was ultra vires». Come se ciò non bastasse, i giudici cechi sembrano promettere il futuro
annullamento del provvedimento normativo adottato (che pur non essendo immediatamente
www.koreuropa.eu
204
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
annullabile per ragioni procedurali è definito «obsolete» perché fondato sul presupposto di un
atto ultra vires) e paiono addirittura orientati a voler sostenere che, al di là della lesione del
principio di attribuzione, la pronuncia europea potrebbe essere considerata inapplicabile
(anche) perché contraria ad uno dei principi su cui si regge l’ordine costituzionale nazionale:
pur senza addentrarsi in un autentico identity review, la sentenza qualifica come un
“abbandono” del principio audiatur et altera pars la scelta con cui la Corte di giustizia non ha
ammesso l’informale lettera di spiegazioni attraverso la quale i giudici cechi, nel caso
Landtova, avevano inusitatamente preteso di prospettare il loro punto di vista.
Passando dalla descrizione al piano valutativo, i profili di criticità di questa decisione
sono evidenti. Infatti, anche volendo mettere in secondo piano la scelta di non interpellare (né
in questo caso, né nei precedenti) la Corte del Lussemburgo, l’applicazione dei controlimiti
non pare in questo caso sorretta da nessuna ragione tecnica: contrariamente a quanto viene
presupposto dalla decisione, i primissimi commentatori hanno correttamente evidenziato
come il Regolamento comunitario offra una solida base di competenza1. Inoltre, l’inusitata
dichiarazione di “obsolescenza” della legge mostra una volontà polemica che mal si concilia
con un giudizio. Infine, la decisione di non ammettere la lettera di spiegazioni è
processualmente inoppugnabile e, in presenza di un chiaro rifiuto delle forme codificate di
dialogo, appare difficile giustificare la permalosità con cui i giudici accolgono il rifiuto dei
loro colleghi.
Alla luce di queste considerazioni paiono legittime alcune conclusioni. In primo luogo,
questa vicenda mette in luce i limiti e le contraddizioni dell’attuale modello di relazioni tra gli
ordinamenti e testimonia la facilità con cui dichiarazioni bellicose come quelle del Lissabon
urteil, lungi dall’essere innocue, possano finire con il fornire basi di legittimità a decisioni
inaccettabili. In secondo luogo, anche a non voler drammatizzare una pronuncia che
difficilmente verrà ripresa in futuro, il fatto per cui una corte tradizionalmente considerata non
ostile all’integrazione sovranazionale assuma posizioni a dir poco estremistiche è una
testimonianza del momento di difficoltà vissuto dal processo europeo e dovrebbe comunque
rappresentare un segnale di allarme.
Sul punto si veda J. KOMAREK, Playing with Matches: the Czech Constitutional Court’s Ultra Vires
Revolution, in www.verfassungblog.
1
www.koreuropa.eu
205
Recensioni
206
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Rule of law – La possibilità del contenuto morale del diritto, di G.
COGLIANDRO, Giuffrè, Milano, 2012, p. 1- 434
Nella collana diretta da Guido ALPA, notoriamente dedicata a temi di Diritto privato e di
Diritto pubblico, si è aperta una nuova sezione o intersezione di filosofia del Diritto e Diritto
internazionale. Essa viene inaugurata dall’opera qui recensita, affidata ad un giovane e valente
studioso, il cui curriculum accademico e scientifico si è svolto in varie Università italiane,
anglo-americane e tedesche, come risulta dalla prefazione a firma del Direttore della collana,
p.
IX-XIV.
Trattasi evidentemente di uno studio non inquadrabile nel puro e semplice Diritto
della tradizione anglo-americana di common law, essendone molto più ampio l’orizzonte di
vera e propria teoria generale dell’ordinamento giuridico inteso in senso lato nelle sue
dimensioni interne ed internazionali. L’espressione rule of law, presente nell’intitolazione del
Volume, ha assunto ormai un valore simbolico di carattere quasi universale, sia in ragione
della tradizione storica moderna e post-moderna, sia dei contesti settoriali e regionali in cui si
pone. Tant’è che essa appartiene al linguaggio giuridico corrente, come modo per designare
l’antica regula iuris di origine gius-romanistica, ma altresì qualsiasi disposizione normativa
utilizzata dalle alte Corti ordinarie interne ed internazionali del mondo giuridico
contemporaneo. Nel cosiddetto colloquio o dialogo tra le Corti supreme dei vari paesi, come
la House of Lords e la Supreme Court statunitense ovvero tra le Corti europee ed americane
specializzate nella tutela dei Diritti umani e delle libertà fondamentali.
La tematica della rule of law è tutta giocata sulla intersezione con il sottotitolo del
volume, riferito ai contenuti probabilistici possibili o virtuali della stessa con riferimento al
suo contenuto “morale”. Tale espressione è da intendersi ovviamente in senso lato come
equivalente a quella di “etica”, nelle sue dimensioni civili e politiche oltre che in quelle
sociali ed economiche. Il Volume ovviamente va ben oltre i contenuti del Diritto positivo
italiano e quindi deliberatamente fuoriesce dalla prospettiva dei rapporti etico-sociali presenti
nel testo costituzionale italiano vigente (art. 29 e seguenti), come dai “rapporti di equità” cui
rinvia ugualmente il testo del codice civile come parte dell’autonomia contrattuale e dei poteri
giurisdizionali. Dalla lettura sintetica della “rule” in senso singolare o del “rule” in senso
plurale emerge la connessione con la “norma base” o “l’ipotesi fondamentale” di qualsiasi
www.koreuropa.eu
207
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
ordinamento giuridico, cui l’autore dedica la sua attenzione in una prospettiva metodologica e
di merito chiaramente universalistica, in saggio equilibrio tra le prospettive del monismo e del
pluralismo giuridico. Tanto gli consente di non attestarsi su posizioni estremistiche, in virtù
delle quali regole a contenuto “non morale”, potrebbero condurre a ritenere leggi dei
Parlamenti o sentenze dei giudici come prive del loro titolo di legittimazione. E quindi
deliberatamente si esclude che il contenuto non etico del diritto possa condurre
all’affermazione di un Diritto “non riconoscibile” in quanto costituito da “no rules” e da “no
law”.
Ciò premesso il ricco ed articolato contenuto dell’opera costituisce per più aspetti una
rivisitazione dell’intera tematica della giuridicità, o addirittura un vero e proprio giacimento
culturale a strati sovrapposti, dall’antico al moderno e infine l’attenzione gravita sulle visioni
generali post-moderne contemporanee. Tanto risulta dalle tre parti in cui l’opera si articola. La
prima concerne la problematica della rule of law come mezzo d’incorporazione della giustizia
nel potere e nel Diritto, e nelle qualità che esso esprime in termini di “prestigio” e di “virtù”
come base della obbligazione giuridica, parte prima, p.1 – 162. La trattazione estremamente
critica e problematica appare bene attenta ai limiti del Diritto come spazio aperto ai valori
della morale e dall’apertura dello stato di Diritto avvalori interni ed esterni rispetto ad esso.
Sulla base di tali premesse generali, collaudate da ampie discussioni sull’incrocio tra Diritto e
razionalità e sue prospettive meta-fisiche e teologiche, quasi in simbiosi di risultati tra nuovo
gius-positivismo e nuovo gius-statualismo, in un sistema di carattere mondiale fondato sulla
comunicazione operativa e dialogica tra le sue varie parti. A seguire la parte seconda sembra
costituire una sintesi felice delle conclusioni della Scuola di Oxford e Scuola di Francoforte
(cap. XIII-XVIII, p.163 – 290).
Per lo studioso e l’operatore giuridico del settore gius-pubblicistico, sia interno che
internazionale la parte più interessante è senz’altro la terza (cap.
XIX-XXV,
p.291 - 434).
Occupandosi dei criteri razionali propri di una rule of law ottimale o perfetta l’autore ne vede
alcune applicazioni pratiche secondo l’agenda di otto regole in discussione in otto problemi.
Fra essi particolare significato assumono gli ultimi tre capitoli rispettivamente dedicati al
Diritto internazionale e al Human rights, nonché alla sfera pubblica internazionale ed alle
www.koreuropa.eu
208
Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
pertinenti conclusioni. Si tratta di una visione complessiva della cosiddetta società globale
nella quale il potere di produrre regole di Diritto appartiene ugualmente a soggetti storici e
consolidati, come a “nuovi attori” della governance sia governativa che giudiziaria. L’Autore
dedica grande spazio ai grandi attori dell’economia monetaria e del commercio internazionale
(FMI–WTO – Banca Mondiale) ma si occupa altresì delle nuove autorità internazionali
emergenti come i gruppi di Stati definiti in sigla
G20- G8-G14.
Trattasi di un sistema
complessivo a pluralità di centri di poteri, ancora in attesa di un suo equilibrio complessivo,
talora sbilanciato sul versante dei poteri tecnici finanziari e delle autorità giudiziarie di
salvaguardia dei Diritti naturali e fondamentali.
Nell’ampio apparato dottrinale è fondamentale l’analisi compiuta dall’Autore sulle
Scuole classiche del gius-naturalismo europeo del ‘6-700 e del conseguente gius-positivismo
del ‘8-900. Ragioni pratiche inducono l’Autore a prendere le mosse dalle classiche posizioni
di Tommaso HOBBES (De-Cive, 1642). Di tale testo esiste una traduzione italiana comparsa
nello stesso anno di pubblicazione dell’opera qui recensita. Facendo ponte su quattro secoli di
dottrina, la Scuola filosofica giuridica romana è ben rappresentata dal nostro autore. Facendo
seguito su opere precedenti egli si presenta come una vera e propria autorità del settore. E da
questo libro, appare giusto augurare un gran successo di pubblico e di discussione accademica
e politica, in attesa di una meritata ulteriore seconda edizione, ad esito del dibattito pubblico
già apertasi su un’opera dottrinale di tanto spessore.
Prof. Massimo Panebianco
Ordinario di Diritto internazionale
www.koreuropa.eu
209